• Passa alla navigazione primaria
  • Passa al contenuto principale
  • Passa alla barra laterale primaria
  • Passa al piè di pagina
  • Il Comitato Fiorentino per il Risorgimento
  • Redazione
  • Contatti
  • Photogallery
  • Link
  • Privacy Policy

Risorgimento Firenze

Il sito del Comitato Fiorentino per il Risorgimento.

  • Home
  • Focus
  • Tribuna
  • I luoghi
  • Mostre
  • Rassegna stampa
  • Pubblicazioni
  • Editoriale

Editoriale

27 APRILE. LA FESTA DELL’INDIPENDENZA TOSCANA.

01/04/2021 da Sergio Casprini

Il 26 aprile 1859 l’Austria dichiarò guerra al Regno di Sardegna: cominciava la Seconda Guerra d’Indipendenza.

La notte stessa a Firenze, capitale del Granducato, si tenne un’ulteriore riunione dei capi dei vari schieramenti politici (tra gli altri Bartolommei, Ricasoli, Peruzzi, Dolfi) favorevoli all’unificazione italiana, presenti anche molti ufficiali dell’esercito toscano. Fu stabilita per il giorno successivo una grande manifestazione  in città e fu nominata una giunta provvisoria.  La mattina del 27 aprile una gran folla scese in piazza Barbano, oggi piazza Indipendenza, gridando il proprio sostegno al Regno di Sardegna e lanciando invettive contro l’Austria. Si formò poi un corteo che arrivò fino in piazza Signoria, dal corteo si staccò un manifestante per issare il tricolore a una monofora nella facciata di Palazzo Vecchio come testimonia il dipinto di Enrico Alessandro Fanfani La mattina del 27 aprile 1859.

Il Granduca Leopoldo II, trincerato in Palazzo Pitti con i suoi ministri, era disposto a formare un nuovo governo, a schierarsi contro l’Austria e a concedere una costituzione; per calmare gli animi acconsentì alle truppe di inalberare il tricolore, ma ormai il suo rapporto con il popolo e i suoi leader era compromesso al punto che gli fu chiesto di abdicare e la sera del 27 aprile Leopoldo II lasciò Firenze con la famiglia.

Fu quindi una rivoluzione incruenta, tanto di essere definita la ” rivoluzione di velluto”.

L’11 marzo e il 12 marzo 1860 si tenne il plebiscito che decretò a larghissima maggioranza l’annessione della Toscana al Regno di Sardegna: 366.571 voti favorevoli contro 14.925 contrari. Il cambiamento era stato quindi consacrato dal plebiscito col quale i toscani, a suffragio universale maschile, vollero entrare a far parte del costituendo Regno d’Italia. La sovranità popolare quindi subentrò a quella assoluta, anche se per diversi aspetti illuminata, del granduca Leopoldo II, che si era alienato le simpatie popolari per aver conservato un rapporto di dipendenza dall’Austria. Nell’ideale dell’Italia i Toscani avevano trovato il terreno per una cooperazione politica fra il liberalismo nobiliare più convintamente unitario, quello di Ferdinando Bartolommei e di Bettino Ricasoli, e il mondo democratico di ispirazione mazziniana, guidato da Giuseppe Dolfi.

In quegli anni, al momento della costruzione dell’Unità d’Italia diventò cruciale la questione del regionalismo, che ha alimentato poi per anni un dibattito segnato dal contrasto fra posizioni che spaziavano da orientamenti marcatamente centralisti a tendenze di tipo federalista. Allora la tendenza federalista si divideva tra Cavour in cui prevaleva un’idea di creazione delle regioni quali ambiti di decentramento dell’amministrazione statale in una prospettiva di integrazione unitaria, mentre per Cattaneo l’indipendenza del paese doveva assumere un carattere non già unitario e centralistico, bensì federale con la costituzione degli Stati uniti d’Italia, come logica conseguenza delle profonde diversità storiche e sociali delle sue regioni.

A queste posizioni si contrapponevano le forze politiche della destra storica, sostenitrici di un modello accentrato di amministrazione, sull’impronta di quello già adottato in Piemonte con la legge Rattazzi del 1859. Lo stesso Ricasoli, nonostante fosse legato alla storia politica e sociale della sua Toscana, era un convinto sostenitore dell’unità della Patria e quando fu al governo dopo la morte di Cavour si adoperò per una struttura del Paese in senso centralista, soprattutto quando al Sud il giovane Regno italiano dovette fronteggiare il fenomeno politico-criminale del Brigantaggio.

Con la Costituzione della Repubblica Italiana del 1948 l’Italia introdusse le regioni nel suo ordinamento giuridico che agli articoli 114 e 115 prevedeva: «La Repubblica si riparte in Regioni, Province e Comuni.» Ma poi l’effettiva costituzione delle Regioni nel 1970 e soprattutto la Riforma del Titolo V della Costituzione, in vigore dal 2001, che ha modificato i tradizionali rapporti tra centro e periferia, non hanno affatto risolto le problematiche del nostro stato nazionale, emerse al momento della sua formazione nel 1861.

Infatti regionalismo, riconoscimento delle autonomie, decentramento, non vogliono dire, come appare  nel dibattito pubblico attuale, costituzione di repubbliche quasi indipendenti; e questo è chiaro soprattutto oggi in questa drammatica emergenza sanitaria, quando la battaglia contro il Covid non solo è nazionale, ma anche internazionale e bisogna essere uniti, saper cooperare, non certo rivendicare anacronistici orgogli regionali.

La Festa della Indipendenza Toscana è stata istituita da alcuni anni per celebrare il contributo decisivo della nostra regione al Risorgimento e ricordare quello che tanti generosi esponenti della politica, della cultura e della società civile toscana, come Dolfi, Peruzzi, Ricasoli, Bartolommei, Poggi, Barellai e altri ancora, hanno dato per lasciarsi alle spalle la piccola patria a favore di quella più grande che si stava costruendo.

Oggi celebrare il 27 APRILE al tempo del Covid significa essere consapevoli che con la grande manifestazione di piazza Barbano iniziava un percorso di crescita politica del popolo toscano nel senso di una cittadinanza, allora italiana, oggi europea senza alcun rimpianto per la Toscana dei municipi medievali o delle signorie rinascimentali, del Granducato dei Medici o dei Lorena. 

