“…l’Italia non è regredita, non si è impoverita, non è emarginata, non è in declino; tutto ciò è avvenuto grazie al lavoro, allo sforzo, al comportamento degli italiani nel loro complesso. Ecco perché bisogna rovesciare il motto attribuito a Massimo D’azeglio: “Abbiamo fatto l’Italia, ora dobbiamo fare gli … Leggi l'editoriale di Sergio Casprini
Montale, geniale dilettante
Nel 1925 usciva «Ossi di Seppia», esordio poetico del premio Nobel, che diceva di sé «ho scritto sempre da povero diavolo» e che a Firenze avrebbe diretto il Vieusseux
I montaliani Ossi di seppia, usciti a Torino presso Gobetti Editore nel 1925, compiono cento anni e sono uno dei massimi vertici della poesia novecentesca. Il Montale ventunenne, che nel luglio 1917, al fronte della Grande Guerra, annotava appunti sconsolati nel suo Quaderno genovese («Sono certo che tanto il mio nome, quanto la mia opera precipiteranno nell’oblio più assoluto») è stato clamorosamente smentito. Non c’è male, per chi si è sempre considerato un autore dilettante: «Ho scritto sempre da povero diavolo e non da uomo di lettere professionale […] né mi sento investito da una missione importante» (Intenzioni. Intervista immaginaria, 1946). Dilettante, né più né meno di Italo Svevo, modesto impiegato di banca per venti anni, nonostante i primi due romanzi, e ignoto dipendente nella ditta del suocero, nonostante il terzo e ultimo romanzo (La coscienza di Zeno, 1923), se non fosse stato proprio in questo stesso 1925 additato da Montale come grande romanziere. Il fatto è che il dilettantismo salva Montale, come Svevo, perché lo distingue dal professionismo allora in auge, quello dell’ufficialità dannunziana e dell’eloquenza tribunizia, vigente fino al 1945 («quarantacinque! ventotto aprile, quella volta», a detta di Gadda). Montale, più di ogni altro poeta moderno, ha riportato l’esercizio delle lettere a una misura terrena e umana, scabra e spoglia di orpelli.
Gli Ossi di seppia nascono all’insegna della «semplicità», della «chiarezza», dell’«umiltà», parole (allora come oggi) sospette e derelitte, che Montale nobilita nello straordinario articolo che s’intitola Stile e tradizione, apparso su Il Baretti di Piero Gobetti, sempre in questo memorabile 1925: «Un primo dovere [sta] nello sforzo verso la semplicità e la chiarezza, a costo di sembrar poveri. […] Lo stile, il famoso stile totale che non ci hanno dato i poeti dell’ultima illustre triade [Carducci, Pascoli, D’Annunzio) malati di furori giacobini, superomismo, messianismo ed altre bacature, ci potrà forse venire da disincantati savi e avveduti, coscienti dei limiti e amanti in umiltà dell’arte loro più che del rifar la gente. In tempi che sembrano contrassegnati dall’immediata utilizzazione della cultura, del polemismo e delle diatribe, la salute è forse nel lavoro inutile e inosservato: lo stile ci verrà dal buon costume». Coscienza del limite, avveduto disincanto, consapevolezza civile, rispetto e ascolto dell’altro, non smania «del rifar la gente», non uso strumentale della cultura, non polemiche astratte, non protagonismi vacui. Tali le coordinate ideali che presiedono agli Ossi di seppia, il libro maturato in Liguria, in dinamico equilibrio tra terra e mare. Lo spazio marino è il luogo dell’avventura, dell’illusione, della sognata felicità, dell’irrazionale smemoramento. La terra, arida, è la sede della razionalità, del giudizio critico, della fatica di esistere: significa serietà della vita, rifiuto dell’avventura e del sogno. Tutti sappiamo che Montale trova la forza di dire no, di respingere la tentazione di tuffarsi in mare («Ti guardiamo noi, della razza / di chi rimane a terra», Falsetto, vv. 5053) e consola il suo coraggioso sconforto con semplici oggetti quotidiani che possono regalare un segreto istante di felicità: come il giallo dei limoni o il «volto» d’un girasole.

