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Risorgimento Firenze

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Tribuna

Il PASSATORE, mito della Romagna

26/12/2022 da Sergio Casprini

Massimo Ragazzini

Gianni Morelli, scrittore ravennate, dedica un capitolo del suo recente libro, Farfalle irrequiete, al mito del Passatore, nome con cui è noto il bandito Stefano Pelloni.

Pelloni nacque il 4 agosto del 1824, ultimo di dieci figli, a Boncellino, borgo sulla riva sinistra del fiume Lamone, frazione del comune di Bagnacavallo. I genitori, Girolamo e Maria Francesca Errani, erano contadini in proprio che arrotondavano le risorse del podere con l’esercizio del traghetto. Mancando il ponte, infatti, una barca collegava le due sponde del Lamone all’altezza del paese. I Pelloni ne guadagnarono il pubblico appalto nella prima metà del Settecento e, con il mestiere, il soprannome di ‘passatori’.

La sua carriera criminale, ci ricorda lo storico Dino Mengozzi, iniziò a diciotto anni, nel settembre 1842, con un furto di fucili a danno di alcuni braccianti. Arrestato dalla colonna mobile di Russi il 10 ottobre 1843 e rinchiuso nelle carceri locali, Pelloni evase un mese dopo. Ripreso dai carabinieri, il minorenne fu incarcerato a Bagnacavallo e infine a Ferrara, ma con alcuni complici scappò ancora due volte. La prima il 29 gennaio 1844; percorsi pochi tratti di strada, fu riconsegnato alla prigione da un muratore, al quale egli avrebbe poi fatto pagare con la vita quel gesto di civismo. La seconda durante la traduzione ai lavori forzati presso il porto di Ancona, cui era stato condannato dal tribunale di Ferrara. Da quei primi di agosto del 1845 non sarebbe più uscito dalla clandestinità, fino alla morte. Datosi alla macchia, formò una banda che per anni seminò il terrore nel territorio delle Legazioni, commettendo rapine di strada, specie a danno di contadini del Lughese e dell’Imolese, violenze, sequestri di persone, audaci assalti di diligenze. Un salto di scala si ebbe dal 1849, nel pieno della crisi politica dello Stato pontificio: iniziarono allora gli assalti alle città romagnole, di piccole e medie dimensioni (Bagnara, Cotignola, Castel Guelfo, Brisighella, Longiano, Consandolo, Forlimpopoli). A seguito di una soffiata, Pelloni e il compagno Giazzolo la mattina del 23 marzo 1851 furono circondati da una pattuglia di militari mentre si trovavano in un capanno venatorio vicino a Russi. Giazzolo riuscì a fuggire. Pelloni, invece, raggiunto da una fucilata cadde e, mentre tentava di rialzarsi, fu definitivamente abbattuto con un colpo alla nuca.

Ma morto Pelloni, viveva il Passatore. Nonostante la carriera di efferato criminale, la sua memoria non ne fu pregiudicata. Fu trasformata in mito positivo da un gran numero di romanzi da bancarella, dal teatro dei burattini e delle marionette, da racconti e saggi, da canzoni e poemetti, dalle narrazioni orali e infine dal cinema. Intorno al suo nome fiorirono molte leggende, tra le quali Giovanni Pascoli raccolse quella del “Passator cortese”, ovvero di un personaggio generoso protettore dei poveri e riparatore delle ingiustizie sociali.

Morelli conferma che nessuna lettura, per quanto benevola, delle carte d’archivio può fare del Pelloni qualcosa di diverso da un brigante. L’autore cerca quindi di individuare quali possano essere state le origini del mito, a lungo protrattosi, del Passatore. “L’inizio del mito – scrive Morelli – coincide sempre con la morte dell’eroe e lo eleva a simbolo privilegiato e trascendente della propria comunità”. Di fronte al numero preponderante di militari, Pelloni, anziché restare nel capanno e sparare dal coperto, preferì tentare il tutto per tutto: uscì, si espose ai colpi e incontrò “una morte all’altezza della sua fama”.

Morelli sostiene che una chiave di spiegazione è la situazione sociale della Romagna. Siamo nel periodo di agonia del potere temporale della Chiesa, la povertà è diffusa, le imposte sono ritenute intollerabili. E spesso alle richieste di soccorsi le autorità rispondono con cariche di truppa. “Una seconda chiave – scrive l’autore – la chiamerei il ‘ribellismo’ di Stefano Pelloni”. Secondo alcuni biografi la sua prima condanna avvenne per un reato colposo e si basò sulla testimonianza di un sacerdote. In un romanzo del 1929, Bruno Corra pensa a un Pelloni pieno di odio per gli ecclesiastici perché perseguitato dal parroco di Pieve Cesato, don Morini, a causa del suo rifiuto a entrare in seminario. Il mito del Passatore si strutturò quindi con un forte accento anticlericale, grazie anche a un’anonima Rapsodia o storia di Stefano Pelloni, pubblicata nel 1862. Secondo questa trama biografica il Passatore fu indotto al malaffare dalla lussuria di un prete che gli carpì con l’inganno la ragazza di cui era innamorato.

L’ultima chiave alle origini del mito è la romagnolità ai tempi del Passatore. Una romagnolità, scrive Morelli, che comportava “possedere e manifestare in modo eccessivo, straripante e irrefrenabile, il bene e il male, i vizi e le qualità”. E che spesso comportava anche una resistenza tenace alle forze dell’ordine, prima a quelle papaline, poi a quelle nazionali. Una resistenza che assumeva particolari aspetti, combinandosi “con uno spirito individualista che non tollerava organizzazione né gerarchie”.

Nell’ultima parte del capitolo l’autore descrive puntualmente l’invasione di Forlimpopoli del 25 gennaio 1851. La tattica fu analoga a quella dei precedenti assalti alle città. Penetrati entro le mura urbane e messo fuori gioco il presidio della forza pubblica, i briganti presero in ostaggio i cittadini più facoltosi che si trovavano nel teatro e i cui nomi avevano già provveduto a elencare in un foglietto in base alle dritte fornite da gente del posto. I sequestrati vennero quindi usati come scudi per penetrare nelle loro abitazioni, nelle quali i briganti arraffarono di tutto, dalle monete ai preziosi, agli oggetti di valore, ai vestiti. Portarono poi il bottino su di un tavolo addossato al palcoscenico del teatro, facendo dunque sfoggio, pubblicamente, della ricchezza accumulata. Due mesi dopo, un malloppo di 1500 scudi fu rinvenuto, non a caso, sul corpo esanime del Passatore.

GIANNI MORELLI: Stefano Pelloni, detto il Passatore, mito di Romagna, in Farfalle irrequiete, Società Editrice “Il Ponte Vecchio”, Cesena, 2022, pp. 21-36

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La Storia appartiene a tutti

07/11/2022 da Sergio Casprini

 

La Storia è ricerca della verità. Una verità sempre da esplorare, completare e aggiornare. Sempre in divenire.

