• Passa alla navigazione primaria
  • Passa al contenuto principale
  • Passa alla barra laterale primaria
  • Passa al piè di pagina
  • Il Comitato Fiorentino per il Risorgimento
  • Redazione
  • Contatti
  • Photogallery
  • Link
  • Privacy Policy

Risorgimento Firenze

Il sito del Comitato Fiorentino per il Risorgimento.

  • Home
  • Focus
  • Tribuna
  • I luoghi
  • Mostre
  • Rassegna stampa
  • Pubblicazioni
  • Editoriale

Editoriale

La sempiterna questione meridionale

01/02/2023 da Sergio Casprini

Recentemente due proposte del governo hanno riacceso la polemica sulla questione meridionale e cioè sul divario economico e sociale tra il Nord e il Sud, non ancora superato a 162 anni dalla nascita del Regno d’Italia.

Pochi giorni fa il Ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara ha accennato alla possibilità di tenere conto del “carovita” nella retribuzione dei docenti che lavorano nelle regioni settentrionali, dato che nel sud il costo della vita è inferiore, di fatto riproponendo quelle differenze retributive che esistevano in Italia negli anni ’50 del secolo scorso.

Chi risponde al ministro che nel sud i servizi pubblici – per esempio quelli sanitari –sono molto meno efficienti e per questo sarebbero giustificate le stesse retribuzioni sia al Nord che al Sud, conferma che il processo di modernizzazione del nostro Paese, nato con il Risorgimento, si è fermato a Eboli.

Lo scorso novembre il Ministro per gli Affari regionali e le autonomie Roberto Calderoli ha presentato alle regioni la bozza di disegno di legge sulla cosiddetta “autonomia differenziata”, di cui all’articolo 116 della Costituzione. Con “autonomia differenziata” si intende la possibilità che le regioni a statuto ordinario possano ottenere competenza legislativa esclusiva su materie che la Costituzione elenca invece come “concorrenti” o, in tre casi, su quelle di esclusiva competenza statale. Per molti costituzionalisti e soprattutto esponenti politici del Meridione l’annosa questione tra centralismo statale e autonomia regionale non sarebbe risolta dalla proposta di Calderoli, anzi verrebbe meno il principio di uguaglianza sancito dalla Costituzione, in quanto i diritti perderebbero il loro carattere di universalità, previsto a garanzia dell’unità e indivisibilità della Repubblica. Se questa bozza fosse davvero improntata a una logica competitiva più che solidaristica, volta a favorire Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna che per prime hanno richiesto l’autonomia differenziata, si rischierebbe di consolidare la situazione di un’Italia divisa tra un settentrione forte sul piano economico-produttivo e un meridione ancora arretrato e sostenuto dai sussidi dello Stato. Invece di interrogarsi sulle possibili soluzioni di questo divario, in queste polemiche emerge una contrapposizione ideologica o peggio di latente razzismo tra “terroni” e “polentoni”. Che peraltro ha una lunga storia: nel 1860 il politico emiliano Luigi Farini così scriveva a Cavour: «Amico mio, che paesi sono mai questi, il Molise e la Terra del Lavoro! Altro che Italia! Questa è Affrica: i beduini, a riscontro di questi caffoni [sic], sono fior di virtù civile». Va pure detto che negli anni del Risorgimento ci fu un’élite culturale meridionale che al momento dell’unificazione nazionale chiese interventi urgenti da parte dello Stato centrale per affrontare le condizioni di degrado economico e sociale del Sud.

Pasquale Villari

Tra gli altri, il napoletano Pasquale Villari, politico, storico e docente presso l’Istituto di Studi superiori di Firenze, fu tra i primi a studiare la questione meridionale e a pubblicarne i risultati nell’opera Lettere meridionali. L’interesse per il tema lo portò poi a collaborare alla Rassegna settimanale dei politici toscani Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, autori di una famosa inchiesta in Sicilia, pubblicata nel 1877, in cui si denunciava «l’inestricabile intreccio tra le miserabili condizioni di vita dei contadini e le malversazioni amministrative delle caste dominanti». Con la rivista “Rassegna settimanale” l’intento dei due era quello di far conoscere le condizioni di vita del Meridione e di render consapevole la società italiana che l’economia del Sud doveva essere riequilibrata, anche per porre fine al pericoloso malcontento delle masse contadine, con l’estensione in primo luogo della rappresentanza politica, mediante il suffragio universale da estendere anche alle donne, e nel favorire l’industrializzazione del paese.

Gaetano Salvemini

Anni dopo il pugliese Gaetano Salvemini, allievo di Pasquale Villari, al X Congresso del PSI celebrato a Firenze nel settembre del 1908, parlò a nome della maggioranza dei delegati delle sezioni meridionali. Nel suo discorso per la prima volta la «questione meridionale» non era il fondamento recriminatorio di domande di risarcimento per le ingiustizie patite, ma il terreno decisivo su cui si giocava un destino effettivamente nazionale del partito e la possibilità di garantire un fondamento davvero democratico al Paese. In particolare, nel pensiero di Salvemini la questione meridionale era intimamente connessa alla questione scolastica e al concetto di educazione nazionale: in quest’ottica la scuola era vista dall’intellettuale pugliese nel suo ruolo di formazione di un’opinione pubblica – fino ad allora assente specialmente nel Sud – che avrebbe permesso di maturare una solida coscienza nazionale.

Purtroppo ancora oggi, nonostante la maggior diffusione della cultura, il dibattito pubblico si riduce troppo spesso allo scontro di tifoserie politiche e di fazioni ideologiche, senza entrare nel merito delle questioni e nella concretezza delle soluzioni da adottare. E carente è soprattutto la scuola nella formazione di una forte coscienza nazionale delle nuove generazioni, a partire dallo studio rigoroso della storia e dalla valorizzazione del ruolo dei docenti sul piano retributivo, per dar loro la possibilità di vivere dignitosamente sia al Sud che al Nord, avendone ovviamente accertata l’acquisizione di valide competenze professionali.