Sergio Casprini 

Francesco Saverio Altamura-

La prima bandiera italiana portata in Firenze nel 1859 

 

Archiviato in:Editoriale

17 MARZO: Le donne dall’Unità d’Italia ad oggi

01/03/2021 da Sergio Casprini

17 MARZO
Giornata dell’Unità nazionale, della Costituzione, dell’Inno e della Bandiera 

“La mobilitazione di tutte le energie del Paese nel suo rilancio non può prescindere dal coinvolgimento delle donne. Il divario di genere nei tassi di occupazione in Italia rimane tra i più alti di Europa: circa 18 punti su una media europea di 10. Dal dopoguerra ad oggi, la situazione è notevolmente migliorata, ma questo incremento non è andato di pari passo con un altrettanto evidente miglioramento delle condizioni di carriera delle donne. L’Italia presenta oggi uno dei peggiori gap salariali tra generi in Europa, oltre una cronica scarsità di donne in posizioni manageriali di rilievo. Una vera parità di genere non significa un farisaico rispetto di quote rosa richieste dalla legge: richiede che siano garantite parità di condizioni competitive tra generi” (dall’intervento di Mario Draghi al Senato per la fiducia al suo governo). 

Mario Draghi ha posto tra le priorità del suo governo la necessità di coinvolgere le donne nella mobilitazione di tutte le energie del Paese in questo momento di drammatica emergenza sanitaria ed economica, per trovare adeguate e concrete misure per porre fine alle persistenti disparità di genere nella società italiana. Il rispetto però delle “quote rosa”, che ha suscitato molte polemiche nella formazione del nuovo governo perché non pienamente attuato, risolverebbe in maniera solo formale la sotto-rappresentazione delle donne in politica e la cronica scarsità di donne in posizioni manageriali di rilievo, in quanto verrebbe  meno il criterio del merito, per cui tutti gli italiani, comprese ovviamente anche le donne, possono aspirare a essere classe dirigente del loro Paese a partire da una rigorosa formazione culturale e professionale.

Se comunque la metà del cielo non è ancora  adeguatamente rappresentata, non siamo però all’anno zero  della presenza femminile in ruoli di rilievo: la radicale Emma Bonino nella politica, la virologa Ilaria Capua e la direttrice del CERN Fabiola Gianotti nella scienza, la costituzionalista Marta Cartabia nella giurisprudenza, la schermitrice Valentina Vezzali nello sport, per fare solo alcuni tra i molti nomi possibili, stanno a dimostrare che l’eccellenza delle donne in Italia e nel mondo, se ancora minoritaria rispetto agli uomini, è il risultato di un processo storico di conquiste sociali e democratiche, nato negli anni del Risorgimento, confermatosi con il suffragio universale del Referendum del 1946 fino alle lotte per i diritti civili (il divorzio, l’aborto, il nuovo diritto di famiglia) nella seconda metà del secolo scorso.

Per restare solo nell’ambito della Toscana abbiamo fulgidi esempi di donne appartenenti a ogni ceto sociale che parteciparono ai momenti salienti della storia italiana dagli anni del Risorgimento e della Resistenza a oggi. Ne ricordiamo alcune.

L’aristocratica milanese Cristina Trivulzio di Belgioioso, che dopo aver speso gli anni della sua giovinezza per l’Indipendenza italiana, in tarda età scrive saggi politici e pubblica nel primo numero della rivista di Firenze “Nuova Antologia” (1866) l’articolo Della presente condizione delle donne e del loro avvenire.

Le trecciaiole della campagna fiorentina e le sigaraie della manifattura tabacchi di Sant’Orsola a Firenze, che alla fine dell’Ottocento intrapresero duri scioperi per una più equa retribuzione del loro lavoro e per l’assistenza alla maternità.

Anna Maria Enriquez Agnoletti, già studentessa al liceo Michelangiolo di Firenze, che fu catturata dai nazifascisti negli anni della Resistenza e fucilata il 12 giugno 1944 in località Cercina di Sesto Fiorentino, insignita di Medaglia d’oro al Valore Militare ed alla Memoria, come viene ricordato in una lapide apposta sulla facciata del Liceo Michelangiolo.

Via_della_colonna,_liceo_michelangelo_03_targa

L’insegnante Bianca Bianchi che, dopo il suo impegno politico all’Assemblea Costituente, riprese con entusiasmo il suo impegno per la scuola – fondando a Montesenario la Scuola d’Europa, centro educativo di sperimentazione didattica, strutturato secondo il metodo Pestalozzi, che accoglieva ragazzi delle scuole elementari e medie; e tornò poi in politica quasi vent’anni dopo, essendo eletta consigliera comunale a Firenze e poi Vicesindaco e Assessora.

Infine, se ad oggi il cammino dell’emancipazione femminile non si è ancora concluso, questo processo storico non deve comunque trasformarsi in una lotta ideologica di genere contro la supremazia maschile, ma inverarsi oggi in un’unità di intenti contro la pandemia assieme a una volontà comune di superare nel prossimo futuro le disparità di status che ancora esistono tra uomini e donne.

Questo spirito di concordia che animò gli italiani il 17 marzo di 160 anni fa – citando ancora Draghi nel suo intervento al Senato – “è un dovere guidato da ciò che son certo ci unisce tutti: l’amore per l’Italia”.

 

 

Archiviato in:Editoriale

La maleducazione e la buona politica

01/02/2021 da Sergio Casprini

 

Sergio Tramma, docente di pedagogia all’Università di Milano ha recentemente pubblicato un libro intitolato Sulla maleducazione. L’autore scrive che nel passato vigeva in buona parte della popolazione una buona educazione, fatta di stile e di buone maniere in famiglia e in società, di adesione ai valori morali di gentilezza e bontà e mai di sopraffazione e superbia; oggi invece in una società a un tempo massificata, ma anche differenziata e divisa in una pluralità di gruppi sociali e di etnie diverse, la maleducazione, l’intolleranza, la cattiveria si sono imposte nelle famiglie, nei luoghi di lavoro, nelle scuole e nelle sedi istituzionali senza alcun freno, anzi trovando ulteriore alimento sui social e sui media.Tramma, che analizza tutto ciò dal punto di vista sociale, pensa che una possibile soluzione potrebbe essere un maggiore accesso a validi sistemi pedagogici per ritrovare quella buona educazione del passato, ma non vede invece il fenomeno da un punto di vista politico.