Livio Ghelli

La volontà di ascoltare e capire, la riflessione, la capacità di uscire dal nostro ambito di tempo, spazio, orizzonte sociale, e di rapportarsi ad altri esseri umani che appartengono a mondi diversi, ma non per questo sono meno umani di noi… Cose come queste stanno alla base della democrazia. Sempre che si tratti di una democrazia vera, e non del fantasma di una democrazia che fu. E queste stesse qualità etiche e intellettuali ritengo siano alla base della formazione di un vero storico. Sia i pensatori dell’Illuminismo che quelli del Romanticismo, nell’elaborare una idea di società basata su concetti di giustizia sociale, di libertà, di uguale dignità, hanno approfondito e portato ad altissimi livelli gli studi storici, sotto il profilo del metodo, come del rigore e dell’onestà intellettuale.

I rivoluzionari del Risorgimento, che negli anni Venti dell’Ottocento si battevano contro la tirannia, per la Costituzione, a Barcellona, Madrid, Napoli o San Pietroburgo, e, più tardi, a Parigi, Varsavia e Milano, erano figli tanto del pensiero di Voltaire, Montesquieu, Pietro Verri, Beccaria, Kant,  quanto dello storicismo di Vico, Tocqueville, Manzoni, Michelet… Anche i più incolti, quelli che leggevano pochissimo, lo erano senza saperlo, perché certe idee circolavano come l’aria, anche se la Restaurazione si era affrettata a chiudere le finestre. Stessa cosa per i patrioti che lottavano per l’indipendenza della propria nazione, ricercata nelle origini, nella lingua e nelle tradizioni, attraverso le indagini e la riscoperta del medioevo e dell’età comunale, gli studi di storia della lingua, letteratura e tradizioni popolari. Per esigere e forgiare un mondo nuovo occorre sapere da dove veniamo e chi siamo. A questo serve la Storia. Che praticata seriamente è sempre rivoluzionaria.

Anziché definire in cosa consiste la Storia, mi riesce più facile scrivere ciò che gli studi storici, a mio parere, NON dovrebbero mai essere: Non una riserva di specialisti. Non una storia che elimina le voci contrarie. Non una storia ufficiale, autocelebrativa e immutabile. Non una storia con effetti speciali.

Credo che la Storia sia di tutti e tale dovrebbe rimanere, non può essere una esclusiva di specialisti che vieta l’ingresso ai non addetti, compreso chi certi fatti li ha vissuti sulla propria pelle e potrebbe lucidamente darne testimonianza. Una storia accomodata, secondo tesi precostituite, è una storia falsa, che elimina le fonti contrarie a quanto lo scrittore/avventuriero si propone di dimostrare. Non può esserci nemmeno una storia ufficiale, autocelebrativa, che nasconde i panni sporchi anziché verificarli, e tralascia deliberatamente fatti, testimonianza, documenti contrari a quanto si vuole consacrare. E neanche è vera storia una ricostruzione che perda il senso delle proporzioni tra i fatti narrati, e parli solo all’emotività.

Non c’è mai una causa unica, io penso: lo storico deve ricercare, di un evento storico, le varie cause. In fondo il suo lavoro è un esame di coscienza, della sua coscienza critica. Perché la Storia è ricerca della verità. Una verità sempre da esplorare, completare e aggiornare. Sempre in divenire.

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NAZIONE E LIBERTA’

10/10/2022 da Sergio Casprini

L’Ucraina ci mostra che esiste “il nazionalismo liberale” e può vincere

Paola Peduzzi Il Foglio Quotidiano 8 ottobre 2022

“La tenacia dell’ucraina dimostra quanto possa essere potente il nazionalismo liberale di fronte a una minaccia autoritaria, dimostra come il nazionalismo liberale possa mobilitare una società e ispirarla a fantastici risultati”, scrive David Brooks nel suo ultimo commento sul New York Times. Brooks, scrittore liberale, introduce il concetto di “nazionalismo liberale” per spiegare che la guerra in Ucraina non è soltanto “un evento militare, ma è un evento intellettuale” perché gli ucraini non stanno vincendo soltanto dimostrando una superiorità delle loro truppe, ma combattendo “in nome di un’idea superiore” che è in realtà la somma di due idee: il liberalismo, “che promuove la democrazia, la dignità individuale, un ordine internazionale basato sulle regole”, e il nazionalismo, “Volodymyr Zelensky è un nazionalista, non combatte soltanto per la democrazia, ma anche per l’ucraina – la cultura ucraina, la terra ucraina, il popolo e la lingua ucraina. Il simbolo di questa guerra è la bandiera ucraina, un simbolo nazionalista”.

Siamo abituati a trattare queste due idee come contrapposte: i liberali contro i nazionalisti. Il fatto che possano invece andare a braccetto è un altro dei contributi che il popolo ucraino sta dando al riallineamento ideologico e culturale in corso dall’inizio della guerra di Vladimir Putin. Brooks spiega che il nazionalismo ha preso un’accezione negativa non a torto – “ha le mani sporche di sangue” – ma che esistono due tipi di nazionalismo: “Quello illiberale di Vladimir Putin e Donald Trump e quello liberale di Zelensky. Il primo nazionalismo è retrogrado, xenofobo e autoritario. Il secondo nazionalismo è lungimirante, inclusivo e costruisce una società attorno allo stato di diritto, non al potere personale del leader”. E il liberalismo non può più fare a meno del nazionalismo, perché nella sua versione inclusiva il nazionalismo garantisce appartenenza, storia, identità, possibilità di rigenerarsi. Quanto all’appartenenza: “I paesi sono tenuti insieme dall’amore condiviso per un particolare stile di vita, una particolare cultura, una particolare terra”, e questo è un sentimento che va coltivato e al quale va dato un significato. “La libertà è vuota al di fuori di un sistema di significato”, scrive Yael Tamir in “Why Nationalism”, e il sentirsi parte di una nazione rende gli individui ingranaggi “di una storia eterna”. Oltre che un gruppo in grado di difendersi: “Le democrazie hanno bisogno di questo tipo di nazionalismo anche per rimanere unite”, scrive Brooks. C’è poi la possibilità di poter superare il passatismo legato al nazionalismo (illiberale possiamo dire a questo punto) e al contrario “tornare continuamente indietro, reinterpretare il passato, modernizzare la storia e reinventare le proprie comunità”: è in questo senso che Brooks declina il potenziale di rigenerazione insito nel nazionalismo liberale.
L’intellettuale americano spiega poi come il nazionalismo in America invece si stia sempre più esprimendo nei suoi toni illiberali, ed è agli americani che parla quando prospetta la tenacia ucraina e il nazionalismo liberale di Zelensky come una lezione importante da trarre, “il trionfo di un’idea”. Brooks non si inoltra nelle sfumature del nazionalismo ucraino, non è questo lo scopo della sua analisi, ma tali sfumature non sono e non saranno secondarie in questa seconda fase della guerra, quella in cui l’ucraina sta vincendo. Il coraggio e l’orgoglio ucraino sono andati di pari passo con l’odio nei confronti dei russi. Qualche tempo fa, in uno splendido articolo sull’Atlantic, la direttrice della New Voice of Ukraine, Veronika Melkozerova, aveva scritto: “Negli ultimi mesi, da quando le forze russe hanno lanciato la loro ultima invasione dell’ucraina, abbiamo cercato di rimanere umani, di essere migliori del nostro nemico”, ma “non possiamo rimanere la vittima perfetta: liberale, indulgente, gentile. In segreto, desideriamo la vendetta. Be’, forse ora non più così segretamente”. Sono arrabbiata e piena d’odio, scriveva la Melkozerova, “perché la Russia, che ci ha aggrediti, potrebbe farla franca, perché i miei amici, i miei cari e io siamo costantemente in pericolo. Ma non ho modo di sfogare questi miei sentimenti, e così la mia rabbia e il mio odio aumentano”. Non è fiera del suo risentimento, tutt’altro, sa che è un’ipoteca sul futuro, ma non riesce a contenerlo, pensa che non sia possibile contenerlo.