Palagio di Parte Guelfa. Sede del Gabinetto Viesseux dal 1923 al 1940
Nel 1927 Montale si sottrae all’angustia genovese e volta pagina. Lasciata la Liguria e la casa di Monterosso, diventa fiorentino e tale rimane fino al 1948, quando si trasferisce a Milano, chiamato al Corriere della Sera. Nel capoluogo toscano si mantiene alla meglio con traduzioni e collaborazioni letterarie, poi dal 1929 è direttore del Gabinetto Vieusseux, fino al 1938, quando è licenziato per non essere iscritto al partito fascista. Gli anni fiorentini sono precari e difficili, tra dittatura, guerra, emergenza e inquieto dopoguerra. È una stagione buia ma intensa che Montale vive con illuminata discrezione, tanto da segnalarsi, tra i coetanei e gli amici più giovani, in tempi di chiusura nazionalistica e di superbia arrogante, come un maestro di rigore intellettuale, di rettitudine civile, di cultura aperta, spalancata sul mondo. Dai tavoli delle «Giubbe Rosse», in piazza della Repubblica (allora «piazza Vittorio»), dalle pagine di Solaria, di Campo di Marte, di Letteratura giunge la sua voce di critico acuminato e di recensore dal fiuto infallibile. A Firenze, dove conosce l’inseparabile Mosca (moglie dal 1962), amica di Svevo e zia di Natalia Ginzburg, si rinnova la voce del poeta, con accenti inediti rispetto alla desolata negatività del «male di vivere» degli Ossi di seppia. Nei versi fiorentini si avverte una caparbia volontà di resistenza, per non cedere alla resa e al silenzio, un bisogno di rinfrancata energia vitale (attinta da Dante e da Petrarca) che alimenta un nuovo orizzonte espressivo, popolato di misteriose apparizioni femminili, presenze salvifiche, interlocutrici enigmatiche che accendono tenui spiragli di luce nelle tenebre e trasmettono fuggitivi bagliori di speranza. Sono le creature che popolano il secondo libro, Le occasioni (1939), e in buona parte anche il terzo, La bufera e altro (1956).
Porta il sigillo fiorentino il secondo e fondamentale tempo della poesia montaliana, tra la Liguria e Milano: il tempo legato all’attraversamento della tragedia, dalla dittatura alla Liberazione, nel segno originalissimo di una lirica sostanziata di pensiero, di riflessioni drammatiche, di acuta intensità emotiva. E Montale (in un’intervista del 1966) si è mostrato riconoscente verso la città che lo ha ospitato, per quanto sia priva di quel mare che rende affascinante la sua Genova: «sotto il profilo della maturazione culturale, i vent’anni che ho passato a Firenze sono stati i più importanti della mia vita. Lì ho scoperto che non c’è soltanto il mare ma anche la terraferma; la terraferma della cultura, delle idee, della tradizione; dell’umanesimo. Vi ho trovato una natura diversa, compenetrata nel lavoro e nel pensiero dell’uomo. Vi ho compreso che cosa è stata, che cosa può essere una civiltà». Credo che questo sia l’elogio più alto rivolto a Firenze da un suo cittadino onorario, che qui riposa, con la moglie, nel piccolo cimitero di San Felice a Ema.
Gino Tellini Corriere Fiorentino 30 gennaio 2025

GIORNATA DELLA MEMORIA. La vittima del fascismo, Enrica Calabresi, raccontata in musica, al Funaro di Pistoia
Al Funaro, Centro Culturale di Pistoia, la storia di una studiosa brillante: con le leggi razziali perse il lavoro e poi fu arrestata a Firenze
La storia di una scienziata ebrea, del suo brillante percorso accademico tra le due guerre e il dramma delle leggi razziali, con le vite che queste spezzarono. Lo spettacolo in musica Diario di guerra. Vita immaginaria diEnrica Calabresi(Ferrara 1891- Firenze 1944), messa in scena al Funaro domenica 26 gennaio, ripercorre la vicenda della zoologa che insegnò nelle università di Firenze e di Pisa, prima di esserne cacciata dopo il 1938, e che si tolse la vita per non prendere il treno che l’avrebbe condotta a Auschwitz. Scritto da Isotta Toso, regia di Stefano Cioffi e musiche dal vivo di Gabriele Coen (sax e clarinetto) e Riccardo Battisti alla fisarmonica, vede nei panni della studiosa l’attrice Alessandra Evangelisti.