Infatti, se oggi assistiamo ai tanti talk show di dibattito politico, ci troviamo in un’arena (titolo appunto di una seguita trasmissione televisiva) dove opinionisti, uomini di cultura e di scienza, politici si azzuffano spesso con male parole a prescindere dal merito della discussione, assicurando certamente audience alla trasmissione a scapito però di una corretta ed equilibrata informazione. È ancora più grave che anche nei dibattiti parlamentari l’offesa all’avversario politico sostituisca spesso l’argomentata critica alle sue proposte. Si tratta di un cattivo esempio che da un lato fa proseliti tra i cittadini meno attrezzati sul piano educativo e culturale, dall’altro disgusta gli elettori che hanno le idee chiare su come dovrebbe svolgersi la discussione pubblica.

La maleducazione, con le conseguenti rissosità e mancanza di rispetto reciproco, è quindi uno dei germi che infettano la buona politica e acuisce quel clima di sfiducia nelle istituzioni che nel nostro Paese c’è sempre stato a partire dall’Unità Italiana, anche se in un contesto diverso sul piano sociale e culturale.

Pasquale Villari

All’indomani delle disastrose sconfitte di Lissa e Custoza nel 1866, che provocarono accese polemiche e accuse al governo e ai comandi militari, lo storico Pasquale Villari pubblicò sulle pagine del “Politecnico” l’articolo Di chi è la colpa? Lo storico rifletteva sul modo in cui era stata condotta la guerra contro l’Austria e sulle responsabilità delle alte sfere militari nel determinare l’esito del conflitto. Ma le sue considerazioni andavano oltre i tragici eventi del momento e investivano molti altri problemi del nostro Paese, come la debolezza della sua struttura politica, lo strapotere delle “consorterie” che “fanno un disonesto monopolio del Governo a vantaggio di pochi”, la soffocante burocrazia piemontese, giungendo ad un’amara conclusione: “Bisogna però che l’Italia cominci col persuadersi, che v’è nel seno della nazione stessa un nemico più potente dell’Austria, ed è la nostra colossale ignoranza, sono le moltitudini analfabete…Non è il quadrilatero di Mantova e Verona che ha potuto arrestare il nostro cammino, ma è il quadrilatero di 17 milioni di analfabeti e 5 milioni di arcadi”.

A Villari risposero i governi italiani di allora con l’istituzione delle scuole pubbliche e favorendo una maggiore partecipazione dei cittadini alla vita politica con l’allargamento nel corso degli anni della base elettorale. Va detto inoltre che l’Italia liberale degli anni dei Risorgimento in presenza di forti squilibri sociali e culturali era sì una società elitaria in via di massificazione, ma aveva conservato pure legami comunitari di tipo tradizionale, per cui anche il popolo analfabeta possedeva le minime regole della buona educazione e il rispetto dell’autorità, fosse quella del maestro, del farmacista, del carabiniere e del prete, riconoscendone i ruoli e le competenze.

Paradossalmente nella società italiana contemporanea, in una situazione di maggior benessere economico e di maggior partecipazione democratica, i cittadini di qualsiasi ceto posseggono meno quella cultura di base, costitutiva di un’identità nazionale, che è la conoscenza storica del proprio Paese, sicuramente per via della crisi della scuola pubblica come agenzia formativa nel segno del rigore e del merito. Nello stesso tempo si è allentato il civismo degli italiani, fatto non solo di rispetto delle leggi e delle istituzioni, ma anche di osservanza delle regole di comportamento sociale. Si finisce così per abbandonarsi per futili motivi ad atti di intolleranza e di arroganza e all’uso del turpiloquio nella comunicazione sia privata che pubblica. Anche la classe dirigente non è esente da cadute di stile, sia sul piano culturale che comportamentale e questo spiega in parte il clima crescente di sfiducia dei cittadini nei suoi confronti e l’affermarsi del sentimento dell’antipolitica, così diffuso in questi anni.

Per tornare allora a una buona Politica occorrerebbe che alla mensa sia dei potenti che dei poveracci non mancasse mai il pane della buona Cultura e della buona Educazione.

 

Archiviato in:Editoriale

AUSPICI PER IL NUOVO ANNO

01/01/2021 da Sergio Casprini

  Passeggere: “Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?’”. Venditore: “Speriamo… Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere

Giacomo Leopardi, Operette Morali

Il dialogo, scritto nel 1832, è ambientato per strada, in una città di cui non viene indicato il nome. Giacomo Leopardi l’anno dopo si trasferì con l’amico Ranieri a Napoli, dove il poeta visse gli ultimi suoi tristi anni: scampato al colera scoppiato nell’ottobre 1836, morì qualche mese dopo per idropisia e conseguente attacco di asma a soli 38 anni. Nonostante ciò il tono di questo dialogo è diverso da quello sarcastico e amaro di tante Operette, le considerazioni sulla irrimediabile infelicità umana sono pacate, quasi serene. Infatti il passeggere giunge alla conclusione che la felicità consiste nell’attesa di qualcosa che non si conosce, nella speranza di un futuro diverso e migliore del passato e del presente:“Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura”.

Giacomo Leopardi Ugolino Panichi 1898 Recanati

La speranza e la fiducia nelle sorti dell’umanità sono state il motore della storia in ogni epoca e in ogni terra, un élan vital, direbbe il filosofo Henry Bergson, che ha permesso di superare momenti drammatici come quelli vissuti da Leopardi. In quell’epoca imperversavano il colera e altre tragiche pandemie e ampi strati di popolazione vivevano in gravi condizioni d’indigenza, con alti tassi di mortalità, in particolare di quella infantile, quasi del tutto privi di assistenza sociale e medica. L’Italia era da secoli teatro di scorrerie di eserciti stranieri e si poteva solo avere la speranza di un futuro migliore, un sentimento condiviso di poter un giorno far parte di una comunità nazionale, come d’altronde lo stesso Leopardi aveva auspicato: “La propria nazione, coi suoi confini segnati dalla natura, è la società che ci conviene. E conchiudo che senza amor nazionale non si dà virtù grande” (Pensieri di varia filosofia e bella letteratura, Zibaldone, 1838)

Il suo messaggio di amor patrio e di fratellanza universale a distanza di due secoli è ancora valido oggi ai tempi del Covid, nonostante le forti differenze tra l’Italia di Giacomo Leopardi e L’Italia del 2020, un Paese che ha conosciuto, sia pure tra luci e ombre, un forte processo di modernizzazione economica, sociale e politica a partire dai progressi della medicina e della scienza. Eppure è bastato l’imprevisto arrivo di un virus fortemente contagioso e letale per farci ritrovare in un’atmosfera di paure, di risentimenti e di false credenze. Il 2021 inizia ancora in piena pandemia, ma si apre alla speranza di un’uscita da questa emergenza sanitaria con l’inizio di una vaccinazione di massa nel giro di alcuni mesi.