Noi facciamo conti militari e cartografici, pontifichiamo sui termini di una pace, ma in gioco c’è soprattutto la pacificazione, che si nutre del nazionalismo liberale e non dell’odio.

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L’ALLEGRA RIVINCITA DELL’INNO DI MAMELI

14/08/2022 da Sergio Casprini

Il nostro Inno nazionale, diventato tale per legge solo nel dicembre 2017 (senza però entrare ancora in Costituzione accanto al Tricolore), è stato a lungo snobbato e persino svillaneggiato, soprattutto a partire dal ‘68. E si capisce: l’idea di Patria venne spazzata via dagli internazionalismi pacifisti o proletari; le guerre diventarono tutte indistintamente “inutili stragi”, con l’eccezione dei profitti di cui l’industria bellica era pronta ad abbuffarsi; di conseguenza, l’essere “pronti alla morte” se chiamati dall’Italia era per molti diventato incomprensibile e persino riprovevole. Il testo (di cinque strofe, ma l’inno nazionale ne usa solo la prima) fu attaccato non solo perché inattuale, ma anche perché considerato insopportabilmente retorico. Certo, un po’ di retorica c’è per forza, l’understatement non si addice agli inni; ma esprime bene il patriottismo di Goffredo Mameli, un ventenne entusiasta (e “pronto alla morte”) di metà Ottocento.

Un altro motivo per cui l’inno fu malvisto arrivò con la nascita della Lega Nord, che giudicava dannosa l’unificazione nazionale e per anni agitò la minaccia della secessione. Per questo, com’è noto, propose di sostituirlo con Va pensiero, il celeberrimo coro cantato dagli ebrei deportati in Babilonia, assimilati alle popolazioni “oppresse” della Padania. (Uno dei critici più autorevoli della proposta fu Riccardo Muti. Questo canto è stupendo, disse in sostanza,  non è però adatto a diventare l’inno nazionale: troppo mesto, oltre che troppo lungo; in un inno “si deve sentire il fuoco di una nazione, deve svegliare degli ardori”. E aggiunse: “Immaginatevi il Va pensiero allo stadio con gli azzurri sull’attenti, e poi le parole Oh mia patria sì bella e perduta… Si perde la partita.”)

Comunque l’Inno di Mameli sopravvisse, anche se un po’ ammaccato. (E sarebbe l’ora di cominciare a chiamarlo l’Inno di Mameli e Novaro, che lo musicò; sennò è come se dicessimo che Acqua azzurra, acqua chiara è di Mogol senza citare Battisti). Però la sua definitiva consacrazione popolare è merito indiscusso della Presidenza di Carlo Azeglio Ciampi (1999 – 2006), che esortò gli atleti azzurri a cantarlo. Grazie lui, il Canto degli Italiani, che è il suo nome di battesimo, e il Tricolore hanno messo più profonde radici nella coscienza degli italiani. Giorgio Napolitano ha continuato l’opera di Ciampi puntando soprattutto al rafforzamento dell’identità e della coesione nazionale, di cui l’inno e la bandiera sono espressione. Poi è stato un crescendo.

Nel 2020 l’hanno cantato dalle finestre e dalle terrazze gli italiani confinati in casa dalla pandemia. Nelle manifestazioni sportive, quando ci sono vittorie azzurre, l’inno non lo cantano solo gli atleti, ma anche gli spettatori italiani, che lo accompagnano battendo il ritmo con le mani, a volte coinvolgendo anche chi italiano non è; e se siamo in Italia è un momento più di festa collettiva che di solenne compostezza. In questi giorni, negli Europei di nuoto che si svolgono a Roma, grazie alle tante medaglie d’oro conquistate, l’inno italiano è risuonato molte volte ogni giorno. Il pubblico lo canta a squarciagola, saltando e ridendo mentre grida “siam pronti alla morte, l’Italia chiamò”. Per concludere con un tonante “Siiiì” a mani alzate.

È il trionfo dell’Inno di Mameli (e Novaro), diventato un inno, se non alla Gioia, che esiste già, all’allegria di essere Italiani.

Giorgio Ragazzini

 

 

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Se siamo il paese dei balocchi, la colpa è della politica. Non dei nostri difetti  

30/07/2022 da Sergio Casprini

Giuseppe Prezzolini e Giovanni Papini

 

Commentando a caldo la caduta del governo Draghi, in molti – sulla stampa, sui social, immagino anche nelle conversazioni tra amici (sperando non siano state inghiottite dai suddetti social) – hanno osservato che il presidente del Consiglio dimissionario “non c’entra nulla con questo paese”, “un paese dei balocchi in cui ognuno pensa di essere una vittima, di meritare un risarcimento” e via elencando i caratteri dell’antropologia (negativa) degli italiani. Le frasi poste tra virgolette si devono a Mattia Feltri sull’Huffingtonpost, ma altri ne hanno scritte di analoghe; in tanti le hanno (le abbiamo) condivise poiché colgono in effetti dei sentimenti diffusi di delusione e di amarezza. Si tratta di una reazione del tutto comprensibile, dinanzi alla fine del governo Draghi e al downgrading internazionale dell’Italia che ne deriva; e dinanzi all’immediato ritorno dell’abituale teatrino della politica: i mille euro di pensione minima, il milione di alberi, il riscatto gratuito della laurea, la flat tax e siamo solo all’inizio (qualcuno dirà che questa è la democrazia, che vive del consenso elettorale, ma non scherziamo: non tutte le democrazie, e non tutti i consensi, sono uguali). Si tratta, dicevo, di una reazione comprensibile; che tuttavia dovremmo cercare di evitare.

