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Risorgimento Firenze

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mondo

NON REGALARE AI SOVRANISTI IL CONCETTO DI NAZIONE

15/04/2019 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Giovanni Belardelli  Corriere della Sera 13 Aprile 2019

Possiamo regalare la nazione ai sovranisti? Penso che non dovremmo, ma penso anche che è esattamente questo che sta accadendo in Italia, dove il dibattito politico si è ormai polarizzato intorno alla contrapposizione sovranisti-europeisti. Negli ultimi decenni sono stati in molti a prefigurare una democrazia postnazionale, una cittadinanza cosmopolita, nella convinzione che ogni riferimento alla nazione fosse diventato obsoleto nel quadro della globalizzazione.

In realtà la crisi economica mondiale iniziata nel 2007-08 ha mutato sensibilmente le cose, favorendo la diffusione — nei ceti medio-bassi più che nelle élite — di paure, ansie, richieste di protezione rivolte anzitutto al proprio Stato-comunità, alla propria nazione intesa in modo elementare come il «noi» del quale facciamo parte per dati linguistici, culturali, geografici, perfino per abitudini alimentari. Il governo gialloverde ha intercettato questi sentimenti e queste domande, con una divisione dei compiti forse non programmata ma evidente: alla domanda di sicurezza di fronte alla «minaccia» dell’immigrazione ha pensato la Lega, al disagio sociale di chi si sente lasciato ai margini dall’economia globalizzata ha pensato il M5S con il «reddito di cittadinanza». Qui non si tratta di valutare positivamente le misure del governo in questi ambiti, cosa che sarebbe ben difficile, ma di capire come questa politica abbia dato a molti italiani l’impressione che i gialloverdi si occupano di loro, prendono sul serio le loro paure e richieste di aiuto.

Credo sia anche per questo che il governo gode ancora di un’approvazione che è stimata attorno al 60%. Oltre naturalmente al fatto che la principale forza di opposizione, il Pd, sembra da tempo vittima di un blocco culturale, che gli impedisce di capire che esiste anche un sentimento nazionale del tutto conciliabile con la democrazia e con la collaborazione con gli altri popoli a cominciare dai partner europei. E che la nazione dunque svolge una funzione ancora importante su due fronti: da una parte alimenta un senso di solidarietà e vicinanza in società che hanno assicurato un gran numero di diritti e libertà individuali, generando però un rischio di solitudine per cospicue minoranze; dall’altra, rende più facilmente abitabile il mondo, radunando i cittadini secondo criteri di prossimità e comunanza, piuttosto che farli vivere in un ipotetico spazio globale, in una specie di immenso loft planetario. Quello che, secondo alcuni studiosi, sta rinascendo in Europa e negli Stati Uniti è un sentimento collettivo fatto di simboli, gesti quotidiani, usi in comune che sono specificamente nazionali in un senso elementare e senza che spesso ne siamo consapevoli. Le tasse che paghiamo, le pensioni che milioni di italiani e italiane percepiscono non contengono forse un riferimento alla nazione così implicito che neppure vi facciamo più caso? Perfino le nostre previsioni meteorologiche non definiscono un «qui» che coincide con lo Stato nazionale? Sono, questi e molti altri, i segni di un «nazionalismo banale», come lo ha definito l’inglese Michael Billig (il suo libro, con questo titolo, è stato pubblicato in Italia da Rubbettino), che è parte integrante della vita di una società democratica.

Accettare, e anzi enfatizzare, la contrapposizione irriducibile tra sovranisti ed europeisti significa invece ignorare questo sentimento di appartenenza nazionale più immediato e sotterraneo; significa lasciare tutto ciò che riguarda la nazione ai partiti cosiddetti populisti, nella convinzione che del nazionalismo si possa avere solo l’accezione aggressiva, bellicista, razzista che ha prodotto molti degli orrori del ‘900. Ma la contrapposizione tra sovranisti ed europeisti rischia di ignorare anche un dato che è sotto gli occhi di tutti: l’unione europea costituisce uno spazio che è sì di collaborazione ma al contempo anche di concorrenza tra gli Stati che ne fanno parte, dalle misure di politica economica alle iniziative di politica estera (come dimostra la crisi libica, nella quale Italia e Francia hanno seguito linee divergenti). La posizione gialloverde, anzi soprattutto leghista, nei confronti dell’europa non va oltre un muscolarismo parolaio e controproducente.

Ma ci sarebbe da preoccuparsi se l’alternativa fosse soltanto quella racchiusa in slogan come «più Europa» o «siamo europei», che rischiano di parlare soprattutto alle élite e finiscono col regalare ai cosiddetti sovranisti (o dare l’impressione di regalare, ciò che a fini elettorali è lo stesso) la difesa dell’interesse nazionale.

 

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Il Mare Nostrum ed il diritto alla cittadinanza

01/04/2019 da Sergio Casprini

…A rendere l’attuale visione del Mediterraneo un ulteriore oltraggio alla sua storia civilizzatrice si aggiunge il ricordo di un’istituzione essenzialmente greca preclassica e classica qual è la celebre filoxenia, vale a dire “ospitalità” (da Xenos, che indicava sia l’ospite che lo straniero), in forza della quale chi vedeva giungere alla sua casa uno sconosciuto era tenuto ad accoglierlo, soddisfacendo le sue prime necessità: un bagno caldo ristoratore, del cibo, vesti pulite… Solo successivamente il padrone di casa si informava sull’identità dell’ospite e le ragioni del suo viaggio…Eva Cantarella, L’antica civiltà del Mare Nostrum, Il Sole 24 ore domenica 24 marzo 2019

Eva Cantarella, nota storica dell’antichità e del diritto antico, in un recente articolo del Domenicale del Sole 24 ore afferma che il mare Mediterraneo (il Mare Nostrum dei Romani quando dominavano il mondo) anticamente, a differenza di oggi, era stato un luogo di civilizzazione.  Infatti, come mezzo  di scambi commerciali e culturali tra le popolazioni costiere,  diverse per lingua, costumi, religioni ed etnie,  aveva favorito nel tempo un processo  di integrazione o almeno di reciproco rispetto tra le genti del Mediterraneo.