«Racconta l’impatto delle leggi razziali in Italia nell’esistenza di una persona», dice Coen, autore della parte musicale. «A Calabresi, tra le prime donne a ottenere una cattedra universitaria, tolsero il lavoro e la possibilità di una vita normale. La sua storia è esemplare su ciò che può portare la discriminazione razziale ed è un’occasione di riflessione anche per l’oggi, per non dimenticare ciò che è successo e mantenere alta l’attenzione». L’evento è in programma nell’ambito di «Le parole di Hurbinek. Giornate della memoria», rassegna ideata e diretta dallo storico Massimo Bucciantini con teatro, lezioni civili e progetti per le scuole fino a domani, ed è introdotto dallo storico della musica Francesco Martinelli, da Michele Battini dell’università di Pisa e da Alessandra Sforzi, docente e ricercatrice che anni fa si adoperò per recuperare la memoria della scienziata.
Da Ferrara Calabresi si trasferì a Firenze per laurearsi in Scienze naturali. Qui conobbe il fidanzato Giovanni De Gasperi, che perse la vita nella Prima guerra mondiale. Così lei partì come volontaria con la Croce Rossa al fronte. Dopo il conflitto tornò alla vita accademica, in un clima che però negli anni successivi cambiò progressivamente. Lo spettacolo lo ricostruisce tramite un intreccio di parole e note. «Con due piani sonori — spiega Coen — il primo dei quali sul racconto della vita quotidiana di una famiglia ebrea italiana, con un’ispirazione musicale più morbida. Dopo emerge un’atmosfera più drammatica. Si tratta di composizioni originali che attingono a materiale musicale ebraico». Negli anni 30 lasciò la Specola (che le ha intitolato il reparto di entomologia, la ricorda inoltre una pietra d’inciampo in via del Proconsolo) per insegnare al Galileo, dove tra i suoi allievi ci fu anche Margherita Hack. Ottenne una nuova cattedra a Pisa, ma fu per poco a causa delle leggi del ‘38. Nel ‘44 fu arrestata e portata nel carcere di Santa Verdiana, dove il 20 gennaio morì dopo aver ingerito una fiala di veleno.
Giulia Gonfiantini Corriere Fiorentino 26 gennaio 2025

Pietra d’inciampo in via del Proconsolo Firenze
Due eroi codardi tra mille
Nel maggio 1860, prima di entrare a Palermo, Giuseppe Garibaldi affidò a Vincenzo Giordano Orsini il compito di guidare un piccolo gruppo dei Mille verso l’interno dell’isola, fingendo una ritirata. A questo episodio poco noto si rifà il film L’abbaglio (Italia, 2025, 131’). Quanto all’Eroe, Roberto Andò e i suoi cosceneggiatori Ugo Chiti e Massimo Gaudioso non vanno molto oltre l’immagine fissata nella nostra memoria, con il cavallo e il poncho. In primo piano portano invece Orsini (Toni Servillo, misurato e intenso), nobile siciliano e patriota italiano. Accanto a lui immaginano due antieroi malconci: Domenico Tricò, artificiere che torna nella terra da cui è scappato quindici anni prima, e Rosario Spitale, bugiardo e baro, in fuga dal Veneto per problemi con la giustizia (Salvatore Ficarra e Valentino Picone, bravissimi). I due disertano già a Marsala. Domenico si incammina verso casa e verso l’amata di un tempo. Rosario non ha una casa né un’amata da cui tornare, e insiste per seguirlo.
Sequenza dopo sequenza, la sceneggiatura abbandona sia la Leggenda sia la Storia dei Mille, e inventa la storia minima dei fuggitivi. L’effetto è l’emersione di una prospettiva critica, libera da preoccupazioni agiografiche. Una prospettiva, ancora, che illumina di un senso inatteso l’impresa da cui è venuta l’unità del nostro Paese, ma che finisce anche per illuminare difetti e pregi di noi che, con maggiore o minore dignità, maggiore o minore soddisfazione, lo abitiamo.
Il cammino di Domenico e Rosario, il loro e quello di molti sulla loro strada, è permeato di cinismo, di codardia, di ipocrisia. Ma anche di idealità e di coraggio pagati con il rischio e il sangue. Ed è però sorretto da inventiva e vitalità, per quanto più di una volta perfide e sleali. Il modello sembra quello di La grande guerra (Mario Monicelli, 1959), con i due antieroi che, ahi loro, si sbilanciano e fanno gli eroi. Ma è un’impressione – forse un abbaglio –, che la sceneggiatura capovolge in un metaforico redde rationem nazionale. Come accade quando all’inventiva e ai suoi eccessi sono imposte regole e trasparenza.
