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Risorgimento Firenze

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Editoriale

Calendimaggio

01/05/2023 da Sergio Casprini

Ponte Santa Trinita – Statua della Primavera – Pietro Francavilla 1560

Calendimàggio (o calèn di màggio): primo giorno di maggio, soprattutto come festa del risveglio della natura celebrata e ricordata in tutto il folclore europeo con manifestazioni e riti varî (in uno dei più comuni si usa appendere un ramoscello verde dinanzi alla porta della fanciulla amata o di fanciulle cui si vuol rendere omaggio).  Vocabolario Treccani

Il Calendimaggio era una tradizione presente in molte regioni d’Italia come festa del ritorno alla vita e della rinascita: fra queste il Piemonte, la Liguria, la Lombardia, il Veneto, l’Emilia-Romagna, la Toscana, l’Umbria, Le Marche, L’Abruzzo e il Molise. La funzione magico-propiziatoria di questo rito era spesso svolta durante una questua durante la quale, in cambio di doni (tradizionalmente uova, vino, cibo o dolci), i maggianti (o maggerini) cantavano strofe benauguranti agli abitanti delle case che visitavano.

Francesco Pesellino Il trionfo di Amore, Castità, e Morte 1450

Si tratta di una celebrazione che si perde nel tempo e si riallaccia a consuetudini pagane, poi cristiane, nel Medioevo e nel Rinascimento, in cui con riti diversi si festeggiava il ritorno della primavera, il rinnovarsi del ciclo della natura, la stagione dell’amore e del risveglio della terra. Col tempo questa tradizione si è affievolita, soprattutto a partire dall’Ottocento, quando il movimento socialista trasformò questa ricorrenza nella Festa dei Lavoratori, con uno spiccato carattere di protesta sociale soprattutto nelle città, sedi delle fabbriche e del crescente ruolo politico della classe operaia. Nel mondo contadino, infatti, Calendimaggio non era mai stato un’occasione di rivendicazioni da parte del mondo contadino. Anzi, le feste, i canti, i corteggiamenti ne facevano giorni di spensieratezza e di gioia che compensavano in qualche misura il duro lavoro nei campi, che si svolgesse nei latifondi Meridionali, nei poderi a mezzadria in Toscana o nelle aziende più evolute della Valle Padana.

 Negli anni del Risorgimento si consuma il divorzio politico tra i ceti popolari urbani, con gli operai e gli artigiani coinvolti nelle rivendicazioni di carattere nazionale e democratico (a cominciare dal periodo della Repubblica Cisalpina), e i ceti rurali nelle campagne, propensi invece a difendere i vincoli tradizionali di proprietà (si pensi al movimento sanfedista a Napoli nel 1799 o al massacro dei patrioti guidati da Pisacane a Sapri nel 1857). E le sporadiche rivolte, come quella dei contadini di Bronte in Sicilia durante l’impresa dei Mille, non mutano il giudizio storico su un mondo, quello della campagna, subalterno socialmente e culturalmente ai proprietari terrieri e soprattutto alla Chiesa cattolica; motivo per cui non è stata possibile l’acquisizione di una coscienza di classe, come nella società più secolarizzata delle città.

E anche nella Grande Guerra, nonostante che la maggior parte dei soldati nelle trincee fossero contadini strappati loro malgrado alla terra e morissero in gran numero o tornassero nelle loro case inabili al lavoro, solo una minoranza colse il valore del proprio sacrificio in senso patriottico per Trento e Trieste italiane. Il fascismo poi, soprattutto al Nord, represse i primi tentativi di organizzazione sindacale nelle campagne da parte cattolica con le leghe bianche e in misura minore da parte socialista con le leghe rosse. La questione contadina, strettamente intrecciata con la questione meridionale (nel Sud sono state sempre più marcate le condizioni di sfruttamento del bracciantato agricolo) è stata un nodo a lungo irrisolto nell’Italia postunitaria. 

Oggi però assistiamo a un’inversione di tendenza rispetto alle condizioni di arretratezza del mondo agricolo nei secoli scorsi, in quanto i problemi inerenti al processo di globalizzazione e le alterazioni del clima hanno anche favorito paradossalmente l’esigenza di salvaguardare l’economia delle singole nazioni con l’applicazione del Green New Deal, un programma a livello europeo di interventi per l’aumento della sostenibilità ambientale, dell’efficientamento energetico e dell’innovazione tecnologica in tutti i settori produttivi dalle città alle campagne con una occupazione qualificata e nel rispetto di norme contrattuali certe.

Proprio in questi giorni in vista delle operazioni tardo primaverili ed estive nelle campagne, la Confagricoltura ha chiesto che vengano aumentate fino a centomila lavoratori le quote d’ingresso legali per i migranti, garantendo così la possibilità di una loro effettiva integrazione nel nostro Paese. Inoltre, va pure considerato che negli ultimi anni il progressivo miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro nelle campagne e la rinascita dei borghi come per esempio in Toscana, nella salvaguardia delle colture tradizionali e con il supporto dell’innovazione tecnologica, potrebbero essere una soluzione alla disoccupazione giovanile, privilegiando in particolare il modello della gestione cooperativistica.

Potrebbe formarsi allora col tempo nelle campagne una forte identità professionale, accanto ai giovani italiani, di giovani stranieri consapevoli dei loro diritti e dei loro doveri, pienamente inseriti nella nazione, in cui vivono e lavorano, in una felice ricomposizione sia politica che culturale tra società cittadina e rurale.

Sergio Casprini

Toscana. Il borgo di Peccioli e la sua campagna

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I migranti in Italia, un’emergenza nazionale

01/04/2023 da Sergio Casprini

A Voi uomini nati in Italia, Dio assegnava, quasi prediligendovi, la Patria meglio definita d’Europa. In altre terre segnate con limiti più incerti o interrotti, possono insorgere questioni… sulla vostra, no. Dio v’ha steso intorno linee di confine sublimi, innegabili!    Giuseppe Mazzini, I doveri dell’uomo, 1860.