Il Mare Nostrum oggi è il mare dei naufragi e un cimitero di migranti. Quello che stiamo vivendo è certamente uno dei periodi più drammatici della sua millenaria storia, che però non è mai stata senza conflitti. L’idilliaca visione di un mare di incontri di culture e di pacifico scambio suona piuttosto artificiosa se si rilegge la storia. Fin da quella più antica. I conflitti nel Mediterraneo orientale ci sono noti dall’Iliade, da Erodoto, da Senofonte, da Demostene; i conflitti nel Mediterraneo occidentale soprattutto da Polibio. Per esempio l’insediamento dei Greci sulle coste italiane dello Jonio e del Tirreno fu il risultato di una violenta colonizzazione di quelle terre; nel 474 a.C. la battaglia di Cuma fu un cruento scontro navale tra la flotta dei Siracusani e quella etrusca e con questa vittoria i Sicelioti posero fine all’espansione etrusca nell’Italia ellenica; come d’altronde le guerre puniche furono le tre guerre combattute fra Roma e Cartagine tra il III secolo e II secolo a.C., che si risolsero con la totale supremazia di Roma sul mare Mediterraneo.

In un tempo di guerre e di brevi periodi di pace non è storicamente corretto fare un confronto,  come nell’articolo di Eva Cantarella, tra la civiltà antica della filoxenia, e il respingimento attuale dei migranti sulle coste europee del Mare Nostrum, non tenendo in alcun conto le differenze di status e di ragioni che muovono migliaia di uomini dalle coste africane soprattutto verso l’Italia.

Tra l’altro anche nella Grecia antica migrazioni come quelle delle genti doriche provenienti dal nord dell’Europa nel XII secolo a.C. non furono accolte civilmente dai popoli del Peloponneso, anzi furono una delle cause della fine di Micene e della sua civiltà.

Pertanto se oggi è sacrosanto dare soccorso e ospitalità a chi naufraga sulle nostre coste, quando poi si deve rispondere alla drammatica richiesta  di asilo politico e di lavoro di tantissimi migranti la questione è più complessa e non si può certo ricorrere senz’altro all’istituzione della filoxenia antica, né tantomeno il problema può essere affrontato sotto un’unica prospettiva (favorevoli/contrari, accoglienza o respingimento). Accanto al diritto degli individui di fuggire dal loro paese quando la situazione diventa insostenibile, sussiste il diritto degli Stati di proteggere i propri confini e regolare gli ingressi  di fronte a un numero altissimo di arrivi. E invece c’è chi in Italia, mosso anche da comprensibili ragioni umanitarie e non solo da pregiudizi ideologici, ritiene che il diritto all’ospitalità si debba trasformare in un quasi immediato diritto alla cittadinanza, dimenticando che i migranti per integrarsi nella nazione in cui hanno deciso di risiedere e lavorare, hanno dei diritti, ma anche dei doveri:  il dovere di conoscere e rispettare le leggi del Paese che li ospita e quello  di sentire come cosa propria il suo patrimonio storico-culturale, a partire  dallo studio della sua lingua e della sua storia; e questo comporta logicamente  tempi non brevi per l’acquisizione  della cittadinanza.

 Infine negli ultimi tempi  opinionisti e intellettuali fanno a gara a sostenere la necessità di una porta sempre aperta nei confronti dei migranti, di oggi come di ieri, ritenendo che l’identità italiana si sia formata con un processo storico virtuoso in una fusione tra loro e noi, in un Italia pertanto da sempre multietnica e multiculturale.

I popoli accolti e fusi nella nostra terra nel corso dei secoli lo furono sì, ma dopo invasioni, guerre, soprusi e miserie devastanti che spesso durarono molto a lungo. E quando si attualizza in maniera acritica la civiltà antica del Mare Nostrum, per esempio  parlando di Enea come di un rifugiato, richiedente asilo e migrante troiano, si falsa anche la realtà di un mito che, almeno nella versione virgiliana, lungi dal consegnarci una simile immagine idilliaca, ci parla invece di guerre feroci che sarebbero state scatenate proprio dall’arrivo di Enea sulle coste del Lazio.

Sergio Casprini

 

 

 

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L’artista bambino. Infanzia e primitivismi nell’arte italiana del primo Novecento

29/03/2019 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Complesso monumentale di San Micheletto, via San Micheletto 3, Lucca

17 marzo 2019 / 2 giugno 2019

 

Carlo Ludovico Ragghianti, il noto studioso di storia dell’arte, segnalava già nel 1969 la necessità di approfondire il legame fra il disegno infantile, l’arte medievale e la produzione figurativa dei primi tre decenni del Novecento, un argomento del quale era stato pionieristico indagatore nel suo Bologna cruciale 1914, testo fondamentale per le future ricerche sull’arte italiana del Novecento. E’ una lacuna che la Fondazione Ragghianti, diretta da Paolo Bolpagni, intende contribuire a colmare con questa mostra, curata da Nadia Marchioni, che affronta il tema indagandone anche gli antefatti.
Gli esempi di “regressione” verso il disegno infantile da parte di artisti italiani fra il secondo e terzo decennio del Novecento documentati da Ragghianti nel suo saggio raccontavano, fra le altre, le esperienze di Alberto Magri, Ottone Rosai, Tullio Garbari, Gigiotti Zanini, Carlo Carrà, Riccardo Francalancia e Alberto Salietti. La mostra ricerca inoltre gli espliciti arcaismi tratti dallo studio dei maestri del Duecento e del Trecento, che vede fra i precursori Alberto Magri, accompagnato dagli amici “apuani” Lorenzo Viani e Adolfo Balduini.

L’esposizione si articola in sei sezioni a partire dall’interesse di fine Ottocento verso il fenomeno dell’arte infantile: la prima sezione è dedicata a Adriano Cecioni e il mondo dell’infanzia, la seconda a Corrado Ricci e le prime incursioni del disegno infantile nell’arte fra Otto e Novecento, la terza illustra il Disegno infantile e Medioevo: alle sorgenti della figurazione e Il caso pioneristico di Alberto Magri e del cenacolo tosco-apuano, la quarta racconta L’immagine del bambino e la diffusione del primitivismo infantile in Italia negli anni della Grande Guerra, la quinta tratta di Soffici e Carrà fra arte infantile e popolare, la sesta propone Esempi di primitivismo infantile in Italia negli anni Venti e Trenta del Novecento.
Un percorso che, partendo dalla fine dell’Ottocento, percorre i primi decenni del XX secolo, mostrando opere di artisti affascinati dall’universo infantile, di cui prendono in varie forme e stili l’essenza: la semplicità, la poesia, la soavità dei colori e dei soggetti rappresentati.