Sergio Casprini

Archiviato in:Editoriale

Auguri per un felice 2023 e per la libertà e la democrazia nel mondo

01/01/2023 da Sergio Casprini


Bombardamento russo sull’ospedale di Mariupol in Ucraina

L’anno appena concluso si apre con il drammatico scenario di una guerra in Europa e con gravissime violazioni dei diritti umani in vari paesi, in particolare nei confronti delle donne.
Il 24 febbraio 2022 l’inizio dell’aggressione russa dell’Ucraina, in patente dispregio del diritto internazionale, ha aperto la strada a una spaventosa serie di crimini contro la popolazione e a una sistematica distruzione del paese invaso. La valorosa resistenza del popolo e dell’esercito ucraini ha impedito che l’invasione si risolvesse rapidamente in una sostanziale annessione del paese, con l’installazione a Kiev di un governo vassallo di Mosca. Anzi, come sappiamo, negli ultimi mesi l’esercito russo ha dovuto ritirarsi da ampie zone conquistate nella prima fase dell’invasione.
Il dramma dell’Ucraina ha infranto l’illusione europea di aver acquisito in modo definitivo la pace e impone alle democrazie, che stanno sostenendo gli aggrediti in modo quasi unanime (anche a costo di sacrifici non da poco), un ripensamento su come difendere il proprio modo di vivere. Come si chiede in un recentissimo libro il politologo Vittorio Emanuele Parsi, “qual è il costo che siamo disposti a pagare per essere liberi?”
Alla guerra in Ucraina si è recentemente affiancata quella dichiarata al proprio popolo dalla teocrazia iraniana. Da quasi tre mesi, a partire dalla morte della ventiduenne Mahsa Amini, fermata e arrestata dalla polizia morale perché non indossava correttamente il velo, le città iraniane sono state animate da folle di donne e di uomini che rifiutano le costrizioni imposte alle loro esistenze. “Donna, vita, libertà” è lo slogan scandito nelle piazze e nelle strade dell’Iran, ma anche in moltissime città dei paesi democratici. Lo stato teocratico iraniano ha represso in questi mesi violentemente le manifestazioni, sparando sulla folla, imprigionando, torturando e stuprando migliaia di giovani e comminando pene capitali.
Il quadro della soppressione per legge delle libertà civili e politiche è ancora più impressionante, e da molto tempo, in Afghanistan Nell’agosto del 2021 i talebani hanno di nuovo assunto il controllo dell’Afghanistan e da allora sistematicamente stanno violando i diritti delle donne e delle bambine all’istruzione, al lavoro e alla libertà di movimento, azzerando il sistema di protezione e sostegno per le donne che fuggono dalla violenza domestica, arrestando donne e bambine per minime infrazioni a norme discriminatorie e contribuendo all’aumento dei matrimoni forzati e precocissimi. Di recente il ministro dell’Istruzione superiore ha introdotto il divieto a tempo indeterminato dell’istruzione universitaria per le ragazze
L’anno nuovo nasce quindi al momento senza favorevoli auspici per la libertà e i diritti dei popoli nel mondo. E però l’Occidente democratico, pur con molte contraddizioni, non solo mantiene al suo interno il principio-cardine dello Stato di diritto, ma si è dimostrato capace di difendere con i fatti un popolo oggetto di aggressione da parte di un regime che del diritto ha fatto strame.
E’ stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora. La battuta paradossale di Wiston Churchill non dovrebbe però indurci a pensare che la democrazia sia strutturalmente difettosa. Proprio in quanto progetto di società aperta, deve ovviamente tenere conto di molteplici esigenze, diritti e condizioni oggettive presenti in un dato contesto storico. Si tratta quindi non di difetti, ma di limiti che la realtà oppone alla piena attuazione di un progetto, di cui è parte costitutiva la capacità di correggersi e di migliorare. Cosa quasi del tutto preclusa agli stati totalitari, in cui è vietata la discussione pubblica e la libera competizione di diverse forze politiche. Invece, questa “peggior” forma di governo garantisce pluralismo di pensiero e di opinione e tutti coloro che dissentono possono manifestare anche contro le leggi e il governo del loro paese; e se le proteste escono dai binari della legalità, devono venire represse dalle forze dell’ordine entro i limiti stabiliti dalle leggi.
Tra gli auguri che dobbiamo farci per il 2023, c’è anche quello di una scuola che prepari meglio alla democrazia le nuove generazioni. Non con le prediche, ma fornendo una preparazione culturale che renda i futuri cittadini in grado di comprendere i problemi su cui saranno chiamati a scegliere con il voto e abituandoli con saggia fermezza al rispetto delle regole, cioè delle persone, delle cose e delle idee altrui.
E per ritrovare quell’idealismo che dia forza alle proteste e le componga, come è successo negli anni del Risorgimento e della Resistenza al Nazi-fascismo, in un intreccio internazionale che superi le differenze, gli individualismi, le paure, gli egoismi, per la costruzione di un comune futuro di libertà e di pace.

Sergio Casprini

La scacchista iraniana che ha gareggiato in Kazakistan senza indossare il velo

Archiviato in:Editoriale

L’Europa dei diritti e delle libertà

01/12/2022 da Sergio Casprini

Si sta avverando il sogno di un’Europa sovranazionale, come nel 1941 si auguravano Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi nel cosiddetto Manifesto di Ventotene? Da quando è nata, l’Unione Europea (già Comunità Economica Europea) è cresciuta soprattutto con un compito preciso: contribuire a soddisfare le esigenze di benessere degli europei dopo gli orrori del nazismo, del fascismo e le macerie della guerra. Il suo più grande successo infatti è stato il mercato unico. Ma negli ultimi anni, nonostante le miopie nazionali e le lesioni allo stato di diritto inferte recentemente dall’Ungheria e dalla Polonia, oltre alla mancanza di una difesa comune, sia pure lentamente avanza il processo di unità politica, come nel contrasto al Covid e alle sue conseguenze economiche e con il pieno sostegno all’Ucraina nella sua lotta patriottica contro l’invasore russo, una forte iniziativa di politica estera e di sicurezza. D’altronde l’Europa è la culla di una società aperta, con le sue libertà civili ed economiche, la democrazia liberale, il governo della legge.
Sorprende quindi l’assenza di posizioni altrettanto forti della Comunità europea per quanto succede in Iran, dove, dopo la morte della ventiduenne curda Mahsa Amini, arrestata dalla polizia morale perché indossava il velo in maniera inappropriata, la repressione violenta di quello stato teocratico non è riuscita ancora dopo due mesi a domare la protesta delle donne iraniane, che si sta trasformando in una sfida sempre più radicale al regime degli ayatollah. E se pure il 14 novembre l’UE ha adottato sanzioni nei confronti dei responsabili di gravi violazioni dei diritti umani in Iran, come ha dichiarato l’alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza europea Josep Borrell, si continua ancora da parte delle Istituzioni comunitari a fare poco di fronte alla situazione tragica delle donne iraniane.