A scagliarsi ripetutamente contro i difetti degli italiani era stato perfino chi per primo e con maggiore determinazione si era battuto per far nascere lo stato nazionale, Giuseppe Mazzini, che li considerava “un popolo individualista, materialista, egoista, senza fede, altra che nel denaro”. Ma fu agli inizi del Novecento che il tema si diffuse negli ambienti delle avanguardie intellettuali, a cominciare dalla Voce di Giuseppe Prezzolini, nelle cui pagine ebbe largo spazio la denuncia della mancanza di carattere degli italiani, un popolo di cortigiani e di furbi che andava rigenerato nel profondo. Era già pronto lo schema che poi, arrivato al potere Mussolini, sarebbe stato utilizzato da molti – non a caso tutti più o meno lettori della Voce – per interpretare la vittoria delle camicie nere. Per Carlo Rosselli, il fascismo “sprofonda le sue radici nel sottosuolo italico, esprime vizi profondi, debolezze latenti, miserie di tutta la nazione”. Era una spiegazione che in realtà spiegava poco o nulla delle ragioni che avevano portato Mussolini al potere. Ma aveva il vantaggio di suonare come una assoluzione per gli antifascisti: se – come scriveva Giustino Fortunato – il nuovo regime era la “rivelazione di quel che realmente è […] l’Italia”, e anzi di quel che sarebbe sempre stata l’Italia “di domani e di domani l’altro”, c’era poco da fare e poco da rimproverarsi.

Era una spiegazione intrinsecamente ambigua, dietro la quale emergeva un certo fastidio per la gente comune, per la sua banalità e il suo “cretinismo”, che lasciava trasparire un atteggiamento non del tutto democratico. Forse ancora più rilevante è il fatto che alla fin fine certi giudizi sprezzanti sui difetti degli italiani li condividesse lo stesso Mussolini. Per Gobetti il fascismo era l’“autobiografia della nazione” poiché segnava “il trionfo della facilità, della fiducia, dell’ottimismo, dell’entusiasmo”. E cose del tutto analoghe affermava il duce delineando “le tare del carattere italiano: cioè il semplicismo, la faciloneria, il credere che tutto andrà bene”.

Nell’Italia repubblicana né la Dc né il Pci, partiti intrinsecamente popolari, avevano l’inclinazione a prendersela con i vizi dei loro concittadini-elettori. Semmai il richiamo ai difetti nazionali sopravviveva in qualche ambiente di nicchia, che si richiamava a ciò che era stato il Partito d’azione o forse alla sua mitologia postuma. Negli ultimi decenni il tema sarebbe riemerso soprattutto nel mondo giornalistico-intellettuale raccoltosi attorno al quotidiano Repubblica, per stigmatizzare un’Italia “alle vongole” rispetto alla quale ci si considerava del tutto estranei, fino a definirsi con orgoglio antitaliani (come si intitolava una famosa rubrica di Giorgio Bocca sull’Espresso). Come era già avvenuto nel discorso gobettiano-antifascista, ormai il tema non era più declinato con il noi (i nostri difetti) ma con il loro (le tare degli italiani le hanno solo i nostri avversari), cui si accompagnava una retorica sull’“altra Italia”, quella buona, virtuosa, minoritaria, politicamente sconfitta ma sempre moralmente vincente. Poi arrivò Berlusconi, ed è storia arcinota. Tra tutte le cose per le quali lo si poteva e forse doveva criticare la sinistra antiberlusconiana, soprattutto i suoi intellettuali di riferimento, scelsero il ricorso al vecchio tema dei vizi nazionali: il leader di Forza Italia, scriveva Eugenio Scalfari ancora nel 2009, aveva saputo intercettare “un carico fangoso, gonfio di detriti e di frustrazioni, di ribellismo e di conformismo, di anarchia e di passiva obbedienza”. Era un discorso controproducente e senza fondamento. Controproducente, perché mostrava come la sinistra antiberlusconiana non avesse “fiducia nella gente” (lo notava Vittorio Foa nel 1994). Senza fondamento, perché non c’è modo di dimostrare che a essere conformisti, anarchici, privi di senso civico ecc. siano sempre e solo gli altri, i nostri avversari.

Può pure darsi, allora, che l’Italia sia diventata un paese dei balocchi. Ma se questo è avvenuto, è comunque meglio lasciar perdere il riferimento ai nostri difetti nazionali e cercarne le ragioni, invece, nelle tante scelte politiche sbagliate degli ultimi decenni: dai bonus rigorosamente bipartisan alla spesa pubblica in deficit, dalle regalie a questi e quelli alla difesa dei “diritti” delle corporazioni.

 Sperando ci sia chi, nonostante la tentazione di promettere tutto a tutti indotta dalla campagna elettorale, quelle politiche si impegni davvero a cambiarle.

 

Giovanni Belardelli Il Foglio Quotidiano 29 luglio 2022

 

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I rischi dell’individualismo messi a fuoco da Mazzini

09/06/2022 da Sergio Casprini

I triumviri della Repubblica romana del 1849. Da sinistra: Carlo Armellini, Giuseppe Mazzini, Aurelio Saffi
 

Giovanni Belardelli

Corriere della Sera 9 giugno 2022

A centocinquant’anni dalla morte di Giuseppe Mazzini, un convegno organizzato dall’Università di Genova nelle giornate di domani 10 giugno  e dopodomani 11 giugno pone al centro un aspetto essenziale del suo pensiero e della sua attività: l’idea di patria e il sentimento nazionale, concepiti dal fondatore della Giovine Italia in stretto rapporto con l’idea di libertà.

Si tratta di concetti e valori che continuano ad abitare l’universo mentale delle democrazie, se pensiamo alla resistenza condotta dagli ucraini contro l’invasione russa, in difesa appunto della loro libertà e indipendenza nazionale; o anche al fatto che le democrazie contemporanee continuano pur sempre a esistere in un contesto nazionale (è a livello nazionale che i cittadini degli Stati dell’Unione Europea eleggono chi li governa, almeno se e finché non si costruirà una federazione sul tipo degli Stati Uniti d’America). Non meno attuale appare la distinzione di Mazzini tra l’idea di nazione e quel «gretto geloso ostile nazionalismo» che avrebbe alimentato due guerre mondiali ma ai suoi tempi aveva già visto la nascita della Germania attraverso la conquista militare di Alsazia e Lorena (e le parole di Mazzini tra virgolette sono proprio del 1871).

