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Risorgimento Firenze

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Tribuna

Attualità e mito di Rousseau

14/06/2012 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

La democrazia totalitaria di Rousseau

Il modello dell’assemblea continua consegna il potere  all’uomo forte

Giuseppe Bedeschi     Corriere della Sera 11/6/12

In Italia l’interesse per il pensiero politico di Rousseau è sorto abbastanza tardi. Chi consulti un repertorio bibliografico troverà ben poco sul grande ginevrino, in lingua italiana, nella prima metà del Novecento: un libro di Solazzi sulle Dottrine politiche del Montesquieu e del Rousseau, del 1907; un saggio di Del Vecchio Sui caratteri fondamentali della teoria politica del Rousseau, apparso su una rivista nel 1912; una monografia di Sciacky (Il problema dello Stato nel pensiero di Rousseau) del 1948 e una di Saloni (Rousseau) del 1949. A ciò si possono aggiungere il breve profilo che Gaetano Salvemini dedicò a Rousseau nel suo libro su La Rivoluzione francese (1905) e le poche pagine di Benedetto Croce sul ginevrino negli Elementi di politica (1924). Veramente poco, dunque, rispetto agli studi apparsi in quel periodo non solo in Francia, come è ovvio, ma anche in Inghilterra (con opere come quella di Cobban) e in Germania (è del 1932 il fondamentale saggio di Cassirer, Das Problem J.-J. Rousseau).

In realtà, un interresse profondo in Italia è nato nella seconda metà del Novecento, con il diffondersi impetuoso del marxismo. Il filosofo che avviò la rivalutazione marxista del ginevrino fu Galvano Della Volpe, seguito dai suoi allievi (Umberto Cerroni e Lucio Colletti). Nel 1957 Della Volpe pubblicò un libro che ebbe un buon successo (ne uscirono varie edizioni): Rousseau e Marx. In quest’opera Della Volpe vedeva in Rousseau il pensatore che aveva distrutto il quadro teorico del liberalismo (in quanto aveva rifiutato la democrazia rappresentativa o delegata e aveva rivendicato una In realtà, un interesse profondo per Rousseau è sorto in Italia solo nella seconda metà del democrazia diretta) e che aveva posto l’esigenza di una società nuova, incardinata non più sull’«astratto diritto borghese», bensì sul riconoscimento sia dei bisogni sia dei talenti degli individui.

Portando avanti questo filone interpretativo, Umberto Cerroni (nel suo Marx e il diritto moderno, 1962) attribuiva a Rousseau il merito di avere avviato la crisi della dottrina dei diritti naturali, potenziandone la componente più strettamente politica e risolvendo il Giusnaturalismo non già nel «garantismo» dei diritti individuali, bensì nella creazione di una comunità politica tendenzialmente egualitaria, coesa e organica.

Ma il saggio che doveva dare la più vigorosa interpretazione marxista di Rousseau fu quello che Colletti pubblicò nel 1968 (e che ebbe larghissima diffusione): Rousseau critico della «società civile». Qui Colletti sosteneva che i concetti centrali della concezione politica di Marx erano già stati svolti dal ginevrino. Infatti Rousseau non solo aveva invalidato l’idea cristiana della «caduta», del peccato originale, ma aveva mostrato che l’uomo, originariamente buono, era stato guastato dall’iniqua organizzazione della società e che quindi il problema della rigenerazione dell’uomo veniva a coincidere con il problema della rigenerazione della società. Secondo Colletti, il ginevrino aveva dato un formidabile contributo alla teoria politica socialista, con la sua percezione precisa del fatto che la società borghese moderna è fondata sulla concorrenza, sulla opposizione e sul contrasto degli interessi e che dunque in essa i rapporti sociali sono in fondo rapporti a-sociali; con la sua concezione dello Stato come di uno strumento costruito dai ricchi a difesa dei loro privilegi; con il suo rifiuto dei cardini dello Stato liberale borghese: la divisione dei poteri, la rappresentanza (poiché la «volontà generale» è inalienabile, dunque non è delegabile, e il popolo deve esercitare direttamente la propria sovranità).

Perciò nel quadro tracciato da Rousseau (sottolineava Colletti), il vecchio Stato doveva essere distrutto e si doveva costruire una società nuova, o piuttosto una comunità, profondamente solidale, coesa e organica, la quale doveva autogovernarsi attraverso l’esercizio della democrazia diretta o assembleare, come nelle antiche poleis greche a reggimento democratico. (È certo singolare che Colletti non ricordasse una significativa ammissione di Rousseau: che la democrazia diretta poteva essere realizzata solo nei piccoli Stati, non nei grandi: una ammissione che riduceva di molto l’applicabilità della sua teoria, come sottolineò Paolo Rossi in un suo saggio introduttivo agli scritti roussoviani pubblicati da Sansoni nel 1972).