Asra Panahi, la sedicenne iraniana pestata a morte dalla polizia perché, insieme ad altre compagne,si era rifiutata di cantare un inno a Kamenei

Certo non vale come giustificazione il fatto che l’Iran non è un paese europeo come l’Ucraina e quindi non sarebbe legittimo attuare forti iniziative di ingerenza nelle questioni interne di un’altra nazione pur in presenza di gravissime violazioni dei diritti fondamentali, in particolare delle donne.
E di dovere di ingerenza da parte dell’Unione Europea si parla invece in un appello (promosso dal Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità) sottoscritto da autorevoli esponenti della cultura, dell’Università, della società civile.
L’appello inviato alla rappresentanza dell’UE a Roma e ai deputati italiani a Bruxelles inizia con queste parole: Un grande movimento che vede in prima fila gli studenti e le studentesse si sta battendo in Iran contro uno spietato regime tirannico in nome delle libertà nate in Europa. Libertà di cui nelle scuole i ragazzi studiano la storia, le lotte per conquistarle e per riconquistarle, l’importanza di difenderle.
Ma in Italia gli studenti e le studentesse hanno protestato contro lo spietato regime teocratico iraniano? Hanno fatto qualche sit in davanti all’ambasciata iraniana a Roma?
Ad oggi le manifestazioni e alcune rare occupazioni di istituti, tra l’altro di minoranze rumorose a fronte di maggioranze silenziose degli studenti, hanno mostrato lo stucchevole rituale di ogni inizio scolastico, con slogan e parole d’ordine contro il ministro della Pubblica Istruzione di turno e il governo in carica, rivelatrici di conoscenze confuse o di visioni ideologiche anacronistiche, senza il possesso di un’effettiva preparazione civica e politica, oltre che storica.
Il ministro Valditara in alcune dichiarazioni ha giustamente richiamato sia i docenti che gli studenti a un maggior senso di responsabilità, da una parte riconoscendo che va ripristinata la dignità e l’autorevolezza del ruolo dell’insegnante, dall’altra invitando gli allievi a un maggior impegno di studio senza più l’uso ludico dei cellulari, auspicando che in classe tornino il concetto di Patria (e di integrazione europea) e il rispetto degli insegnanti. Tuttavia, come altri precedenti ministri della P. I., non ha posto l’esigenza di ridare il giusto valore alle discipline, perno fondamentale di una reale formazione culturale, tra cui appunto la Storia, pena il balbettio infantile dei nostri studenti di fronte a drammatiche crisi internazionali, dove sono in gioco i diritti civili e le libertà dei popoli.

  • L’appello:  https://gruppodifirenze.blogspot.com/2022/11/inviato-alle-istituzioni-europee.html?fbclid=IwAR1OUrsBLMF7tBJhNnBE1vhVhAZo8vIEcVVpQp4auuUooU5BCIpqAzQWOHw

Sergio Casprini

Archiviato in:Editoriale

Donne e merito nel Risorgimento e nella Repubblica italiana

01/11/2022 da Sergio Casprini

Rosalia Montmasson nel 1861

“Tra i tanti pesi che sento gravare sulle mie spalle oggi, non può non esserci anche quello di essere la prima donna a capo del governo in questa Nazione. Quando mi soffermo sulla portata di questo fatto, mi ritrovo inevitabilmente a pensare alla responsabilità che ho nei confronti delle tante donne che in questo momento affrontano difficoltà grandi e ingiuste per affermare il proprio talento o il diritto di vedere apprezzati i loro sacrifici quotidiani…”. Con queste parole, nell’ intervento con cui ha chiesto la fiducia al suo governo, Giorgia Meloni ha voluto ricordare sedici donne italiane che dall’Unità d’Italia a oggi hanno per prime ricoperto ruoli prima considerati esclusivamente maschili nei campi della politica, della cultura, delle professioni e dello sport. Tra le altre, a partire dal Risorgimento, le figure dell’aristocratica Cristina Trivulzio di Belgioioso, elegante organizzatrice di salotti e infermiera sulle barricate della Repubblica Romana, di Rosalie Montmasson, di umili origini, che partecipò all’impresa dei Mille, per arrivare agli anni della Resistenza e della Repubblica con la cattolica Tina Anselmi, partigiana e poi politica democristiana, prima donna ad avere avuto la responsabilità di un ministero (quello del lavoro e della previdenza sociale); e che nel 1978, da Ministro della Sanità, firmò, pur cattolica, la Legge 194 per l’interruzione volontaria della gravidanza; e la comunista Nilde Jotti, anch’essa militante della Resistenza, poi membro dell’Assemblea costituente e infine prima donna Presidente della Camera dei deputati nel 1979 (poi confermata per altre due legislature).

Nilde Jotti

Certamente questo è potuto avvenire, non senza perseveranza e fatica, nel contesto delle democrazie di tipo occidentale, all’interno delle quali solamente si può realizzare una vera emancipazione politica e sociale delle donne. E basta pensare, a confronto, al regime teocratico iraniano, che in questi giorni fronteggia con la violenza innumerevoli manifestazioni, pacifiche quanto coraggiose, contro la cosiddetta apartheid di genere e per la fine del regime dei mullah. Se è apprezzabile il riconoscimento da parte del nuovo Presidente del Consiglio del ruolo delle donne italiane nella storia del nostro Paese, manca invece un riferimento all’attuale disparità di genere nella società italiana. Ancora oggi in Italia il divario fra donne e uomini nei tassi di occupazione rimane tra i più alti di Europa: circa 18 punti percentuali su una media europea di 10; come giustamente ricordava Draghi, quando, all’insediamento del suo governo, tra le priorità del suo programma propose la mobilitazione di tutte le energie della società italiana per il rilancio dell’economia nazionale, a partire dal coinvolgimento delle donne. Una vera parità di genere però non significava, secondo Draghi, un farisaico rispetto di quote rosa richieste dalla legge: richiedeva che venissero garantite parità di condizioni competitive tra generi, valorizzando il criterio del merito, a partire da una rigorosa formazione culturale, professionale e politica.

In questi giorni, sul merito è riemerso un dibattito molto acceso, dopo che alla denominazione del Ministero dell’Istruzione è stata aggiunta per l’appunto l’espressione “e del merito”, inteso dai contrari come inestricabilmente legato al privilegio sociale. Dimenticando che l’art. 34 della Costituzione recita: “I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. I talenti vanno valorizzati, quali che siano, non solo nella scuola, ma anche nel campo del lavoro, nelle imprese, nelle professioni, nello sport; e bisognerebbe parlare del merito in termini di emancipazione collettiva: l’obiettivo non è il singolo, ma la crescita della società, grazie a interventi che, favorendolo, possano avere un impatto significativo sulla maggioranza delle persone. Lo comprese bene, verso la fine degli anni ’80, Claudio Martelli, esponente di primo piano del partito socialista, quando lanciò un ambizioso progetto politico di uscita da una visione classista della società, sintetizzato nella diade “Meriti e bisogni”. L’idea era quella di lasciarsi alle spalle obsolete ideologie anticapitalistiche, per dare vita a “un’alleanza riformatrice tra coloro che possono agire mettendo a frutto i propri talenti e coloro che devono agire per uscire dall’emarginazione, dando così nuovo vigore alla tradizione del socialismo riformista di Turati e della Kuliscioff.

