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Risorgimento Firenze

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Tribuna

La guerra in Ucraina ha rimesso la Storia al centro della cultura europea

30/03/2022 da Sergio Casprini

Allegoria della storia  Nikolaos Gysis 1892

Con l’invasione russa dell’Ucraina la storia – intesa come racconto del passato, perché in senso generale essa coincide con la vicenda umana – sembra tornata in campo.

Ma con ruoli molto diversi se guardiamo, da una parte, alle democrazie e, dall’altra, all’uso che della storia fa l’autocrate di Mosca. Da noi si è fatto ricorso al passato per spiegare l’invasione dell’ucraina come prodotto di una decisione di Putin, certo, che va però considerata anche alla luce di tendenze profonde della storia russa. C’è chi ha richiamato l’antica paura degli zar per le idee liberali quale elemento permanente della storia russa, una paura che ha dunque caratterizzato anche il successivo periodo comunista e poi quello postcomunista (Paul Berman); chi ha sottolineato il ruolo che l’immensità dello spazio come arma ha avuto nelle vicende russe fin dalla fallita invasione di Napoleone (Ernesto Galli della Loggia); chi ha citato il mito di Mosca come Terza Roma, dopo quella italiana e quella bizantina, come qualcosa che si aggirerebbe ancora nelle stanze del Cremlino (Carlo Galli). In ogni caso, era tanto che non si ricorreva in modo così frequente alla storia per spiegare, al di là della superficie degli avvenimenti e delle loro cause più immediate, ciò che li ha prodotti, per sondare oltre la schiuma delle onde la profondità degli oceani.

La cosa appare a prima vista singolare poiché da qualche decennio la storia, nel discorso pubblico delle democrazie occidentali e nella cultura delle sue élite, era stata messa ai margini da altre discipline: l’economia, la sociologia, la scienza politica, il diritto, considerate più utili a interpretare la realtà. Se la guerra russo-ucraina la rimette in gioco è anche perché la storia – al di là di certe mode culturali e delle tante branche in cui si è suddivisa, dallo studio delle mentalità alla global history – ha avuto sempre intrinsecamente a che fare con il potere, la forza, lo stato. Dunque con la guerra.

Venendo invece al modo in cui Vladimir Putin si richiama alla storia, esso non riguarda la comprensione del presente, non ha e non vuole avere alcuna funzione analitica. Nel caso suo il passato è fatto oggetto di una spregiudicata manipolazione e di un’accentuata falsificazione volte a giustificare le sue decisioni. Nel discorso del 21 febbraio scorso, ad esempio, negava l’esistenza stessa di una nazione ucraina autonoma e qualche mese prima, in un saggio pubblicato la scorsa estate, aveva sostenuto la tesi – di cui oggi comprendiamo appieno l’obiettivo pratico – che russi, bielorussi e ucraini sarebbero un unico popolo in virtù della loro comune origine dalla Rus’ di Kyiv, che nel IX secolo diede vita a una monarchia che si estendeva, nel periodo di massima ampiezza, dal mar Baltico ai Carpazi e fino al mar Nero (il regno di Kyiv si disgregò poi nel XIII secolo per i conflitti interni e per l’assalto dei mongoli). Del resto la manipolazione del passato a fini politici è in atto da tempo nella Russia di Putin, che ha visto in particolare tutta la storia dell’Urss privata dei suoi tratti ideologici comunisti e reinterpretata alla luce di un acceso nazionalismo.

Amos Cassioli La battaglia di Legnano 1870

Si potrebbe osservare che la manipolazione del passato attuata dal dittatore russo non è una novità. Anche in Italia, Francia, Germania e così via, si è fatto ricorso in passato a una rappresentazione della storia più o meno alterata e a volte fabbricata di sana pianta. Nel corso dell’800 soprattutto i movimenti che puntavano all’indipendenza nazionale utilizzarono, per rafforzare la loro battaglia, un passato spesso inventato. In Italia, per dire, molto ci si richiamò ai liberi comuni del medioevo come prima esperienza della nazione italiana; in questo quadro si evocava la battaglia di Legnano che aveva il suo massimo eroe nel celebre, ancorché mai esistito, Alberto da Giussano. In Germania Lutero veniva esaltato come precursore della successiva unità tedesca. Anche in una antica monarchia come quella inglese fioriva l’invenzione del passato, ad esempio con la leggenda di una libera età anglosassone che avrebbe preceduto la conquista normanna. Questa manipolazione del passato, che almeno nei casi ora citati non veniva usata per giustificare delle guerre di aggressione, portò a un certo punto a una militarizzazione della storia. Con la Prima guerra mondiale, la storia divenne anch’essa un’arma di combattimento tra due schieramenti che affermavano di combattere una guerra di civiltà: “Una delle droghe, con cui più facilmente si fabbricano i pretesti – affermò allora Gaetano Salvemini –, è la storia, che dà ragione a tutti. […] Quando si vuole suscitare una lite, è facile volgersi alla storia, e trarne un avvenimento, un attrito, un dissidio passato”.

Fu anche per questo, come conseguenza della Grande guerra, che nei paesi democratici si cominciò a maneggiare il passato con maggiore prudenza e si affermò una rinuncia a manipolare la storia a fini politici. Una rinuncia che non sempre è stata completamente rispettata e comunque non da tutti, d’accordo; ma di fronte a certe falsificazioni storiche, a certe interpretazioni strumentali del passato, c’è sempre stata la libertà di opinione che consentiva e consente di sottoporle a critica. Sta qui la vera differenza nell’uso della storia che ha luogo nella Russia di Putin e nei paesi democratici: se le democrazie guardano al passato per analizzare meglio il presente, se non lo usano più come arma, se non falsificano più la storia a fini politici, o lo fanno in modo assai limitato, è appunto perché sono democrazie.

Giovanni Belardelli  Il Foglio Quotidiano 30 marzo 2022

 

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Cosa ci manca per accettare la morte in guerra: un’idea, una fede, un valore

13/03/2022 da Sergio Casprini

Sentinella garibaldina Gerolamo Induno 1860 

Giovanni Belardelli   Il Foglio Quotidiano 11 marzo 2022

Di fronte alla determinazione degli ucraini di resistere con le armi contro l’invasore russo a difesa della loro libertà e indipendenza, c’è una domanda che probabilmente ha attraversato la mente di molti di noi: ove ci trovassimo nella loro condizione, ne saremmo capaci?

E’ da presumere che la risposta sia stata negativa, perché da tempo in Italia, come in gran parte delle democrazie europee, giudichiamo magari legittimo in linea di principio imbracciare le armi contro l’aggressore, ma in pratica non ci consideriamo più in grado di farlo. Questo ci mette di fronte a una delle più profonde trasformazioni culturali avvenute in questa parte del globo, sulla quale non ci siamo mai interrogati a sufficienza, forse nella convinzione che Marte avesse abbandonato per sempre i nostri lidi. Neppure le guerre nella ex Jugoslavia avevano scalfito questa convinzione.