Roberto Escobar Il Sole 24 ore 2025

Salvo Ficarra e Valentino Picarra nel film l‘Abbaglio
200 anni fa ANTONIO BRUCALASSI di Incisa osservò e descrisse per la prima volta le Quadrantidi, le stelle cadenti del cielo d’inverno.
Poco prima dell’alba del 2 gennaio 1825 il giovane Antonio Brucalassi di Incisa, uomo di scienza ma sicuramente non un astronomo, è a bordo del suo calesse in viaggio alla volta d’Arezzo quando, tra San Giovanni Valdarno e Montevarchi, osserva questo particolare fenomeno celeste . . . “apparve una meteora luminosa della figura d’un cono con l’apice troncato. Sembrava formata da un globo di fuoco situato nella di lei parte anteriore più stretta . . . . . . il cielo era sereno, e tanto avanti che dopo la comparsa della meteora vi si videro vagare molte delle così dette stelle cadenti, come nelle calde sere d’estate. . .” Osservazione subito comunicata al Gabinetto Vieusseux. Quello che vede è lo sciame di meteore poi conosciuto come Quadrantidi le stelle cadenti visibili nel cielo d’inverno.
Antonio Brucalassi (1797-1866) è stato uno scienziato poco noto al di fuori della sua terra: Incisa nel Valdarno fiorentino. È stato un uomo di scienza attento e puntuale nell’osservare e nel descrivere tutto quanto fosse in grado di cogliere il suo interesse, siano esse le acque termali toscane studiate in collaborazione col suo maestro ed amico Antonio Targioni Tozzetti o i depositi di lignite del Valdarno, studio presentato ai membri dell’Accademia dei Georgofili. È stato attivo collaboratore all’Accademia della Crusca dove lavora alla stesura della V edizione del vocabolario nella Commissione dedicata si termini scientifici. È stata una figura dalla profonda cultura letteraria e al tempo stesso un cittadino impegnato nelle istituzioni del suo paese natale dove viene ricordato soprattutto come un grande valorizzatore della storia locale. Dal suo profondo interesse per il passato di Incisa nascono infatti le targhe, visibili ancora oggi, dedicate a Lucrezia Mazzanti e al Petrarca come pure quella, purtroppo non più esistente, in memoria del noto chirurgo Angelo Nannoni. Partecipò attivamente agli eventi risorgimentali che tra il ’48 e il ’49 interessarono anche le terre del contado fiorentino e la sua abitazione divenne presto abituale luogo di incontro per i patrioti. Fu nominato Gonfaloniere nell’anno del Plebiscito e a lui si deve lo stemma di Incisa nel quale volle fossero presenti, oltre alla vecchia insegna della Lega di Cascia, costituita da una zampa d’orso trafitta da una freccia, anche il tricolore ed i versi danteschi dal terzo canto del Paradiso: di tre colori e d’una contenenza.
Cinzia Lodi
Monumento funebre di Antonio Brucalassi Incisa Valdarno 1866

COSI’ SI UNIRONO SETTANTAMILA ANTIFASCISTE
GRUPPI DI DIFESA DELLA DONNA a Milano, 1943-45. Le reti femminili antifasciste all’origine dello stato sociale.
Da una casa all’altra, di quartiere in quartiere, nelle campagne e nelle province così come nelle grandi città, con collegamenti sempre più ramificati: il popolo dei Gruppi di difesa della donna (Gdd), settantamila antifasciste sparse nel Nord Italia, nacque dal basso a Milano e crebbe inarrestabile nelle regioni settentrionali a sostegno della Resistenza.
In vista dell’ottantesimo anniversario della Liberazione giunge ad hoc, proprio alla vigilia di Natale, un libro dal titolo bellissimo, Vogliamo vivere! una dichiarazione in cui c’è tutto. Lo hanno scritto le storiche Roberta Cairoli, Roberta Fossati e Debora Migliucci concentrandosi sulla dimensione milanese, disseppellendo nomi e cognomi, ricostruendo le reti, studiando i documenti. Un volume importante, esito di una ricerca voluta dall’Anpi sin dal 2015 e condotta attraverso lo scavo in vari archivi. Ne viene restituita una realtà che appare, ai nostri occhi, grandiosa. Gruppi femminili, infatti, ce ne sono stati (e ce ne sono) molti, ma questi per varie ragioni sono speciali. Innanzitutto, per il momento storico e per il contributo che hanno dato alla nascita della democrazia. Per la consistenza, per la compattezza che ha origine dalla consapevolezza degli obiettivi (il confronto, anche duro, sì, oziose divisioni no), per la trasversalità dei colori politici, dell’appartenenza sociale, del coinvolgimento nel lavoro. Un mondo accomunato da una parola, sufficiente a fare da collante: antifascismo.