Luogo: Complesso monumentale di San Micheletto, via San Micheletto 3

Telefono: 0583/467205

Orari di apertura: 10-13; 15-19. Lunedì chiuso

Costo: 5 euro; ridotto 3 euro

 

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Machiavelli riletto da Asor Rosa. L’attesa perenne del nuovo Principe

18/03/2019 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Nel nuovo volume «Machiavelli e l’Italia. Resoconto di una “disfatta” edito da Einaudi riemerge una visione che incolpa la Chiesa per i guai italiani e svaluta il Risorgimento

 Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera 15 marzo

 

Ci sono libri che hanno il valore di un segno dei tempi. Il volume appena uscito di Alberto Asor Rosa — Machiavelli e l’Italia. Resoconto di una disfatta, Einaudi — è uno di questi. Indirettamente esso testimonia, infatti, della vastità e profondità della crisi in cui oggi è precipitato il nostro Paese, che proprio perché tale, come tante altre volte in passato sollecita a riandare alla vicenda storica italiana e ad altre «disfatte». Cioè a ripensare l’Italia per rintracciare cause e modi della sua incompiutezza, del perché a tempo debito non siamo riusciti a essere uno Stato come gli altri d’Europa con i quali amiamo confrontarci.

È quanto per l’appunto fa Asor Rosa con un’urgenza e una passione non comuni, in pagine nelle quali risuonano spesso termini come «identità», «nazione», perfino «stirpe». Con accenti tanto più significativi, mi pare, considerando la vicenda politico-culturale del loro autore, così rappresentativa per molte sue parti — dai lontani trascorsi operaisti alla lunga e multiforme militanza nel Pci fino alla presa di distanza rispetto agli attuali esiti «democratici» — di quella di tanta intellettualità della sinistra italiana.

Dunque Machiavelli e il suo resoconto della disfatta capitale occorsa alla Penisola tra il 1494 e il 1531, quando in seguito alla calata di Carlo VIII e allo scontro tra Francia e Spagna si stabilì in essa un dominio straniero destinato a durare secoli. Ma va subito detto che, insieme o forse prima di questo Machiavelli analista eccezionale dei mali d’Italia, Asor Rosa ci restituisce, attraverso l’epistolario — magistralmente esplorato e utilizzato in una sorta di contrappunto tra Niccolò da un lato e Francesco Vettori e Francesco Guicciardini dall’altro — un affascinante e forse non troppo noto Machiavelli in carne ed ossa. Un uomo fatto di «alto» e di «basso», di panni curiali e di amori mercenari, di passioni e di scoramenti, di alti pensieri e di accortezze tattiche per ritornare nel giro del potere dopo che ne è stato escluso. Ritiratosi in campagna proprio in conseguenza di tale esclusione, Machiavelli redige nel Principe (1513) il drammatico referto della catastrofe italiana ormai dilagante intorno a lui. Ed è per l’appunto seguendo i vari capitoli del suo libro che Asor Rosa ricostruisce i termini di quel referto che sarebbe rimasto come una pietra miliare nella storia del pensiero politico e insieme dell’autocoscienza nazionale italiana.

 La catastrofe che manda in frantumi il «bel vivere» italico, che pure nella seconda metà del Quattrocento sembrava aver pur trovato un definitivo equilibrio geopolitico tra i vari Stati grazie all’abile regia di Lorenzo de’ Medici, è definita secondo l’analisi machiavelliana da tre parametri: a) come ritardo rispetto alle grandi monarchie europee nella costruzione di un saldo potere centralizzato capace di contare su una propria struttura militare anziché su milizie mercenarie; b) come radicale inadeguatezza delle classi dirigenti della Penisola, innanzi tutto nel comprendere la nuova situazione e nel trovare il modo di farvi fronte conservando la propria libertà d’azione; c) come conseguente drammatica perdita di autonomia, di possibilità di autodecisione da parte dei soggetti politici italiani. Anche se occorre ricordare che nel Principe — proprio per il carattere dell’opera, che si presenta come un trattato di precettistica sull’arte del governo — i parametri anzidetti, più che essere esplicitamente enunciati e sistematizzati in riferimento ad una «questione italiana» in generale, sono perlopiù desumibili dagli esempi che nel corso della trattazione Machiavelli fa dei modi che un «principe nuovo» deve tenere per fondare e rafforzare il suo Stato (esempi, questi sì, puntualmente tratti da fatti e uomini della Penisola, a cominciare dall’esempio paradigmatico costituito dal tentativo di Cesare Borgia di stabilire il proprio dominio sulle Romagne).

Sono comunque, questi di Machiavelli, tre parametri che nella nostra tradizione storico-culturale acquisteranno rapidamente, come è noto, il carattere di un paradigma interpretativo della catastrofe italiana pressoché universalmente accettato. Così come del resto un carattere altrettanto paradigmatico verrà universalmente attribuito a quella disfatta cinquecentesca, quasi emblema e prototipo di ogni futura disfatta della nazione.

Il libro di Asor Rosa s’iscrive a pieno titolo, e vorrei dire appassionatamente, nel solco di questa tradizione. E — non da ultimo, presumo, anche per contrastare l’aria dei tempi — il suo autore insiste sulla portata fondativa del pensiero politico moderno che è nell’opera di Machiavelli: in certo senso sulla vera e propria scoperta della politica che a lui si deve. E dunque sul rapporto tra libertà e necessità che egli pone al centro della dimensione politica; sulla combinazione di «virtù» e «fortuna» che nel celeberrimo giudizio di Niccolò sempre guida l’azione politica di successo e chi ne è autore; su ciò che i due termini implicano. Ed è anche (o forse soprattutto?) in tale ambito, nell’ambito del «vivere politico», sottolinea giustamente Asor Rosa, che la catastrofe italiana ha dispiegato i suoi effetti malefici e duraturi. Nel far rapidamente diventare da allora in poi «la politica l’arte di sfruttare a proprio vantaggio tutte le occasioni possibili: non di combatterle o mutarle in qualche modo». Dopo la disfatta, insomma, nelle vene delle classi dirigenti e degli intellettuali italiani è entrata l’idea avvelenata che «non ci può essere mutamento ma solo una qualche forma di sopravvivenza». Anche da qui la tragica mancanza di capi che caratterizza la vicenda delle élite della Penisola, sintomo primo della loro «ignavia», della loro mancanza di «virtù».