I due conflitti mondiali del Novecento, e soprattutto il secondo con le sue decine di milioni di morti tra civili e militari, hanno molto contribuito a generare nei paesi dell’attuale Unione europea un particolare orrore per il ricorso alle armi. Nella sua essenza la guerra consiste nel mettere in gioco vite umane, dunque nell’uccidere e nel morire. Per accettare l’una cosa e l’altra bisogna potersi appoggiare a un valore condiviso, che trascenda la vita del singolo. Questo valeva per le truppe di Enrico V d’Inghilterra che si apprestavano a combattere ad Azincourt durante la Guerra dei cent’anni (spronate dal celebre discorso di san Crispino immaginato da Shakespeare) così come valeva per i patrioti che durante il Risorgimento tentavano, magari illudendosi, di sconfiggere con un’insurrezione armata gli Asburgo o i Borboni.

Non a caso Mazzini, nemico feroce della Chiesa cattolica, dava però alla sua predicazione politica un connotato religioso tale appunto da giustificare la perdita della vita. Un secolo fa o poco più, in Italia migliaia di giovani vollero partire volontari per la guerra, con l’obiettivo di strappare all’Austria territori abitati da popolazioni di nazionalità italiana. Quei giovani sarebbero stati in ogni caso chiamati alle armi e dunque al fronte sarebbero dovuti andare comunque; ma non volevano aspettare e in tanti si affrettarono a partire, spesso trovando la morte. Certo erano una minoranza che apparteneva alla borghesia colta, di ispirazione liberale risorgimentale; ma erano una minoranza che aveva dei valori sufficienti a dare un senso alla propria morte, sicuramente messa nel conto. E gli esempi potrebbero continuare, naturalmente: dalle Brigate internazionali durante la guerra di Spagna alle formazioni partigiane di vario colore (ma anche a molti giovani combattenti dalla parte sbagliata, quella della repubblica di Salò) nell’Italia del 1943-45.

Ecco, un’idea, un valore, una fede per cui valga la pena morire (e uccidere, non dimentichiamolo) da tempo non li abbiamo più. O almeno abbiamo idee, fedi, valori troppo debolmente sentiti per giustificare la perdita del principale bene individuale: la vita. Qualcuno forse ricorderà cosa fa dire a Pisacane, approdato sulla costa campana con l’idea di liberare il Mezzogiorno dai Borboni, l’autore della Spigolatrice di Sapri: a quest’ultima, che gli chiede cosa sia venuto a fare nella sua terra, risponde “vengo a morir per la mia patria bella”. Parole che avranno ancora commosso i giovani volontari della Prima guerra mondiale, ma che penso oggi facciano sorridere i più tra i loro pronipoti. Per molte ragioni, a cominciare naturalmente dalla torsione militarista e aggressiva che l’idea di nazione ha assunto per colpa del fascismo, i riferimenti patriottici – decisivi in una guerra difensiva – sono ormai percepiti debolmente. Sono anzi guardati con sospetto da democrazie che, come la nostra, si fondano su un’ideologia dei diritti universali che vede i cittadini quali membri di una democrazia che abbraccia l’intero globo e non deve essere condizionata, si ritiene, da anguste limitazioni nazionali. Nel processo di secolarizzazione, particolarmente rapido, che ha interessato l’Italia repubblicana, non solo si sono svuotate le chiese ma si è scolorito, nonostante i lodevoli sforzi di qualche presidente della Repubblica, il sentimento di appartenenza nazionale. Il benessere, arrivato a partire dagli anni del cosiddetto miracolo economico, ha fatto il resto, ha riempito la nostra vita di beni e comodità diventati presto irrinunciabili, rendendoci poco disponibili – sia detto come constatazione e senza alcun giudizio moralistico – a sacrificare l’esistenza in una guerra ancorché di difesa.

Del resto, non stiamo parlando di un fenomeno solo italiano. Perfino per una grande potenza militare come gli Stati Uniti diventa sempre più difficile accettare che i propri cittadini muoiano in guerra. E’ questa difficoltà che ha alimentato negli ultimi anni l’idea delle guerre casualty free, a zero vittime, perché combattute con mezzi militari ipertecnologici (o magari da contractors di fatto apolidi). Le notizie che arrivano dallUcraina ci riportano invece indietro a una guerra molto più tradizionale, di tipo novecentesco, in cui l’unico paese democratico tra i due in conflitto può combattere come sta facendo solo perché è ancora animato dall’idea che la propria libertà e la propria terra vadano difese a ogni costo.

Epigrafe di Giuseppe Mazzini sul retro del monumento  ai Caduti della Divisione Garibaldi in Balcania nel 1945, Quadrato garibaldino Trespiano Firenze

 

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Il Giorno della memoria non è solo Auschwitz: come ripensare l’ebraismo

22/01/2022 da Sergio Casprini

Giovanni Belardelli Il Foglio Quotidiano 20 gennaio 2022

 

Anche quest’anno, il 27 gennaio, celebreremo il Giorno della memoria, benché forse un po’ oscurato nell’attenzione collettiva dalle contemporanee votazioni per il presidente della Repubblica.

Dovremmo tuttavia cominciare a riflettere, a più di vent’anni dall’istituzione di questa giornata, sul suo significato ma anche sui suoi limiti. La questione è delicata ed è bene dunque essere chiari. Anzitutto, non c’è alcun dubbio che di una iniziativa del genere ci fosse bisogno per rompere una dura e antica crosta di indifferenza. L’Italia democratica, infatti, per molti anni non si è troppo curata di ricordare in modo adeguato lo sterminio degli ebrei e nemmeno la parte avuta dal nostro paese nella persecuzione. La guerra era terminata da pochi mesi e una figura di rilievo come Cesare Merzagora addirittura invitava gli ex perseguitati che rientravano nel paese a “non lamentarsi troppo” e a prendere atto che l’italia era cambiata: “Essi devono abituarsi a star seduti attorno al tavolo non sopra e neanche sotto, come un po’ è loro abitudine”. Liliana Segre ha raccontato di recente che da giovane, appena arrivata a Milano dopo Auschwitz, si sentì dire dalla professoressa di greco, davanti a tutta la classe, che la sua deportazione era “un’esperienza interessante”. Ne fu così sconvolta che per anni non ne parlò più.

Ma a quell’epoca era un po’ tutta l’opinione pubblica che non prestava attenzione al tema, anche per la difficoltà e l’imbarazzo a ricordare il clima di silenziosa accettazione che aveva accompagnato nel 1938 il varo della legislazione antiebraica. Quando nel 1960 la storia post 1919 venne finalmente inserita nei programmi scolastici, della Shoah e delle leggi razziali i manuali di storia parlavano poco o nulla. E a non parlarne non erano solo autori più o meno “nostalgici”. Nel 1970 anche uno storico di sinistra come Rosario Villari dedicava alle leggi razziali solo una riga del suo testo per le superiori.

Questa insensibilità o comunque scarsa attenzione verso lo sterminio antiebraico è stata studiata negli ultimi anni da vari storici. E qui la si richiama a riprova che qualcosa andava appunto fatto per costringerci tutti a prendere in carico un pezzo della nostra storia, europea e italiana, come quello rappresentato dalle varie forme della persecuzione antiebraica. Ma è anche vero che il Giorno della memoria, istituito nel 2000, è diventato spesso occasione per cerimonie e rievocazioni ogni anno più o meno uguali, che non è affatto detto aumentino la consapevolezza e la conoscenza dei caratteri della persecuzione antiebraica. E’ anzi probabile che nelle scuole una parte dei ragazzi e delle ragazze vivano quella giornata come un rituale più o meno ufficiale e ripetitivo. Certo gli insegnanti dovrebbero prepararli adeguatamente, ma c’è il rischio che a volte si limitino a far leggere Primo Levi o il diario di Anna Frank. Del resto è la stessa persistenza di pregiudizi antisemiti che sembra confermare la limitata influenza del Giorno della Memoria.