Naturalmente, restavano fuori dal quadro tracciato da questi studiosi marxisti le considerazioni che, a proposito di Rousseau, erano state formulate dal pensiero democratico-liberale italiano. Nel suo libro La Rivoluzione francese 1788-1792 Salvemini, tracciando un ritratto del ginevrino, aveva parlato di «infiltrazioni totalitarie» e aveva criticato la sua idea di una «società perfetta» e di una «unanimità infallibile». Alla teoria roussoviana Salvemini contrapponeva l’idea di una democrazia in cui «la maggioranza abbia il diritto di governare ma abbia il dovere di rispettare nella minoranza il diritto di critica e quello di diventare alla sua volta maggioranza».

Era un punto, questo, sul quale insisté molto Luigi Einaudi. In un discorso su Rousseau pronunciato all’Università di Basilea nel 1956 (poi raccolto nelle Prediche inutili), egli sottolineò diversi aspetti inquietanti dell’idea roussoviana di «volontà generale». Einaudi ricordava che nel Contratto sociale si legge che il popolo è «una moltitudine cieca, la quale spesso non sa ciò che vuole, perché raramente conosce quel che è bene per lei». E affinché la «volontà generale» possa affermarsi occorrono, secondo il ginevrino, due condizioni: che non ci siano partiti ad alterare il giudizio dei singoli (poiché i partiti sono veicoli di interessi particolari e non generali) e che ci sia una guida (il famoso «legislatore», sul tipo di Licurgo) che educhi profondamente gli uomini, che trasformi la loro natura, che adegui la loro volontà alla ragione. Solo in questo modo i cittadini riuniti sono in grado di esprimere la «volontà generale». E chi dissente da essa deve piegarvisi, deve ammettere di essersi sbagliato, deve riconoscere la Verità. Dunque, osservò Einaudi, in questa concezione il cittadino che dissenta dalla maggioranza non ha il diritto di propugnare le proprie opinioni e quindi non ha il diritto, ove riesca a persuadere altri, di volgere la minoranza in maggioranza e di modificare le leggi. In questo modo però, diceva Einaudi, Rousseau ha teorizzato uno Stato totalitario, con conseguenze esiziali: «Da Robespierre a Babeuf, da Buonarroti a Saint-Simon, da Fourier a Marx, da Mussolini a Hitler, da Lenin a Stalin, si sono succedute le guide a insegnare ai popoli inconsapevoli quale era la verità, quale era la volontà generale, che essi ignoravano: ma che una volta insegnata e riconosciuta, i popoli non potevano rifiutarsi di attuare».

Questo appassionato dibattito su Rousseau è vivo ancora oggi. A trecento anni dalla nascita del grande ginevrino, il suo pensiero continua a dividere le menti nella perenne discussione sui principi e sulle regole della democrazia. 

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Giovanni Pascoli e il suo tempo

01/06/2012 da Alessandra Campagnano

Nel centenario della morte di Giovanni Pascoli pubblichiamo volentieri  l’intervento di Alessandra Campagnano alla commemorazione del poeta, promossa dai docenti e studenti del Liceo linguistico-pedagogico Pascoli di Firenze il 23 maggio all’Istituto Stensen di Firenze

La figura di Giovanni Pascoli (1855-1912) è stata legata a stereotipi – “il cantore della cavallina storna”,  “il fanciullino”, “il poeta delle piccole cose” – che ne hanno condizionato la comprensione. A questo si aggiunga che molto di quello che sappiamo è ricavato dalla biografia Lungo la vita di Giovanni Pascoli scritta dalla sorella Maria che tese a censurare quanto della vita del poeta poteva non apparire consono a un’immagine conformista.

Pascoli invece visse nel suo tempo in modo personale e originale. Dopo la morte violenta del padre e i lutti familiari successivi cominciò per lui e per i fratelli un periodo molto duro. Il padre, Ruggero Pascoli, in gioventù era stato repubblicano e aveva combattuto per la Repubblica Romana. Dopo la fine della Repubblica Romana aveva seguito la parabola di tanti democratici: si era sposato, aveva dato vita a una bella famiglia, aveva sostituito lo zio nell’incarico di amministratore della tenuta “La Torre” dei principi Torlonia. Non aveva abbandonato l’impegno pubblico, ma nel comune di S. Mauro aveva ricoperto molti incarichi. La sua morte rimase senza colpevoli, le indagini presero presto a considerare colpevoli le Società Segrete di Cesena, come si evince dal rapporto riservato che il Prefetto di Forlì inviò al Ministero il 16 agosto 1867, sei giorni dopo la morte di Ruggero Pascoli. Dal rapporto appare chiaro che la Romagna era una terra percorsa da fremiti di rivolta dovuti alle condizioni economiche e sociali della maggior parte della popolazione.

Giovanni Pascoli, grazie anche a borse di studio per meriti scolastici, riuscì a completare il liceo e nell’anno accademici 1872-’73 – sempre grazie a una borsa di studio per la quale era esaminatore il Carducci – si iscrisse alla facoltà di Lettere dell’Università di Bologna. Nello stesso periodo Pascoli si dedicò all’attività politica seguendo Andrea Costa che allora in Romagna era il referente di Bakunin. Nel 1874 Costa fu arrestato dopo il fallimento dei moti anarchici di Imola e nel settembre del 1879 Pascoli fu arrestato per aver partecipato a una manifestazione in favore di anarchici arrestati, ma nel dicembre venne prosciolto e liberato.