Sergio Casprini

Filippo Turati

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Archiviato in:Editoriale

La Democrazia e l’emancipazione politica delle donne

01/10/2022 da Sergio Casprini

In Iran dopo la morte della ventiduenne curda Mahsa Amini, arrestata dalla polizia morale perché indossava il velo in maniera inappropriata, la repressione violenta non ferma la protesta delle donne iraniane, che si sta trasformando in una sfida sempre più radicale al regime degli ayatollah. Dopo dodici giorni di manifestazioni gli arresti sarebbero 3000 e i morti oltre 70.

“Donne, vita, libertà” è lo slogan scandito dalla folla nelle piazze e nelle strade, mentre le donne sventolano i loro hijab e li bruciano in falò improvvisati sotto il naso della polizia in assetto antisommossa, che ha sparato proiettili di gomma e proiettili veri, usato i manganelli e scatenato i cannoni ad acqua. Le proteste, le più violente degli ultimi tre anni, sono cresciute di intensità dopo l’uccisione, domenica 25 settembre, di Hadith Najafi, la “ragazza con la coda”. E il taglio dei capelli delle donne in pubblico, tradizionalmente un forte segno di protesta, è una delle immagini simbolo di questa rivolta, e dimostra la risolutezza delle donne, il coraggio di chi non ha più niente da perdere.

Sabato 24 settembre anche la comunità iraniana di Firenze si è riunita in piazza Sant’Ambrogio per rivendicare i diritti delle loro famiglie e dei loro connazionali. Medici, professionisti, artisti, atleti e lavoratori del turismo sventolavano anche loro come in Iran cartelli con lo slogan donna, vita, libertà. Sul sagrato della chiesa mostravano i volti delle vittime mentre scandivano a gran voce Bella Ciao: una manifestazione di protesta senza alcun intervento repressivo delle forze dell’ordine, tantomeno quello di una illiberale “Polizia morale”, a conferma che solo nella cultura occidentale esiste la democrazia e quindi la libertà degli uomini e delle donne di lottare per le proprie idee.

Va pure detto, però, che al momento in Europa e in America non c’è un forte sostegno delle istituzioni e della società civile alla lotta delle donne iraniane. Da tempo l’Occidente ha smesso di combattere con convinzione per i suoi valori; e al suo interno si è sviluppata la cosiddetta Cancel Culture, che demonizza la sua storia, la sua cultura, la sua civiltà e distrugge i monumenti del suo passato. Il perdurante senso di colpa per il suo passato colonialista e imperialista gli impedisce di contrastare con forza le ideologie illiberali, totalitarie e teocratiche presenti nel resto del mondo, a partire da molti paesi islamici.

Lo stesso sta avvenendo anche in Italia, Paese di forte tradizione democratica a partire dal Risorgimento e dalla Resistenza al nazifascismo: gli studenti che occupano il liceo Manzoni di Milano non solo contro le pratiche di scuola e lavoro, ma anche e assurdamente contro la vittoria elettorale della destra,  avrebbero potuto invece far sentire forte la loro voce per il ritiro dell’ambasciatore italiano a Teheran. Tra l’altro il vero vulnus alla democrazia di queste elezioni italiane è stata l’altissima percentuale di cittadini che non hanno votato, tra cui sicuramente molti giovani. È l’indice di una progressiva disaffezione alla vita politico-sociale del nostro Paese e del venir meno di quel senso civico, che è necessario alla coesione istituzionale e morale della nazione, soprattutto in tempi drammatici come gli attuali. Va invece colta in maniera positiva la novità politica della vittoria elettorale di una donna, sicura premier del prossimo governo italiano, un evento che avvicina il nostro Paese al resto dell’Europa, in cui da anni donne di destra e di sinistra governano i loro Paesi e le Istituzioni europee.

Anna Kuliscioff

È il risultato di un lungo processo di emancipazione femminile, nato negli anni del nostro Risorgimento. Va ricordata tra le altre la figura della socialista Anna Kuliscioff, che si batté per il voto alle donne agli inizi del secolo scorso, obiettivo finalmente raggiunto nel 1946, a cui è seguita una crescente partecipazione alla politica delle donne con l’assunzione anche di rilevanti ruoli istituzionali. Se poi il nuovo governo presieduto da una donna non fosse all’altezza dei compiti che le spettano in questo difficile momento politico-economico e anzi promuovesse leggi illiberali, allora gli studenti sarebbero legittimati a protestare: i valori della democrazia e della libertà vanno sempre difesi, ovviamente a prescindere dal fatto che il capo del governo sia un uomo o una donna.

Sergio Casprini 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Archiviato in:Editoriale

L’Italia è alla canna del gas?

01/09/2022 da Sergio Casprini

In agosto il prezzo del gas ha continuato a crescere in tutta Europa, soprattutto a causa della guerra in Ucraina. Quello che si teme di più, e che già sta avvenendo, sono le ripercussioni dei costi per il gas su quelli dell’elettricità. In Italia l’energia elettrica nei giorni scorsi ha toccato un massimo di 870 euro a megawattora, 200 in più rispetto alla settimana precedente. Le imprese hanno visto i costi delle bollette aumentare di più del doppio e di conseguenza molte sono costrette a lavorare a regime ridotto; e la Confindustria parla già del rischio di chiusura per ben 90.000 aziende. Ovviamente gli aumenti di gas, elettricità, benzina e di non pochi beni di consumo si ripercuotono pesantemente sui bilanci delle famiglie. Tutto questo potrebbe provocare gravi danni all’economia e al tenore di vita degli italiani.