 Il Rapporto Italia dell’Eurispes ha indagato nel 2004 e nel 2020 l’atteggiamento degli italiani riguardo alla Shoah. Dal confronto fra le due indagini si ricava, per citare un unico dato, che se nel 2004 solo il 2,7 per cento degli intervistati pensava che lo sterminio degli ebrei non c’era mai stato, nel 2020 questa percentuale risultava salita al 15,6 per cento. Non si possono trarre da un dato del genere conclusioni definitive; ma certo un aumento di questo tipo lascia ipotizzare uno scarso impatto del Giorno della memoria sull’opinione pubblica. Emergono qui anche i limiti di un rapporto con il passato e le sue tragedie basato sulla “religione della memoria”, come molti l’hanno definita, che da una parte rischia di sconfinare nella ripetitività e, dall’altra, si fonda su un veicolo – il racconto del testimone – dal forte impatto emotivo che però, come avviene spesso per le forti emozioni, non è di per sé sufficiente a far sedimentare una maggiore consapevolezza di ciò che viene rievocato.

C’è anche un’altra ragione che dovrebbe indurre a guardare in modo diverso al Giorno della memoria. Nel suo libro di ricordi Vivere ancora Ruth Klüger, austriaca deportata giovanissima ad Auschwitz, ha scritto: “Eppure Auschwitz viene attribuita come una sorta di luogo d’origine a chiunque le sia sopravvissuto. La parola Auschwitz ha oggi un’aura, seppure negativa, e determina largamente quel che si pensa di una persona quando si sa che è stata là […] ma io non sono originaria di Auschwitz, sono originaria di Vienna. Vienna è impossibile sfilarla di dosso, la si sente dal linguaggio; invece Auschwitz è stata estranea al mio essere come la luna. Vienna è una parte della struttura del mio cervello ed emana da me, mentre Auschwitz è il luogo più sbagliato in cui io sia mai stata […]”. Sono affermazioni da meditare, che implicitamente ci mettono in guardia contro il rischio di ricordare gli ebrei soltanto come vittime, quasi avessimo dimenticato lo straordinario contributo dell’ebraismo alla civiltà europea. E allora, nel Giorno della memoria dovremo certo ricordare i milioni di perseguitati, i morti e i sopravvissuti ( e potremmo mai non farlo noi gentili, condannati a sentirci responsabili anche se non eravamo nati?). Ma un modo di ricordare meno ripetitivo e scontato sarebbe quello di occuparci anche, ogni 27 gennaio, degli ebrei come non- vittime, parlando dunque – agli studenti in classe o nelle celebrazioni pubbliche – un anno di Freud e un altro di Einstein, un anno di Giorgio Bassani o di Hannah Arendt, un altro ancora degli ebrei che, fuggiti dall’Europa, hanno fondato lo stato di Israele.

 

Hannah Arendt

 

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La pandemia ha reso più forte il bisogno di un posto a cui appartenere

12/01/2022 da Sergio Casprini

Giovanni Belardelli

Il Foglio Quotidiano 12 gennaio 2022

 

“Il decennio a venire sarà nostro perché siamo la nazione di tutte le possibilità”. A pronunciare queste parole, durante una lunga intervista televisiva di metà dicembre, è stato il presidente francese Emmanuel Macron. Non possiamo attribuire la sua affermazione, non unicamente almeno, alla solita grandeur francese, visto che qui siamo di fronte a uno dei leader più europeisti del continente. Quella frase ci ricorda piuttosto che la nazione è un’idea, e un insieme di sentimenti collettivi, che non sono in contraddizione con l’appartenenza alla Ue e rappresentano una premessa essenziale della democrazia, come mostra il fatto che fino a oggi i regimi democratici sono nati ed esistono proprio nell’ambito di stati nazionali. Nel nostro paese tendiamo a dimenticarlo, portati fuori strada dall’uso che del richiamo all’identità e al sentimento nazionale fanno due partiti come la Lega e Fratelli d’Italia, i quali – animati da una sorta di pas d’ennemi à droite – occhieggiano più o meno esplicitamente a forze europee che si richiamano a una diversa idea di nazione, di tipo antiliberale e antidemocratico.

Fatto sta che nel dibattito pubblico italiano non ha avuto spazio quella nuova attenzione per l’idea di nazione a cui assistiamo da qualche anno e che la pandemia ha accentuato. Nel mondo anglosassone la Brexit per un verso e l’elezione di Trump alla presidenza americana per l’altro vennero giudicati da alcuni osservatori come l’esito di una contrapposizione tra anywheres e somewheres, tra le élite globalizzate e vincenti che si ritenevano cittadine del mondo e quanti, appartenenti soprattutto ai ceti popolari, si consideravano impoveriti in conseguenza della globalizzazione e si sentivano ancora legati a usi, costumi, valori tradizionali. Nella “domanda di nazione” dei somewheres c’era sicuramente un antistorico rifiuto del nuovo mondo globale, dei suoi modelli e dei suoi stessi ritmi accelerati di vita; ma c’era anche un bisogno di protezione che non aveva trovato risposte adeguate e si illudeva magari di trovarle nel ripristino dei vecchi confini britannici o nella rinascita della tradizionale America bianca. Proprio l’idea che le democrazie potessero accontentarsi di una forma di cittadinanza postnazionale e cosmopolita, insomma, aveva finito con l’alimentare nell’opinione pubblica, di quei paesi e non solo, delle forti tendenze populiste; ma ha poi favorito anche una riscoperta del nesso tra democrazia e nazione.

Pochi giorni fa il leader del Labour Party britannico, Keir Starmer, ha dichiarato che il suo è un partito non nazionalista ma nazionale, “perché la nazione ci dà un posto a cui appartenere”. E’ un’espressione che può apparire banale ma non lo è affatto. Le democrazie contemporanee, che hanno posto al centro la promozione di individui radicalmente liberi di autodeterminarsi, hanno finito spesso col pensare ai propri cittadini come semplici soggetti di diritti, sottovalutando il bisogno di appartenenza a qualcosa di più limitato e prossimo, nonché di meno anonimo, di una immaginaria cosmopoli democratica. In qualche modo lo aveva notato già Tocqueville quasi due secoli fa, quando scriveva che la democrazia, annullando i vincoli presenti nella società di antico regime, rendeva sì l’individuo finalmente libero ma minacciava anche “di rinchiuderlo tutto intero nella solitudine del proprio cuore”. E’ proprio per sfuggire a una tale solitudine, in fondo, che quello stesso XIX secolo in cui Tocqueville scriveva vide la diffusione in Europa dell’idea di nazione e la nascita di nuovi stati nazionali.