Per Mazzini a costituire una nazione sono solo secondariamente la lingua, il territorio, l’appartenenza etnica; questi rappresentano al massimo gli indizi dell’esistenza di una nazione, mentre l’elemento davvero essenziale risiede per lui nella volontà che ciascuno ha di farne parte. Si è spesso ripetuto che questa sua idea «volontaristica» di nazione, schiettamente democratica, si contrappone a una concezione «deterministica» che, presente soprattutto nel mondo culturale germanico, insisteva sugli elementi oggettivi — lingua e «razza» in primo luogo — e si qualificava in senso necessariamente autoritario. Questa interpretazione, che ha avuto ampia circolazione in Italia sulla scia di un celebre libro di Federico Chabod, lascia però in ombra un altro aspetto della concezione mazziniana della nazione.  Convinto che la Chiesa cattolica avesse ormai fatto il suo tempo, ma seguace anche — come molti suoi contemporanei — di una nuova religione democratico-umanitaria, Mazzini riteneva che la divisione dell’Europa in nazioni fosse il prodotto di una volontà divina, che i confini di ciascuna nazione fossero stati disegnati «dal dito di Dio». E ancora: «è Dio che crea la vita di un popolo». Nella sua idea di nazione, insomma, aveva sì un ruolo la volontà dei cittadini, ma prima ancora quella divina; ciò che rendeva la sua concezione una miscela di determinismo e libertà. Ma dunque è probabile che certe sue definizioni della nazione oggi possano essere considerate attuali solo con molta prudenza. Quella che meriterebbe la massima attenzione è piuttosto una questione che rischia invece di rimanere celata nella sua torrenziale produzione di scritti.

Nato nel 1805, Mazzini si trovò a fare i conti con il mondo quale era diventato dopo la Rivoluzione francese, che aveva distrutto la società di ordini e affermato solennemente il principio della libertà e dei diritti individuali. Ai suoi occhi questa libertà e questi diritti erano naturalmente un’ottima cosa, ma presentavano un rischio: l’uomo libero (e Mazzini, favorevole al suffragio femminile, era uno dei pochi che all’epoca intendevano riferirsi con questa parola a uomini e donne) «come opererà? come vorrà? a caso?». Perché senza valori e fini comuni, senza che i diritti siano affiancati da doveri verso la comunità — questo il problema denunciato da Mazzini di continuo — una società rischia di sfasciarsi.

Era una questione che non fu lui solo a denunciare. Prendiamo due tra i maggiori pensatori liberali del tempo, Benjamin Constant e Alexis de Tocqueville. Per il primo, che pure considerava la modernità postrivoluzionaria come l’«epoca degli individui», se questi restano isolati «non c’è che polvere». L’immagine — non priva di un’eco religiosa: «polvere sei e polvere ritornerai» (Genesi, 3,19) — rendeva plasticamente il pericolo di una società fatta di individui liberi ma isolati uno dall’altro. Da parte sua Tocqueville osservò che, mentre nell’antico regime tutti erano collegati come gli anelli di una catena che andava dal contadino al re, l’avvento della democrazia aveva «spezza[to] la catena» e messo «ogni anello da parte», rinchiudendo così ciascun individuo «nella solitudine del proprio cuore». Mazzini, Constant, Tocqueville individuavano quello che era, e in fondo sarebbe rimasto, un problema costitutivo delle società democratiche. Sono sufficienti i diritti individuali per tenerle assieme? O non occorre anche una serie di valori, tradizioni e fini comuni? Non occorre — questo era un concetto davvero centrale nel pensiero mazziniano — affiancare ai diritti individuali il riconoscimento dei doveri verso la società?

La nazione democratica come comunità unita da valori condivisi e capace di affiancare i doveri ai diritti individuali: questa era la risposta di Mazzini che merita ancora oggi di essere meditata.

Silvestro Lega Gli ultimi momenti di Mazzini morente 1873

 

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La guerra in Ucraina ha rimesso la Storia al centro della cultura europea

30/03/2022 da Sergio Casprini

Allegoria della storia  Nikolaos Gysis 1892

Con l’invasione russa dell’Ucraina la storia – intesa come racconto del passato, perché in senso generale essa coincide con la vicenda umana – sembra tornata in campo.

Ma con ruoli molto diversi se guardiamo, da una parte, alle democrazie e, dall’altra, all’uso che della storia fa l’autocrate di Mosca. Da noi si è fatto ricorso al passato per spiegare l’invasione dell’ucraina come prodotto di una decisione di Putin, certo, che va però considerata anche alla luce di tendenze profonde della storia russa. C’è chi ha richiamato l’antica paura degli zar per le idee liberali quale elemento permanente della storia russa, una paura che ha dunque caratterizzato anche il successivo periodo comunista e poi quello postcomunista (Paul Berman); chi ha sottolineato il ruolo che l’immensità dello spazio come arma ha avuto nelle vicende russe fin dalla fallita invasione di Napoleone (Ernesto Galli della Loggia); chi ha citato il mito di Mosca come Terza Roma, dopo quella italiana e quella bizantina, come qualcosa che si aggirerebbe ancora nelle stanze del Cremlino (Carlo Galli). In ogni caso, era tanto che non si ricorreva in modo così frequente alla storia per spiegare, al di là della superficie degli avvenimenti e delle loro cause più immediate, ciò che li ha prodotti, per sondare oltre la schiuma delle onde la profondità degli oceani.

La cosa appare a prima vista singolare poiché da qualche decennio la storia, nel discorso pubblico delle democrazie occidentali e nella cultura delle sue élite, era stata messa ai margini da altre discipline: l’economia, la sociologia, la scienza politica, il diritto, considerate più utili a interpretare la realtà. Se la guerra russo-ucraina la rimette in gioco è anche perché la storia – al di là di certe mode culturali e delle tante branche in cui si è suddivisa, dallo studio delle mentalità alla global history – ha avuto sempre intrinsecamente a che fare con il potere, la forza, lo stato. Dunque con la guerra.

Venendo invece al modo in cui Vladimir Putin si richiama alla storia, esso non riguarda la comprensione del presente, non ha e non vuole avere alcuna funzione analitica. Nel caso suo il passato è fatto oggetto di una spregiudicata manipolazione e di un’accentuata falsificazione volte a giustificare le sue decisioni. Nel discorso del 21 febbraio scorso, ad esempio, negava l’esistenza stessa di una nazione ucraina autonoma e qualche mese prima, in un saggio pubblicato la scorsa estate, aveva sostenuto la tesi – di cui oggi comprendiamo appieno l’obiettivo pratico – che russi, bielorussi e ucraini sarebbero un unico popolo in virtù della loro comune origine dalla Rus’ di Kyiv, che nel IX secolo diede vita a una monarchia che si estendeva, nel periodo di massima ampiezza, dal mar Baltico ai Carpazi e fino al mar Nero (il regno di Kyiv si disgregò poi nel XIII secolo per i conflitti interni e per l’assalto dei mongoli). Del resto la manipolazione del passato a fini politici è in atto da tempo nella Russia di Putin, che ha visto in particolare tutta la storia dell’Urss privata dei suoi tratti ideologici comunisti e reinterpretata alla luce di un acceso nazionalismo.