E i tempi saranno brevi se gli italiani, come nel passato, a partire dalle classi dirigenti, ritroveranno un senso di responsabilità collettiva, la coscienza civica di un popolo unito e non diviso in egoismi individuali e di fazione. Lo dobbiamo non solo a noi stessi come comunità nazionale, ma soprattutto alle nuove generazioni che hanno diritto, oltre che a una formazione che ne faccia cittadini preparati e responsabili, a sperare in un futuro non horribilis come quest’ultimo anno di scuole chiuse e di restrizioni sociali.

 

Archiviato in:Editoriale

Celebrare il Natale ai tempi del Covid

01/12/2020 da Sergio Casprini

Natale 2019 a Firenze

Glória in excélsis Deo et in terra pax homínibus bonæ voluntátis…
(Incipit dell’inno di Natale dal Vangelo di Luca)

Negli anni scorsi, quando si avvicinava Natale, per la maggior parte degli italiani partiva la corsa agli acquisti e saliva la febbre consumistica nonostante che fossero anni di grave crisi economica, e si ripeteva l’affollamento delle stazioni sciistiche. Nell’occidente cristiano, da tempo secolarizzato, è venuta infatti sempre meno la dimensione spirituale e simbolica delle feste natalizie, che sono invece diventate l’occasione per lo shopping di massa, oppure per vivere in maniera smodata l’attesa del nuovo anno con botti, fiumi di alcool e cocci di vetro nelle piazze. L’emergenza sanitaria ha costretto il governo italiano a decidere misure restrittive per le feste di quest’anno: regolamentazione degli orari dei negozi e controllo delle misure di distanziamento nelle strade e nelle piazze, niente cenoni e veglioni nei ristoranti, ma solo in casa con i propri familiari, la chiusura degli impianti sciistichi.

Nel richiamo costante da parte delle istituzioni a un maggior senso di responsabilità, alla sobrietà, a una fattiva solidarietà verso il prossimo e all’unità d’intenti di fronte alle difficoltà, il Natale ritrova almeno in parte lo spirito tradizionale, orientato al desiderio di pace e alla fraternità tra gli uomini di ogni razza e ceto sociale.

Anche in altri momenti storici, come durante la tragica Grande Guerra, si può ritrovare questo autentico spirito natalizio: basta ricordare la Tregua di Natale, una serie di “cessate il fuoco” non ufficiali avvenuti nei giorni attorno al Natale del 1914 in varie zone del fronte occidentale della prima guerra mondiale. Già nella settimana precedente il Natale, membri delle truppe tedesche e britanniche schierate sui lati opposti del fronte presero a scambiarsi auguri e canzoni dalle rispettive trincee e occasionalmente singoli individui attraversarono le linee per portare doni ai soldati nemici. Nel corso della vigilia di Natale e del giorno stesso di Natale, un gran numero di soldati provenienti da unità tedesche e britanniche (nonché, in misura minore, da unità francesi) lasciarono spontaneamente le trincee per incontrarsi nella terra di nessuno per fraternizzare, scambiarsi cibo e souvenir. Oltre a celebrare comuni cerimonie religiose e di sepoltura dei caduti, i soldati dei due schieramenti intrattennero rapporti amichevoli tra di loro al punto di organizzare improvvisate partite di calcio.

In un breve saggio del 1942, Perché non possiamo non dirci “cristiani”, Benedetto Croce sostiene che il Cristianesimo ha compiuto una rivoluzione «che operò nel centro dell’anima, nella coscienza morale, e conferendo risalto all’intimo e al proprio di tale coscienza, quasi parve che le acquistasse una nuova virtù, una nuova qualità spirituale, che fino allora era mancata all’umanità»

Invero Croce non aveva abbandonato la sua convinzione laica, né si schierava certo a difesa della Chiesa romana, ma aveva capito che i valori di umanità e di fraternità, che ritroviamo in particolare nella festa cristiana del Natale, sono valori anche per i non credenti, per gli uomini di buona volontà che hanno combattuto per la libertà e per la pace tra gli uomini, come accadde in Italia dagli anni del Risorgimento alla Resistenza.

Oggi non siamo per fortuna in guerra o sotto una dittatura, viviamo in un Paese democratico e godiamo di maggiore benessere economico rispetto al passato. Il Covid ha messo però a nudo la nostra insicurezza e fragilità di cittadini, viziati come siamo dall’attuale società edonistica di massa; e il Natale sobrio che ci attende questo anno può fortificare il nostro animo e farci ritrovare un’autentica solidarietà umana.

Sergio Casprini

Giotto Il Presepio di Greccio Basilica di San Francesco Assisi

Archiviato in:Editoriale

Unità nazionale contro il nemico Covid

01/11/2020 da Sergio Casprini

 

Sia Milano come un alveare, voi pensate che i tempi siano cattivi. I tempi sono pesanti, i tempi sono difficili. Ma vivete bene e muterete i tempi. Sant’Ambrogio, Vescovo di Milano nel IV secolo 

Il 26 ottobre si è svolta al Quirinale la cerimonia di apertura de “I giorni della ricerca”, l’iniziativa promossa ogni anno dall’Associazione italiana per la ricerca sul cancro. In questa occasione il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, dopo aver rinnovato a governo e Regioni l’appello all’unità contro la pandemia, ha ricordato agli italiani che “il vero nemico di tutti e di ciascuno è il virus. Il responsabile di lutti, di sofferenze, di sacrifici, di rinunce, di restrizioni alla vita normale è il virus“.

Volutamente Mattarella ha usato un linguaggio militare per ammonire gli italiani a non sottovalutare la grave minaccia che rappresenta il diffondersi del contagio. Quella contro il virus è infatti una vera e propria guerra, che va combattuta costituendo un fronte comune che veda cointeressate le istituzioni politiche, economiche e scientifiche, nazionali e sovranazionali, a oriente come a occidente, limitando per quanto possibile le divisioni tra i governi sulle scelte di politica economica e sanitaria. Rispetto però alle guerre tradizionali il Covid è un nemico più infido e subdolo: non si mostra nei campi di battaglia, ma si nasconde tra di noi nelle strade e nelle piazze, nei luoghi pubblici e nei mezzi di trasposto, nelle nostre case e in molti casi nei nostri corpi senza presentare sintomi.