Nel suo celebre libro i Doveri dell’uomo, scritto negli anni in cui si stava realizzando l’Unità d’Italia, Mazzini ricordava la fortuna o il privilegio degli italiani di avere confini territoriali molto ben definiti: le Alpi a nord e il Mediterraneo che circonda la parte peninsulare del Paese. I confini della Patria non sono mai stati però una mera espressione geografica, ma hanno sempre avuto una forte valenza politica e simbolica, essendo stati conquistati grazie alle lotte e al sacrificio di tanti patrioti nelle Guerre d’Indipendenza fino alla Grande Guerra, che li ha sanciti in modo definitivo.

Negli ultimi decenni la difesa delle frontiere nazionali è stata evocata in rapporto all’immigrazione, soprattutto nei periodi (o in previsione) di afflussi particolarmente intensi. E in effetti quasi ogni tragedia nel mondo – guerre, pandemie, carestie, catastrofi naturali – può diventare causa di esodi biblici alla ricerca disperata di un futuro che in patria si presenta precluso. E la geografia, com’è noto, espone l’Italia a essere il più vicino approdo per chi proviene dall’Africa, in particolare dalla Libia e dalla Tunisia (la distanza minima tra quest’ultima e la Sicilia è di 140 chilometri). Di conseguenza da anni l’Italia è alle prese con un fenomeno migratorio che le proiezioni demografiche e i danni della crescente siccità garantiscono in continua crescita. Solo dall’inizio di quest’anno si parla già di oltre ventimila arrivi (più di centomila nel 2022).

Forse, come suggerisce qualche opinionista, sul lungo periodo la popolazione degli Stati nazionali europei è destinata a divenire in misura massiccia multietnica, con radicali trasformazioni delle identità nazionali. Attualmente, però, il problema principale dell’Europa è la difficoltà di trovare soluzioni comuni al problema immigrazione, con frequenti rimpalli di responsabilità fra Stati, ognuno dei quali è convinto di aver già fatto più del dovuto. Per quanto ci riguarda, nel complesso le accuse e le autoaccuse di indifferenza dell’Italia alla sorte dei disperati in balia delle onde e alle gravi necessità che li spingono a partire, pur con le oscillazioni legate a singole situazioni e ai cambi di governo, dovrebbero tenere conto di un contesto europeo in cui si usano spesso metodi ben più spicci. La Spagna cinge di alte barriere coronate da filo spinato le sue enclave di Ceuta e Melilla in Marocco; la Francia ha bloccato dei treni provenienti dall’Italia; il Regno Unito smisterà in Rwanda gli immigrati illegali in cambio di sostanziosi finanziamenti. E, uscendo dall’Europa, ricordiamo almeno che l’Australia si è attrezzata con centri di detenzione per migranti su piccole isole del Pacifico e che la Tunisia – sono notizie delle settimane scorse – ha scatenato una vera e propria caccia agli immigrati provenienti dall’area sub-sahariana, che a migliaia fuggono in Italia.

In attesa di un eventuale aiuto dell’Europa, al momento di là da venire, dovremo continuare ad affrontare i tanti problemi legati all’accoglienza e all’integrazione. Anche se, quando sono all’opposizione, i partiti vorrebbero farci credere di avere in tasca la ricetta risolutiva per l’immigrazione, si tratta in realtà di questioni spinosissime di carattere logistico-organizzativo, culturale, finanziario, di politica interna ed estera. In sostanza abbiamo un’emergenza nazionale che potrà solo aggravarsi, se non gestita con raziocinio e lungimiranza. È quindi auspicabile che si cerchi un’intesa tra le forze politiche, economiche e sociali in nome dell’interesse nazionale. Come d’altronde è successo per altre emergenze: dopo Caporetto, negli anni della Resistenza, in quelli della Ricostruzione e recentemente in occasione della pandemia.

E questo tenendo conto che il Paese ha un fortissimo bisogno di immigrazione, anche perché siamo (per imprevidenza) in crisi demografica. Molte aziende hanno bisogno di lavoratori e non trovano persone disponibili. Per non parlare del fabbisogno delle famiglie con sempre più anziani e malati da assistere.

Per quanto riguarda la questione dell’integrazione, basterebbe ritirare fuori, correggendolo o integrandolo, il cosiddetto Jus Culturae, per dare la cittadinanza ai bambini nati in Italia. Il Disegno Legge, già approvato dalla Camera dei Deputati nell’ottobre del 2015, è rimasto abbandonato nella scorsa legislatura in qualche cassetto del Senato, in attesa di essere ripreso in considerazione.

Sergio Casprini

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17 MARZO. CELEBRAZIONE DELL’UNITÀ D’ITALIA, DELLA LIBERTÀ E DEMOCRAZIA

01/03/2023 da Sergio Casprini

Il 17 marzo (Giornata dell’Unità nazionale), il 4 novembre, il 25 aprile e il 2 giugno sono le date fondamentali della nostra storia. Le prime due segnano la conclusione del processo risorgimentale con l’affermazione dell’Unità e dell’Indipendenza dell’Italia, le altre due la riconquista della libertà del nostro Paese e la sua trasformazione in repubblica democratica, sancita dal voto popolare.

Celebrare queste ricorrenze permette di perpetuare i valori e gli ideali del Risorgimento e della Resistenza consegnandoli ai giovani cittadini di oggi, ma rafforza anche la nostra identità nazionale e la coesione sociale. Tanto più questo è necessario in un periodo di smarrimento degli italiani, dovuto alla vicenda tragica della pandemia, allo shock del ritorno della guerra in Europa per l’aggressione della Russia all’Ucraina, alle contrapposizioni ideologiche spesso prive di vera attenzione all’interesse generale, alla crisi dell’etica pubblica. Sono, insomma, date costitutive di quella religione civile che in tutto l’occidente democratico salvaguarda la memoria storica e l’identità politico-culturale di ogni paese, come il 14 luglio in Francia o il 4 luglio negli Stati Uniti.