Amos Cassioli La battaglia di Legnano 1870

Si potrebbe osservare che la manipolazione del passato attuata dal dittatore russo non è una novità. Anche in Italia, Francia, Germania e così via, si è fatto ricorso in passato a una rappresentazione della storia più o meno alterata e a volte fabbricata di sana pianta. Nel corso dell’800 soprattutto i movimenti che puntavano all’indipendenza nazionale utilizzarono, per rafforzare la loro battaglia, un passato spesso inventato. In Italia, per dire, molto ci si richiamò ai liberi comuni del medioevo come prima esperienza della nazione italiana; in questo quadro si evocava la battaglia di Legnano che aveva il suo massimo eroe nel celebre, ancorché mai esistito, Alberto da Giussano. In Germania Lutero veniva esaltato come precursore della successiva unità tedesca. Anche in una antica monarchia come quella inglese fioriva l’invenzione del passato, ad esempio con la leggenda di una libera età anglosassone che avrebbe preceduto la conquista normanna. Questa manipolazione del passato, che almeno nei casi ora citati non veniva usata per giustificare delle guerre di aggressione, portò a un certo punto a una militarizzazione della storia. Con la Prima guerra mondiale, la storia divenne anch’essa un’arma di combattimento tra due schieramenti che affermavano di combattere una guerra di civiltà: “Una delle droghe, con cui più facilmente si fabbricano i pretesti – affermò allora Gaetano Salvemini –, è la storia, che dà ragione a tutti. […] Quando si vuole suscitare una lite, è facile volgersi alla storia, e trarne un avvenimento, un attrito, un dissidio passato”.

Fu anche per questo, come conseguenza della Grande guerra, che nei paesi democratici si cominciò a maneggiare il passato con maggiore prudenza e si affermò una rinuncia a manipolare la storia a fini politici. Una rinuncia che non sempre è stata completamente rispettata e comunque non da tutti, d’accordo; ma di fronte a certe falsificazioni storiche, a certe interpretazioni strumentali del passato, c’è sempre stata la libertà di opinione che consentiva e consente di sottoporle a critica. Sta qui la vera differenza nell’uso della storia che ha luogo nella Russia di Putin e nei paesi democratici: se le democrazie guardano al passato per analizzare meglio il presente, se non lo usano più come arma, se non falsificano più la storia a fini politici, o lo fanno in modo assai limitato, è appunto perché sono democrazie.

Giovanni Belardelli  Il Foglio Quotidiano 30 marzo 2022

 

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Cosa ci manca per accettare la morte in guerra: un’idea, una fede, un valore

13/03/2022 da Sergio Casprini

Sentinella garibaldina Gerolamo Induno 1860 

Giovanni Belardelli   Il Foglio Quotidiano 11 marzo 2022

Di fronte alla determinazione degli ucraini di resistere con le armi contro l’invasore russo a difesa della loro libertà e indipendenza, c’è una domanda che probabilmente ha attraversato la mente di molti di noi: ove ci trovassimo nella loro condizione, ne saremmo capaci?

E’ da presumere che la risposta sia stata negativa, perché da tempo in Italia, come in gran parte delle democrazie europee, giudichiamo magari legittimo in linea di principio imbracciare le armi contro l’aggressore, ma in pratica non ci consideriamo più in grado di farlo. Questo ci mette di fronte a una delle più profonde trasformazioni culturali avvenute in questa parte del globo, sulla quale non ci siamo mai interrogati a sufficienza, forse nella convinzione che Marte avesse abbandonato per sempre i nostri lidi. Neppure le guerre nella ex Jugoslavia avevano scalfito questa convinzione.

I due conflitti mondiali del Novecento, e soprattutto il secondo con le sue decine di milioni di morti tra civili e militari, hanno molto contribuito a generare nei paesi dell’attuale Unione europea un particolare orrore per il ricorso alle armi. Nella sua essenza la guerra consiste nel mettere in gioco vite umane, dunque nell’uccidere e nel morire. Per accettare l’una cosa e l’altra bisogna potersi appoggiare a un valore condiviso, che trascenda la vita del singolo. Questo valeva per le truppe di Enrico V d’Inghilterra che si apprestavano a combattere ad Azincourt durante la Guerra dei cent’anni (spronate dal celebre discorso di san Crispino immaginato da Shakespeare) così come valeva per i patrioti che durante il Risorgimento tentavano, magari illudendosi, di sconfiggere con un’insurrezione armata gli Asburgo o i Borboni.

Non a caso Mazzini, nemico feroce della Chiesa cattolica, dava però alla sua predicazione politica un connotato religioso tale appunto da giustificare la perdita della vita. Un secolo fa o poco più, in Italia migliaia di giovani vollero partire volontari per la guerra, con l’obiettivo di strappare all’Austria territori abitati da popolazioni di nazionalità italiana. Quei giovani sarebbero stati in ogni caso chiamati alle armi e dunque al fronte sarebbero dovuti andare comunque; ma non volevano aspettare e in tanti si affrettarono a partire, spesso trovando la morte. Certo erano una minoranza che apparteneva alla borghesia colta, di ispirazione liberale risorgimentale; ma erano una minoranza che aveva dei valori sufficienti a dare un senso alla propria morte, sicuramente messa nel conto. E gli esempi potrebbero continuare, naturalmente: dalle Brigate internazionali durante la guerra di Spagna alle formazioni partigiane di vario colore (ma anche a molti giovani combattenti dalla parte sbagliata, quella della repubblica di Salò) nell’Italia del 1943-45.

Ecco, un’idea, un valore, una fede per cui valga la pena morire (e uccidere, non dimentichiamolo) da tempo non li abbiamo più. O almeno abbiamo idee, fedi, valori troppo debolmente sentiti per giustificare la perdita del principale bene individuale: la vita. Qualcuno forse ricorderà cosa fa dire a Pisacane, approdato sulla costa campana con l’idea di liberare il Mezzogiorno dai Borboni, l’autore della Spigolatrice di Sapri: a quest’ultima, che gli chiede cosa sia venuto a fare nella sua terra, risponde “vengo a morir per la mia patria bella”. Parole che avranno ancora commosso i giovani volontari della Prima guerra mondiale, ma che penso oggi facciano sorridere i più tra i loro pronipoti. Per molte ragioni, a cominciare naturalmente dalla torsione militarista e aggressiva che l’idea di nazione ha assunto per colpa del fascismo, i riferimenti patriottici – decisivi in una guerra difensiva – sono ormai percepiti debolmente. Sono anzi guardati con sospetto da democrazie che, come la nostra, si fondano su un’ideologia dei diritti universali che vede i cittadini quali membri di una democrazia che abbraccia l’intero globo e non deve essere condizionata, si ritiene, da anguste limitazioni nazionali. Nel processo di secolarizzazione, particolarmente rapido, che ha interessato l’Italia repubblicana, non solo si sono svuotate le chiese ma si è scolorito, nonostante i lodevoli sforzi di qualche presidente della Repubblica, il sentimento di appartenenza nazionale. Il benessere, arrivato a partire dagli anni del cosiddetto miracolo economico, ha fatto il resto, ha riempito la nostra vita di beni e comodità diventati presto irrinunciabili, rendendoci poco disponibili – sia detto come constatazione e senza alcun giudizio moralistico – a sacrificare l’esistenza in una guerra ancorché di difesa.