Certamente nel discorso di Mattarella non c’era l’enfasi retorica del messaggio di Vittorio Emanuele III, quando il 24 maggio 1915 annunciò dal balcone del Quirinale alla folla festante l’entrata in guerra dell’Italia contro l’impero austro-ungarico. Oggi viviamo in uno stato più democratico, meno elitario e gerarchizzato di allora, in un rapporto dialettico tra istituzioni e società civile.

Mattarella, garante dell’Unità della Patria, si rivolge sia alle istituzioni che ai cittadini italiani, confidando nel loro senso di responsabilità rispetto ai sacrifici, alle rinunce e alle restrizioni che riguardano la vita normale, nella consapevolezza che una piena cittadinanza democratica comporta diritti e doveri nei confronti della comunità in cui si vive, si studia e si lavora. Il nostro Presidente, in questo drammatico frangente, più che generale è dunque un pater familias, di una famiglia che è l’intera nazione, a cui si rivolge con accenti fermi ma anche rassicuranti.

E sarebbe auspicabile che i giovani, che sono a un tempo più trasgressivi e più fragili, in questo difficile momento della loro vita sentissero di più la vicinanza del Presidente della Repubblica anche attraverso una comunicazione diretta sui cosiddetti “social”, che sono di gran lunga i loro mezzi di comunicazione preferiti. Magari a partire dal prossimo 4 NOVEMBRE, giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate.

 

 

 

 

 

 

Archiviato in:Editoriale

Gli italiani durante la pandemia tra rispetto della legge ed anarchia

01/10/2020 da Sergio Casprini

 “Il capo supremo deve essere giusto per se stesso e tuttavia essere un uomo. Da un legno storto com’è quello di cui l’uomo è fatto non può uscire nulla di interamente diritto” (Kant, Scritti politici).

Appena pochi mesi fa, in tempi di rigido confinamento, gli italiani, pur reclusi nelle loro case, avevano reagito positivamente, esorcizzando apprensioni e paure con video ironici e irridenti sui Social, manifestando sui balconi con canti e musica, con tricolori sulle ringhiere, con inni patriottici, da quello di Mameli a Bella Ciao; in poche parole, dimostrando una forte coesione sociale e nazionale. Una serietà di comportamento civico che il presidente Mattarella ha infatti recentemente rivendicato a fronte delle ingiustificate insinuazioni di minore abitudine alla libertà provenienti dal premier britannico.

Quando però si è allentata la morsa tragica del Covid ed è venuta meno la necessità di un rigoroso lockdown (ma non il rispetto di alcune regole di cautela sanitaria) il comportamento virtuoso degli italiani, soprattutto tra i giovani elettrizzati dalla ritrovata libertà di movimento, è in buona misura sparito. Così abbiamo avuto gli spensierati addensamenti di bagnanti in quasi tutte le spiagge, i viaggi in paesi esteri a rischio di contagio, l’ovvia perdita di distanziamento tra gli eccitati frequentatori delle discoteche sciaguratamente riaperte e infine gli assembramenti (e gli schiamazzi) della movida selvaggia fino a tarda notte.

Non c’è quindi da meravigliarsi se nelle ultime settimane, come d’altronde previsto da epidemiologi e virologi, la curva del contagio da Covid ha ricominciato a salire. Se pure non raggiungeremo i numeri dello scorso inverno, il virus sarà debellato definitivamente solo con la messa a punto e la somministrazione del vaccino.

Intanto da metà settembre c’è stata la tanto auspicata riapertura in sicurezza delle scuole, pur tra polemiche per la mancanza degli insegnanti, dei banchi, degli spazi alternativi ad aule troppo piccole e l’indegno scaricabarile tra amministrazioni locali e governo centrale sulle linee da seguire.

Gli studenti e gli insegnanti, salvo rare eccezioni, hanno accettato le restrizioni imposte da ragioni sanitarie con forte senso responsabilità, consapevoli che il diritto allo studio va garantito nel rispetto delle regole, anche le più rigide, in casi eccezionali come quelli che stiamo vivendo.

Nei fatti, ancor prima di studiarla su testi scolastici, in questo primo scorcio dell’anno scolastico gli allievi hanno messo in pratica i contenuti della nuova disciplina in vigore in tutte le scuole di ogni ordine e grado, l’Educazione Civica, per cui le leggi e le regole della convivenza a scuola e fuori vanno rispettate, pena la sanzione amministrativa o penale.

Un comportamento civico che invece i giovani (e non solo) non tengono nelle notti fiorentine della malamovida, in particolare in piazza Santo Spirito e dintorni, come viene riportato dalla testimonianza di un residente:

Sono le 10.30 di sabato sera, da qualche giorno l’estate sembra essersi fatta da parte per dar spazio a un inverno forse troppo anticipato, è sabato, un fine settimana qualunque per la Movida che qui in Santo Spirito non conosce stagioni, dalle finestre di casa mia si sente già l’arrivo di masse fuori controllo, urla, bottigliate, stereo a tutto volume, l’immaginazione vola, mi sembrano eserciti di barbari che si stanno preparando alla battaglia, l’assedio ha inizio, come sempre qui, terra di nessuno, le invasioni barbariche della notte si apprestano a conquistare la piazza, ne vedremo delle belle penso, la serata è appena all’inizio…

Eppure nella piazza quella sera c’erano sia la polizia che i vigli urbani, che, a fronte delle rimostranze dei residenti, per non intervenire hanno accampato la giustificazione di non poter malmenare dei minorenni oppure di non disporre del reparto mobile, impiegato invece in gran numero e in tenuta anti-sommossa per le partite allo stadio o per le manifestazioni politiche. Come se si fosse ancora ai tempi del generale Bava Beccaris che cannoneggiò sul popolo affamato e in rivolta nelle strade della Milano del 1898 oppure si dovessero ripetere i violenti pestaggi dei manifestanti alla caserma Diaz di Genova nel 2001.

D’altronde in una situazione così grave di degrado sociale e civico per colpa di una minoranza sia pure esigua di fiorentini non è il momento di fare analisi più o meno profonde sui comportamenti giovanili nella società consumistica di massa o deprecare in maniera ideologica la perdita di identità dei centri storici. Ora più che mai, in tempi di emergenza sanitaria, va salvaguardato il diritto costituzionale alla salute e alla quiete non solo con misure amministrative, quali gli orari degli esercizi commerciali, il consumo di alcool, gli eccessi di suoni e di rumori e soprattutto lo spostamento della movida fuori dai centri abitati, ma anche con l’uso responsabile della forza che ogni stato democratico veramente autorevole deve esercitare.