Dal 2013 con una Circolare della Presidenza del Consiglio dei ministri è stata istituita come solennità civile la data del17 marzo – “Giornata dell’Unità nazionale, della Costituzione, dell’inno e della bandiera”da celebrare in ogni città italiana, nei quartieri, nei luoghi istituzionali e soprattutto nelle aule scolastiche. Nei fatti, dopo i festeggiamenti del 2011 per i 150 anni dell’Unità nazionale e nonostante che le scuole siano invitate a programmare momenti di riflessione in proposito, l’attenzione sul significato di questa data progressivamente si è persa tra gli italiani di ogni età.

Per le nuove generazioni la scuola è il luogo non solo della formazione culturale, ma anche di una prima maturazione politica, con l’acquisizione degli strumenti di comprensione critica della realtà sociale in cui vivono, a partire da un’adeguata conoscenza storica del loro Paese.

Dovrebbe essere compito quindi delle scuole ricordare agli studenti che il 17 marzo 1861 nacque l’Italia, a conclusione di alcuni decenni di ideali e di sacrifici tendenti a questo scopo. Anche perché è una storia di cui i giovani furono più volte protagonisti: basti pensare al Battaglione dei Volontari toscani a Curtatone e Montanara nel 1848, alle Camicie rosse guidate da Garibaldi, ai “Ragazzi del ‘99” che si sacrificarono sulla linea del Piave fino alla riscossa di Vittorio Veneto e agli scugnizzi napoletani che parteciparono all’insurrezione popolare con la quale, tra il 27 e il 30 settembre 1943, Napoli fu liberata dall’occupazione nazista.

Gli scugnizzi nelle 4 Giornate di Napoli

Il Risorgimento italiano è stato un lungo processo storico arrivato in un certo senso fino a metà novecento; e le date importanti come il 17 marzo servono da occasione per conoscere e comprendere meglio il passato da cui veniamo. Anche la lotta eroica del popolo ucraino contro l’aggressione russa può – se non altro – farci meglio “realizzare” (cioè percepire vividamente) la durezza delle lotte risorgimentali contro “lo straniero” e della resistenza alla distruttiva e spesso spietata invasione hitleriana.

Oggi le manifestazioni studentesche sembrano di rado all’altezza dei problemi attuali, in gran parte perché risentono di un’insufficiente preparazione culturale e soprattutto di quella storica, senza la quale non si può comprendere la complessità del mondo.  Certo è stata utile l’iniziativa ambientalista di Greta Thunberg, oggi rimpiazzata nelle cronache dagli imbrattamenti “nonviolenti” di “Ultima generazione”, con i quali però si costruisce ben poco. Per il resto, il mondo studentesco si esprime quasi solo con le ripetitive occupazioni scolastiche di minoranze faziose e ideologizzate, che conducono sgangherate battaglie contro il governo di turno e, quel che è peggio, contro il diritto allo studio della maggioranza dei loro compagni, mentre le istituzioni, prive di coerenza democratica e di fermezza, si guardano bene dal tutelarli.

Ricordare oggi il 17 marzo sia a livello istituzionale che nelle scuole e nella società civile significa quindi tenere aperto il fronte basilare delle battaglie per la libertà, la democrazia e la solidarietà umana. E questo deve continuare a essere l’impegno, se possibile con ancora più forza, di tutti i comitati e le associazioni che si ispirano ai valori risorgimentali.

Sergio Casprini

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La sempiterna questione meridionale

01/02/2023 da Sergio Casprini

Recentemente due proposte del governo hanno riacceso la polemica sulla questione meridionale e cioè sul divario economico e sociale tra il Nord e il Sud, non ancora superato a 162 anni dalla nascita del Regno d’Italia.

Pochi giorni fa il Ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara ha accennato alla possibilità di tenere conto del “carovita” nella retribuzione dei docenti che lavorano nelle regioni settentrionali, dato che nel sud il costo della vita è inferiore, di fatto riproponendo quelle differenze retributive che esistevano in Italia negli anni ’50 del secolo scorso.

Chi risponde al ministro che nel sud i servizi pubblici – per esempio quelli sanitari –sono molto meno efficienti e per questo sarebbero giustificate le stesse retribuzioni sia al Nord che al Sud, conferma che il processo di modernizzazione del nostro Paese, nato con il Risorgimento, si è fermato a Eboli.

Lo scorso novembre il Ministro per gli Affari regionali e le autonomie Roberto Calderoli ha presentato alle regioni la bozza di disegno di legge sulla cosiddetta “autonomia differenziata”, di cui all’articolo 116 della Costituzione. Con “autonomia differenziata” si intende la possibilità che le regioni a statuto ordinario possano ottenere competenza legislativa esclusiva su materie che la Costituzione elenca invece come “concorrenti” o, in tre casi, su quelle di esclusiva competenza statale. Per molti costituzionalisti e soprattutto esponenti politici del Meridione l’annosa questione tra centralismo statale e autonomia regionale non sarebbe risolta dalla proposta di Calderoli, anzi verrebbe meno il principio di uguaglianza sancito dalla Costituzione, in quanto i diritti perderebbero il loro carattere di universalità, previsto a garanzia dell’unità e indivisibilità della Repubblica. Se questa bozza fosse davvero improntata a una logica competitiva più che solidaristica, volta a favorire Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna che per prime hanno richiesto l’autonomia differenziata, si rischierebbe di consolidare la situazione di un’Italia divisa tra un settentrione forte sul piano economico-produttivo e un meridione ancora arretrato e sostenuto dai sussidi dello Stato. Invece di interrogarsi sulle possibili soluzioni di questo divario, in queste polemiche emerge una contrapposizione ideologica o peggio di latente razzismo tra “terroni” e “polentoni”. Che peraltro ha una lunga storia: nel 1860 il politico emiliano Luigi Farini così scriveva a Cavour: «Amico mio, che paesi sono mai questi, il Molise e la Terra del Lavoro! Altro che Italia! Questa è Affrica: i beduini, a riscontro di questi caffoni [sic], sono fior di virtù civile». Va pure detto che negli anni del Risorgimento ci fu un’élite culturale meridionale che al momento dell’unificazione nazionale chiese interventi urgenti da parte dello Stato centrale per affrontare le condizioni di degrado economico e sociale del Sud.