Nel 1879 Costa, uscito dal carcere e trasferitosi in Svizzera, da Lugano pubblicò sul periodico milanese “La Plebe” (organo della Federazione Alta Italia dell’Associazione dei Lavoratori) la lettera Ai miei amici di Romagna. È un documento significativo perché segnò l’abbandono della “propaganda per mezzo dei fatti” per passare a un lavoro fatto di diffusione di principi, ideali, in poche parole di educazione, indubbiamente di minore impatto immediato, ma destinato a risultati più duraturi. È storia nota, nel 1882 Costa fu il primo socialista eletto alla Camera e i movimenti democratici in Italia cominciarono a preferire la lotta con strumenti legali all’eversione e alla violenza. Pascoli seguì le indicazioni di Costa, riprese gli studi e nel 1882 si laureò. Il rapporto tra i due non si interruppe, anche se Pascoli smise di fare politica attiva, tanto che nel 1910 compose l’epigrafe per la tomba dell’amico, morto a Imola nel 1910.

Nel settembre del 1882, subito dopo essersi laureato e prima di cominciare a Matera la sua carriera di docente nei licei e poi all’università, Pascoli fu iniziato alla Massoneria  nella loggia Rizzoli di Bologna alla quale appartenevano anche Carducci e Aurelio Saffi, il triumviro della Repubblica Romana. Di questa scelta è conservato presso l’archivio del GOI a Roma il “testamento massonico”, di cui è rintracciabile attraverso Internet la copertina. Si tratta di un foglio a righe di forma triangolare, ingiallito dal tempo, con le risposte alle domande di ammissione, firmato e datato dal poeta. Le domande e le risposte sono: “Che cosa deve l’uomo alla Patria? La vita.” “Quali sono i doveri dell’Uomo verso la Umanità? D’amarla.” “Quali sono i doveri dell’Uomo verso sé stesso? Di rispettarsi.” Si tratta di affermazioni che non rimasero lettera morta se si ripensa a tutta la produzione poetica successiva, anche se i suoi rapporti con l’istituzione massonica non furono sempre facili. Indubbiamente gli ideali umanitari di stampo deistico si intrecciarono con la ricerca e l’espressione dei simboli che circondano l’uomo. Probabilmente attraverso la ricerca spirituale massonica come attraverso il verbo socialista Pascoli cercava anche di dare uno scopo alla sua esistenza e di trovare una sua identità di uomo e di intellettuale.

L’interruzione dell’attività politica attiva si trasformava quindi in un’azione pedagogica nella quale cercavano di ricomporsi i tentativi della ricerca dell’identità e del ruolo dell’intellettuale che si espressero con le prime prove poetiche, pubblicate nel 1901 nella raccolta Myricae. Dopo l’arresto e l’assoluzione il senso di delusione per la sconfitta dell’ala spontaneista e umanitaria del movimento democratico e della ingiustizia subita si fuse con il sentimento di delusione personale per gli eventi luttuosi della sua famiglia e lo portarono a privilegiare quella forma poetica «che ha tema umile, che cresce nell’ombra e nel silenzio», come lui stesso ebbe a definirla[1]. D’altra parte la personalità di Carducci era, sia in positivo che in negativo, un punto di riferimento: Carducci, ormai abbandonati gli ideali repubblicani della sua giovinezza, si era assunto il ruolo di poeta-vate, cantore della nuova Italia purtroppo non degna del suo passato glorioso. A fronte del tono aulico del maestro, Pascoli sviluppò una poesia intimistica che recuperava il mondo contadino nel quale era nato collegandolo alla tradizione classica virgiliana. Non è un mondo idealizzato quello contadino di Pascoli, in esso ritroviamo il dolore, l’angoscia esistenziale che si esprimono in forme poetiche e lessicali del tutto nuove, che fanno del poeta di S. Mauro una delle voci più significative del decadentismo italiano. Non solo, l’attenzione al mondo contadino che dalle Myricae  si evolve nei  Canti di Castelvecchio, pubblicati nel 1903, non è paternalistica, ma si potrebbe dire che gli ideali di giustizia sociale della sua giovinezza, quelli umanitaristici massonici e la sua condizione esistenziale si fondono lasciando aperta la strada sia al recupero di forme classiche, che si espressero nelle composizioni in lingua latina, sia a forme sperimentali che lo avvicinarono alle voci europee più innovative del suo tempo.