Ora, è certamente vero che lo stato nazionale assiste da tempo alla riduzione dei suoi poteri in conseguenza dei grandi processi di globalizzazione economico- finanziaria e di varie istituzioni sovranazionali, in primo luogo, per l’Italia e gli altri 26 paesi che vi appartengono, l’unione europea. Tuttavia, è pur sempre ad esso, allo stato nazionale, che paghiamo le tasse e da esso che ci attendiamo le più varie misure di protezione e promozione sociale, dalle pensioni all’assistenza sanitaria, dalla repressione dei reati all’istruzione. Ma c’è anche un dato più profondo di tipo psicologico- culturale, quello che stava dietro l’osservazione di Tocqueville appena citata: per quanto possiamo essere partecipi delle vicende mondiali, per quanto possiamo sentirci cittadini europei, siamo generalmente portati a considerare i nostri connazionali come persone più vicine per tutta una serie di ovvie ragioni, a cominciare dalla maggior facilità di comunicazione determinata dalla lingua comune. Negli ultimi due anni, per giunta, la pandemia ha reso ancora più forte il bisogno di “un posto a cui appartenere”: cioè la propria nazione intesa sia come l’insieme delle istituzioni pubbliche dalle quali ci aspettiamo protezione sia come comunità di persone con le quali condividiamo rischi e pericoli legati alla diffusione del virus. Del resto, anche se seguiamo con interesse e preoccupazione la diffusione globale della pandemia, sono ogni giorno i dati dei contagi e delle vittime italiane che in primo luogo ci colpiscono.

Forse, anche in conseguenza della pandemia, i partiti non sovranisti dovrebbero cercare di non demonizzare la “domanda di nazione”, evitando così che certi temi vengano monopolizzati dai partiti di Salvini e Meloni.

Alexis de Tocqueville Ritratto di Theodore Chassériau

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LA POLITICA E L’IDEA DI PATRIA

15/12/2021 da Sergio Casprini

Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera 14 dicembre 2021

È un interesse primario della democrazia italiana che vi sia una Destra libera da qualunque interdetto ideologico e quindi pienamente legittimata a governare, e da tempo Giorgia Meloni, con la sua vivida intelligenza politica e la sua personale simpatia (che in politica conta, eccome!) si sta dimostrando capace di fare molti passi importanti su tale strada. Proprio per questo è utile cercare di chiarirsi le idee sull’uso sempre più insistito del termine «patriottismo» che la stessa presidente di Fratelli d’Italia va facendo da qualche settimana e da ultimo anche in relazione alla figura del prossimo presidente della Repubblica che essa reclama che sia un «patriota».

Patria e patriottismo, infatti, sono cose troppo importanti perché sull’una e l’altro permanga qualche equivoco.

Una cosa allora va detta prima di ogni altra, specialmente nel caso di un regime democratico come il nostro: il patriottismo non può essere un monopolio di nessuno. Il patriottismo non è un’opzione politica, talché si finisca inevitabilmente per concludere che sarebbe patriota chi la pensa come noi e invece non lo sarebbe chi ha opinioni diverse o magari opposte. Ciò vale anche nel caso di questioni d’importanza capitale. Nel 1947 Croce e Salvemini, i quali erano convinti che non si dovesse firmare il Trattato di pace imposto dai vincitori all’Italia, da essi giudicato un diktat umiliante e ingiusto, non erano certo meno patrioti di De Gasperi o di Nenni che invece credevano fosse più conveniente all’interesse del Paese firmare quel Trattato.

Che cosa sia più congruo all’interesse nazionale in una data circostanza — e quindi in questo senso più patriottico — è materia di giudizio politico, in cui entrano in misura decisiva i nostri valori, la nostra visione del mondo, al limite le nostre simpatie e antipatie. E dunque bisogna stare molto attenti a spiccare condanne di «antipatriottismo». Anche in casi di errori politici conclamati. Il patto di Londra, ad esempio, con il quale l’Italia entrò nella prima guerra mondiale (chiedo scusa per questi riferimenti storici ma la storia è una galleria di casi concreti che servono bene a spiegarsi), il patto di Londra, dicevo, per le sue clausole e la sua complessiva scarsa lungimiranza doveva rivelarsi per l’Italia, a guerra finita, un campionario di errori catastrofici. Ma a nessuno verrebbe mai in mente per questo di accusare Sidney Sonnino, il ministro degli esteri che nell’aprile del 1915 firmò quel patto, di non essere un «patriota». In un certo senso, anzi, lo era fin troppo.

Se c’è nel vocabolario politico un termine inclusivo è il termine «patria». Una dimensione, quella della patria, che, ha scritto Piero Calamandrei, indica, qualcosa di «comune e di solidale che è più dentro» in ciascuno di noi. Cioè qualcosa che va al di là delle opinioni politiche, per più versi qualcosa di prepolitico, in forza del quale sentiamo di avere un legame, un patrimonio condiviso (a cominciare da quello fondamentale della lingua) anche con chi nutre idee politiche diverse, pure assai diverse, dalle nostre. Proprio per questo solamente la nazione democratica può essere in realtà una vera patria. Perché solo in un regime democratico è garantita a tutti la massima latitudine delle opinioni, la più ampia libertà di pensiero, e quindi il vincolo patriottico può avere la massima estensione, includere virtualmente ognuno. Laddove viceversa è la dittatura di una fazione che, anche se si ammanta di valori nazionali, se proclama di rappresentare gli interessi massimi del Paese, in realtà, mettendo al bando coloro che non ne condividono i principi, non solo rende il patriottismo impossibile, ma produce un effetto ancora più devastante: di fatto mette all’ordine del giorno la guerra civile

Giorgia Meloni ha deciso da tempo di mollare gli ormeggi che in qualche modo continuavano a tenere legato Fratelli d’Italia al passato della vecchia Alleanza Nazionale e di cercare una nuova rotta in grado di condurre il suo partito al centro di nuovi equilibri politici. Cercando quindi anche nuove parole capaci di sottolineare questo nuovo corso: penso ad esempio al termine «conservatore» con cui ha preso ad autodefinirsi. A mio giudizio ha fatto e sta facendo bene. Ma le parole sono pietre. Vanno usate con cautela: se le si adopera con eccessiva disinvoltura, pur senza alcuna cattiva intenzione, possono far male. Agli altri ma soprattutto a noi stessi.

Antonio Muzzi Allegoria dell’Italia Unita 1888

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4 NOVEMBRE 2021

03/11/2021 da Sergio Casprini

Per il 4 NOVEMBRE 2021, la Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate, nel  centenario della tumulazione del Milite ignoto all’Altare della Patria, proponiamo una bella pagina di storia, pubblicata nell’inserto culturale del Foglio Quotidiano di sabato 1 novembre, in cui si ricostruisce la nascita del mito del Milite Ignoto, come simbolo dell’Unità nazionale.