Pasquale Villari

Tra gli altri, il napoletano Pasquale Villari, politico, storico e docente presso l’Istituto di Studi superiori di Firenze, fu tra i primi a studiare la questione meridionale e a pubblicarne i risultati nell’opera Lettere meridionali. L’interesse per il tema lo portò poi a collaborare alla Rassegna settimanale dei politici toscani Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, autori di una famosa inchiesta in Sicilia, pubblicata nel 1877, in cui si denunciava «l’inestricabile intreccio tra le miserabili condizioni di vita dei contadini e le malversazioni amministrative delle caste dominanti». Con la rivista “Rassegna settimanale” l’intento dei due era quello di far conoscere le condizioni di vita del Meridione e di render consapevole la società italiana che l’economia del Sud doveva essere riequilibrata, anche per porre fine al pericoloso malcontento delle masse contadine, con l’estensione in primo luogo della rappresentanza politica, mediante il suffragio universale da estendere anche alle donne, e nel favorire l’industrializzazione del paese.

Gaetano Salvemini

Anni dopo il pugliese Gaetano Salvemini, allievo di Pasquale Villari, al X Congresso del PSI celebrato a Firenze nel settembre del 1908, parlò a nome della maggioranza dei delegati delle sezioni meridionali. Nel suo discorso per la prima volta la «questione meridionale» non era il fondamento recriminatorio di domande di risarcimento per le ingiustizie patite, ma il terreno decisivo su cui si giocava un destino effettivamente nazionale del partito e la possibilità di garantire un fondamento davvero democratico al Paese. In particolare, nel pensiero di Salvemini la questione meridionale era intimamente connessa alla questione scolastica e al concetto di educazione nazionale: in quest’ottica la scuola era vista dall’intellettuale pugliese nel suo ruolo di formazione di un’opinione pubblica – fino ad allora assente specialmente nel Sud – che avrebbe permesso di maturare una solida coscienza nazionale.

Purtroppo ancora oggi, nonostante la maggior diffusione della cultura, il dibattito pubblico si riduce troppo spesso allo scontro di tifoserie politiche e di fazioni ideologiche, senza entrare nel merito delle questioni e nella concretezza delle soluzioni da adottare. E carente è soprattutto la scuola nella formazione di una forte coscienza nazionale delle nuove generazioni, a partire dallo studio rigoroso della storia e dalla valorizzazione del ruolo dei docenti sul piano retributivo, per dar loro la possibilità di vivere dignitosamente sia al Sud che al Nord, avendone ovviamente accertata l’acquisizione di valide competenze professionali.

Sergio Casprini

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Auguri per un felice 2023 e per la libertà e la democrazia nel mondo

01/01/2023 da Sergio Casprini


Bombardamento russo sull’ospedale di Mariupol in Ucraina

L’anno appena concluso si apre con il drammatico scenario di una guerra in Europa e con gravissime violazioni dei diritti umani in vari paesi, in particolare nei confronti delle donne.
Il 24 febbraio 2022 l’inizio dell’aggressione russa dell’Ucraina, in patente dispregio del diritto internazionale, ha aperto la strada a una spaventosa serie di crimini contro la popolazione e a una sistematica distruzione del paese invaso. La valorosa resistenza del popolo e dell’esercito ucraini ha impedito che l’invasione si risolvesse rapidamente in una sostanziale annessione del paese, con l’installazione a Kiev di un governo vassallo di Mosca. Anzi, come sappiamo, negli ultimi mesi l’esercito russo ha dovuto ritirarsi da ampie zone conquistate nella prima fase dell’invasione.
Il dramma dell’Ucraina ha infranto l’illusione europea di aver acquisito in modo definitivo la pace e impone alle democrazie, che stanno sostenendo gli aggrediti in modo quasi unanime (anche a costo di sacrifici non da poco), un ripensamento su come difendere il proprio modo di vivere. Come si chiede in un recentissimo libro il politologo Vittorio Emanuele Parsi, “qual è il costo che siamo disposti a pagare per essere liberi?”
Alla guerra in Ucraina si è recentemente affiancata quella dichiarata al proprio popolo dalla teocrazia iraniana. Da quasi tre mesi, a partire dalla morte della ventiduenne Mahsa Amini, fermata e arrestata dalla polizia morale perché non indossava correttamente il velo, le città iraniane sono state animate da folle di donne e di uomini che rifiutano le costrizioni imposte alle loro esistenze. “Donna, vita, libertà” è lo slogan scandito nelle piazze e nelle strade dell’Iran, ma anche in moltissime città dei paesi democratici. Lo stato teocratico iraniano ha represso in questi mesi violentemente le manifestazioni, sparando sulla folla, imprigionando, torturando e stuprando migliaia di giovani e comminando pene capitali.
Il quadro della soppressione per legge delle libertà civili e politiche è ancora più impressionante, e da molto tempo, in Afghanistan Nell’agosto del 2021 i talebani hanno di nuovo assunto il controllo dell’Afghanistan e da allora sistematicamente stanno violando i diritti delle donne e delle bambine all’istruzione, al lavoro e alla libertà di movimento, azzerando il sistema di protezione e sostegno per le donne che fuggono dalla violenza domestica, arrestando donne e bambine per minime infrazioni a norme discriminatorie e contribuendo all’aumento dei matrimoni forzati e precocissimi. Di recente il ministro dell’Istruzione superiore ha introdotto il divieto a tempo indeterminato dell’istruzione universitaria per le ragazze
L’anno nuovo nasce quindi al momento senza favorevoli auspici per la libertà e i diritti dei popoli nel mondo. E però l’Occidente democratico, pur con molte contraddizioni, non solo mantiene al suo interno il principio-cardine dello Stato di diritto, ma si è dimostrato capace di difendere con i fatti un popolo oggetto di aggressione da parte di un regime che del diritto ha fatto strame.
E’ stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora. La battuta paradossale di Wiston Churchill non dovrebbe però indurci a pensare che la democrazia sia strutturalmente difettosa. Proprio in quanto progetto di società aperta, deve ovviamente tenere conto di molteplici esigenze, diritti e condizioni oggettive presenti in un dato contesto storico. Si tratta quindi non di difetti, ma di limiti che la realtà oppone alla piena attuazione di un progetto, di cui è parte costitutiva la capacità di correggersi e di migliorare. Cosa quasi del tutto preclusa agli stati totalitari, in cui è vietata la discussione pubblica e la libera competizione di diverse forze politiche. Invece, questa “peggior” forma di governo garantisce pluralismo di pensiero e di opinione e tutti coloro che dissentono possono manifestare anche contro le leggi e il governo del loro paese; e se le proteste escono dai binari della legalità, devono venire represse dalle forze dell’ordine entro i limiti stabiliti dalle leggi.
Tra gli auguri che dobbiamo farci per il 2023, c’è anche quello di una scuola che prepari meglio alla democrazia le nuove generazioni. Non con le prediche, ma fornendo una preparazione culturale che renda i futuri cittadini in grado di comprendere i problemi su cui saranno chiamati a scegliere con il voto e abituandoli con saggia fermezza al rispetto delle regole, cioè delle persone, delle cose e delle idee altrui.
E per ritrovare quell’idealismo che dia forza alle proteste e le componga, come è successo negli anni del Risorgimento e della Resistenza al Nazi-fascismo, in un intreccio internazionale che superi le differenze, gli individualismi, le paure, gli egoismi, per la costruzione di un comune futuro di libertà e di pace.