Come si sarà capito la lettura che Asor Rosa fa di Machiavelli e del modo in cui il segretario fiorentino vive e concettualizza la disfatta italiana va nel senso di intendere l’uno e l’altra all’insegna di una piena consonanza con il nostro tempo. In armonia del resto con quella costante tradizione intellettuale italiana, che nel segretario fiorentino ha sempre visto un interprete dei mali d’Italia di perenne attualità (basta pensare al lunghissimo capitolo che gli dedica nella sua Storia Francesco De Sanctis, che nel machiavellismo riusciva a vedere niente di meno che «il programma del mondo moderno»).

Nascono proprio da qui, tuttavia, le domande spinose che questo libro sollecita, come solo i libri importanti sanno fare. Domande che riguardano innanzi tutto la nostra storia passata e insieme la tenacissima tradizione interpretativa di essa che per lungo tempo ha tenuto il campo e nella quale ancor oggi Asor Rosa sostanzialmente si riconosce. Le riassumo con inevitabile secchezza: davvero la Chiesa è la «responsabile sopra tutti», come voleva Machiavelli, della storica disunione della Penisola, del suo «non essere potuta venire sotto uno capo»? Davvero è per causa sua che gli italiani «sono diventati sanza religione e cattivi»? Davvero queste due celebri tesi del Principe possiedono «la grande potenza ermeneutica» e al tempo stesso «l’ineguagliabile persuasività» che attribuisce loro anche Asor Rosa?

Personalmente ne dubito. Per la moderna disunione italiana non avrà ad esempio contato moltissimo, mi chiedo, la frantumazione urbano-municipale della Penisola ereditata dall’età romana e assolutamente unica in Europa? Non saranno state decisive la sua straordinaria peculiarità geopolitica, l’assoluta diversità di provenienza e di cultura delle diverse ondate invasive che dopo il IV-V secolo si rovesciarono su di essa? Un emirato saraceno a Bari, i Bizantini a Napoli, i Normanni a Palermo, i Longobardi e poi i Franchi più o meno nel resto, non costituiscono già di per sé una bella ipoteca di divisività, senza dover per questo pensare agli intrighi della Curia romana? E si può ragionevolmente credere che in tali condizioni il papato avrebbe potuto/dovuto affidare tranquillamente le proprie sorti a uno o all’altro dei suddetti poteri? Ma se non lo si crede possibile (come è ragionevole fare), allora che cosa bisogna concluderne? Che in fin dei conti la «colpa» della disunione italiana è puramente e semplicemente dell’esistenza della Chiesa di Roma in quanto tale? Cioè, per esser chiari, della decisione presa un bel giorno da tali Pietro e Paolo di venire a Roma a propagandare le loro singolari opinioni religiose?

La verità è che nel Principe, dietro la prospettiva apparentemente storica messa in campo per spiegare le cause della «disfatta italiana», non è difficile scorgere, viceversa, una declinazione fortemente iperpoliticistica del problema (del resto perfettamente spiegabile in un uomo come Machiavelli, per esperienza e vocazione totus politicus e in quegli anni sotto la schiacciante impressione di una crisi in primis politica). Non solo, ma a dispetto di ogni pretesa di realismo, e come spesso capita una volta che ci si mette su questa strada, quelle pagine mostrano una altrettanto forte vena moralistica legata al bisogno di trovare un «colpevole». «il» colpevole (la Chiesa appunto). Politicismo e moralismo: due elementi che con la storia non hanno molto a che fare, ma che, forti dell’avallo machiavelliano, hanno contribuito non poco, mi sembra, a radicare nell’intellettualità italiana un modo di guardare e di giudicare le cose della politica che è lecito chiedersi quanto abbia favorito e favorisca l’esatta comprensione dei veri termini della politica stessa.

La permanente attualizzazione di Machiavelli operata dalla nostra tradizione intellettuale è servita in realtà, specie ai colti, per riproporre di continuo la questione italiana — innanzi tutto la questione della statualità italiana — come questione sempre irrisolta anche quando lo era stata, ma erano i suoi modi che non piacevano. E quindi per continuare a invocare e pensare un «principe nuovo» che dotato di «armi proprie» riuscisse a dar vita finalmente a un sospirato «principato nuovo», magari capace anche di liberare una volta per tutte il Paese dalla sua corruttela. In una visione delle cose dove tutto, però, è stato sempre immaginato muovere inevitabilmente dall’alto e avere un’impronta quasi demiurgica: evitando perciò di fare i conti con i reali meccanismi sociali esistenti e non avendo proprio l’aria di essere congruo con i tratti della modernità politica. Ricordando un altro celebre lavoro di Asor Rosa verrebbe quasi dire che machiavellismo e populismo sono stati due facce dello stesso modo di guardare da parte dei colti alle vicende del loro Paese.

Colpisce comunque come nelle pagine finali del libro di Asor Rosa si respiri qualcosa molto à la Machiavelli, qualcosa cioè che arieggia un’aspettativa e insieme anela a un avvento risolutivo, a una riscossa dopo la disfatta. È la postura tipica per l’appunto del perenne machiavellismo italiano. Il quale conduce anche qui, ancora una volta, a due esiti diversi, ma entrambi profondamente contraddittori. A dover tacere, quasi fosse cosa irrilevante, che nella Penisola, dopo Niccolò, «un principe nuovo» dotato di armi più o meno proprie comunque bene o male c’è stato (si chiamava Cavour e come è noto ha fondato lo Stato unitario italiano); ovvero ad ammettere che sì, certo, un «principe» di tal genere nella nostra storia lo si è pur visto — sarebbe stato incarnato secondo Asor Rosa dalla Resistenza (sulle cui «armi proprie» mi sentirei peraltro di avere più di un dubbio) — senza però che poi ci venga fornito il minimo accenno alle ragioni per cui, a quel che sembra, neppure questa rottura storica si sia rivelata davvero risolutiva.