Non può una minoranza di incivili imporre in maniera irridente e arrogante il suo comportamento illegale ad altri cittadini e restare impunita; e il nostro governo cittadino e quello nazionale non possono restare inerti a fronte di comportamenti barbari che gettano discredito su Firenze e l’Italia, per cui molti italiani hanno dato gli anni della loro giovinezza con generosità, impegno costante e talora sacrificando la loro vita.

 

 

 

 

Archiviato in:Editoriale

I 150 anni della Breccia di Porta Pia

01/09/2020 da Sergio Casprini

 «[…] La porta Pia era tutta sfracellata; la sola immagine della Madonna, che le sorge dietro, era rimasta intatta; le statue a destra e a sinistra non avevano più testa; il suolo intorno era sparso di mucchi di terra; di materasse fumanti, di berretti di Zuavi, d’armi, di travi, di sassi. Per la breccia vicina entravano rapidamente i nostri reggimenti. […]» Edmondo de Amicis Le Tre capitali, Torino, Firenze, Roma, 1898

Il 20 settembre 1870 il tratto di mura aureliane tra Porta Pia e Porta Salaria fu l’obiettivo dell’attacco principale sferrato dalle truppe italiane guidate dal generale Raffaele Cadorna in vista della conquista di Roma.

Il cannoneggiamento delle mura iniziò alle 5 di mattina. Pio IX aveva minacciato di scomunicare chiunque avesse comandato di aprire il fuoco sulla città. La minaccia non sarebbe probabilmente stata in ogni caso un valido deterrente per l’attacco, fatto sta che l’ordine di cannoneggiamento non giunse da Cadorna, bensì dal capitano d’artiglieria Giacomo Segre, giovane ebreo comandante della 5ª batteria del IX° Reggimento, che ovviamente non sarebbe incorso in alcuna scomunica. Dopo che i primi colpi di artiglieria ebbero colpito le mura, il papa ordinò al generale in capo delle truppe pontificie H. Kanzler di limitare la difesa al tempo necessario per affermare la protesta della Santa Sede e di aprire le trattative di resa ai primi colpi di cannone. Tuttavia Kanzler preferì rinviare le sue decisioni e verso le ore dieci dal campo pontificio fu esposta la bandiera bianca dopo un assalto del 40° reggimento di fanteria, nel momento in cui i reparti italiani più prossimi all’ampia breccia nel frattempo aperta nelle mura dall’artiglieria davano inizio all’entrata degli italiani in Roma. Lo scontro a fuoco quindi durò poche ore e non ci furono molti caduti nei due eserciti. Secondo i dati forniti dal Generale Raffaele Cadorna nel suo libro La liberazione di Roma, l’intera campagna di occupazione del Lazio costò 49 morti e 141 feriti all’esercito italiano, 20 morti e 49 feriti a quello pontificio. Se pertanto l’episodio militare della Presa di Porta Pia non va certo ricordato tra le imprese più significative del nostro Risorgimento per l’eroismo e il sacrificio dei patrioti italiani, ha però sempre avuto un forte valore simbolico nel processo di unificazione nazionale, anche se fu la ragione della grave frattura politica e diplomatica tra Chiesa di Roma e il giovane Regno d’Italia. Va infatti ricordato che l’anniversario del 20 settembre è stato festività nazionale fino alla sua abolizione dopo i Patti Lateranensi nel 1929, che hanno sancito la ripresa delle relazioni diplomatiche tra Papato e Stato italiano.

Giuseppe Vizzotto 1892 Museo di San Martino

Il maggiore Giacomo Pagliari, colpito a morte dall’esercito papalino

Dopo la caduta del fascismo e la nascita della Repubblica, solo le associazioni laiche, i radicali, i liberali e i socialisti hanno ogni anno commemorato il 20 settembre, talora con l’adesione delle istituzioni civili nei luoghi simbolo del Risorgimento. La Santa Sede da anni però non ha più le posizioni politiche oltranziste del 1870. Già nel 1962, il Cardinale Montini, futuro Papa  Paolo VI, affermò che il papato, perdendo il potere temporale, aveva ripreso “con inusitato vigore le sue funzioni di maestro di vita e di testimonio del Vangelo, così da risalire a tanta altezza nel governo della Chiesa e nell’irradiazione morale sul mondo, come prima non mai.” E va pure ricordato che negli anni del Risorgimento religiosi e pensatori cattolici avevano manifestato il loro amore per l’Italia, come, per citarne alcuni, Ugo Bassi, Don Giovanni Verità, Antonio Rosmini e Vincenzo Gioberti.

Invece nelle manifestazioni delle associazioni laiche, purtroppo con scarsa partecipazione popolare, risuonano ancora accenti anticlericali come se fossimo ancora ai tempi del Sillabo e di Pio IX, quando ormai da tempo la Chiesa di Roma ufficialmente riconosce i principi democratici e repubblicani dello Stato Italiano e della sua Carta Costituzionale, senza alcun rimpianto per il passato potere temporale. D’altronde lo stesso Stato repubblicano, recependo in Costituzione i patti Lateranensi, al di là del giudizio storico e politico che se ne può dare, ha voluto riconoscere i valori del cattolicesimo come fattori costitutivi della storia del nostro Paese.

Le commemorazioni del 20 settembre dovrebbero quindi avere lo scopo di rafforzare una memoria condivisa dei valori del Risorgimento tra gli italiani laici, cattolici e non credenti, superando anacronistici steccati ideologici.

Con il 25 aprile, il 2 Giugno, il 4 Novembre, il 17 marzo, anche il 20 Settembre è una data fondamentale in quel processo storico, che ha visto l’affermazione dell’Unità, dell’Indipendenza e della Democrazia nel nostro Paese. Una data che deve tornare a essere  come il 17 Marzo una solennità civile, di modo che la sua celebrazione contribuisca non solo a trasmettere i valori e gli ideali dei nostri nonni ai giovani di oggi, ma anche a rafforzare la nostra identità nazionale e la coesione sociale. Altrimenti sarebbe difficile superare lo smarrimento, le divisioni, la perdita dell’interesse generale, la crisi dell’etica pubblica; e a maggior ragione in momenti drammatici come quelli che stiamo vivendo a causa dell’attuale pandemia. In altre parole, si tratta di fondare quella religione civile che ancora manca alla nostra Nazione e che invece può rianimare tra gli Italiani un comune sentimento di appartenenza e una condivisa volontà di costruire un’Italia migliore, degna del suo glorioso passato politico e culturale.