Sergio Casprini

La scacchista iraniana che ha gareggiato in Kazakistan senza indossare il velo

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L’Europa dei diritti e delle libertà

01/12/2022 da Sergio Casprini

Si sta avverando il sogno di un’Europa sovranazionale, come nel 1941 si auguravano Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi nel cosiddetto Manifesto di Ventotene? Da quando è nata, l’Unione Europea (già Comunità Economica Europea) è cresciuta soprattutto con un compito preciso: contribuire a soddisfare le esigenze di benessere degli europei dopo gli orrori del nazismo, del fascismo e le macerie della guerra. Il suo più grande successo infatti è stato il mercato unico. Ma negli ultimi anni, nonostante le miopie nazionali e le lesioni allo stato di diritto inferte recentemente dall’Ungheria e dalla Polonia, oltre alla mancanza di una difesa comune, sia pure lentamente avanza il processo di unità politica, come nel contrasto al Covid e alle sue conseguenze economiche e con il pieno sostegno all’Ucraina nella sua lotta patriottica contro l’invasore russo, una forte iniziativa di politica estera e di sicurezza. D’altronde l’Europa è la culla di una società aperta, con le sue libertà civili ed economiche, la democrazia liberale, il governo della legge.
Sorprende quindi l’assenza di posizioni altrettanto forti della Comunità europea per quanto succede in Iran, dove, dopo la morte della ventiduenne curda Mahsa Amini, arrestata dalla polizia morale perché indossava il velo in maniera inappropriata, la repressione violenta di quello stato teocratico non è riuscita ancora dopo due mesi a domare la protesta delle donne iraniane, che si sta trasformando in una sfida sempre più radicale al regime degli ayatollah. E se pure il 14 novembre l’UE ha adottato sanzioni nei confronti dei responsabili di gravi violazioni dei diritti umani in Iran, come ha dichiarato l’alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza europea Josep Borrell, si continua ancora da parte delle Istituzioni comunitari a fare poco di fronte alla situazione tragica delle donne iraniane.

Asra Panahi, la sedicenne iraniana pestata a morte dalla polizia perché, insieme ad altre compagne,si era rifiutata di cantare un inno a Kamenei

Certo non vale come giustificazione il fatto che l’Iran non è un paese europeo come l’Ucraina e quindi non sarebbe legittimo attuare forti iniziative di ingerenza nelle questioni interne di un’altra nazione pur in presenza di gravissime violazioni dei diritti fondamentali, in particolare delle donne.
E di dovere di ingerenza da parte dell’Unione Europea si parla invece in un appello (promosso dal Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità) sottoscritto da autorevoli esponenti della cultura, dell’Università, della società civile.
L’appello inviato alla rappresentanza dell’UE a Roma e ai deputati italiani a Bruxelles inizia con queste parole: Un grande movimento che vede in prima fila gli studenti e le studentesse si sta battendo in Iran contro uno spietato regime tirannico in nome delle libertà nate in Europa. Libertà di cui nelle scuole i ragazzi studiano la storia, le lotte per conquistarle e per riconquistarle, l’importanza di difenderle.
Ma in Italia gli studenti e le studentesse hanno protestato contro lo spietato regime teocratico iraniano? Hanno fatto qualche sit in davanti all’ambasciata iraniana a Roma?
Ad oggi le manifestazioni e alcune rare occupazioni di istituti, tra l’altro di minoranze rumorose a fronte di maggioranze silenziose degli studenti, hanno mostrato lo stucchevole rituale di ogni inizio scolastico, con slogan e parole d’ordine contro il ministro della Pubblica Istruzione di turno e il governo in carica, rivelatrici di conoscenze confuse o di visioni ideologiche anacronistiche, senza il possesso di un’effettiva preparazione civica e politica, oltre che storica.
Il ministro Valditara in alcune dichiarazioni ha giustamente richiamato sia i docenti che gli studenti a un maggior senso di responsabilità, da una parte riconoscendo che va ripristinata la dignità e l’autorevolezza del ruolo dell’insegnante, dall’altra invitando gli allievi a un maggior impegno di studio senza più l’uso ludico dei cellulari, auspicando che in classe tornino il concetto di Patria (e di integrazione europea) e il rispetto degli insegnanti. Tuttavia, come altri precedenti ministri della P. I., non ha posto l’esigenza di ridare il giusto valore alle discipline, perno fondamentale di una reale formazione culturale, tra cui appunto la Storia, pena il balbettio infantile dei nostri studenti di fronte a drammatiche crisi internazionali, dove sono in gioco i diritti civili e le libertà dei popoli.