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La Grande guerra, l’elaborazione collettiva del lutto e la costruzione di un’identità nazionale:

Storia dell’invenzione commemorativa per antonomasia

Il Milite Ignoto passa per Monselice il 30 ottobre 1921

È stato al centro di un compianto condiviso, l’elaborazione di un lutto di massa, come di massa era stata la morte. Sacrificio della vita consegnato come risarcimento e memento alla memoria collettiva. Morte e resurrezione nel simbolo, uno per tutti, che nell’anonimato certifica la presenza e il valore di tutti. Comunque lo si guardi, e al netto della retorica nazionalista e militaresca che l’ha attraversato in un secolo di storia, il Milite ignoto fa ormai parte della mitologia della nazione. E come mito, fondativo quanto meno della rinascita dal trauma della Grande guerra, è sopravvissuto alla monarchia e al fascismo, a un’altra guerra sciagurata e alla leva obbligatoria, alla contestazione, a un attentato e a qualche anno di oblio. La guardia d’onore è sempre lì al suo fianco, giorno e notte, oggi due lancieri di Montebello, domani forse due fucilieri di Marina.

Le Frecce tricolori passeranno presto di nuovo sopra le loro teste, una nuova corona d’alloro sarà posta accanto alla tomba, risuoneranno le note dell’Inno di Mameli, della Canzone del Piave e del Silenzio. In questi giorni è tornata a formarsi una discreta fila di persone ai piedi della scalinata che conduce all’Altare della patria, in attesa di oltrepassare i cancelli e di avvicinarsi al monumento. S’indovina turisti, per lo più. Niente a che vedere con la folla di quei giorni di novembre di cento anni fa. L’idea di trasportare da un campo di battaglia alla capitale un soldato senza identità e di seppellirlo nel tempio più importante della nazione era già stata attuata nel 1920 in Francia e Inghilterra. L’11 novembre, nel secondo anniversario dell’armistizio sul fronte occidentale, con un’imponente cerimonia il Milite ignoto francese era stato inumato a Parigi sotto l’Arc de Triomphe, costruito da Napoleone come tributo al suo esercito e già monumento alle glorie militari e all’orgoglio nazionale francese, mentre a Londra la bara del Soldato senza nome britannico era stata collocata nell’Abbazia di Westminster, dove sono sepolti monarchi, poeti e grandi d’Inghilterra.

Giulio Douhet

In Italia, nel luglio di quell’anno era stato un colonnello d’artiglieria, Giulio Douhet, sostenuto da padre Agostino Gemelli, a proporre l’idea di onorare tutti i caduti nella salma di un soldato sconosciuto: un “corpo mistico”, lo ha definito Laura Wittman, italianista della Stanford University, che incarnava il sacrificio di tutti i caduti e che rappresentava pure idealmente per i vivi il figlio, il marito, il fratello, il padre che aveva perduto la vita e il corpo al fronte. Passò più di un anno prima che il disegno di legge fosse promulgato e che il governo – presidente del Consiglio per la prima volta un socialista riformista, Ivanoe Bonomi, ministro della Guerra un civile, Luigi Gasparotto – lo mettesse in opera. Toccò a Gasparotto, che poteva muoversi sulla scorta delle comuni esperienze delle altre due potenze vincitrici, definire le modalità dell’operazione: un rituale che garantisse l’anonimato della salma prescelta (e la commissione istituita per questo compito fu vincolata a un rigido protocollo di segretezza) e la massima risonanza del tributo.

Il punto di partenza era l’esumazione di undici corpi senza nome, da cercare nelle undici zone di combattimento più significative del fronte italo-austriaco: dal San Michele al Pasubio, dal Grappa al Montello a Gorizia e Monfalcone. Tra le undici bare, sarebbe stata scelta quella destinata alle esequie solenni e alla sepoltura a Roma al Vittoriano, il grande monumento in onore di Vittorio Emanuele II, il sovrano fondatore dello stato, che dieci anni dopo l’inaugurazione era già il simbolo dell’identità nazionale. Ma prima bisognava strappare alla terra quegli undici corpi, bisognava tornare tra i morti. La catastrofe della Grande guerra, che squassò assetti fisici e mentali, spalancò un baratro di discontinuità col passato anche nell’idea e ancor più nell’esperienza della morte. Morte di massa, nel numero e nella frequenza. Morte mai così prossima, nell’eventualità della propria e nell’orrenda concretezza di quella altrui, come nelle trincee. Nell’ossessiva invadenza dei cadaveri, scrive Antonio Gibelli nell’Officina della guerra, la morte è “spogliata di ogni rito e di ogni riservatezza, esposta nella sua materialità e nella sua oscenità di spettacolo pubblico. Lo spettacolo di decomposizione si offre ai combattenti in tutta la sua mostruosità, varietà e durata”. Ed è morte privata di lutto e compianto, sono cadaveri a cui è impossibile dare una sepoltura, corpi annientati da una pallottola e poi straziati, anche sotto un palmo di terra, da una granata, irriconoscibili.

 

La guerra inghiotte le sue vittime cancellandone immediatamente l’identità. “Tu eri morto così da poco – scrive Paolo Monelli nelle Scarpe al sole – ed eri già nulla, massa grigia destinata a puzzare rannicchiata contro la roccia. I viventi frettolosi non sanno più nulla di te”. Corpi sfigurati o con la piastrina di riconoscimento deteriorata o del tutto assente, corpi “dispersi”, corpi senza nome. Il sacrario di Redipuglia conserva oggi le spoglie di quasi 40 mila caduti noti e di oltre 60 mila ignoti. Delle oltre 600 mila vittime del conflitto, 200 mila sono rimaste prive di identità. L’anonimato in cui può relegare la morte sul campo di battaglia diventa un’ulteriore angoscia che domina sia i soldati al fronte, sia le famiglie lontane. “Tutti ci davamo l’indirizzo uno con l’altro [e] dicevamo, se muoio io tu scrivi ai miei cari la mia sorte, se muori tu scrivo io”, annota nel suo diario Mimo Genga, un giovane muratore pesarese in trincea, ricordando i momenti che precedevano un assalto. E lo spettro dell’annientamento, della morte che riduce il corpo senza nome a cosa aleggia anche in una sua terra di nessuno, senza distinzioni tra amico e nemico: “Finché non so il suo nome potrò forse ancora dimenticare, il tempo cancellerà la sua immagine”, pensa il soldato di Remarque in Niente di nuovo sul fronte occidentale. “Ma il suo nome è un chiodo che si pianterà in me e non si potrà strappare mai più… Perciò apro il libretto e leggo lentamente: Gérard Duval, tipografo. Con la matita del morto trascrivo l’indirizzo su una busta, e con improvvisa fretta ripongo tutto il resto nella sua giubba. Io dunque ho ucciso il tipografo Gérard Duval, penso smarrito…”.