Il premier Draghi mantiene fermo il sostegno all’indipendenza dell’Ucraina, ma nello stesso tempo affronta la questione del gas sul duplice binario di una politica comune europea e del reperimento a livello nazionale di fornitori alternativi alla Russia per l’approvvigionamento di gas. Tra le altre leve a cui dobbiamo ricorrere per fronteggiare questa crisi, ce ne sono due che chiamano più direttamente in causa il senso di responsabilità dei cittadini: i nuovi rigassificatori, che li riguardano come comunità locali; e il risparmio energetico, per cui tutti siamo chiamati a dare il nostro contributo come singoli o come famiglie. Mentre la città di Ravenna ha accettato di ospitare uno dei due impianti di rigassificazione, sia pure dietro garanzie relative alla sicurezza e al possibile inquinamento, nell’altra sede, Piombino, la comunità locale guidata dal sindaco ha fortemente protestato secondo il modello Nimby (Not In My Back Yard), nonostante che il Ministro della Transizione ecologica abbia  assicurato che l’impatto sul porto non farà danni alle altre attività né all’ambiente. D’altro canto la scelta del luogo è vincolata ai punti di connessione alla rete nazionale del gas e i margini per valutare alternative non esistono. Si ripetono quindi i riflessi condizionati che hanno portato a   bloccare via referendum le trivellazioni nell’Adriatico, alla grottesca battaglia contro la Tap in Puglia e all’opposizione in corso contro il termovalorizzatore in una Roma sommersa dai rifiuti.

Coinvolge invece ciascuno di noi per i prossimi mesi invernali la strategia di contenimento dei consumi e il conseguente risparmio energetico che il governo sta mettendo a punto. Tra le misure attuabili: posticipare l’accensione dei termosifoni, anticipare lo spegnimento, abbassare di un grado la temperatura nelle abitazioni e negli uffici privati e pubblici, estendere a tutte le scuole la settimana corta. Il razionamento dopo gli anni del lockdown contro il Covid sarà pertanto un’altra importante esperienza comunitaria in un paese individualista come il nostro, in cui gli interessi nazionali dovranno necessariamente prevalere sugli interessi di cortile e di fazione politica o sociale. Molti opinionisti hanno definito l’esperienza del dimissionario governo Draghi come la stagione dei doveri. Quale che sia il governo che uscirà dalle urne il prossimo 25 settembre, si dovrà proseguire nella politica di responsabilità nazionale, se vogliamo ridurre i danni di questa grave emergenza economica e sociale, come d’altronde è già avvenuto in altri drammatici momenti nella storia d’Italia.

Sergio Casprini

 

 

Archiviato in:Editoriale

La calda estate del Presidente Draghi

01/08/2022 da Sergio Casprini

…L’Italia è forte quando sa essere unita. Ed è stata forte soprattutto in questi tempi drammatici, dalla pandemia alla guerra in Ucraina, grazie a una ritrovata credibilità collettiva: dai partiti in parlamento che hanno dato la disponibilità a mettere da parte le differenze e lavorare per il bene del Paese, con pari dignità, nel rispetto reciproco, agli italiani che hanno sostenuto questo miracolo civile e sono stati protagonisti delle misure che mettevamo in campo. Mai come in questi momenti sono stato orgoglioso di essere italiano.

In questa parte del suo intervento al Senato il 20 luglio scorso, Mario Draghi aveva rivendicato i buoni risultati del suo governo a livello nazionale e internazionale, ottenuti grazie anche al circolo virtuoso tra istituzioni e cittadini in una ritrovata credibilità del nostro Paese nel mondo.

La Costituzione italiana prevede però che il capo del governo debba godere della fiducia del Parlamento, non solo del consenso dei cittadini; e quando ciò non accade, come ha scritto l’opinionista del New York Times Christopher Caldwell “anche un premier capace e responsabile come Draghi è costretto alle dimissioni, senza che ciò venga interpretato come un vulnus alla democrazia”. La chiusura anticipata della legislatura pone però il problema, nato già dai tempi dell’Unità d’Italia con la monarchia e non risolto purtroppo con la nascita della Repubblica italiana, della stabilità di governi autorevoli. Dal 1946, la Repubblica ha visto alternarsi ben 67 governi (quasi uno all’anno!), presieduti da 30 primi ministri: un confronto impietoso con la tenuta di altri governi democratici europei.

Negli ultimi anni, poi, con la crisi dei partiti tradizionali, nata soprattutto dal tramonto delle ideologie ottocentesche e dai fenomeni economici e sociali legati alla globalizzazione, le attuali forze politiche in buona parte hanno perso uno stabile radicamento sociale e spesso sono movimenti d’opinione legati alla figura di un leader carismatico che puntano troppo sulla visibilità mediatica e poco sulla loro consistenza politico-culturale. Rischiano così di godere di effimeri successi seguiti da repentini tracolli, come se fossero lo specchio di una società definita felicemente “fluida” dal sociologo Baumann. L’attuale classe politica, priva dello spessore  dei partiti del secolo scorso, rinchiusa nel suo particolare, cioè nella salvaguardia dei propri interessi “di bottega”, si caratterizza spesso per valutazioni partigiane, furbizie propagandistiche, visioni politiche anguste e proposte demagogiche, mentre perde di vista gli interessi nazionali e mina la credibilità del nostro Paese.

Eppure le severe denunce sui limiti e le contraddizioni dell’identità italiana sono parte essenziale della nostra storia letteraria, da Dante a Machiavelli e Guicciardini, da Leopardi a Manzoni e Carducci, da D’Azeglio a Croce, da Gobetti a Gramsci. Il risultato è di vivere in un Paese senza programmi, senza competenze, senza la capacità di comprendersi per riuscire a cambiare. In questa calda estate, Mario Draghi ha lavorato di concerto con il Quirinale per la stabilità delle istituzioni e del Paese, perché prevalesse il senso di responsabilità in tempi di emergenza economica, sanitaria e internazionale con la guerra in Ucraina, richiamando tutti, forze politiche e cittadini, ai doveri e all’interesse generale.

E soprattutto a questi doveri devono guardare tutti i partiti per la prossima scadenza elettorale del 25 settembre, perché il nostro Paese possa guardare con fiducia all’avvenire, con un forte richiamo a un padre del nostro Risorgimento come Mazzini, che nei suoi scritti richiamava gli italiani al dovere di servire la Patria. Verrebbe quindi da dire, parafrasando Croce, che in questo momento difficile per l’Italia “non possiamo non dirci mazziniani”.

 Mazzini Adriano Cecioni  Museo Firenze Capitale Palazzo Vecchio Firenze

 

 

 

 

Archiviato in:Editoriale

GIUSEPPE GARIBALDI

01/07/2022 da Sergio Casprini

Silvestro Lega Ritratto  di Giuseppe Garibaldi 1861

L’uomo il quale difende la sua patria o che attacca l’altrui paese non è che un soldato pietoso nella prima ipotesi – ingiusto nella seconda — ma l’uomo, il quale, facendosi cosmopolita, adotta la seconda per patria, e va ad offrire la spada ed il sangue ad ogni popolo che lotta contro la tirannia è più d’un soldato: è un eroe. Le memorie di Garibaldi di Alexandre Dumas. 