  • L’appello:  https://gruppodifirenze.blogspot.com/2022/11/inviato-alle-istituzioni-europee.html?fbclid=IwAR1OUrsBLMF7tBJhNnBE1vhVhAZo8vIEcVVpQp4auuUooU5BCIpqAzQWOHw

Sergio Casprini

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Donne e merito nel Risorgimento e nella Repubblica italiana

01/11/2022 da Sergio Casprini

Rosalia Montmasson nel 1861

“Tra i tanti pesi che sento gravare sulle mie spalle oggi, non può non esserci anche quello di essere la prima donna a capo del governo in questa Nazione. Quando mi soffermo sulla portata di questo fatto, mi ritrovo inevitabilmente a pensare alla responsabilità che ho nei confronti delle tante donne che in questo momento affrontano difficoltà grandi e ingiuste per affermare il proprio talento o il diritto di vedere apprezzati i loro sacrifici quotidiani…”. Con queste parole, nell’ intervento con cui ha chiesto la fiducia al suo governo, Giorgia Meloni ha voluto ricordare sedici donne italiane che dall’Unità d’Italia a oggi hanno per prime ricoperto ruoli prima considerati esclusivamente maschili nei campi della politica, della cultura, delle professioni e dello sport. Tra le altre, a partire dal Risorgimento, le figure dell’aristocratica Cristina Trivulzio di Belgioioso, elegante organizzatrice di salotti e infermiera sulle barricate della Repubblica Romana, di Rosalie Montmasson, di umili origini, che partecipò all’impresa dei Mille, per arrivare agli anni della Resistenza e della Repubblica con la cattolica Tina Anselmi, partigiana e poi politica democristiana, prima donna ad avere avuto la responsabilità di un ministero (quello del lavoro e della previdenza sociale); e che nel 1978, da Ministro della Sanità, firmò, pur cattolica, la Legge 194 per l’interruzione volontaria della gravidanza; e la comunista Nilde Jotti, anch’essa militante della Resistenza, poi membro dell’Assemblea costituente e infine prima donna Presidente della Camera dei deputati nel 1979 (poi confermata per altre due legislature).

Nilde Jotti

Certamente questo è potuto avvenire, non senza perseveranza e fatica, nel contesto delle democrazie di tipo occidentale, all’interno delle quali solamente si può realizzare una vera emancipazione politica e sociale delle donne. E basta pensare, a confronto, al regime teocratico iraniano, che in questi giorni fronteggia con la violenza innumerevoli manifestazioni, pacifiche quanto coraggiose, contro la cosiddetta apartheid di genere e per la fine del regime dei mullah. Se è apprezzabile il riconoscimento da parte del nuovo Presidente del Consiglio del ruolo delle donne italiane nella storia del nostro Paese, manca invece un riferimento all’attuale disparità di genere nella società italiana. Ancora oggi in Italia il divario fra donne e uomini nei tassi di occupazione rimane tra i più alti di Europa: circa 18 punti percentuali su una media europea di 10; come giustamente ricordava Draghi, quando, all’insediamento del suo governo, tra le priorità del suo programma propose la mobilitazione di tutte le energie della società italiana per il rilancio dell’economia nazionale, a partire dal coinvolgimento delle donne. Una vera parità di genere però non significava, secondo Draghi, un farisaico rispetto di quote rosa richieste dalla legge: richiedeva che venissero garantite parità di condizioni competitive tra generi, valorizzando il criterio del merito, a partire da una rigorosa formazione culturale, professionale e politica.

In questi giorni, sul merito è riemerso un dibattito molto acceso, dopo che alla denominazione del Ministero dell’Istruzione è stata aggiunta per l’appunto l’espressione “e del merito”, inteso dai contrari come inestricabilmente legato al privilegio sociale. Dimenticando che l’art. 34 della Costituzione recita: “I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. I talenti vanno valorizzati, quali che siano, non solo nella scuola, ma anche nel campo del lavoro, nelle imprese, nelle professioni, nello sport; e bisognerebbe parlare del merito in termini di emancipazione collettiva: l’obiettivo non è il singolo, ma la crescita della società, grazie a interventi che, favorendolo, possano avere un impatto significativo sulla maggioranza delle persone. Lo comprese bene, verso la fine degli anni ’80, Claudio Martelli, esponente di primo piano del partito socialista, quando lanciò un ambizioso progetto politico di uscita da una visione classista della società, sintetizzato nella diade “Meriti e bisogni”. L’idea era quella di lasciarsi alle spalle obsolete ideologie anticapitalistiche, per dare vita a “un’alleanza riformatrice tra coloro che possono agire mettendo a frutto i propri talenti e coloro che devono agire per uscire dall’emarginazione, dando così nuovo vigore alla tradizione del socialismo riformista di Turati e della Kuliscioff.

Sergio Casprini

Filippo Turati

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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La Democrazia e l’emancipazione politica delle donne

01/10/2022 da Sergio Casprini

In Iran dopo la morte della ventiduenne curda Mahsa Amini, arrestata dalla polizia morale perché indossava il velo in maniera inappropriata, la repressione violenta non ferma la protesta delle donne iraniane, che si sta trasformando in una sfida sempre più radicale al regime degli ayatollah. Dopo dodici giorni di manifestazioni gli arresti sarebbero 3000 e i morti oltre 70.