Cimitero di guerra di Lizzana

Nei cimiteri di guerra del fronte italiano, nel 1921, sono sepolti anche soldati austro-ungarici. Se ne contano più di ottomila a Lizzana, vicino a Rovereto, nel cimitero che ha raccolto le salme provenienti da circa 200 cimiteri più piccoli della regione trentina, piccoli cimiteri allestiti accanto alle trincee in cui venivano inumati alla buona, e quando era possibile, i caduti. A Lizzana all’epoca sono tumulate quasi 12 mila salme, più della metà di soldati senza possibilità di essere identificati, se non dalla divisa come italiani. È qui che, presumibilmente, la commissione incaricata dal governo fa esumare e ricomporre in una cassa la prima delle undici salme di soldati senza nome. Seguiranno nei giorni successivi le altre. Il 28 ottobre le undici bare, tutte uguali, sono affiancate l’una all’altra nella basilica di Aquileia. Per chi debba indicare, con un secondo grado di casualità, con gli occhi bendati da un’anonima cassa di legno, quale sia la salma destinata a Roma, non è stato scelto un militare ferito in guerra, come in Francia, o un alto ufficiale, come in Inghilterra. È stata scelta una donna, una madre.  Solo un terzo dei caduti della Grande guerra erano uomini sposati. Il 12 per cento, è stato calcolato, aveva meno di vent’anni. Il lutto per i caduti è massimamente lutto di genitori, che devono affrontare in una società non preparata il più grave dei traumi: la perdita di un figlio. E quel trauma, acuito dall’assenza del corpo del dolore, fu evidente in alcuni casi presi in esame dalla commissione incaricata di scegliere una figura particolarmente rappresentativa come “madre spirituale” del Milite ignoto. Lorenzo Cadeddu, un ufficiale dell’Esercito che si è dedicato alla ricerca storica, nella Leggenda del soldato sconosciuto la racconta così: “Si pensò a una mamma livornese che si recò a piedi da Livorno a Udine alla ricerca del figlio disperso. Venne considerato il caso di una mamma di Lavarone che, saputo dov’era tumulato il figlio, si recò in quel cimitero scavando da sola e con le mani la terra che ne ricopriva i resti; quindi, trovate le ossa, dopo averle legate con un nastro tricolore, se le pose in grembo e le portò in paese seppellendole vicino a quelle del marito. Infine, venne considerato il caso di una mamma che ebbe la forza di assistere a oltre 150 esumazioni pur di trovare i resti del figlio…”. Non bastava, o forse era troppo. Il rito nazional-popolare richiedeva una donna del popolo, l’architettura simbolica dell’evento un tassello biografico che la legasse in qualche modo alla biografia della nazione.

Maria Bergamas

Maria Maddalena Blasizza, figlia di un fabbro e di una lavandaia, era nata a Gradisca d’Isonzo nel 1867 e viveva a Trieste (allora Impero austro-ungarico), dove si era trasferita in gioventù. Il marito era un Antonio Bergamas, postino. Il figlio maschio, Antonio anche lui, formalmente suddito dell’Impero asburgico ma “educato nella fede di Mazzini” – avrebbero scritto dopo la sua morte in un opuscolo commemorativo – si era arruolato nell’esercito italiano con il nome di guerra di Antonio Bontempelli. Era caduto colpito da una raffica di mitraglia nel giugno del ‘16 durante un assalto che aveva voluto guidare lui stesso poiché come irredento, aveva sostenuto, spettava a lui l’onore di giungere per primo sui reticolati nemici. Aveva meno di 25 anni. Il suo corpo era stato inumato nel piccolo cimitero vicino alla trincea, devastato in seguito da un bombardamento che aveva reso irriconoscibili le salme. C’era dunque il soldato disperso, che “amò tenacemente l’Italia e morì per Essa”, c’era Trieste irredenta, c’era la madre figlia del popolo. C’era tutto. 

Maria Bergamas la si può vedere ancora oggi avanzare lentamente, mater dolorosa vestita tutta di nero, davanti alle bare allineate ai lati dell’altare maggiore della basilica di Aquileia. Gloria. Apoteosi del soldato ignoto è il contributo del cinema alla creazione del mito del Milite ignoto, perché la traslazione con il viaggio del feretro per l’Italia e la grande cerimonia a Roma riprese dalla Federazione cinematografica italiana e dall’Unione fototecnici cinematografici furono anche il più grande evento mediatico a cui l’Italia avesse mai partecipato. Il film, restaurato in occasione del centenario dalla Cineteca del Friuli, ha una piccola falla proprio nel momento del “riconoscimento” della bara da parte di Maria Bergamas: la vediamo avvicinarsi alla decima cassa, accompagnati da una didascalia a schermo intero – “Nel trepido palpitare dei cuori… la madre mormorò: eccolo” – e poi è subito inginocchiata e commossa con le mani appoggiate alla bara. Ci racconta qualcosa di più (anche l’enfasi di un secolo fa) il diario di un testimone: “… Trattenendo il respiro giunse di fronte alla penultima bara davanti alla quale, oscillando sul corpo che più non la reggeva e lanciando un acuto grido che si ripercosse nel tempio, chiamando il figliolo, si piegò, cadde prostrata e ansimante in ginocchio abbracciando quel feretro”.

Finita la cerimonia, sul sagrato della basilica la banda della brigata Sassari suonò per la prima volta in via ufficiale la Canzone del Piave. La mattina del 29 il feretro, caricato su un treno speciale e ancorato in una carrozza aperta a un affusto di cannone, cominciò il suo lento viaggio lungo l’Italia. Udine, Treviso, Mestre, Venezia, Bologna, Firenze… Due ali di folla in ginocchio lo accoglievano nelle piccole e grandi stazioni e lungo i binari. La comunità dell’applauso era di là da venire. Imposto il silenzio, vietati i discorsi, era accettata, ma una sola volta, la Canzone del Piave. La quarta notte il treno era alla stazione di Portonaccio (l’attuale Tiburtina). La mattina del Giorno dei morti, dopo l’arrivo del convoglio alla stazione Termini, il primo corteo e il tributo religioso nella basilica di Santa Maria degli Angeli, aperta alla devozione dei romani. Alle nove del 4 novembre, terzo anniversario della vittoria, dalla basilica si avviò verso piazza Venezia il corteo imponente, con militari di ogni arma, decorati, bandiere e gonfaloni. Subito dietro al feretro, venti madri e venti vedove di guerra. E tutt’intorno, lungo il percorso e alle finestre dei palazzi, una folla come a Roma non s’era mai visto. Il rito dell’inumazione fu breve, le cronache sottolineano la solennità del momento e la commozione generale. Alle 10.36 si chiuse la pietra tombale. L’umile salma ai piedi della grande statua equestre del “padre della patria” si preparava a diventare il nuovo fulcro simbolico del monumento e dunque dell’unità nazionale.

Il culto dei morti e della memoria era già cominciato ancor prima della fine della guerra e in quegli anni a cavallo del ’20 si manifestò nella iperbolica diffusione dei monumenti ai caduti, un’altra risposta commisurata alla vastità delle perdite. Monumenti con nomi senza corpo, questa volta, perché i nomi restituiscono almeno quell’identità che la morte sul campo di battaglia ha annientato. In Italia poi fu tutto un fiorire di opuscoli e pubblicazioni commemorative curate da congiunti o amici del caduto. Nel 1922, il sottosegretario alla Pubblica istruzione del governo fascista, Dario Lupi, ebbe l’idea di consegnare alle scuole le chiavi della memoria, istituendo viali e parchi della Rimembranza, dove ogni albero fosse legato al nome di un soldato morto al fronte. La natura come monumento vivente. Il progetto ebbe una discreta fortuna sul momento, il secondo dopoguerra ne cancellò quasi totalmente le tracce, anche perché il fascismo si era appropriato quasi subito di quella memoria legandola all’altro mito, la vittoria mutilata, e pure integrandola con la memoria dei suoi caduti, quelli della rivoluzione fascista.