 

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Lessico femminile. Le donne tra impegno e talento 1861-1926

11/03/2019 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Firenze, Palazzo Pitti, Galleria d’arte moderna

Sala del Fiorino dal 7 marzo 2019 al 26 maggio 2019

 

Quest’anno le Gallerie degli Uffizi celebrano l’8 marzo con una mostra dedicata all’impegno professionale e al talento delle donne in Italia, tra Ottocento e Novecento.

I termini cronologici si riferiscono a due eventi precisi: l’iscrizione di alcune lavoratrici alla Fratellanza Artigiana nel 1861, e il premio Nobel conferito a Grazia Deledda nel 1926 per il romanzo Canne al Vento. Sono due date simboliche, che tuttavia segnano la storia di un riscatto dell’immagine femminile e del ruolo pubblico delle donne nel periodo post-unitario. Opere d’arte, fotografie ed oggetti illustrano le diverse forme di operosità dell’universo muliebre, descrivendo energie e risorse spesso non riconosciute.

 Le contadine ad esempio, dedite alle pratiche agricole collegate al ciclo delle stagioni dovevano anche occuparsi degli animali nella fattoria.

 E nei momenti di sosta dal lavoro più duro, rammendavano, lavoravano a maglia o intrecciavano la paglia, come si può vedere in numerosi dipinti di Silvestro Lega esposti in galleria.
Altro futuro attendeva le donne borghesi, che potevano studiare e intraprendere una carriera scolastica, diventare artiste e perfino scrittrici.

 In quest’ultimo caso, tuttavia, venivano limitate a generi e argomenti considerati specificamente femminili: la scrittura per l’infanzia o per libri di scuola, o articoli in periodici per le giovinette sulle ultime novità della moda, sull’economia domestica, sull’etichetta e le buone maniere.
La quiete apparente dei salotti offrì spesso copertura, invece, a pensieri rivoluzionari e patriottici, e fu terreno per una fervida vita intellettuale. In quel periodo Firenze fu meta prediletta e luogo di incontro per figure di spicco nel mondo femminile non solo della letteratura e dell’arte, ma anche dell’impegno sociale e politico, su scala internazionale: qui vissero donne formidabili quali, tra le altre, Elizabeth Barrett Browning, Jessie White Mario, Theodosia Garrow Trollope, Margaret Fuller.
La mostra, realizzata in collaborazione con Advancing Women Artists, si sviluppa scenograficamente attorno ad un nucleo centrale di opere di grandi dimensioni, così da far emergere le protagoniste femminili come sul palcoscenico di un teatro. Il percorso prosegue nelle collezioni della Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti – dove è custodita una delle più significative raccolte sul tema del lavoro delle donne nei campi fra Ottocento e Novecento – attraverso un fil rouge visuale con didascalie e focus, oltre a una proiezione multimediale dedicata alle donne nei loro ambienti di lavoro.

 

Firenze, Palazzo Pitti, Galleria d’arte moderna,
Sala del Fiorino dal 7 marzo 2019 al 26 maggio 2019
Orario
Da martedì a domenica
8.15 – 18.50 (ultimo ingresso alla mostra alle ore 18.30)
chiuso il lunedì
Servizio didattico per le scuole                           
Visita guidate per le scolaresche solo su prenotazione. Costo di € 3.00 ad alunno.
Info e prenotazioni: Firenze Musei 055.294883
Servizio visite guidate
Info e prenotazioni: Firenze Musei 055.290383
e-mail firenzemusei@operalaboratori.com
La mostra è inclusa nel biglietto dei musei di Palazzo Pitti info 
 

 

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L’UNITÀ DELLA SCUOLA

04/03/2019 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Alberto Asor Rosa  La Repubblica 28 febbraio

Una caratteristica singolare del governo giallo- verde è di produrre deliberati, ognuno dei quali si presta a una serie infinita di obiezioni, di volta in volta più argomentate e agguerrite.

Un esempio evidente è la cosiddetta “ autonomia regionale differenziata”. Da un solo provvedimento si potrebbero cavare cento ben ragionate obiezioni. Io vorrei attirare l’attenzione su un campo tematico forse meno discusso: e cioè la scuola.

Non c’è ombra di dubbio che la scuola, dalla materna all’Università, rappresenti, insieme con pochissime altre branche dello Stato, una delle strutture unitarie ancora funzionanti. È chiaro che “l’autonomia regionale differenziata” avrebbe lo scopo di spezzare questa spina dorsale del Paese, ridurla in briciole, sottometterla a interessi particolari di ogni genere. Ci si può chiedere quali sarebbero gli effetti, su tutti noi, ma soprattutto sui nostri giovani, e quindi sul futuro di questo Paese ( se “ questo Paese” significa ancora qualcosa qui da noi).

L’Italia ha conquistato l’unità da un tempo incredibilmente vicino a noi: poco più di 150 anni! In precedenza — quasi sei secoli di storia, dal tardo Medioevo — l’unità è stata cercata, testardamente e intensamente, soprattutto da letterati, filosofi e intellettuali, come unità culturale e linguistica. Spinte centrifughe ce ne furono, come no: persino di natura linguistica e culturale. Ma la spinta unitaria prevalse sempre: alcuni dei teorici più lucidi dell’uso sempre più generalizzato e sistematico della lingua italiana furono veneti e lombardi; alcuni dei letterati e poeti più geniali della nostra storia letteraria sono stati emiliani, marchigiani e napoletani. Solo da un certo momento in poi le due spinte si sono saldate. La ricerca dell’unità culturale e linguistica diviene ricerca, più consapevole e ferma, dell’unità politico-istituzionale, e non è azzardato dire che la seconda non si sarebbe manifestata e imposta senza la ricerca secolare della prima. Quando l’Italia fu riunita, dopo secoli di divisione, non c’è ombra di dubbio che i padri costituenti affidassero alla scuola un compito primario di autoriconoscimento e unificazione.