Del resto, non stiamo parlando di un fenomeno solo italiano. Perfino per una grande potenza militare come gli Stati Uniti diventa sempre più difficile accettare che i propri cittadini muoiano in guerra. E’ questa difficoltà che ha alimentato negli ultimi anni l’idea delle guerre casualty free, a zero vittime, perché combattute con mezzi militari ipertecnologici (o magari da contractors di fatto apolidi). Le notizie che arrivano dallUcraina ci riportano invece indietro a una guerra molto più tradizionale, di tipo novecentesco, in cui l’unico paese democratico tra i due in conflitto può combattere come sta facendo solo perché è ancora animato dall’idea che la propria libertà e la propria terra vadano difese a ogni costo.

Epigrafe di Giuseppe Mazzini sul retro del monumento  ai Caduti della Divisione Garibaldi in Balcania nel 1945, Quadrato garibaldino Trespiano Firenze

 

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Il Giorno della memoria non è solo Auschwitz: come ripensare l’ebraismo

22/01/2022 da Sergio Casprini

Giovanni Belardelli Il Foglio Quotidiano 20 gennaio 2022

 

Anche quest’anno, il 27 gennaio, celebreremo il Giorno della memoria, benché forse un po’ oscurato nell’attenzione collettiva dalle contemporanee votazioni per il presidente della Repubblica.

Dovremmo tuttavia cominciare a riflettere, a più di vent’anni dall’istituzione di questa giornata, sul suo significato ma anche sui suoi limiti. La questione è delicata ed è bene dunque essere chiari. Anzitutto, non c’è alcun dubbio che di una iniziativa del genere ci fosse bisogno per rompere una dura e antica crosta di indifferenza. L’Italia democratica, infatti, per molti anni non si è troppo curata di ricordare in modo adeguato lo sterminio degli ebrei e nemmeno la parte avuta dal nostro paese nella persecuzione. La guerra era terminata da pochi mesi e una figura di rilievo come Cesare Merzagora addirittura invitava gli ex perseguitati che rientravano nel paese a “non lamentarsi troppo” e a prendere atto che l’italia era cambiata: “Essi devono abituarsi a star seduti attorno al tavolo non sopra e neanche sotto, come un po’ è loro abitudine”. Liliana Segre ha raccontato di recente che da giovane, appena arrivata a Milano dopo Auschwitz, si sentì dire dalla professoressa di greco, davanti a tutta la classe, che la sua deportazione era “un’esperienza interessante”. Ne fu così sconvolta che per anni non ne parlò più.

Ma a quell’epoca era un po’ tutta l’opinione pubblica che non prestava attenzione al tema, anche per la difficoltà e l’imbarazzo a ricordare il clima di silenziosa accettazione che aveva accompagnato nel 1938 il varo della legislazione antiebraica. Quando nel 1960 la storia post 1919 venne finalmente inserita nei programmi scolastici, della Shoah e delle leggi razziali i manuali di storia parlavano poco o nulla. E a non parlarne non erano solo autori più o meno “nostalgici”. Nel 1970 anche uno storico di sinistra come Rosario Villari dedicava alle leggi razziali solo una riga del suo testo per le superiori.

Questa insensibilità o comunque scarsa attenzione verso lo sterminio antiebraico è stata studiata negli ultimi anni da vari storici. E qui la si richiama a riprova che qualcosa andava appunto fatto per costringerci tutti a prendere in carico un pezzo della nostra storia, europea e italiana, come quello rappresentato dalle varie forme della persecuzione antiebraica. Ma è anche vero che il Giorno della memoria, istituito nel 2000, è diventato spesso occasione per cerimonie e rievocazioni ogni anno più o meno uguali, che non è affatto detto aumentino la consapevolezza e la conoscenza dei caratteri della persecuzione antiebraica. E’ anzi probabile che nelle scuole una parte dei ragazzi e delle ragazze vivano quella giornata come un rituale più o meno ufficiale e ripetitivo. Certo gli insegnanti dovrebbero prepararli adeguatamente, ma c’è il rischio che a volte si limitino a far leggere Primo Levi o il diario di Anna Frank. Del resto è la stessa persistenza di pregiudizi antisemiti che sembra confermare la limitata influenza del Giorno della Memoria.

 Il Rapporto Italia dell’Eurispes ha indagato nel 2004 e nel 2020 l’atteggiamento degli italiani riguardo alla Shoah. Dal confronto fra le due indagini si ricava, per citare un unico dato, che se nel 2004 solo il 2,7 per cento degli intervistati pensava che lo sterminio degli ebrei non c’era mai stato, nel 2020 questa percentuale risultava salita al 15,6 per cento. Non si possono trarre da un dato del genere conclusioni definitive; ma certo un aumento di questo tipo lascia ipotizzare uno scarso impatto del Giorno della memoria sull’opinione pubblica. Emergono qui anche i limiti di un rapporto con il passato e le sue tragedie basato sulla “religione della memoria”, come molti l’hanno definita, che da una parte rischia di sconfinare nella ripetitività e, dall’altra, si fonda su un veicolo – il racconto del testimone – dal forte impatto emotivo che però, come avviene spesso per le forti emozioni, non è di per sé sufficiente a far sedimentare una maggiore consapevolezza di ciò che viene rievocato.