Nello stesso tempo l’esperienza professionale di Pascoli non si limitò al raggio d’influenza del magistero carducciano di Bologna, ma si arricchì della conoscenza di nuove realtà: dalla prima cattedra al liceo di Matera passò a Massa, poi a Livorno, di qui a Roma come comandato al Ministero della Pubblica Istruzione e da Roma all’università di Messina. In queste vicende si inserì la ricostituzione del «nido» con le sorelle Ida e Maria e poi il dolore per quello che il poeta visse come un tradimento, ossia il matrimonio della sorella Ida. Determinante fu anche la frequente permanenza a Castelvecchio, nel comune di Barga, a cui fanno riferimento I canti di Castelvecchio, pubblicati nel 1903, quando il poeta fu trasferito all’università di Pisa.

Siamo ormai nell’età dell’imperialismo, in tutti i paesi europei gli ideali romantici di fratellanza delle nazioni degenerarono in nazionalismo, nella presunzione che la propria nazione fosse superiore alle altre e avesse il diritto di imporre la propria supremazia sui popoli più arretrati. Il nazionalismo esasperato non fu appannaggio soltanto delle classi egemoni, ma finì per coinvolgere anche le classi subalterne, nonostante la diffusione e il successo degli ideali della II Internazionale dei partiti socialisti[2]. Pascoli risentì di questo clima e del relativo dibattito culturale. Aveva lasciato l’impegno politico militante, di partito, e non si riconosceva nelle posizioni marxiste che prevalevano nel dibattito interno ai partiti socialisti. Non accettava il concetto di lotta fra le classi, per lui il socialismo aveva un carattere umanitario. L’aver conosciuto direttamente le diverse situazioni dell’Italia, in quegli anni lacerata anche dai drammi dell’emigrazione, portava Pascoli a vedere l’Italia come un paese debole, destinato a essere assoggettato dai più forti. In una lettera all’amico Luigi Mercatelli del 30 ottobre 1899 così definiva il suo pensiero: “Io mi sento socialista, profondamente socialista, ma socialista dell’umanità, non d’una classe. E col mio socialismo, per quanto abbracci tutti i popoli, sento che non contrasta il desiderio e l’aspirazione dell’espansione coloniale. Oh! io avrei voluto che della colonizzazione italiana si fosse messo alla testa il baldo e giovane partito sociale; ma, ahimè, esso fu reso decrepito dai suoi teorici.”[3] Come si può vedere, il concetto di “nazioni proletarie” è già presente e il poeta esprimeva posizioni che al tempo della guerra italo-turca furono condivise anche da altri esponenti politici di sinistra, come Arturo Labriola. La giustificazione era che il dominio italiano avrebbe portato la civiltà, laddove il dominio ottomano aveva lasciato quei popoli nell’arretratezza. Questa ingenua (?) speranza fu poi spazzata via dalla dura realtà delle repressioni di cui anche l’Italia successivamente si macchiò, ma sul carattere di oppressione che anche la conquista italiana inevitabilmente avrebbe avuto, pochi al momento riflettevano.

All’anno precedente risale la pubblicazione di Minerva oscura. È un’opera di esegesi dantesca di carattere mistico-simbolico che ne mostra l’appartenenza alla cultura mistico-simbolista con sfumature politico-esoteriche, che ebbe sempre molto interesse per Dante e di cui il Pascoli fu un esponente non secondario come le scelte di modestia georgica della sua vita farebbero pensare[4]. La sua interpretazione della Commedia tende a sottrarla dalla sfera della storicità e dell’allegorismo per portarla in quella della perenne simbolicità della poesia[5]. La stessa poetica del fanciullino appare dunque la sintesi di suggestioni classiche e di riflessioni misticheggianti che fanno della poesia un insieme di simboli da intuire e decodificare.

La carriera accademica di Pascoli proseguiva con successo: dopo l’incarico all’università di Pisa, a Bologna nel 1907 divenne docente di Letteratura italiana al posto di Carducci. Le posizioni critiche sue e di Carducci erano molto distanti ma ciò non impedì che da questo momento si accentuasse sempre più il carattere pubblico delle sue prose e delle sue poesie. Indubbiamente le Canzoni di Re Enzo, l’Inno a Roma e l’Inno a Torino risentivano della stanchezza dell’ispirazione, mentre le condizioni di salute del poeta peggioravano inesorabilmente.

L’ultimo discorso La grande proletaria si è mossa – tenuto il 21 novembre 1911 al Teatro comunale di Barga – ha avuto quasi sempre critiche negative che si sono riverberate anche sulla precedente produzione poetica pascoliana, presentandola come il naturale risultato di una poetica e soprattutto di una ideologia di stampo piccolo-borghese, caratteristica dell’Italia di fine Ottocento, che purtroppo avrebbe portato al bagno di sangue della I guerra mondiale e alle successive conseguenze. Non dimentichiamo che pochi mesi dopo – il 6 aprile 1912 – il poeta sarebbe morto e quindi non possiamo nemmeno immaginare come il suo pensiero si sarebbe evoluto o involuto. Ma tutta la sua poesia, anche le composizioni latine, ci mostrano un poeta non guerrafondaio, che nel 1904 esortava: “Uomini, pace! Nella prona terra/ troppo è il mistero: e solo chi procaccia/ d’aver fratelli in suo timor non erra. // Pace, fratelli! E fate che le braccia/ ch’ora o poi tenderete ai più vicini,/ non sappiano la lotta e la minaccia. // E buoni veda voi dormir nei lini/ placidi e bianchi, quando non intesa,/ quando non vista, sopra voi si chini // la Morte con la sua lampada accesa.”[6]

6) Giovanni Pascoli, I due fanciulli. Il grido “Pace, fratelli!” è l’epigrafe della nostra scuola

Alessandra Campagnano                

 


[1] Mario Tropea, Giovanni Pascoli, in Letteratura italiana, Laterza, Bari, 1978, vol. 59, p. 7.