Dunque, chi voglia oggi attentare all’unità dello Stato italiano non può fare a meno di colpire l’unità della scuola. E però: c’è un’alternativa? Il punto è proprio questo: non c’è un’alternativa; ma solo un precipizio mentale, in cui non resterebbe che farsi inghiottire dalla mancanza di cultura e di lingua. Non c’è una cultura ligure, veneta, marchigiana, laziale, campana, calabrese da sostituire alla “cultura nazionale italiana”. Se si vuole parlare al resto dell’Europa e del mondo, bisogna partire da questa lingua, e ripartire, per quanti utili sforzi di rinnovamento si facciano, da questa cultura.

Si capisce che i riformatori — “sovranisti” anche a livello regionale, per colmo di paradosso — sarebbero indifferenti a questo discorso. Più esattamente: ne ignorano anche i dati più elementari (cultura? lingua? puah, che roba sorpassata!). Ma qui bisogna tentare di parlare al resto del Paese: quello che sarebbe vittima sacrificale — anche se talvolta inconsapevolmente consenziente — dell’operazione che si sta progettando. Perché l’Italia e gli italiani non si ritrovino in quel precipizio bisogna che la scuola resti unitaria, anzi accentui sempre di più e meglio questa funzione.

Semmai sarebbe da chiedersi perché, già prima di arrivare alla “ autonomia regionale differenziata”, la scuola sia stata considerata da tutti i governi di tutti i colori negli ultimi decenni un secondario motivo d’interesse nazionale, un bene rifugio per ministri d’infimo grado. Dovrebbe esser chiaro: ci si oppone seriamente alla prospettiva catastrofica solo se si considera la prospettiva scolastica nazionale una delle chance fondamentali della nostra politica. L’identità culturale e linguistica non è un patrimonio che si autoconserva. Ha bisogno di un investimento politico e culturale (insisto: culturale) di altissimo livello. Ma così stiamo andando troppo lontano.

 

 

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Il divenire di Firenze tra passato, presente e futuro

01/03/2019 da Sergio Casprini

Al Museum of Modern Art di New York si trova una tela dipinta dal futurista Umberto Boccioni nel 1910 dal titolo La città che sale, con la visione di palazzi in costruzione,  ciminiere e impalcature nella periferia di Milano. Il centro del quadro è occupato da uomini e da cavalli, fusi insieme in un esasperato sforzo dinamico. In questa metafora visiva Boccioni mette in risalto alcuni tra gli elementi più tipici del futurismo, quali l’esaltazione del lavoro dell’uomo, artefice di un nuovo mondo, e il valore della crescita culturale e sociale della città moderna in ragione del progresso tecnico e industriale

Nel contesto trasgressivo delle avanguardie artistiche dell’inizio del Novecento i futuristi italiani in particolare si distinsero nel provocare l’opinione pubblica inneggiando ai miti della velocità e del dinamismo nella moderna società industriale e nel fare tabula rasa del culto della tradizione artistico-culturale e della conservazione delle tracce del passato.

Il 12 dicembre 1913 al teatro Verdi di Firenze gli esponenti del movimento futurista presentarono la loro visione politica e artistica con performance teatrali e letture poetiche. Tra gli interventi fece soprattutto clamore  fra il numeroso pubblico quello del fiorentino Giovanni Papini, che lesse il suo manifesto dal titolo Contro Firenze passatista. Definì la città “una delle tombe più verminose dell’arte” e invitò i fiorentini a non trasformare la città in un grande museo per i turisti, a vivere nel presente e nel futuro, a ingrandire le stradine strette e a buttare passatisti e dantisti nell’Arno, per creare, finalmente, una città moderna ed europea al posto della Firenze museale e medievale. Papini scatenò una tempesta d’indignazione, perché il pubblico reagì con furia a quest’offesa da parte di un fiorentino alla propria città natale: urlò e fischiò, soffiò il fischietto e il corno, strepitò con sonagli e volarono verso il palcoscenico pomodori, frutta e verdura.

Papini nella sua foga dissacratoria aveva però dimenticato che anni prima a Firenze aveva operato un architetto come Giuseppe Poggi, che negli anni di Firenze Capitale aveva progettato una città moderna ed europea, con la creazione di infrastrutture che aprivano Firenze all’esterno e all’interno verso il fiume, come i viali di circonvallazione e i lungarni, aree di verde pubblico, piazze ampie e larghe vie, moderni fabbricati residenziali, anche per risolvere questioni di ordine igienico date le condizioni di degrado sociale dell’intero centro storico.

Il piano urbanistico del Poggi fu realizzato solo parzialmente, perché con il trasferimento della capitale a Roma il Comune di Firenze fece fallimento e il progetto si arenò.  Il piano era stato osteggiato da intellettuali, artisti, esponenti di spicco della società civile, romanticamente ancorati alla salvaguardia di tutte le vestigia della Firenze rinascimentale e medievale, nonostante che l’architetto fosse un serio professionista e non una testa calda come i futuristi.

Anche oggi nella Firenze che sale esiste  una contrapposizione analoga a quella tra futuristi e passatisti sul senso della crescita – se felice o infelice – della città dei Medici.  Ci si interroga e si dissente sulle nuove infrastrutture come la tramvia, sulla destinazione di edifici storici dismessi, sul rapporto tra centro storico e periferie, sulla ridefinizione di una moderna forma urbis. Ma sembrano tornati anche i tempi del Poggi e di Firenze Capitale, visto che ieri come oggi ci si lamenta della speculazione immobiliare, dello spreco di denaro pubblico, della lentezza con cui si realizzano le opere, spesso con le parole d’ordine della lotta alla corruzione e della difesa, senza se e senza ma, della città culla del Rinascimento.

Eppure i Medici avevano un motto in latino, Festìna lente, allegorizzato con l’immagine di una tartaruga sospinta da una vela, con il quale invitavano se stessi e la classe dirigente di allora a operare fattivamente anche se con giudizio e accortezza nelle scelte di gestione della città e del Granducato. A maggior ragione in tempi di democrazia i fiorentini, cittadini e non più sudditi, possono invitare i loro amministratori a pianificare il futuro della città senza farsi sedurre da furori futuristici, ma anche senza consegnare una Firenze museificata al turismo di massa.

 

 

 

 

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Quale destino per il Cimitero agli Allori?