Se alle più note va reso il merito di aver preso l’iniziativa e di averci creduto facendo crescere il movimento – figure che poi hanno avuto un ruolo politico significativo, come Lina Merlin, Ada Gobetti, Rina Picolato – alle anonime migliaia che in mille modi si sono spese va riconosciuto il valore della loro azione. Sono massaie, insegnanti, infermiere, operaie, contadine, studentesse, madri di famiglia, le tante italiane che non entravano nella Resistenza come combattenti o staffette ma che “resistevano” attraverso piccoli gesti, minute attività anche rischiose, capacità di accogliere e curare, disponibilità a mettere al servizio della causa ciascuna la propria abilità. Il libro prende le mosse dalle esperienze che anticipano quella dei Gdd negli anni 30, con le associazioni clandestine e le italiane esiliate in Francia (dove si stampa il giornale che diventerà «Noi donne» nel ’37). Dopo l’8 settembre il movimento femminile del Pci intuisce che bisogna strutturarsi, allo stesso modo il partito coglie la potenzialità della forza delle donne e spinge perché il movimento si allarghi. Ma la consapevolezza di dover andare al di là dei confini partitici si fa presto strada e il manifesto veicolato dal Pci nell’ottobre del ’43 sarà solo la base di una più ampia mobilitazione. Socialiste, liberali, cattoliche ingrosseranno le fila dei Gruppi di difesa della donna accanto alle comuniste, nel corso di un biennio in cui le militanti dell’area milanese arriveranno a essere oltre diecimila. Non solo. Le donne sono consce del fatto che accanto alla lotta del “qui e ora” andava già fissata la traccia di un futuro che avrebbe dovuto essere diverso sul piano dei diritti, dei rapporti familiari, degli orari e delle retribuzioni del lavoro: a leggere il manifesto programmatico, si ritrova in nuce la battaglia che sarà combattuta dalle 21 Costituenti nel ’46.
Come cominciano? In che modo riescono, da poche decine, a diventare centinaia e centinaia? Il libro lo spiega bene, e probabilmente quel che è successo a Milano si è replicato in modo analogo nelle altre realtà del Nord. Prima di tutto le fabbriche, dove lavoravano in tante anche perché gli uomini erano al fronte: qui si creano legami e intese, anche a seguito dello sciopero per il pane del marzo ’43 in una Milano allo stremo. Alla Magneti Marelli, all’Aeronautica Caproni, alla Face, alla De Micheli, alla Pirelli, alla Borletti, per citarne solo alcune, le operaie si organizzano, fanno circolare la stampa clandestina, preparano le manifestazioni, si occupano di volantini e bollettini, pianificano le azioni esterne. C’è da sostenere la lotta partigiana confezionando calze di lana, raccogliendo medicinali e denaro, preparando scorte di cibo. Nascono rapidamente anche gruppi nelle case, il passaparola è incessante e ben presto c’è la necessità di darsi una struttura per lavorare e coordinarsi al meglio. Nella città divisa in settori, si creano i comitati guidati dalle più esperte che stilano un rapporto sulla loro attività, poi si costituisce un comitato provinciale, mentre «Noi donne» è un riferimento per tutte. Cruciale, si ricorda nel saggio, il lavoro pedagogico fatto dalle più mature che spiegano alle giovani o inconsapevoli che cosa sia un sindacato democratico, leggono dei testi, ragionano sui princìpi di una futura Costituzione.
Propaganda e proselitismo di mese in mese infoltiscono i Gruppi, alcune componenti passano all’attività militare vera e propria, altre compiono atti di sabotaggio quotidiani (dalla manomissione delle insegne stradali in tedesco al taglio delle cinture dei pantaloni dei soldati sui tram per privarli delle armi). Il 16 ottobre 1944 i Gdd sono riconosciuti dal Comitato di liberazione nazionale e questo, ove mai ce ne fosse bisogno, conferma che senza il contributo delle donne la Resistenza non sarebbe stata la stessa. Dopo il 25 aprile, i Gruppi passano il testimone all’Unione donne italiane. Ma la loro esperienza sarà messa a frutto sul territorio, in un Paese che vuol rinascere, e l’assistenza da loro prestata si rivela preziosa per quell’esercito di persone – tra reduci, fuggiaschi, gente senza più una casa, orfani – che non sa da dove ripartire. Comincia così un’altra storia.