[2] È quel fenomeno che ha ben documentato lo storico George Mosse (1918-1999) nel suo celebre saggio La nazionalizzazione delle masse.

[3] In Letteratura italiana…cit., p. 62.

[4] Cfr. Letteratura italiana..cit., p. 69.

[5] Mario Luzi, Giovanni Pascoli, in Storia della letteratura italiana, Garzanti, Milano, 1968, vol. VIII, p.808.

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Le giornate del maggio del 1915 furono radiose ?

05/05/2012 da Adalberto Scarlino

Pubblichiamo volentieri l’intervento di Giorgio Ragazzini e la risposta di Adalberto Scarlino in merito all’editoriale di maggio , scritto come tutti gli editoriali mensili dal direttore Sergio Casprini, editoriale in cui si valorizzano allo stesso modo le ragioni ideali dei volontari toscani che combatterono a Curtatone e Montanara e quelle che mossero gli interventisti nel maggio del 1915 contro i neutralisti ed il governo italiano che non si decideva a dichiarare guerra all’Austria.

 Carlo Carrà Manifestazione interventista 1914

Al direttore

A proposito dell’editoriale sulle Radiose giornate di maggio, secondo me non è possibile darne un giudizio senz’altro positivo e addirittura da commemorare come momento  fondamentale della storia patria. Non parlo dell’interventismo e tanto meno di quello democratico, ma quelle giornate, che vennero dopo un lungo dibattito nel paese che era diviso a metà e con in carica un parlamento in prevalenza neutralista, furono fortemente segnate da manifestazioni cariche di minacce verso i neutralisti, con in testa l’odiato Giolitti, che D’Annunzio invitava ad uccidere chiamandolo “boia labbrone”, con il questore che dichiarava di non poter garantire la sua incolumità, con la folla che invase la Camera intimidendo i deputati, tanto che  Nitti, anni dopo, ne parlò come un’occasione in cui lo Statuto fu violato e la libertà conculcata. Insomma, niente che si possa mettere sullo stesso piano di Curtatone e Montanara.

Naturalmente questo non modifica il mio apprezzamento per l’efficace impegno e la passione con cui il Comitato Fiorentino per il Risorgimento ha contribuito a valorizzare la storia risorgimentale.

Giorgio Ragazzini

 

Al direttore

Nell’editoriale  è stata collegata con chiarezza la retorica dannunziana

( violenta e volgare nella fattispecie del 1914/1915 ) a quella, successiva

del regime. Giorgio Ragazzini fa bene ad evidenziare le differenze

fra la situazione e il clima del 1848 e quella del 1915.

Resta il fatto che le motivazioni ideali – e le convinzioni – delle migliaia e

migliaia di giovani ( e meno giovani, perché c’è chi chiese di partire

per il fronte cinquantenne o sessantenne ) volontari nella grande guerra

furono motivazioni di derivazione risorgimentale . E questo mi pare che anche

 Ragazzini lo ammetta, riconoscendo il valore dell’irredentismo,

dell’interventismo democratico. Sul tema esiste – tra i tanti – il capolavoro

di Adolfo Omodeo, ” Momenti della vita di guerra , dai diari e dalle lettere

dei Caduti, Laterza 1934 e poi Einaudi, 1968.

Grandi liberali come Giolitti e Croce erano favorevoli alla neutralità.

Circa trecento parlamentari fecero avere allo stesso Giolitti i loro

biglietti da visita , in segno di vicinanza di fronte agli attacchi sguaiati

di nazionalisti e futuristi ; ma non andarono molto oltre.

Adalberto Scarlino

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25 Aprile: Una festa di tutti? Sì, bastano poche parole

29/04/2012 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Pubblichiamo con piacere l’articolo  sul 25 Aprile di Aldo Cazzullo, inviato del Corriere della Sera ed autore di uno dei migliori libri , usciti nel 2011 sul Risorgimento, ” Viva l’Italia”:

Nell’articolo viene  infatti riconosciuto il valore nazionale della Resistenza e vengono  quindi confermate  le ragioni della battaglia politico- culturale del Comitato Fiorentino per il Risorgimento per fondare in Italia una  religione civile, che unisca tutti gli italiani in giorni fortemente simbolici  nella storia del nostro Paese come il 17 marzo, il 2 giugno ed appunto il 25 aprile

Sergio Casprini

Cliccare qui per leggere l’editoriale

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Perché è impossibile dire addio al Sud