22/02/2019 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Una conversazione con Ilaria Borletti Buitoni

Francesca Joppolo Wall Street magazine on line 17 febbraio 2019

 

Si capisce che manca poco. Ilaria Borletti Buitoni sta per dire loro quello che pensa. E non saranno parole carezzevoli soffiate in un flauto.

Gran signora, figlia e moglie di protagonisti della storia industriale del nostro paese, è militante in parecchi campi di battaglia: arte, cultura, paesaggio (è stata presidente del FAI, Fondo ambiente italiano, dal 2011 al 2013, sottosegretario del Ministero dei Beni culturali dal 2013 al 2016), diritti civili, cooperazione internazionale (nel 1993 ha contribuito alla nascita di Amref Italia Onlus, che sostiene programmi sanitari e scolastici in Africa orientale), musica classica (con il marito Franco Buitoni, orecchio assoluto, ha creato a Londra il Borletti Buitoni Trust che promuove talenti d’eccezione di tutto il mondo, in particolare nella musica da camera). Adesso è ferita nei sentimenti, scandalizzata, nauseata. Non per questo piange e si crogiola sul dondolo di un magnifico giardino: è in azione come d’abitudine. In Africa per l’Amref ci va, per esempio, non fa la dama di carità alla lontana. E adesso che è ferita nei sentimenti, scandalizzata e nauseata, cala su Firenze: autorevole, ironica, incoronata da una chioma fenomenale, che è una dichiarazione d’indipendenza e combatte insieme con lei fino all’ultima ciocca. Il marito, amato, è sepolto al Cimitero agli Allori di Firenze, dove giacciono anche i nonni di lui.

“Così ho scoperto questo luogo straordinario” esordisce.

Gli Allori, dal nome del podere dove è stato edificato nel 1878 per custodire, al principio, solo le spoglie dei morti protestanti di Firenze, è una delle innumerevoli bellezze fiorentine che sfuggono ai turisti di mezza giornata, quelli che scambiano la cupola del Brunelleschi per il Cupolone, il Campanile di Giotto per la torre di Pisa, e sono molto irritanti. È un posto che sfoggia decenni di scultura, un museo, perché molte delle tombe sono monumentali, adornate da angeli, tempietti, busti, ghirlande di foglie, figurette virginali, medaglioni, colonne, simboli religiosi e laici. È un posto che racconta come la convivenza di genti diverse sia auspicabile e feconda. Gli Allori custodiscono le memorie di vite inglesi, americane, russe, francesi, tedesche, ungheresi, svizzere. Italiane, naturalmente. C’è qualche ebreo, anche se a Firenze ci sono cimiteri ebraici. C’è qualche musulmano. La lettura delle lapidi è un viaggio sepolcrale eppure non macabro da Kansas City a Mosca. S’incontrano, fra gli altri, Vernon Lee, Violet Trefusis, John Pope-Hennessy, Roberto Longhi, Ludmilla Assing, Federico Stibbert, Lina Cavalieri. Ma è un posto in rovina.

“Non esiste nessuna progettualità né trasparenza. Chi va lì e ha la tomba non ottiene nessuna risposta – dice Ilaria Borletti Buitoni -. Ci sono problemi di stabilità strutturale nel muro che divide la parte monumentale, è crollato il tetto dell’emiciclo dove ci sono le tombe di Sir Harold Acton e Anna Meyer. I cipressi antichi andrebbero potati, il verde sistemato con il disegno giusto. Bisogna recuperare le tombe monumentali che magari non hanno più le famiglie a seguirle, ma sono la storia, il segno distintivo del cimitero. Grazie al lavoro di Grazia è tutto raccontato, documentato (Grazia Gobbi Sica, architetto, ha scritto In Loving memory, un minuzioso e affascinante ‘catalogo’ delle sepolture e delle storie a esse legate, un’opera che profuma di eroismo da studiosa, e ha creato gli Amici degli Allori, che presiede, per curare, restaurare e far conoscere il cimitero. Ilaria Borletti Buitoni è la vicepresidente dell’associazione n.d.r.). Poi c’è il problema secondario, ma non secondario, della manutenzione che finora non ha soddisfatto per niente.

La Chiesa riformata svizzera – continua Ilaria Buitoni Borletti – possiede il tutto e ha la maggioranza del consiglio. Da loro non abbiamo né collaborazione, né risposte. Non intendono affrontare il problema. Noi come Associazione degli Allori abbiamo proposto molte cose e non ci hanno nemmeno risposto. La soluzione è creare una fondazione, con più soggetti, anche pubblici per accedere ai fondi pubblici”.

In una lettera datata 4 ottobre 2018, con il resoconto del primo anno di attività dell’Associazione, indirizzata alla presidente e ai delegati del Comitato del Cimitero Evangelico degli Allori, infatti Grazia Gobbi Sica scriveva: “[…] Infine per dare al Cimitero una forma giuridica più stabile con la quale garantire programmi di investimento per il recupero e la valorizzazione del patrimonio artistico e paesaggistico che agli Allori è custodito, proponiamo che sia costituita una Fondazione di partecipazione con l’intervento di Comune di Firenze, Regione Toscana, Cassa di Risparmio di Firenze e l’Associazione stessa. Su questa idea è possibile aprire un tavolo di confronto con il Comitato e con le Chiese che vi trovano rappresentanza?”. Il tavolo di confronto non è stato aperto.

“Non ci hanno nemmeno risposto – prosegue Ilaria Buitoni Borletti -. Lo trovo incomprensibile, avranno lì i loro cari, penso… È un dovere morale occuparsi del cimitero. Noi abbiamo comprato la tomba tanti anni fa, pagandola moltissimo, in un contesto ordinato che ora è disordinato. Ci fanno sentire indesiderati. Ho sistemato le tre tombe accanto a quella di mio marito: a parte il dolore di averlo perso, non voglio vedere il degrado. Io sono milanese, ho la tomba di famiglia al Cimitero monumentale che è pulito, tenuto come una clinica. Mi colpisce molto che chi ha amato Firenze, città d’arte, di storia, di cultura e a Firenze ha portato arte, cultura ed è sepolto agli Allori sia trattato così perché i proprietari non si sa che cosa vogliono fare, se abbandonarlo del tutto o che altro. Tu vendi una tomba e fai trovare cartacce e decadenza? Insomma, abbi un po’ di rispetto!”.