ELIANA DI CARO Il Sole 24 Ore domenica 22 dicembre 2024

Roberta Cairoli, Roberta Fossati, Debora Migliucci
Vogliamo vivere!
Enciclopedia delle donne
Anno 2024
Pagg. 368
Prezzo € 20,00
MUSEO BYRON E DEL RISORGIMENTO
PALAZZO GUICCIOLI Via Camillo Benso Cavour 54 Ravenna
Il Risorgimento si fa epica narrazione
«Non che importi molto, supponendo che l’Italia possa esser liberata, chi o cosa sia sacrificato. È uno scopo altissimo, è la poesia stessa della politica. Basta il pensiero: un’Italia libera!!!»: parole vibranti, scritte non da un patriota italiano ma da un protagonista del Romanticismo inglese (e non solo) come George Byron, nel suo Diario ravennate, il 18 febbraio 1821.
Affiliato alla Carboneria, per i moti rivoluzionari del 1820-21 aveva fornito armi e denaro credendo nella causa italiana e confidando che i romagnoli si unissero a Napoli. Per questo il ponte tra il museo Byron e quello del Risorgimento, a Palazzo Guiccioli, è indovinato: i musei si parlano, i rimandi sono diversi (Byron, tra l’altro, soggiornò in cinque stanze dell’edificio al primo piano, dove ora è allestito lo spazio risorgimentale) così come gli intrecci tra i vari personaggi e il territorio. Si ha la possibilità di ripercorrere la storia dal triennio giacobino (1796-1799) – e la speranza che suscitò, con l’Albero della Libertà posto in città nell’attuale piazza del Popolo nel 1797 – all’Unità d’Italia, passando per i momenti fondamentali, tra afflati rivoluzionari e delusioni, nuovi moti e restaurazioni. Di sala in sala si seguono gli eventi di anni cruciali. C’è l’appello di Mazzini dalle pagine della «Giovine Italia» ai romagnoli nel 1832, perché accolgano le voci dei loro fratelli non lasciandosi sedurre dalle «divisioni fatali», ma siano compatti nel «grido di unione, indipendenza e libertà». Si rievoca l’illusione della Repubblica Romana che pure accese gli animi proclamando il Papato «decaduto di fatto e di diritto dal Governo temporale dello Stato Romano» e abolendo il Sant’Uffizio: un esperimento entusiasmante quanto effimero, meno di un anno di vita tra il 1849 e il 1849 con gli Austriaci – cui Pio IX aveva chiesto aiuto – che già alla fine di maggio ’49 entravano a Ravenna (parte dello Stato pontificio). Si segue il drammatico passaggio di Garibaldi in fuga verso il Veneto nel luglio di quell’anno, con i romagnoli che partecipano al salvataggio dell’eroe ma nulla possono per Anita: incinta, piegata dalla fatica e dalla febbre malarica, morirà a 28 anni nella fattoria Guiccioli, alle porte di Ravenna. E poi lo Statuto Albertino (ne è esposto un esemplare in legno intagliato), le successive guerre d’indipendenza, l’azione di Cavour, la spedizione dei Mille sino al momento atteso dell’Italia unita.
Tutto questo viene mostrato in una modalità che privilegia la parola, il racconto attraverso dispositivi – messi a punto dal gruppo di ricerca multimediale Studio Azzurro – che ricreano le scene del tempo, con gli effetti sonori (il vento, le pallottole, lo scalpiccio dei cavalli, i rumori di fondo), propongono cartine che si animano facendo vedere i luoghi, prestano voce agli scritti dei protagonisti. Questo non vuol dire che il museo non offra oggetti, cimeli, volumi, dipinti, in altre parole quanto si vede in analoghi spazi, più tradizionali. Sul fronte Garibaldi, ad esempio, sono in mostra reliquie preziose come il cappello e il bastone donati a chi lo aveva aiutato, il mantello nero regalato a Ercole Saldini, che gli aveva fatto da guida durante la fuga. E poi compaiono divise, fiaschette per polvere da sparo, gavette, né mancano ritratti, proclami, monete. Importanti sono anche le singole personalità cui viene riconosciuta importanza, come accade per il patriota Luigi Carlo Farini e la sala a lui dedicata.
