Fucilazione Fratelli Bandiera La Tribuna Illustrata 17 settembre 1893
Meglio morire in piedi che vivere in ginocchio.
Questa frase – pronunciata da un giovane ucraino diciottenne in procinto di partire volontario per il fronte – è entrata sere fa nelle case di tanti italiani attraverso un tg della Rai. A chi vi abbia prestato attenzione (era pur sempre l’ora di cena) quelle parole saranno sembrate provenire da un altro pianeta. E in un certo senso è davvero così: rimandano infatti a un insieme di valori e sentimenti – la disponibilità a separarsi definitivamente dai propri affetti e il sacrificio estremo di sé per difendere il proprio paese – che sono usciti da tempo dalla nostra cultura. Non è stato sempre così, come sa chiunque conosca un po’ di storia a cominciare dalle vicende che portarono alla nascita dello stato italiano.
“Chi per la patria muor / vissuto è assai, / la fronda dell’allor / non langue mai. / Piuttosto che languir / sotto i tiranni / meglio è di morir / sul fior degli anni”. Così cantavano – modificando con il riferimento ai tiranni il coro di un’opera di Mercadante – i fratelli Bandiera e i loro compagni un giorno del luglio 1844, mentre andavano verso il luogo dove sarebbero stati fucilati. E’ possibile che l’episodio sia stato inventato successivamente, ma esemplifica bene quella disponibilità a dare la vita per l’indipendenza italiana che caratterizzava i patrioti del Risorgimento ed è testimoniata da tante “ultime lettere” ai propri cari. In molti di loro, giovani colti che si erano formati (e commossi) alla lettura dei poeti dell’epoca a cominciare da George Byron, la disponibilità al sacrificio si alimentava anche di una certa predisposizione romantica per la morte. Fatto sta che quella disponibilità c’era per davvero, come ci sarebbe stata in altri momenti della nostra storia. E’ il caso dei giovani partiti volontari nel 1915 o dei partigiani saliti a combattere sulle montagne trent’anni dopo per liberare il loro paese, animati anch’essi da un’etica del sacrificio non dissimile da quella del giovane ucraino citato all’inizio.
Ma anche la disponibilità alla “morte per la patria” dei partigiani – della gran parte se non proprio di tutti (c’erano anche quelli per i quali la lotta di classe contro i padroni e per il socialismo passava avanti a ogni cosa) – appare oggi lontana; su questo le lettere dei condannati a morte della Resistenza parlano una lingua che ci è diventata sconosciuta. Non vuole essere un rimprovero (e rivolto a chi poi?), né un rimpianto per le neiges d’antan. Si tratta solo di una constatazione: la disponibilità a difendere la propria patria, che pure è “sacro dovere del cittadino”, secondo un articolo della nostra Costituzione (non tra i più citati dai fan della carta “più bella del mondo”), è diventata problematica; forse, a voler essere realisti, dovremmo dire che è uscita dal nostro universo mentale. Nelle scuole italiane non credo venga dedicato al tema un centesimo dell’attenzione riservata all’inclusione, all’accoglienza, alla diversità.
Tutto questo è avvenuto per molte ragioni, a cominciare dal fatto che, finita la guerra, l’Italia repubblicana nasceva all’insegna di una crisi dell’idea di patria, compromessa dalla torsione nazionalista e aggressiva che le aveva imposto il regime mussoliniano, dunque inutilizzabile come risorsa valoriale e affettiva della nuova collettività democratica. La storia nazionale subiva una drammatica cesura: il principale partito di governo, la Dc, e il principale partito di opposizione, il Pci, erano eredi di forze – i cattolici e i socialisti – estranee alla tradizione da cui era sorto lo stato nazionale. L’idea di nazione, come hanno osservato alcuni storici, si partitizzava, nel senso che l’appartenenza alla Democrazia cristiana o al Partito comunista faceva premio sulla comune appartenenza alla patria italiana. Per molti anni tanti lavoratori comunisti – lo notò uno storico che nel Pci aveva militato, Aurelio Lepre – si sentirono più vicini agli operai e ai contadini sovietici che al proprio governo. In anni a noi più vicini, si dirà, c’è stato il settennato al Quirinale di Carlo Azeglio Ciampi. Certo, ma la sua meritoria riabilitazione dei simboli nazionali – dall’inno di Mameli al tricolore – non poteva arrivare a incidere più di tanto nei sentimenti collettivi del paese, negli strati più profondi dell’identità italiana.
Nei decenni la crisi dell’idea di patria è stata amplificata dalle caratteristiche di quella che viene chiamata la democrazia del benessere. Per poter accettare il rischio di morire, che la difesa armata del proprio paese inevitabilmente comporta, devono esistere delle “buone ragioni”: ma queste sono diventate dalle nostre parti una merce rara. Fondata com’è sul benessere individuale (che, sia chiaro, tutti molto apprezziamo) la nostra società democratica sembra non riuscire più a individuare qualcosa per cui sia possibile rinunciarvi, rischiando la propria vita al fine di difendere l’indipendenza e l’integrità nazionale. Tanto più che da anni c’eravamo convinti che, in un’Europa che entro i propri confini aveva sostanzialmente abolito la guerra, la necessità di dover davvero proteggere con le armi il proprio paese fosse stata superata. Come è a tutti evidente, questa condizione non è altrettanto certa per il futuro.
Giovanni Belardelli Il Foglio 8 maggio 2024
Graceville War Memorial in Australia