C’è anche un’altra ragione che dovrebbe indurre a guardare in modo diverso al Giorno della memoria. Nel suo libro di ricordi Vivere ancora Ruth Klüger, austriaca deportata giovanissima ad Auschwitz, ha scritto: “Eppure Auschwitz viene attribuita come una sorta di luogo d’origine a chiunque le sia sopravvissuto. La parola Auschwitz ha oggi un’aura, seppure negativa, e determina largamente quel che si pensa di una persona quando si sa che è stata là […] ma io non sono originaria di Auschwitz, sono originaria di Vienna. Vienna è impossibile sfilarla di dosso, la si sente dal linguaggio; invece Auschwitz è stata estranea al mio essere come la luna. Vienna è una parte della struttura del mio cervello ed emana da me, mentre Auschwitz è il luogo più sbagliato in cui io sia mai stata […]”. Sono affermazioni da meditare, che implicitamente ci mettono in guardia contro il rischio di ricordare gli ebrei soltanto come vittime, quasi avessimo dimenticato lo straordinario contributo dell’ebraismo alla civiltà europea. E allora, nel Giorno della memoria dovremo certo ricordare i milioni di perseguitati, i morti e i sopravvissuti ( e potremmo mai non farlo noi gentili, condannati a sentirci responsabili anche se non eravamo nati?). Ma un modo di ricordare meno ripetitivo e scontato sarebbe quello di occuparci anche, ogni 27 gennaio, degli ebrei come non- vittime, parlando dunque – agli studenti in classe o nelle celebrazioni pubbliche – un anno di Freud e un altro di Einstein, un anno di Giorgio Bassani o di Hannah Arendt, un altro ancora degli ebrei che, fuggiti dall’Europa, hanno fondato lo stato di Israele.

 

Hannah Arendt

 

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La pandemia ha reso più forte il bisogno di un posto a cui appartenere

12/01/2022 da Sergio Casprini

Giovanni Belardelli

Il Foglio Quotidiano 12 gennaio 2022

 

“Il decennio a venire sarà nostro perché siamo la nazione di tutte le possibilità”. A pronunciare queste parole, durante una lunga intervista televisiva di metà dicembre, è stato il presidente francese Emmanuel Macron. Non possiamo attribuire la sua affermazione, non unicamente almeno, alla solita grandeur francese, visto che qui siamo di fronte a uno dei leader più europeisti del continente. Quella frase ci ricorda piuttosto che la nazione è un’idea, e un insieme di sentimenti collettivi, che non sono in contraddizione con l’appartenenza alla Ue e rappresentano una premessa essenziale della democrazia, come mostra il fatto che fino a oggi i regimi democratici sono nati ed esistono proprio nell’ambito di stati nazionali. Nel nostro paese tendiamo a dimenticarlo, portati fuori strada dall’uso che del richiamo all’identità e al sentimento nazionale fanno due partiti come la Lega e Fratelli d’Italia, i quali – animati da una sorta di pas d’ennemi à droite – occhieggiano più o meno esplicitamente a forze europee che si richiamano a una diversa idea di nazione, di tipo antiliberale e antidemocratico.

Fatto sta che nel dibattito pubblico italiano non ha avuto spazio quella nuova attenzione per l’idea di nazione a cui assistiamo da qualche anno e che la pandemia ha accentuato. Nel mondo anglosassone la Brexit per un verso e l’elezione di Trump alla presidenza americana per l’altro vennero giudicati da alcuni osservatori come l’esito di una contrapposizione tra anywheres e somewheres, tra le élite globalizzate e vincenti che si ritenevano cittadine del mondo e quanti, appartenenti soprattutto ai ceti popolari, si consideravano impoveriti in conseguenza della globalizzazione e si sentivano ancora legati a usi, costumi, valori tradizionali. Nella “domanda di nazione” dei somewheres c’era sicuramente un antistorico rifiuto del nuovo mondo globale, dei suoi modelli e dei suoi stessi ritmi accelerati di vita; ma c’era anche un bisogno di protezione che non aveva trovato risposte adeguate e si illudeva magari di trovarle nel ripristino dei vecchi confini britannici o nella rinascita della tradizionale America bianca. Proprio l’idea che le democrazie potessero accontentarsi di una forma di cittadinanza postnazionale e cosmopolita, insomma, aveva finito con l’alimentare nell’opinione pubblica, di quei paesi e non solo, delle forti tendenze populiste; ma ha poi favorito anche una riscoperta del nesso tra democrazia e nazione.

Pochi giorni fa il leader del Labour Party britannico, Keir Starmer, ha dichiarato che il suo è un partito non nazionalista ma nazionale, “perché la nazione ci dà un posto a cui appartenere”. E’ un’espressione che può apparire banale ma non lo è affatto. Le democrazie contemporanee, che hanno posto al centro la promozione di individui radicalmente liberi di autodeterminarsi, hanno finito spesso col pensare ai propri cittadini come semplici soggetti di diritti, sottovalutando il bisogno di appartenenza a qualcosa di più limitato e prossimo, nonché di meno anonimo, di una immaginaria cosmopoli democratica. In qualche modo lo aveva notato già Tocqueville quasi due secoli fa, quando scriveva che la democrazia, annullando i vincoli presenti nella società di antico regime, rendeva sì l’individuo finalmente libero ma minacciava anche “di rinchiuderlo tutto intero nella solitudine del proprio cuore”. E’ proprio per sfuggire a una tale solitudine, in fondo, che quello stesso XIX secolo in cui Tocqueville scriveva vide la diffusione in Europa dell’idea di nazione e la nascita di nuovi stati nazionali.

Ora, è certamente vero che lo stato nazionale assiste da tempo alla riduzione dei suoi poteri in conseguenza dei grandi processi di globalizzazione economico- finanziaria e di varie istituzioni sovranazionali, in primo luogo, per l’Italia e gli altri 26 paesi che vi appartengono, l’unione europea. Tuttavia, è pur sempre ad esso, allo stato nazionale, che paghiamo le tasse e da esso che ci attendiamo le più varie misure di protezione e promozione sociale, dalle pensioni all’assistenza sanitaria, dalla repressione dei reati all’istruzione. Ma c’è anche un dato più profondo di tipo psicologico- culturale, quello che stava dietro l’osservazione di Tocqueville appena citata: per quanto possiamo essere partecipi delle vicende mondiali, per quanto possiamo sentirci cittadini europei, siamo generalmente portati a considerare i nostri connazionali come persone più vicine per tutta una serie di ovvie ragioni, a cominciare dalla maggior facilità di comunicazione determinata dalla lingua comune. Negli ultimi due anni, per giunta, la pandemia ha reso ancora più forte il bisogno di “un posto a cui appartenere”: cioè la propria nazione intesa sia come l’insieme delle istituzioni pubbliche dalle quali ci aspettiamo protezione sia come comunità di persone con le quali condividiamo rischi e pericoli legati alla diffusione del virus. Del resto, anche se seguiamo con interesse e preoccupazione la diffusione globale della pandemia, sono ogni giorno i dati dei contagi e delle vittime italiane che in primo luogo ci colpiscono.

Forse, anche in conseguenza della pandemia, i partiti non sovranisti dovrebbero cercare di non demonizzare la “domanda di nazione”, evitando così che certi temi vengano monopolizzati dai partiti di Salvini e Meloni.

Alexis de Tocqueville Ritratto di Theodore Chassériau

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