“Donne, vita, libertà” è lo slogan scandito dalla folla nelle piazze e nelle strade, mentre le donne sventolano i loro hijab e li bruciano in falò improvvisati sotto il naso della polizia in assetto antisommossa, che ha sparato proiettili di gomma e proiettili veri, usato i manganelli e scatenato i cannoni ad acqua. Le proteste, le più violente degli ultimi tre anni, sono cresciute di intensità dopo l’uccisione, domenica 25 settembre, di Hadith Najafi, la “ragazza con la coda”. E il taglio dei capelli delle donne in pubblico, tradizionalmente un forte segno di protesta, è una delle immagini simbolo di questa rivolta, e dimostra la risolutezza delle donne, il coraggio di chi non ha più niente da perdere.

Sabato 24 settembre anche la comunità iraniana di Firenze si è riunita in piazza Sant’Ambrogio per rivendicare i diritti delle loro famiglie e dei loro connazionali. Medici, professionisti, artisti, atleti e lavoratori del turismo sventolavano anche loro come in Iran cartelli con lo slogan donna, vita, libertà. Sul sagrato della chiesa mostravano i volti delle vittime mentre scandivano a gran voce Bella Ciao: una manifestazione di protesta senza alcun intervento repressivo delle forze dell’ordine, tantomeno quello di una illiberale “Polizia morale”, a conferma che solo nella cultura occidentale esiste la democrazia e quindi la libertà degli uomini e delle donne di lottare per le proprie idee.

Va pure detto, però, che al momento in Europa e in America non c’è un forte sostegno delle istituzioni e della società civile alla lotta delle donne iraniane. Da tempo l’Occidente ha smesso di combattere con convinzione per i suoi valori; e al suo interno si è sviluppata la cosiddetta Cancel Culture, che demonizza la sua storia, la sua cultura, la sua civiltà e distrugge i monumenti del suo passato. Il perdurante senso di colpa per il suo passato colonialista e imperialista gli impedisce di contrastare con forza le ideologie illiberali, totalitarie e teocratiche presenti nel resto del mondo, a partire da molti paesi islamici.

Lo stesso sta avvenendo anche in Italia, Paese di forte tradizione democratica a partire dal Risorgimento e dalla Resistenza al nazifascismo: gli studenti che occupano il liceo Manzoni di Milano non solo contro le pratiche di scuola e lavoro, ma anche e assurdamente contro la vittoria elettorale della destra,  avrebbero potuto invece far sentire forte la loro voce per il ritiro dell’ambasciatore italiano a Teheran. Tra l’altro il vero vulnus alla democrazia di queste elezioni italiane è stata l’altissima percentuale di cittadini che non hanno votato, tra cui sicuramente molti giovani. È l’indice di una progressiva disaffezione alla vita politico-sociale del nostro Paese e del venir meno di quel senso civico, che è necessario alla coesione istituzionale e morale della nazione, soprattutto in tempi drammatici come gli attuali. Va invece colta in maniera positiva la novità politica della vittoria elettorale di una donna, sicura premier del prossimo governo italiano, un evento che avvicina il nostro Paese al resto dell’Europa, in cui da anni donne di destra e di sinistra governano i loro Paesi e le Istituzioni europee.

Anna Kuliscioff

È il risultato di un lungo processo di emancipazione femminile, nato negli anni del nostro Risorgimento. Va ricordata tra le altre la figura della socialista Anna Kuliscioff, che si batté per il voto alle donne agli inizi del secolo scorso, obiettivo finalmente raggiunto nel 1946, a cui è seguita una crescente partecipazione alla politica delle donne con l’assunzione anche di rilevanti ruoli istituzionali. Se poi il nuovo governo presieduto da una donna non fosse all’altezza dei compiti che le spettano in questo difficile momento politico-economico e anzi promuovesse leggi illiberali, allora gli studenti sarebbero legittimati a protestare: i valori della democrazia e della libertà vanno sempre difesi, ovviamente a prescindere dal fatto che il capo del governo sia un uomo o una donna.

Sergio Casprini 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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L’Italia è alla canna del gas?

01/09/2022 da Sergio Casprini

In agosto il prezzo del gas ha continuato a crescere in tutta Europa, soprattutto a causa della guerra in Ucraina. Quello che si teme di più, e che già sta avvenendo, sono le ripercussioni dei costi per il gas su quelli dell’elettricità. In Italia l’energia elettrica nei giorni scorsi ha toccato un massimo di 870 euro a megawattora, 200 in più rispetto alla settimana precedente. Le imprese hanno visto i costi delle bollette aumentare di più del doppio e di conseguenza molte sono costrette a lavorare a regime ridotto; e la Confindustria parla già del rischio di chiusura per ben 90.000 aziende. Ovviamente gli aumenti di gas, elettricità, benzina e di non pochi beni di consumo si ripercuotono pesantemente sui bilanci delle famiglie. Tutto questo potrebbe provocare gravi danni all’economia e al tenore di vita degli italiani.