04/03/2012 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Il Meridione ha ancora la forza per rialzarsi

Perchè è impossibile dire addio al Sud

Aldo Cazzullo         Corriere della Sera 

 

 

 

Di Sud, in Italia, si parla tanto e si ragiona poco. E così le domande che si ponevano i grandi meridionalisti – i Cuoco, i Salvemini, i Fortunato – da decenni restano senza risposta: perché il Meridione italiano, terra di assoluta bellezza e di immense potenzialità, continua a galleggiare nel sottosviluppo e non impedire che i suoi figli migliori, quelli che Piercamillo Falasca ha definito «Terroni 2.0», facciano la valigia per emigrare (anche con un pizzico di risentimento)? A questa domanda prova a rispondere un poema civile scritto da Angelo Mellone, Addio al Sud, definito nel sottotitolo «un comizio furioso del disamore» (Irradiazioni, pp. 80, 8, prefazione di Andrea Di Consoli), una sorta di orazione civile tecno-pop congegnata come reading teatrale (esordio il 27 febbraio all’Argentina di Roma).

Mellone ribalta due cliché dominanti. Il primo è quello del brigantaggio: qui l’autore trova il coraggio, da meridionale, di ammettere – in quanto «fottuto nazionalista» – che avrebbe scelto di arruolarsi con l’esercito italiano per combattere i Carmine Crocco e i Ninco Nanco, per
«piantare tricolori
su antiche maledizioni»
.

 

Il secondo oggetto polemico di Addio al Sud è il nuovo meridionalismo, ovvero quel «pensiero meridiano» – sostenuto, ad esempio, dal sociologo Franco Cassano – che vorrebbe un Sud lento, sobrio, canicolare, che cammina a piedi e ammicca al mito della decrescita o all’idea del Meridione italiano come avanguardia di un’improbabile «alternativa allo sviluppo». Al contrario, il Sud di Mellone anela alla velocità, alla modernità, sia pure a una modernità intrisa di miti antichi e di antichi caratteri comunitari.

Scrive Di Consoli nella prefazione: «Questo poema è, in definitiva, una dolorosa “possibilità di prendere congedo”, ma è anche una possibilità della rifondazione di un patto “oscuro”, ancestrale, e che dunque può essere tramandato nei tempi come accade in tutte le comunità che hanno conosciuto la diaspora, o il suo fantasma». Mellone infatti non sigla una lettera di abbandono dall’identità meridionale, ma rilancia la sfida immaginando che il Sud migliore – emigrato ovunque negli ultimi anni – a un certo punto decida di tornare a casa. In quel momento, dice l’autore, il Sud potrà finalmente essere salutato:
«Finita la guerra prenderò congedo
e solo allora dirò a mia figlia
e solo allora dirò a mio figlio:
tu questo sei.
Anche tu porti cenere, ulivo e salsedine.
Adesso anche tu vieni da Sud»
.
Quasi un congedo militare, anche se “i fuoriusciti” e i figli saranno chiamati, allorquando terminerà la fatica di Sisifo dell’eterno rientro – che è quasi un giorno d’attesa biblica – a una guerra civile contro il male del Sud: il fatalismo, il degrado, l’incuria del territorio, la dissoluzione del legame sociale, l’accettazione di un modello predatorio di turismo che rischia di distruggere nel breve periodo le bellezze meridionali

Difficile da argomentare, ma questo testo è un “addio” ed è anche un foglio di chiamate alle armi, e in questa contraddizione c’è tutta la modernità della posizione ineffettuale, e dunque estetizzante, di Mellone, che alla maniera di Pasolini si considera, rispetto al Sud, «con lui e contro di lui». Il suo è un appassionato “addio” al Mezzogiorno del rancore, della malavita, dell’inciviltà, della subcultura televisiva. È però anche un disperato e struggente ricordo di una giovinezza meridionale, al cui centro c’è Taranto, della quale Mellone ricorda le icone (il calciatore Erasmo Jacovone), le tragedie (l’Ilva, la mattanza criminale degli anni ’80), gli aspetti più “privati” (la prematura morte del padre, la vendita della casa di famiglia). La narrazione scorre per icone, fotogrammi, eventi: dal delitto di Avetrana al matrimonio di Sofia Coppola, dai nuovi populismi (Vendola, de Magistris) alla camorra, dal caso Claps alla piaga del caporalato, Mellone attraversa e scandaglia con straordinaria velocità, e con alternarsi di registro basso e alto, l’immaginario contemporaneo collettivo del Meridione. Scrive per esempio su Sarah Scazzi:
«Prendete tutta questa pornografia dell’incubo d’amore
simboleggiata
dallo scarto incolmabile tra il viso di Sarah Scazzi
e il piercing, ripeto: il piercing, della
cugina culona Sabrina Misseri di anni venti e due
che forse a Taranto e nemmeno a Lecce
sarà mai andata ma a Uomini e donne ha conosciuto il piercing
che al padre dovrà essere parso roba da bestie
all’aratro e non da esseri umani oggi le borgate di Pasolini
sono i paesi
del Sud in entroterra come Avetrana, tuguri dischiusi al mondo
solo grazie all’antenna parabolica»
.