Estrema la conclusione di Ilaria Borletti Buitoni, da pietra tombale: “Se continua così, io prendo quel che resta di mio marito e lo porto a Perugia, dove c’è un bellissimo cimitero a sette minuti da casa mia”.

 

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Carlo Cantini. Tra realismo e immaginario

04/02/2019 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Villa Bardini, Costa San Giorgio 2 Firenze
Dal 26 gennaio 2019 al 17 marzo 2019

 

Dalla fotografia d’arte alla documentazione della natura, dai fatti della moda a quelli della vita quotidiana. Questo è il percorso artistico di Carlo Cantini, il fotografo fiorentino che è uno degli ultimi grandi esponenti della fotografia contemporanea italiana del Novecento

Attraverso 70 scatti sono documentati alcuni dei momenti più significativi delle seconda metà del Novecento e della scena fiorentina, tappe importante per lo sviluppo di quello ’stile’, tra arte, moda ed artigianato che ha esaltato il capoluogo toscano nel mondo. Il fotografo ha immortalato figure del calibro di Burri, Cerioli, Bagnoli, Salvadori, Rauschnmberg, Liechtenstein. Il suo lavoro è una ricerca di equilibrio fra realismo e immaginario.

 

Orario: 10-19, chiuso i lunedì feriali, ultimo ingresso ore 18.00

Biglietti: intero € 10.00, ridotto € 5.00

Tel 055 20066233
eventi@villabardini.it

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La GIORNATA DELLA MEMORIA

01/02/2019 da Sergio Casprini

Il Giorno della Memoria è una ricorrenza internazionale celebrata il 27 gennaio di ogni anno per commemorare le vittime dell’Olocausto. È stata così designata dalla risoluzione 60/7 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 1º novembre 2005. La risoluzione fu preceduta da una sessione speciale tenuta il 24 gennaio 2005, durante la quale l’Assemblea celebrò il sessantesimo anniversario della liberazione dei campi di concentramento nazisti e la fine dell’Olocausto. Per il Giorno della Memoria fu scelta la data in cui nel 1945 le truppe dell’Armata Rossa entrarono nel campo di concentramento di Auschwitz.

Il 20 luglio del 2000, prima quindi della corrispondente risoluzione delle Nazioni Unite, l’’Italia aveva già formalmente istituito la giornata commemorativa collocandola nello stesso giorno. Così recita la legge istitutiva: “In occasione del Giorno della Memoria vengono promosse cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti. in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non possano mai più accadere”.

Quest’anno a Firenze, al cinema Teatro La Compagnia, con il film Una donna poco più un nome è stata ricordata Enrica Calabresi, una persona pressoché sconosciuta, nonostante il valore del suo ruolo culturale nell’ambito della comunità scientifica italiana. Enrica Calabresi era infatti una scienziata, la prima entomologa italiana. Lavorava alla Specola e all’Università. Ai tempi delle leggi razziali, privata del lavoro e della libertà in quanto ebrea, costretta a nascondersi, fu poi imprigionata a Santa Verdiana e, in attesa di essere deportata, si suicidò.

Ricordare la storia tragica degli ebrei nel Novecento ha un particolare valore nel momento in cui in Europa e in Italia si hanno ancora episodi di razzismo e di antisemitismo.

Se il dovere della memoria serve a ripristinare un rapporto con il passato nazionale ed europeo, quel rapporto nel mondo contemporaneo si è fatto però difficile. Infatti dopo le tragedie del Novecento ci viene chiesto spesso di ricordare il passato dell’Occidente, ma soltanto per condannarlo. Che si tratti dello sterminio degli ebrei, del colonialismo, delle foibe, sono sempre  i crimini che vengono ricordati. Ma una visione del passato incentrata esclusivamente sul ricordo degli orrori del XX secolo non permette quello sguardo comprensivo e positivo verso la propria storia che è un requisito indispensabile per l’esistenza di una nazione.

Gli ebrei italiani che a migliaia partirono tra il 1943 e il 1945 dal binario 21 della Stazione Centrale di Milano con treni diretti ad Auschwitz e ad altri campi di concentramento, gli oltre mille cittadini ebrei che furono catturati nel rastrellamento del ghetto di Roma del 16 ottobre 1943 e deportati dall’Italia ad Auschwitz, facevano parte di quella numerosa comunità ebraica che aveva condiviso con i patrioti italiani gli ideali e i valori del nostro Risorgimento, partecipando attivamente al processo di formazione nazionale dalle guerre di Indipendenza alla Grande Guerra.

A testimonianza del loro contributo all’Unità d’Italia, nel bel giardino antistante la Sinagoga di Firenze si trova, oltre alla Lapide con i nomi delle vittime della Shoah, anche un piccolo Monumento con fontana in memoria dei 28 ebrei fiorentini caduti durante la guerra del 1915/18.

La consonanza di sentimento e di idealità tra la comunità ebraica e il resto del popolo italiano aveva già avuto conferma all’inizio del processo risorgimentale, quando l’opera lirica di Verdi Nabucco fece il suo debutto con successo il 9 marzo del 1842 al Teatro alla Scala di Milano. Gli spettatori italiani dell’epoca non solo apprezzarono la splendida musica, ma si identificarono nella condizione degli ebrei soggetti al dominio babilonese. Com’è noto, il coro Va pensiero sulle ali dorate nel terzo atto dell’opera verdiana venne interpretato come una metafora della condizione dell’Italia, assoggettata all’epoca al dominio austriaco, e ancora oggi viene ascoltato con emozione come canto patriottico.

La data del 17 marzo è dal 2013 la “Giornata dell’Unità nazionale, della Costituzione, dell’inno e della bandiera”, una solennità civile da onorare con manifestazioni pubbliche e iniziative nelle scuole per non dimenticare la storia del nostro paese.

Potrebbe essere anche l’occasione per ricordare il contributo al nostro Risorgimento  dei cittadini ebrei , che vissero come tradimento al loro sentirsi italiani gli anni bui e tragici delle leggi razziali e delle deportazioni nei lager nazisti.

Sergio Casprini

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