Affresco al Campidoglio di Washington nella Sala dell’Indipendenza
Sottoscrizione della Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America, Philadelphia 4 luglio 1776

 

Il 4 luglio è il giorno dell’Indipendenza degli Stati Uniti, una festa nazionale, che celebra l’adozione della Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America, con la quale nel 1776  tredici colonie inglesi si distaccarono dal Regno di Gran Bretagna. Il 4 luglio è anche il giorno, in cui nel 1807 nasceva a Nizza Giuseppe Garibaldi. Se si ripercorre la storia della sua vita intensa e avventurosa – durante la quale combatté, come ricordava Dumas, per la libertà dei popoli contro gli oppressori – non si può fare a meno di cogliere la convergenza simbolica della sua data di nascita con la data di nascita della libertà degli Stati Uniti.

Garibaldi arrivò la prima volta nell’America del Nord nell’estate del 1850, quando dovette allontanarsi dall’Italia dopo la difesa eroica e la sconfitta della Repubblica Romana e l’ancor più drammatica vicenda della fuga da Roma con Anita, conclusasi con la morte della sua amata compagna nelle paludi delle valli di Comacchio il 4 agosto del 1849. Si stabilì a New York e visse come operaio in una piccola fabbrica di candele creata a Staten Island dal suo compatriota Antonio Meucci. Successivamente fu nell’America centrale; e ritornò a New York nell’autunno del 1853, per ripartirne per l’Europa ai primi di gennaio dell’anno seguente al comando di una nave diretta in Inghilterra e a Genova. Ebbe modo così di conoscere, sia pur vivendo in condizioni disagiate, una nazione appena nata, che con luci e ombre come in tutti i processi storici si stava affermando come un Paese moderno e democratico sul piano sociale, economico e politico.

Abramo Lincoln

L’occasione per Garibaldi di dare agli Stati Uniti un aiuto più significativo sul piano militare si presentò nel 1861 allo scoppio della Guerra di Secessione, quando si schierò dalla parte dei Nordisti. Certa­men­te ave­re Ga­ri­bal­di sa­reb­be sta­to un vero suc­ces­so per i nor­di­sti; co­no­sciu­tis­si­mo ol­tre ocea­no e ap­prez­za­to per le sue doti di co­man­dan­te, soprattutto dopo la vittoriosa impresa dei Mille, avreb­be cer­to ri­vi­ta­liz­za­to l’u­mo­re dei sol­da­ti nor­di­sti che pro­prio in quei pri­mi mesi di guer­ra non ave­va­no ot­te­nu­ti an­co­ra suc­ces­si sui cam­pi di battaglia. Lin­coln stes­so, da poco rie­let­to alla pre­si­den­za, lan­ciò un pub­bli­co ap­pel­lo in­vi­tan­do “l’E­roe del­la li­ber­tà di pre­sta­re la po­ten­za del suo nome, il suo ge­nio e la sua spa­da alla cau­sa del­la Re­pub­bli­ca stel­la­ta”, a di­mo­stra­zio­ne ­del­la gran­de po­po­la­ri­tà di Ga­ri­bal­di nel con­ti­nen­te ame­ri­ca­no, dove era an­co­ra viva la me­mo­ria del­le sue bat­ta­glie com­bat­tu­te per anni in Su­da­me­ri­ca per l’in­di­pen­den­za del Rio Gran­de do Sul con­tro il Bra­si­le e del­l’U­ru­guay con­tro l’Ar­gen­ti­na. La partecipazione però a questa ennesima impresa in terra straniera non andò a buon fine in quanto, come scrive lo storico Arrigo Petacco, “Garibaldi era pronto ad accettare all’inizio del 1862 l’offerta di Lincoln, ma a una condizione; che cioè l’obiettivo della guerra dichiarato fosse l’abolizione della schiavitù. Ma in quel particolare momento il presidente non era ancora disposto a fare una simile affermazione, perché credeva che ciò avrebbe potuto solo peggiorare la già seria crisi agricola.” E quindi, pur con rispetto, declinò l’offerta di Lincoln.

La popolarità di Garibaldi nel mondo anglosassone fu confermata negli stessi anni quando fece un viaggio in Inghilterra dopo i fatti drammatici di Aspromonte del 29 agosto 1862, in cui fu ferito dai militari italiani mentre con i suoi volontari cercava di raggiungere Roma per liberarla dal potere pontificio.

Dai giornali inglesi: La nave giunse al porto di Southampton alle quattro del pomeriggio del 3 aprile 1864. Era domenica, faceva freddo e pioveva. Una folla enorme tuttavia lo stava attendendo fin dalla mattina. Si trattava di gente comune, immigrati italiani, operai, nobili, esuli di molti paesi. Quando lo videro ritto in piedi sulla nave intento a salutarli, andarono letteralmente in delirio. L’eroe, il messia laico, il comandante intrepido era vestito come suo solito con stivali, casacca rossa sotto un mantello grigio e l’immancabile sciarpa rossa. Al gesto della sua mano, quasi benedicente, la folla rispose gridando il suo nome e “viva l’Italia”. Era giunto il liberatore dei popoli, l’eroe di tante battaglie a favore della povera gente, l’incarnazione degli ideali di libertà e di giustizia, conosciuto, amato e invocato in tutto il mondo… e poi, arrivò il giorno della partenza per Londra. Nella capitale una folla mai vista prima, secondo l’Illustrated London News lo attendevano oltre 500.000 persone, riempiva tutta Trafalgar Square. I giornali parlarono della più grande manifestazione della storia inglese.

Garibaldi  a Trafalgar Square

La popolarità di Garibaldi non nasce solo dal suo coraggio di combattente per la libertà dei popoli, ma anche dal suo disinteresse per il successo mondano e per gli agi materiali: ideali di una vita sobria e dignitosa. All’indomani dello storico incontro di Teano, dopo aver consegnato a Vittorio Emanuele un regno di nove milioni di abitanti, Garibaldi fece ritorno a Caprera, la sua piccola patria ideale, con un sacco di sementi, tre cavalli e una balla di stoccafisso.