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In memoria dello storico e politico Luciano Cafagna (1926–2012)

11/02/2012 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Studioso dei problemi dello sviluppo economico italiano, ha insegnato Storia contemporanea all’Università di Pisa. Fece parte nel 1950 del gruppo dei giovani storici del PCI, ma nel 1956 fu tra i protagonisti della “diaspora” e seguì il destino politico di Antonio Giolitti, di cui è stato uno stretto collaboratore. All’inizio degli anni sessanta, con i saggi “La formazione di una base industriale in Italia fra il 1886 e il 1914” e “Intorno alle origini del dualismo economico in Italia”, si inserì nel dibattito sull’industrializzazione italiana. Fu consigliere del Comitato Scientifico della “Fondazione Basso” e partecipò attivamente al dibattito politico della Sinistra. Più recentemente è stato commissario dell’Autorità garante per il mercato e la concorrenza; è stato esponente del La Rosa nel Pugno, DS ed ha aderito infine al neo Partito Socialista.

…Ma nel caso di Luciano Cafagna dicendo politica si rischia di usare un termine inadeguato. Infatti, sulla scia di una tradizione italiana rappresentata nel punto più alto da Antonio Gramsci, la sua riflessione in questo campo fu costantemente condotta mobilitando e incrociando un materiale storico grande e multiforme, secondo una passione per la storia che fu senza dubbio la sua più vera e più alta passione. Una passione arricchita, vivificata, dalla grande riflessione sociologica che da Tocqueville andava ad Aron, passando per Weber e Schumpeter. Dobbiamo ad essa gli studi pioneristici sulle origini del dualismo economico italiano e sul nostro sviluppo industriale, così come i preziosi contributi interpretativi circa le vicende che all’inizio degli anni Novanta portarono alla crisi della Prima Repubblica. Le dobbiamo soprattutto un volume su Cavour (passato a suo tempo sotto silenzio e riscoperto solo in occasione del centocinquantesimo anniversario dell’Unità) che costituisce non solo un’analisi dell’opera del Conte e del complessivo processo di unificazione, visto in tutta la sua contraddittoria complessità, ma che si proietta sull’intera vicenda successiva del Paese, finendo per consegnarci una sorta di sommario dei tratti originari della nostra storia nazionale.

Da un articolo di Ernesto Galli Della Loggia sul Corriere della Sera

Autore Luciano Cafagna

Edizione il Mulino Collana “Storica paperbacks”

pp. 256, € 12,00

anno di pubblicazione 2010

“Un libro controcorrente… la brillante monografia su Cavour finisce per tradursi in un appassionato elogio della politica” (Simonetta Fiori)

Il primo miracolo italiano è stata l’Italia stessa e Cavour ne fu il geniale regista. Uomo di cultura economica, politica, amministrativa, e non letteraria, era il più europeo degli italiani del tempo e il meno italiano degli uomini del Risorgimento: e questa fu la sua carta vincente. L’Italia nacque infatti da una volontà di allineamento al progresso europeo. “Virtuoso” e “fortunato” come un eroe machiavelliano, Cavour fu un politico autentico, un grande alchimista di quell’arte che tenta di estrarre l’oro da una combinazione di metalli vili.

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Raffaella Luigia Faucitano: un’anima instancabile nel soffrire

28/01/2012 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Autrice di numerosi saggi e pubblicazioni, in particolare sulla storia dell’Ottocento, Simonetta Michelotti dell’Università di Siena ( dipartimento di Scienze Storiche, Giuridiche, Politiche e Sociali illustra in questo scritto una delle figure luminose del Risorgimento, a riprova – tra l’altro – del contributo straordinario dato da tante donne italiane alla realizzazione dell’Unità nazionale. [Leggi di più…] infoRaffaella Luigia Faucitano: un’anima instancabile nel soffrire

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Metamorfosi risorgimentali in maremma

23/01/2012 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

di Giovanna Lori.

Per metamorfosi, sostantivo femminile di origine greca, si intende la trasformazione di un essere o di un oggetto in un altro essere, in un altro oggetto.

Le metamorfosi hanno avuto una particolare importanza nell’antica religione greca. La trasformazione poteva essere temporanea ( come quella di Zeus in toro, in cigno, in pioggia d’oro, vari aspetti sotto cui questa divinità si univa a donne mortali ) o definitiva come quella di Dafne in alloro, di Narciso nel fiore di questo nome, di Niobe in roccia, di Aracne in ragno, di Licaone in lupo. Queste ultime trasformazioni potevano rappresentare una punizione o un premio da parte della divinità, mentre nel primo caso corrispondevano in sostanza a varie ipostasi, ossia a varie manifestazioni di un’unica realtà divina: tale carattere hanno le metamorfosi delle divinità induiste. [Leggi di più…] infoMetamorfosi risorgimentali in maremma

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Della Peruta, il marxista innamorato di Mazzini

20/01/2012 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

In ricordo dello storico del Risorgimento Franco Della Peruta. Articolo di Arturo Colombo del Corriere della Sera.