Il premier Draghi mantiene fermo il sostegno all’indipendenza dell’Ucraina, ma nello stesso tempo affronta la questione del gas sul duplice binario di una politica comune europea e del reperimento a livello nazionale di fornitori alternativi alla Russia per l’approvvigionamento di gas. Tra le altre leve a cui dobbiamo ricorrere per fronteggiare questa crisi, ce ne sono due che chiamano più direttamente in causa il senso di responsabilità dei cittadini: i nuovi rigassificatori, che li riguardano come comunità locali; e il risparmio energetico, per cui tutti siamo chiamati a dare il nostro contributo come singoli o come famiglie. Mentre la città di Ravenna ha accettato di ospitare uno dei due impianti di rigassificazione, sia pure dietro garanzie relative alla sicurezza e al possibile inquinamento, nell’altra sede, Piombino, la comunità locale guidata dal sindaco ha fortemente protestato secondo il modello Nimby (Not In My Back Yard), nonostante che il Ministro della Transizione ecologica abbia  assicurato che l’impatto sul porto non farà danni alle altre attività né all’ambiente. D’altro canto la scelta del luogo è vincolata ai punti di connessione alla rete nazionale del gas e i margini per valutare alternative non esistono. Si ripetono quindi i riflessi condizionati che hanno portato a   bloccare via referendum le trivellazioni nell’Adriatico, alla grottesca battaglia contro la Tap in Puglia e all’opposizione in corso contro il termovalorizzatore in una Roma sommersa dai rifiuti.

Coinvolge invece ciascuno di noi per i prossimi mesi invernali la strategia di contenimento dei consumi e il conseguente risparmio energetico che il governo sta mettendo a punto. Tra le misure attuabili: posticipare l’accensione dei termosifoni, anticipare lo spegnimento, abbassare di un grado la temperatura nelle abitazioni e negli uffici privati e pubblici, estendere a tutte le scuole la settimana corta. Il razionamento dopo gli anni del lockdown contro il Covid sarà pertanto un’altra importante esperienza comunitaria in un paese individualista come il nostro, in cui gli interessi nazionali dovranno necessariamente prevalere sugli interessi di cortile e di fazione politica o sociale. Molti opinionisti hanno definito l’esperienza del dimissionario governo Draghi come la stagione dei doveri. Quale che sia il governo che uscirà dalle urne il prossimo 25 settembre, si dovrà proseguire nella politica di responsabilità nazionale, se vogliamo ridurre i danni di questa grave emergenza economica e sociale, come d’altronde è già avvenuto in altri drammatici momenti nella storia d’Italia.

Sergio Casprini

 

 

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La calda estate del Presidente Draghi

01/08/2022 da Sergio Casprini

…L’Italia è forte quando sa essere unita. Ed è stata forte soprattutto in questi tempi drammatici, dalla pandemia alla guerra in Ucraina, grazie a una ritrovata credibilità collettiva: dai partiti in parlamento che hanno dato la disponibilità a mettere da parte le differenze e lavorare per il bene del Paese, con pari dignità, nel rispetto reciproco, agli italiani che hanno sostenuto questo miracolo civile e sono stati protagonisti delle misure che mettevamo in campo. Mai come in questi momenti sono stato orgoglioso di essere italiano.

In questa parte del suo intervento al Senato il 20 luglio scorso, Mario Draghi aveva rivendicato i buoni risultati del suo governo a livello nazionale e internazionale, ottenuti grazie anche al circolo virtuoso tra istituzioni e cittadini in una ritrovata credibilità del nostro Paese nel mondo.

La Costituzione italiana prevede però che il capo del governo debba godere della fiducia del Parlamento, non solo del consenso dei cittadini; e quando ciò non accade, come ha scritto l’opinionista del New York Times Christopher Caldwell “anche un premier capace e responsabile come Draghi è costretto alle dimissioni, senza che ciò venga interpretato come un vulnus alla democrazia”. La chiusura anticipata della legislatura pone però il problema, nato già dai tempi dell’Unità d’Italia con la monarchia e non risolto purtroppo con la nascita della Repubblica italiana, della stabilità di governi autorevoli. Dal 1946, la Repubblica ha visto alternarsi ben 67 governi (quasi uno all’anno!), presieduti da 30 primi ministri: un confronto impietoso con la tenuta di altri governi democratici europei.

Negli ultimi anni, poi, con la crisi dei partiti tradizionali, nata soprattutto dal tramonto delle ideologie ottocentesche e dai fenomeni economici e sociali legati alla globalizzazione, le attuali forze politiche in buona parte hanno perso uno stabile radicamento sociale e spesso sono movimenti d’opinione legati alla figura di un leader carismatico che puntano troppo sulla visibilità mediatica e poco sulla loro consistenza politico-culturale. Rischiano così di godere di effimeri successi seguiti da repentini tracolli, come se fossero lo specchio di una società definita felicemente “fluida” dal sociologo Baumann. L’attuale classe politica, priva dello spessore  dei partiti del secolo scorso, rinchiusa nel suo particolare, cioè nella salvaguardia dei propri interessi “di bottega”, si caratterizza spesso per valutazioni partigiane, furbizie propagandistiche, visioni politiche anguste e proposte demagogiche, mentre perde di vista gli interessi nazionali e mina la credibilità del nostro Paese.

Eppure le severe denunce sui limiti e le contraddizioni dell’identità italiana sono parte essenziale della nostra storia letteraria, da Dante a Machiavelli e Guicciardini, da Leopardi a Manzoni e Carducci, da D’Azeglio a Croce, da Gobetti a Gramsci. Il risultato è di vivere in un Paese senza programmi, senza competenze, senza la capacità di comprendersi per riuscire a cambiare. In questa calda estate, Mario Draghi ha lavorato di concerto con il Quirinale per la stabilità delle istituzioni e del Paese, perché prevalesse il senso di responsabilità in tempi di emergenza economica, sanitaria e internazionale con la guerra in Ucraina, richiamando tutti, forze politiche e cittadini, ai doveri e all’interesse generale.

E soprattutto a questi doveri devono guardare tutti i partiti per la prossima scadenza elettorale del 25 settembre, perché il nostro Paese possa guardare con fiducia all’avvenire, con un forte richiamo a un padre del nostro Risorgimento come Mazzini, che nei suoi scritti richiamava gli italiani al dovere di servire la Patria. Verrebbe quindi da dire, parafrasando Croce, che in questo momento difficile per l’Italia “non possiamo non dirci mazziniani”.

 Mazzini Adriano Cecioni  Museo Firenze Capitale Palazzo Vecchio Firenze

 

 

 

 

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