 

 

 

.

Archiviato in:Editoriale

Essere europei tra “Ragione e sentimento”

01/08/2020 da Sergio Casprini

“Il problema che in primo luogo va risolto, e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell’Europa in Stati Nazionali sovrani.” Manifesto di Ventotene

Ernesto Rossi ed Altiero Spinelli

 Al termine di quattro giorni di serrata trattativa, in cui a un certo punto sembrava compromesso il processo d’integrazione dell’Europa, il Consiglio Europeo riunito a Bruxelles è approdato a una bozza di intesa sul Recovery Fund, un fondo garantito dal bilancio della UE da utilizzare per aiutare i Paesi colpiti dalla crisi economica in seguito alla pandemia. Si sta per questo avverando il sogno di un’Europa sovranazionale, come nel 1941 si auguravano Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi nel cosiddetto Manifesto di Ventotene?

A distanza di 70 anni dalla stesura di quel testo è lecito avere qualche dubbio. Anche se ci sono nell’accordo di Bruxelles autentici aspetti innovativi, sarebbe infatti errato trarre dalle parole di Spinelli e dei suoi sodali un giudizio positivo sull’Unione Europea di oggi, che è in larga parte responsabile – complici le miopie nazionali – della sua stessa crisi. E se è giusto interpretare questo accordo come una vittoria del campo europeista, è al momento impensabile che il cammino dell’integrazione possa finalmente riprendere con passo spedito. Intanto le divisioni non sono superate; e soprattutto pesano come un macigno non tanto il contrasto tra le formiche del Nord e le cicale del Sud, quanto le lesioni allo stato di diritto inferte recentemente dai Paesi dell’Est, se è vero che la società aperta – con le sue libertà civili ed economiche, la democrazia liberale, il governo della legge – è alla base del progetto europeo. Nonostante il prestigio del messaggio partito da Ventotene e le idee e i sentimenti di ristrette élite federaliste, l’Unione (già Comunità Economica Europea) è nata e cresciuta con un compito preciso: contribuire a soddisfare le esigenze di benessere degli europei dopo gli orrori del nazismo, del fascismo e le macerie della guerra. Il suo più grande successo è il mercato unico. Forse, e sperabilmente, risulterà esserlo anche la moneta. Di fatto  a partire dai trattati di Roma del 1957 si è avviato un processo di integrazione  economica, a cui non è seguito in parallelo un processo di unità politica, né ha fatto passi avanti il progetto di una difesa comune, senza la quale, come sostengono i federalisti, non c’è unità politica europea possibile.

La firma dei Trattati di Roma

Ma quello che manca soprattutto è un’ Europa che ispiri ai suoi cittadini emozioni e senso di appartenenza e non ottenga soltanto un consenso razionale ad efficaci strategie economiche. E il sentimento anima la sfera della politica quando è fondata su grandi aspirazioni ideali e forti valori, come era per gli estensori del Manifesto di Ventotene e per i mazziniani della Giovane Europa.

Ma nonostante lo slancio ideale, la generosità dell’impegno e la lucidità dei suoi promotori, il progetto unitario vagheggiato già dagli europeisti dell’Ottocento e poi del Novecento non è stato finora realizzato; e non certo per colpa dei tecnocrati e dei finanzieri di Bruxelles. Infatti storicamente si sono affermati i movimenti di indipendenza nazionale quando c’è stata l’unione tra l’èlite culturale e politica e il popolo in nome di radici e valori culturali comuni e contro l’oppressione dello straniero.

 Dobbiamo comunque continuare a perseguire il sogno di una futura unità dell’Europa. Infatti seppure durante la stesura della Costituzione Europea, poi bocciata nel 2005 dai francesi e dagli olandesi, si sia discusso a lungo se l’Europa si radicasse nei princìpi dell’illuminismo o su quelli del cristianesimo, è certo che i valori della società aperta e democratica sono ormai da tempo costitutivi di una forte identità europea. La minaccia della pandemia di questi mesi potrebbe allora essere l’occasione per rafforzare il sentimento di solidarietà tra i cittadini europei e tra i governanti delle singole nazioni, di modo che la recente intesa sul Recovery Fund possa essere realmente un momento importante del cammino di cuore e d’intelletto verso un destino comune.  Sergio Casprini

 

 

 

 

Archiviato in:Editoriale

Il giudizio morale sulla Storia ed i monumenti del passato

01/07/2020 da Sergio Casprini

La rimozione della statua di Cristoforo Colombo al Tower Grove Park di St. Louis, in Missouri 

 

Nei college americani ed anche in prestigiose università inglesi da qualche anno si era affermato un movimento culturale “politicamente corretto” di reinterpretazione moralistica della storia con l’obbiettivo di combattere le discriminazioni contro le minoranze, per il rispetto delle differenze  e la difesa del multiculturalismo con il bando di parole e termini potenzialmente offensivi.

Questa visione manichea della storia ha trovato nuova linfa nelle proteste anti-razziste nate negli Stati Uniti dopo l’uccisione dell’afroamericano George Floyd, avvenuta il 25 maggio 2020 per un brutale intervento di un poliziotto di Minneapolis, e si è trasformato in furia iconoclastica (l’abbattimento o rimozione di statue e lapidi, l’oltraggio ai monumenti e la censura alle opere d’arte), per cui minoranze radicali in modo violento intendono imporre la propria visione ideologica all’intera società: non il riconoscimento degli errori del passato (da spiegare e contestualizzare senza giustificarli), ma la loro cancellazione simbolica e materiale. Se nel passato in momenti rivoluzionari i vincitori militari, i capi politici o le masse infuriate hanno cercato di cancellare ogni traccia dei loro nemici pubblici oggi sconcerta che questa forma odierna di damnatio memoriae, indirizzata contro personalità del passato accusate d’aver praticato o avallato politiche discriminatorie su base razziale quando vigevano altri sistemi di valore e sensibilità, nasca nel cuore del mondo per definizione libero, pluralistico e tollerante.Da Churchill a Cristoforo Colombo, le icone della storia vengono travolte dall’onda delle proteste antirazziste in giro per il mondo, che in Italia non risparmiano personaggi come Montanelli  a Milano, Gabriele D’Annunzio a Trieste, l’obelisco “Mussolini dux” a Roma ed i padri della Patria Vittorio Emanuele II a Torino e Giuseppe Garibaldi a Napoli. La demonizzazione tra l’altro di questi personaggi della storia ha come principale obiettivo la rimozione di monumenti che sono  mere testimonianze silenti del passato, elementi ormai di arredo urbano, talora di dubbio gusto estetico, che riemergono dall’oblio solo in occasione di ricorrenze istituzionali senza un rapporto vivo con le nuove generazioni, non in grado quindi di coglierne appieno luci ed ombre del loro significato storico.