Franco Della Peruta, scomparso a Milano, era nato a Roma nel 1924, e da Emilia Morelli aveva appreso il rigore e la passione per gli studi storici, in particolare, quelli sull’Ottocento italiano, cui dedicherà tutta la vita, anche come docente di Storia del Risorgimento all’Università Statale del capoluogo lombardo. Fin da giovane aveva manifestato un forte impegno politico, militando nelle file del Partito comunista. Tanto che mi era capitato di definirlo «il marxista innamorato di Mazzini», festeggiandolo per i suoi 80 anni.
Perché nella sua vasta produzione, accanto a I democratici e la rivoluzione italiana (Feltrinelli, 1958, nuova edizione Franco Angeli, 2004), che gli aveva subito assicurato un posto di spicco fra i nostri studiosi, Della Peruta va considerato (con Salvo Mastellone) fra i maggiori «mazzinologi», come testimoniano i suoi testi fondamentali: da Mazzini e la Giovine Europa (negli «Annali Feltrinelli», 1962) a Mazzini e la società italiana (Olschki, 1999), al Mazzini, scritto con Tiziano Tussi (Arterigere-Chiarotto, 2007), oltre all’ottima antologia di testi Giuseppe Mazzini e i democratici dell’Ottocento (Ricciardi, 1969), dove le scelte ideologico-politiche non hanno mai condizionato la serietà delle sue ricerche.
Oltre alle sue originali analisi, su La svolta di Andrea Costa (Il Mulino, 1982) e su Carlo Cattaneo politico (Franco Angeli, 2001), a garantirgli un posto fra i nostri studiosi più autorevoli (e tale riconosciuto anche da colleghi di altra «appartenenza»: penso a Valiani, a Galante Garrone, a Galasso), è stata la capacità di Della Peruta di far rivivere — anche nei suoi corsi universitari — momenti e figure, vicende e problemi che hanno accompagnato, e «segnato», il nostro cammino storico, specie quello rivissuto «dal basso», come risulta in Democrazia e socialismo nel Risorgimento (Editori Riuniti, 1973), o in Realtà e mito nell’Italia dell’Ottocento (Franco Angeli, 1996), o ancora in Società e classi popolari nell’Italia dell’Ottocento (Franco Angeli, pubblicato nel 2005).
Ancora ai primi del 2011, a proposito dei 150 anni dell’Unità, Della Peruta aveva insistito: «Sul fatto che il Risorgimento sia stato un fenomeno di massa non ci sono dubbi», spiegando però che «bisogna mettersi d’accordo e precisare che, in un’Italia ancora largamente rurale, le masse coinvolte furono prevalentemente urbane». E aveva aggiunto che questo dato trovava conferma «per esempio, dalle barricate delle Cinque Giornate di Milano nel 1848, dove il tributo di sangue fu quasi esclusivamente versato dalle classi popolari». Ma, oltre alla «stoffa» del ricercatore instancabile, Della Peruta ha saputo coltivare anche un forte sentimento dell’amicizia, insieme al gusto della convivialità, quel sentirsi a proprio agio trascorrendo insieme una serata in trattoria… E così, in quest’ora amara del distacco, ci piace conservarne la memoria.

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Dal 150° anniversario un messaggio di fiducia e di speranza

26/12/2011 da Alessandra Campagnano

“O mia patria sì bella e perduuta, o membraaanzaa sì cara e fatal!” Così cantava il pubblico dell’Opera di Roma il 12 marzo 2011 (vedi “la Repubblica” del giorno dopo) quando sotto la direzione di Riccardo Muti venne intonato il coro del Nabucco di Giuseppe Verdi. Dopo anni e anni in cui il Va’ pensiero veniva associato a immagini di caciaroni in camicia verde anelanti al federalismo, alla secessione, esprimendo disprezzo per chiunque fosse “meridionale”, per “Roma ladrona”, il pubblico romano che lo intonava era il segno che qualcosa nel Paese era cambiato.

Facciamo un passo indietro. L’Italia ufficiale non aveva granché voglia di celebrare i 150 anni dell’unità d’Italia, il Comitato che si era insediato sotto la presidenza di Carlo Azelio Ciampi, era stato poi messo in condizione di non procedere in modo dignitoso, tanto è vero che Ciampi e altri dietro il suo esempio avevano dato le dimissioni. Dopo di lui Giuliano Amato si è arrangiato, ma onestamente i risultati sono stati modesti, solo Torino ha dato prova di organizzazione ed efficienza. È vero, non ci sono soldi, ma mettendo insieme le risorse umane e materiali che in questo Paese non mancano, qualcosa di più si poteva fare, anche solo coordinandole, senza dover rispondere a diktat culturali più o meno felpati. [Leggi di più…] infoDal 150° anniversario un messaggio di fiducia e di speranza

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