Sfortunato quel popolo che ha bisogno di eroi” è il famoso ammonimento di Bertold Brecht, rivelatore di una visione utopica, ma anche ideologica, di un’umanità liberata per sempre da guerre e oppressioni. Un auspicio che non fa i conti con la storia degli uomini, che è fatta anche di lacrime e sangue e del sacrificio eroico di chi combatte per una causa giusta. Il Risorgimento italiano è stato uno di questi momenti storici e di tanti suoi protagonisti serbiamo un reverente ricordo. E tra questi spicca Giuseppe Garibaldi, che resta anche per l’oggi un fulgido esempio per le nuove generazioni, smarrite in tempi di crisi, di pandemie, di guerre e di disastri ambientali.

Durante la guerra franco-prussiana i Tedeschi occuparono Digione il 29 ottobre 1870. In soccorso della repubblica francese soccombente – Napoleone III era stato fatto prigioniero, l’Impero era caduto ed era nata una Repubblica – l’armata garibaldina dei Vosgi condotta da Garibaldi, ormai arrivato all’età di 63 anni, riuscì a liberare la città; e fu l’unica vittoria per i francesi in una campagna militare disastrosa. Certamente oggi Giuseppe Garibaldi con i suoi volontari sarebbe a fianco degli ucraini per l’indipendenza del loro Paese, coerentemente con l’impegno di offrire la spada ed il sangue ad ogni popolo che lotta contro la tirannia.

Sergio Casprini

Garibaldi a Digione

 

 

 

 

 

 

 

Archiviato in:Editoriale

I referendum strumenti di partecipazione democratica

01/06/2022 da Sergio Casprini

 

 Il 2 giugno 2022 si celebrano i 76 anni della Repubblica italiana, nata con il referendum istituzionale del 1946. Gli italiani, e per la prima volta le italiane, convocati alle urne anche per eleggere i deputati dell’Assemblea costituente, erano chiamati a partecipare alla fondazione di un’idea di cittadinanza repubblicana che trovò nella Costituzione una delle sue massime espressioni. L’affluenza al voto fu altissima. Nel 1946 gli aventi diritto al voto erano 28 milioni, i votanti furono quasi 25 milioni, pari all’ 89,08%. Il 54,27% dei voti validi fu a favore della Repubblica, il 45,73% a favore della Monarchia.

Negli anni della realizzazione dell’Unità italiana si tennero analoghe consultazioni popolari, i plebisciti, promossi per ratificare l’annessione di territori o regioni al Regno d’Italia. L’11 e il 12 marzo 1860, all’indomani della Seconda Guerra di Indipendenza, si votò in Toscana e in Emilia Romagna; il 21 ottobre 1861, dopo l’impresa dei Mille, fu la volta di Marche, Umbria e Regno delle due Sicilie; il 21 e il 22 ottobre 1866 il Veneto votò per unirsi all’Italia dopo la Terza guerra d’Indipendenza; il 2 ottobre 1870 a Roma e nel Lazio fu sancita la loro appartenenza al Regno d’Italia. Tutte queste consultazioni videro un’alta partecipazione al voto.

Il referendum come strumento di partecipazione democratica fu inserito nella Costituzione della Repubblica Italiana, che nell’articolo 75 fissa modalità e limiti per le consultazioni referendarie. Com’è noto, con questo strumento si può abrogare un’intera legge o una sua parte, se lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. Il risultato non è valido se non ha votato la metà più uno degli elettori. Non si possono sottoporre a referendum le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e indulto, di autorizzazione a ratificare i trattati internazionali. Il testo costituzionale prevede anche un altro tipo di referendum oltre a quello abrogativo, quello confermativo delle modifiche alla Costituzione (l’ultimo si è tenuto nel dicembre del 2016).

Dopo il referendum del 2 giugno 1946, dal punto di vista della partecipazione e dell’acceso dibattito che precedette il voto, furono particolarmente significativi il referendum sulla legge del divorzio del 1974 e quello del 1981 sulla legge che permetteva e regolamentava l’aborto. Si trattava infatti di temi che toccavano profondamente la coscienza politica e religiosa di ogni cittadino.

Nel corso degli anni l’appeal dei referendum abrogativi come strumento di partecipazione si è progressivamente consumato, fino al fallimento di alcuni significativi referendum, in cui non è stato raggiunto il quorum dei votanti. E il prossimo appuntamento referendario del 12 giugno sulla giustizia rischia di fare la stessa fine. Quali le ragioni di questa disaffezione popolare ai referendum? Certamente ci sono materie più facilmente comprensibili e più vicine all’esperienza dei cittadini e altre più complesse che possono sembrare meno importanti anche perché meno conosciute. Forse il trend negativo della partecipazione al voto è dovuto anche alla crescita negli ultimi anni e non solo in Italia dell’astensionismo di massa alle scadenze elettorali, fondamentali per gli stati democratici, quelle appunto politiche e amministrative. Soprattutto però è venuto meno l’apporto delle forze politiche più rappresentative, che coglievano nel passato il valore positivo per la democrazia in Italia delle consultazioni referendarie, anche quando venivano proposte da forze minoritarie, come il partito radicale e quello socialista. Inoltre, spesso le materie referendarie vengono viste da quasi tutti i partiti come proposte poco popolari e anche come una minaccia all’autonomia decisionale del Parlamento. Ma un fattore fondamentale (del resto legato alle resistenze dei partiti) è stato quasi sempre la scarsità di informazione e di dibattito sui contenuti dei referendum. Anche quest’anno, a pochi giorni dalla consultazione referendaria del 12 giugno su problemi legati alla giustizia, temi fondamentali per un Paese civile e democratico come il nostro, l’informazione è carente nelle trasmissioni televisive o è relegata nelle pagine interne dei giornali senza alcun risalto nelle prime pagine. Sui social è quasi del tutto assente. Eppure, come ripeteva spesso Luigi Einaudi, è necessario “conoscere per deliberare”.

Oggi si parla molto di crisi della democrazia in Europa, sia per l’aggressione militare di un paese autoritario come la Russia nei confronti di una nazione democratica come l’Ucraina, sia per la messa in discussione delle radici culturali e della memoria storica della cultura occidentale da parte del movimento sempre più aggressivo della Cancel Culture.

Pertanto è necessario senza indugi rafforzare la coscienza politica e civile dei cittadini, promuovendo la serietà e la qualità della scuola, sottolineando il valore della partecipazione attiva alla Res publica e promuovendo tutte le occasioni di confronto tra soggetti liberi che possano sottoporre al vaglio reciproco le loro idee-opinioni.  Dunque la partecipazione, non certo il boicottaggio, a una consultazione referendaria è una di queste occasioni e non va lasciata cadere, pena l’indebolimento della nostra democrazia per cui hanno lottato e sacrificato la loro vita gli uomini  e le donne del Risorgimento e quelli che si batterono contro il fascismo, lotte culminate rispettivamente nei plebisciti dell’Ottocento e nel referendum del 2 giugno del 1946. 