Parco della Rimembranza Firenze

Il Milite ignoto resta comunque l’invenzione commemorativa per antonomasia della Grande guerra. Capace di integrare il cordoglio privato con quello collettivo. Perché l’anonimato attesta l’eroismo di tutti e permette così di elaborare il lutto di tutti. Come sottolinea Oliver Janz, uno storico tedesco che ha seguito con particolare attenzione il dopoguerra italiano, nel suo anonimato il Milite ignoto estende il diritto alla sopravvivenza nella memoria collettiva – una forma secolarizzata dell’idea cristiana della vita eterna – a qualunque soldato abbia sacrificato la vita per la nazione.

E i caduti vivono nel ricordo ma anche nel futuro storico della nazione per cui sono morti.

ROBERTO RAJA   Il Foglio Quotidiano 1 novembre 2021

 

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TRA EINAUDI E LENIN: le ragioni di una “RIVOLUZIONE LIBERALE”

18/08/2021 da Sergio Casprini

Matteo Marchesini* Il Foglio Quotidiano18 agosto 2021

Molte correnti e suggestioni culturali si combinano nel pensiero di Piero Gobetti (1901- 1926). C’è in Gobetti un ideologo progressista; c’è un critico d’arte conservatore, che risente dell’antiavanguardismo anni 20; e c’è anche un giornalista che sintetizza la storia d’Italia al modo di ideologi disinvolti come Oriani e Missiroli. C’è, ancora, il lettore di Sorel, che vede nella lotta di classe una reazione vitalistica all’inerte parlamentarismo liberale; e c’è il lettore di Mosca e Pareto, che individua nelle élite più dinamiche la guida necessaria di ogni società. Nel sostanziare queste concezioni, lo soccorrono poi sia il liberismo di Einaudi che la fascinazione per Lenin, oltre a una smania di tradurre il pensiero in azione che viene dritta dalla filosofia di Gentile. Ma nell’opera gobettiana più matura prevale l’influenza di due diversi modelli liberali: quello di Croce e quello di Salvemini. Di Croce, Gobetti riprende l’aspirazione a un pensiero organico e idealistico, ma rifiuta la visione irenica e antiagonistica della vita civile. Viceversa, dal progressista Salvemini ricava molte idee su socialismo, antiprotezionismo e riforme democratiche, ma si oppone al suo atteggiamento positivista appunto in nome di “idealità” non riducibili all’analisi dei singoli problemi.

Attraverso la meditazione di questi autori, e attraverso le prime prove politico- editoriali, Gobetti arriva presto a una sintesi spericolata e originalissima: quella che si ritrova sulla sua rivista “La Rivoluzione Liberale”, e soprattutto nei pezzi che vanno a formare il libro omonimo del ’ 24. Con un’intransigenza che lo apparenta a Gramsci, ma con in più uno stile concitato che riflette la sua debordante energia giovanile, l’autore ricapitola qui in forma vertiginosamente scorciata i problemi secolari attorno a cui si muove la storia italiana; e subito trasforma questa ricapitolazione tendenziosa in uno strumento di pedagogia politica per l’attualità.

 Non c’è grande tema che sfugga alla sua attenzione, dal Risorgimento alla scuola, dagli affari esteri alla Chiesa.

Particolarmente riusciti risultano i brani sugli schieramenti politici del dopoguerra (nazionalisti, popolari, fascisti, socialisti, comunisti) e i ritratti di alcuni singoli leader ( Sturzo, Salvemini, Mussolini e lo stesso Gramsci, la cui fisionomia è descritta come un equivalente fisico del pensiero). Cruciali, poi, sono i passaggi nei quali Gobetti parla delle avanguardie proletarie – cioè degli operai organizzati che aveva davanti a Torino – come delle nuove e più autentiche élite. Seppure in una prospettiva diversa da quella di Gramsci e dei marxisti, anche lui considera questi operai i veri eredi della migliore tradizione borghese. Solo che per Gobetti non devono realizzare il comunismo, ma la vera rivoluzione liberale che è fallita durante il Risorgimento.

Sulle classi proletarie, il giovane ideologo proietta la speranza di una fulminea trasformazione sociale: confida che le loro lotte contribuiscano in maniera decisiva a colmare i ritardi storici della nazione, e a produrre in extremis quella modernizzazione che in Italia è ancora allo stato embrionale. Perciò il liberalismo, ideologia di solito associata alla moderazione, diventa per lui un fatto “rivoluzionario”. Designa, cioè, un’accelerazione di quelle dinamiche sociali avanzate che Gobetti oppone alla speculare estremizzazione dell’inerzia italiana, determinata a suo avviso dal regime fascista: un regime in cui il ventenne direttore della “Rivoluzione”, a differenza di Croce, non vede affatto un corpo estraneo o un mero incidente di percorso, bensì “l’autobiografia della nazione”.

Il fascismo rappresenta per Gobetti sia l’eterna “infanzia”, sia la decrepitezza di un’Italia invecchiata senza diventare adulta. E’ un’Italia che “crede alla collaborazione delle classi e rinuncia per pigrizia alla lotta politica”, lasciandosi soffocare dai ceti più parassitari, né autenticamente proletari né responsabilmente borghesi. La sua arretratezza deriva dalla perenne tendenza a bloccare, imbrigliare o comunque esorcizzare quel libero scontro tra le classi attraverso il quale soltanto possono emergere élite forti e capaci di riformare la società. Secondo Gobetti, nonostante il suo piglio rivoluzionario il fascismo non ha fatto altro che portare alla perfezione una tale tendenza. Il suo statalismo, che concepisce la società come un organismo unico diviso in tante corporazioni “medievali”, offre la massima protezione possibile ai privilegi di gruppi che non vogliono affrontare il rischio d’impresa, e li copre sotto la patina retorica di un interesse generale tutto di facciata. E’ in questo senso che il regime mussoliniano costituisce la più attendibile “autobiografia della nazione”, e potremmo dire la ricapitolazione della sua storia clinica. Ai suoi esordi, nell’immediato dopoguerra, la violenza fascista sembrava prefigurare un reale e perfino fecondo scontro di idee e di interessi. Ma dopo appena due o tre anni, Mussolini ha raccolto intorno a sé l’immobile blocco sociale delle classi medie già sedotte da Giolitti. Anche su questo piano, il capo del fascismo ha semplicemente perfezionato il consenso, portandolo con ogni mezzo verso una sinistra “unanimità”. Tutto ciò, secondo Gobetti, attesta “l’inesistenza di minoranze eroiche, la fine provvisoria delle eresie”. Meglio che i tiranni facciano il loro dovere fino in fondo – meglio la persecuzione aperta e sanguinosa, dice provocatoriamente con una frase che fa rabbrividire chi conosce il suo destino. Forse solo così, dice, ci si potrà risvegliare dal torpore con una nuova energia e una intelligenza più limpida.

Questo atteggiamento fa capire bene le radici etiche e perfino psicologiche dell’autore di Rivoluzione liberale.