In Italia ci sono stati però episodi in cui monumenti storicamente imbarazzanti sono stati conservati con intelligenti interventi di ricontestualizzazione dell’opera salvaguardandone la memoria ed il significato di quando fu realizzata.

A Pietrasanta nel 1848 fu realizzata la statua di Leopoldo II, granduca di Toscana, l’anno in  cui il sovrano concesse lo Statuto liberale ai suoi sudditi ed anche per celebrare i 35 anni di governo illuminato in Versilia; infatti gli originali quattro bassorilievi con cui fu deciso di ornare il piedistallo del monumento II riflettevano l’operato riformista del Granduca  sul territorio di Pietrasanta e vennero così intitolati: “La fondazione della Scuola di Belle Arti”; “Il libero commercio”; “Il bonificamento dell’agro pietrasantese” e “Il discoprimento delle cave”. Con il successivo passaggio dal governo granducale al Regno d’Italia non tutti gli animi a Pietrasanta rimasero sereni: nell’agosto del 1859 il monumento fu deturpato da mano sconosciuta.  Fu deliberato allora di rimuovere la statua, tenuto conto dell’ormai definitivo cambiamento politico.  Nel 1863 il nuovo gonfaloniere Gaetano Bichi propose invece di revocare la deliberazione, sostenendo che, al di là di ogni considerazione politica, l’opera d’arte andava salvata, e argomentò che, dopo tutto, i monumenti erano destinati a servire da insegnamento ai popoli ed ai regnanti. Reputò pertanto la conservazione del monumento un atto di civiltà, ma suggerì di incidere sulla facciata posteriore del suo piedistallo, il decreto dell’Assemblea Toscana del 16 agosto 1859 con il quale i Lorena erano stati dichiarati decaduti dal trono di Toscana, con l’aggiunta della frase: «Esempio ai popoli ed ai regnanti». Si procedette così alla rimozione del bassorilievo posto sulla facciata posteriore della base del monumento raffigurante il discoprimento delle cave e alla sua sostituzione con la nuova targa che riportava il decreto dell’Assemblea Toscana sulla decadenza dei Lorena.L’ASSEMBLEA TOSCANA

Dichiara che la dinastia austrolorenese, la quale nel 27 aprile 1859 abbandonava la Toscana, senza ivi lasciar forma di governo, e riparava nel campo nemico si è resa assolutamente incompatibile con l’ordine e la felicità della Toscana….

A Bolzano l’ex Casa del Fascio, costruita dal 1939 al 1942, conserva sul suo frontone, posto sopra un arengario, un monumentale bassorilievo dello scultore altoatesino Hans Piffrader con al centro il duce a cavallo e nell’atto del saluto romano e con il racconto del «trionfo del fascismo», opera commissionata dal PNF stesso. Essa è costituita da 57 pannelli di larghezza variabile, alti 2,75 metri, posti su due file sovrapposte, per uno sviluppo lineare di 36 metri, una superficie di 198 metri quadrati e un peso totale di circa 95 tonnellate. Le dimensioni complessive del fregio ne fanno probabilmente il bassorilievo più imponente realizzato durante il fascismo e ancora esposto al pubblico. Nel 2017 il fregio di Piffrader è stato sottoposto, su iniziativa dell’Amministrazione provinciale altoatesina, a un intervento di storicizzazione e depotenziamento con la supervisione di una commissione storica, con l’apposizione di una scritta illuminata che reca una citazione della filosofa tedesca Hannah Arendt in tre lingue (italiano, tedesco, ladino) – «Nessuno ha il diritto di obbedire» – contrapposta al dogma fascista del Credere, obbedire, combattere tuttora presente sul bassorilievo.Sulla piazza stessa è stato installato un pannello informativo con testi esplicativi, resi in quattro lingue, che spiegano la storia dell’edificio, dell’opera di Piffrader, del contesto urbanistico nonché della citazione di Hannah Arendt.    Sergio Casprini

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Archiviato in:Editoriale

  • Vai alla pagina 1
  • Vai alla pagina 2
  • Vai alla pagina 3
  • Pagine interim omesse …
  • Vai alla pagina 13
  • Vai alla pagina successiva »

Barra laterale primaria

L’editoriale del direttore

27 APRILE. LA FESTA DELL’INDIPENDENZA TOSCANA.

Prossimi appuntamenti

DANTE a Radio Toscana

11/04/2021

In tempi di Coronavirus riavvolgere il filo della memoria : il ricordo degli italiani della tragica pandemia Spagnola

12/09/2020

Lettere al Direttore

Le campane a Pasqua

05/04/2021

Focus

PERCHÉ DANTE È DAVVERO L’INVENTORE DELL’ITALIA

29/03/2021

Tribuna

17 MARZO: Giornata dell’Unità nazionale, della Costituzione, dell’Inno e della Bandiera.

17/03/2021

Luoghi

La tomba di Elisabeth Barrett al Cimitero degli Inglesi

14/04/2021

Mostre

Napoleone e il mito di Roma

21/02/2021

Rassegna stampa

QUANDO LE MANI DEI PATRIOTI CERCAVANO LA CARABINA

03/04/2021

Pubblicazioni

Il Novecento dei libri. Una storia dell’editoria in Italia

08/04/2021

RisorgimentoFirenze.it nella tua mail

E' possibile ricevere un messaggio e-mail ad ogni nuova pubblicazione sul nostro sito.
Basta inserire il proprio indirizzo di posta elettronica nella casella sottostante. Il servizio è gratuito e può essere interrotto in ogni momento.

Unisciti a 67 altri iscritti

Footer

Archivio articoli

Archivio rubriche

Area amministrativa

  • Accedi
  • Feed dei contenuti
  • Feed dei commenti
  • WordPress.org

Blogroll

  • Arte del Poggio
  • Comitato livornese per la promozione dei valori risorgimentali
  • PensaLibero.it, quotidiano on line dei laici e dei liberali della Toscana.
  • Risorgimento Toscana
  • Sito ufficiale delle celebrazioni per il 150° anniversario

Direttore Sergio Casprini | Responsabile della Comunicazione Irene Foraboschi | Webmaster Claudio Tirinnanzi