 

 

 

Archiviato in:Editoriale

1° MAGGIO. La Festa del Lavoro

01/05/2022 da Sergio Casprini

Il Quarto Stato Giuseppe Pellizza da Volpedo 1898/1901 ( dettaglio)

Il 1° maggio del 1886 una grande manifestazione operaia si svolse a Chicago all’inizio di uno sciopero generale per portare l’orario di lavoro a otto ore.

Nei giorni seguenti si ebbero altre manifestazioni, in alcune delle quali la polizia sparò facendo numerose vittime. Ci furono arresti e condanne a morte. Il 20 luglio 1889, a Parigi, il Congresso della Seconda Internazionale decise che per ricordare quei fatti ogni Primo Maggio in tutto il mondo i lavoratori avrebbero manifestato chiedendo di ridurre per legge la giornata lavorativa a otto ore e di mandare a effetto altre risoluzioni approvate dal Congresso di Parigi. Nasce così la Festa del Lavoro, come festa internazionale, con manifestazioni e spettacoli in tutte le città e paesi del mondo. Dopo due anni anche in Italia fu celebrato il Primo Maggio, come riconoscimento delle battaglie dei lavoratori italiani nei primi decenni dell’Unità nazionale.
Dalla fine dell’Ottocento fino all’avvento della globalizzazione economica, con la conseguente trasformazione del mondo dell’impresa e dei servizi, c’è stata una progressiva affermazione dei diritti dei lavoratori, nonostante le battute d’arresto con il Fascismo e le vicende drammatiche delle guerre mondiali.
La conquista più significativa delle rivendicazioni sindacali è stata l’approvazione della legge del 20 maggio del 1970, lo Statuto dei Lavoratori, che reca appunto “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”. Si tratta di un corpo normativo fondamentale del diritto del lavoro che, parzialmente modificato e integrato nel corso di questi decenni, ancora oggi costituisce la disciplina di riferimento per i rapporti tra lavoratore e impresa.

Oggi però questi rapporti, in una società postindustriale, sono resi più complessi per la diffusione delle tecnologie digitali, per le nuove caratteristiche del mercato del lavoro e per la delocalizzazione delle imprese. Inoltre, nonostante l’innegabile progresso delle condizioni di vita degli italiani rispetto all’Ottocento, è oggi alta la disoccupazione giovanile e non vige ancora pienamente la parità tra uomo e donna nei luoghi di lavoro.
Ciò non significa comunque riproporre oggi una visione egualitaria di tipo ideologico come nelle rivendicazioni sindacali degli anni ’70, centrata esclusivamente sui diritti dei dipendenti pubblici e privati. Anzi, una battaglia sulla dignità e la qualità del lavoro deve essere centrata anche sul merito e sulla responsabilità, sui doveri oltre che sui diritti. Giuseppe Mazzini, di cui quest’anno ricorre il centenario della morte e al quale la nostra nazione riconosce d’esser stato uno degli artefici della nostra Unità, metteva addirittura i doveri prima dei diritti; e infatti tra il 1840 e il 1860 scrisse I Doveri dell’Uomo, dedicato agli operai italiani, che può essere considerato il suo testamento spirituale.
Vi si legge: “La libertà non esiste senza uguaglianza, ma non esistono né uguaglianza né libertà senza una profonda coscienza dei doveri a cui tutti siamo chiamati.”

Con queste finalità, il 24 febbraio del 1861 promosse la fondazione della Fratellanza Artigiana d’Italia, con sede nazionale a Firenze. La Fratellanza si affermò immediatamente come la più importante associazione operaia nel panorama nazionale, sia per numero di iscritti, sia per ambizioni politiche. Le finalità statutarie riflettevano gli intenti politici di formare una grande associazione nazionale, la prima che desse visibilità al mondo del lavoro, superando il localismo e la frammentazione delle associazioni fiorentine e italiane costituite negli stessi anni.
Sono gli stessi anni in cui si realizza il processo di unificazione del nostro Paese, in cui i valori di Libertà e Indipendenza si sostanziano solo in un contesto di democrazia politica, economica e sociale. E infatti oggi solo nelle nazioni democratiche, dove vigono la libertà di parola e il pluralismo delle idee, ha ancora un forte significato simbolico celebrare il 1° MAGGIO. La Festa del Lavoro.

Sergio Casprini
. 

 

 

 

Archiviato in:Editoriale

  • Vai alla pagina 1
  • Vai alla pagina 2
  • Vai alla pagina 3
  • Pagine interim omesse …
  • Vai alla pagina 15
  • Vai alla pagina successiva »

Barra laterale primaria

il Comitato Fiorentino per il Risorgimento
è associato al Coordinamento nazionale Associazioni Risorgimentali FERRUCCIO

L’editoriale del direttore

La sempiterna questione meridionale

Video

Ubaldino Peruzzi Sindaco, il video integrale del Convegno

Prossimi appuntamenti

“Mazzini in Ucraina” alle Oblate di Firenze

25/01/2023

Lettere al Direttore

La coscienza ecologica tra passato e presente

07/12/2022

Focus

È GIUSTO CHE DANTE RIPOSI A RAVENNA

23/12/2022

Tribuna

Il PASSATORE, mito della Romagna

26/12/2022

Luoghi

LA FORTEZZA DEL RISORGIMENTO A BRESCIA

23/01/2023

Mostre

ST. JAVELIN

17/01/2023

Rassegna stampa

L’ERRORE DI SALVEMINI

27/01/2023

Pubblicazioni

I Garibaldi dopo Garibaldi

20/12/2022

RisorgimentoFirenze.it nella tua mail

E' possibile ricevere un messaggio e-mail ad ogni nuova pubblicazione sul nostro sito.
Basta inserire il proprio indirizzo di posta elettronica nella casella sottostante. Il servizio è gratuito e può essere interrotto in ogni momento.

Unisciti a 87 altri iscritti

Footer

Archivio articoli

Archivio rubriche

Area amministrativa

  • Accedi
  • Feed dei contenuti
  • Feed dei commenti
  • WordPress.org

Blogroll

  • Arte del Poggio
  • Comitato livornese per la promozione dei valori risorgimentali
  • PensaLibero.it, quotidiano on line dei laici e dei liberali della Toscana.
  • Risorgimento Toscana
  • Sito ufficiale delle celebrazioni per il 150° anniversario

Direttore Sergio Casprini | Responsabile della Comunicazione Irene Foraboschi | Webmaster Claudio Tirinnanzi

 

Caricamento commenti...