La sua concezione della lotta di classe non è mai slegata da concetti come “forza morale” e “spirito di sacrificio”. Convivono in lui due tipi opposti di intellettuale. Da un lato c’è l’illuminista attento ai dettagli, erede di quella tradizione che passa per il ’ 700 dei Verri, per l’800 di Cattaneo e per il ’ 900 di Salvemini, e che è rimasta sempre ai margini della scena italiana; ma dall’altro lato, questa tradizione s’innesta sul carattere di uno spiritualista appartenente all’assai più influente famiglia dei letterati che nutrono generose illusioni politiche. E’ la famiglia del corregionale Alfieri, su cui Gobetti scrisse la tesi di laurea: cioè del poeta per eccellenza antitirannico, ma animato da una visione politica tutta astratta, aristocratica e classicista. E non è certo un caso che allo studio dell’astigiano si siano dedicati anche altri giovani cresciuti sotto la tirannia del fascismo, come ad esempio Fubini, Debenedetti e Sapegno, coetanei di Gobetti e a lui vicini, sebbene più letterati e meno politici. “La vita è tragica”, ripete alfierianamente questo spavaldo martire dell’antifascismo, che molto prima di Croce e Salvemini ha capito dove conduce la strada spianata da Mussolini. E con un esempio significativamente classico ammonisce che “è difficile pensare Cesare senza Pompeo, Roma forte senza guerra civile”. Il lottatore Gobetti è un intellettuale insieme pratico e idealista, o se si vuole un idealista della pratica. Ed è da questa identità doppia, fondata su una sconcertante dote intuitiva, che nasce l’originalità dei suoi saggi: dove liberismo e leninismo, etica protestante della responsabilità individuale ed entusiasmo per le classi povere in ascesa si mescolano in un disegno precario ma eccezionalmente suggestivo.

Oggi questa miscela non può essere per noi un modello; ma l’Italia che Gobetti ha descritto somiglia ancora alla nostra.

 

Marchesini, Matteo. – Scrittore italiano (n. Castelfranco Emilia 1979). Tra il 1999 e il 2003 ha gestito una piccola libreria e dal 1998 al 2010 ha collaborato a un annuario di poesia curato insieme a G. Manacorda e P. Febbraro. Del 2013 è il suo primo romanzo Atti mancati, candidato al Premio Strega dello stesso anno, in cui emergono riflessioni sul romanzo come genere che può nascere solo da una scrittura in grado di affrontare la realtà, mentre è del 2017 la raccolta di tre romanzi brevi. Tre False coscienze. Parabole degli anni Zero. Attualmente collabora tra l’altro con Radio Radicale, Il Foglio e Il Sole 24 Ore.

Piero Gobetti

 

 

 

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GARIBALDI, STATUA E STORIA DIMENTICATE

20/07/2021 da Sergio Casprini

 

Giovanni Belardelli Corriere della Sera 20 luglio 2021

Il 6 settembre faranno tre anni da quando il monumento equestre a Garibaldi, a Roma sul Gianicolo, venne colpito da un fulmine.

Da allora, benché solo modestamente danneggiato in un bassorilievo del basamento, il monumento è rimasto transennato senza che venisse intrapreso alcun lavoro di restauro. Si tratta di una vicenda davvero minima, a fronte dei mille e mille lavori italiani interrotti o mai iniziati, mal condotti o mai terminati. Eppure l’inerzia di chi avrebbe dovuto provvedere assume in questo caso un significato particolare, in considerazione della incomparabile rilevanza simbolica di quella figura.

Nessun altro protagonista dell’unificazione italiana ha infatti goduto della popolarità di Garibaldi, al quale per di più ci si è richiamati tanto a sinistra (si pensi alle Brigate Garibaldi, le formazioni partigiane organizzate dal Pci) che a destra (Mussolini, celebrando i cinquant’anni dalla morte del capo dei Mille, dichiarò le camicie nere niente meno che eredi delle camicie rosse). Proprio per questo le transenne attorno a quel monumento sono indice di qualcosa di più che la semplice incuria delle autorità comunali. Segnalano quanta vacua retorica ci sia spesso nel nostro modo di ricordare il passato. Potesse parlare, quella imponente statua di bronzo manifesterebbe probabilmente il suo sconcerto per essere rimasta ingabbiata proprio mentre si celebravano i 160 anni dall’unità d’Italia, un evento nel quale Garibaldi qualche ruolo lo aveva ben avuto. Ma la condizione di semiabbandono in cui si trova il monumento mostra anche quanto sia cambiato, in tutte le democrazie euroatlantiche, il modo di rapportarsi al passato. Da qualche decennio veniamo infatti richiamati all’obbligo di ricordare soprattutto i crimini della nostra storia. Nulla da obiettare, ovviamente. Sennonché l’epoca della religione della memoria, come è stata definita, sembra incapace di rammentarsi anche dei propri eroi.

Ammesso che sia ancora lecito usare questa parola ai tempi della cancel culture.

Pietro Senno Garibaldi a Caprera 1860/1870

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25 APRILE. FESTA DELLA LIBERAZIONE

24/04/2021 da Sergio Casprini

           MONUMENTO ALL’ULTIMA SEDE DI RADIO CORA                                                                 

Piazza D’Azeglio Firenze

Il 7 giugno 1944

convenuti nella casa di fronte

a concordarvi l’ultima battaglia

della nostra liberazione

ENRICO BOCCI avvocato

ITALO PICCAGLI capitano

Servizi della Regia Aereonautica 

LUIGI MORANDI studente

solo armati di costanza fede sapere

sorpresi con i compagni dai nazifascisti

dopo resistenza torture inumane coraggio

dettero la vita

per gli ideali fino all’ultimo vivi

di giustizia e di libertà

 

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17 MARZO: Giornata dell’Unità nazionale, della Costituzione, dell’Inno e della Bandiera.

17/03/2021 da Sergio Casprini

17  MARZO 2021

Come nel 2020 non possiamo celebrare il 17 MARZO, solennità civile che celebra l’unità nazionale, con manifestazioni aperte alla cittadinanza, ma non possiamo dimenticare che dal 17 marzo 1861 per le future generazioni di abitanti della penisola italica si apriva un futuro carico di speranze. L’unità non fu un percorso facile, ma ci ha lasciato un patrimonio di valori e di culture politiche e sociali che in questi 160 anni hanno continuato a guidare scelte e decisioni soprattutto nei momenti più bui della nostra storia. Certo, non è stato un cammino facile, in questi 160 anni sono stati commessi errori, ma non si può non pensare che gli stati e staterelli preunitari nel contesto europeo presentavano una situazione di arretratezza anche nelle aree più felici della penisola. Il sogno dell’unità portava con sé la speranza che la nuova Italia si sarebbe avviata verso un futuro degno del suo glorioso passato, con la fiducia nel progresso culturale e sociale, ma la realtà si presentò molto problematica. In questo momento senza dubbio alcuni dei problemi che si palesarono subito dopo l’unità sono riemersi, ma altro è il modo di affrontarli: una compagine statale complessa è indubbiamente in grado di affrontare situazioni di carattere mondiale molto meglio, come altri stati in Europa e nel mondo hanno costantemente dimostrato. Una domanda si insinua nell’opinione pubblica: fatta l’Italia, sono stati fatti gli Italiani? Anche se le apparenze mostrano divisioni, pregiudizi e stereotipi, nei momenti più gravi della loro storia gli Italiani hanno dimostrato di essere popolo. Possiamo sperare che continueranno a dimostrarlo.
Alessandra Campagnano  Comitato Fiorentino per il Risorgimento

17 marzo 2012

Manifestazione del Comitato Fiorentino per il Risorgimento 

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