La peculiarità del museo, però, è proprio quella del risalto dato ai testi, «a significare – sottolinea la direttrice Alberta Fabbri – che le parole e le idee possono cambiare il mondo», quindi presentando il Risorgimento non come «un adempimento scolastico da soddisfare ma come la premessa della libertà e dei diritti di cui godiamo oggi». La chiave è anche nel coinvolgimento del pubblico, che ha a disposizione i pannelli esplicativi in ciascuna sala (tutti in italiano e in inglese) e le pillole di testo contenute in piccoli riquadri che precisano un soggetto, delineano i contorni di un personaggio o aggiungono dettagli sulla situazione economico-sociale.
Ma visitatrici e visitatori sono chiamati a fare di più: a interagire, attivando i dispositivi. Il che significa, di fronte a una scacchiera dove sono disposti pedoni equivalenti ai protagonisti, prendere il “pedone” Mazzini e posizionarlo in un certo riquadro che fa partire un video e una voce. O significa aprire uno scrigno innescando un filmato, o ancora estrarre una penna dal calamaio e leggere uno scritto che si visualizza (i contenuti sono stati selezionati e forniti dal comitato scientifico). Chi guarda e gira di sala in sala è stimolato a sapere e ascoltare, a osservare e riflettere sulle radici della nostra democrazia. È colto, poi, dallo stupore se per caso alza lo sguardo verso il soffitto: Palazzo Guiccioli, già pregevole di per sé nella sua maestosità, in alcuni ambienti si rivela sorprendente per la ricchezza e finezza di affreschi e decorazioni.
Chiudono l’esposizione due collezioni su Garibaldi provenienti dalla Fondazione Bettino Craxi e dalla Fondazione Spadolini Nuova Antologia, con dipinti, memorabilia e gli oggetti più svariati sull’amatissimo eroe. Del resto, non è un caso se la produzione editoriale che lo riguarda continua a essere feconda e, in qualche caso, suggestiva. Come è accaduto nell’estate del 2019 quando lo scrittore inglese Tim Parks e sua moglie Eleonora decisero di rifare a piedi il percorso dal Lazio alla Romagna proprio come lo fece lui nell’estate 1849: ne venne fuori un diario, Il cammino dell’eroe. A piedi con Garibaldi da Roma a Ravenna (Rizzoli), che vale la pena leggere
Eliana di Caro Sole 24 ore 15 dicembre 2024

Pietro Bouvier Giuseppe Garibaldi ed il maggiore Leggero in fuga trasportano Anita morente 1864
Addio a Giovanni Sabbatucci, storico dell’«anomalia italiana»
Studiò il fascismo, il trasformismo, la crisi della democrazia liberale. Curò importanti manuali scolastici.
L’anomalia italiana, nei suoi diversi aspetti, era da sempre l’argomento di studio principale dello storico Giovanni Sabbatucci, scomparso ieri a Roma all’età di 80 anni. Aveva analizzato il fenomeno del trasformismo, la mancanza di una forte sinistra riformista, la debolezza patologica di una classe dirigente liberale che si era piegata al fascismo, ovviamente la dittatura stessa e le sue durature conseguenze. Tutto ciò che, dall’epoca risorgimentale in poi, aveva allontanato il nostro Paese dal cammino verso l’instaurazione di una solida democrazia liberale di stampo europeo. Collaboratore di vari organi di stampa e frequente ospite di trasmissioni televisive, Sabbatucci, docente di Storia contemporanea alla Sapienza di Roma, era noto al grande pubblico anche per il manuale scolastico che aveva realizzato nel 1988 per la casa editrice Laterza con i colleghi Andrea Giardina e Vittorio Vidotto. Un testo di esemplare chiarezza che, considerando le sue diverse edizioni aggiornate, è arrivato a vendere due milioni di copie.
Nato a Sellano, in provincia di Perugia, il 24 agosto 1944, Sabbatucci si era laureato a Roma nel 1968 sotto la guida di Renzo De Felice. E aveva approfondito, nella sua tesi, le vicende dell’irredentismo e del nazionalismo. Critico acuto di tutte le infatuazioni ideologiche, aveva posto in rilievo le distorsioni su cui erano cresciuti pericolosi miti bellicisti, come la raffigurazione del nostro Paese quale «nazione proletaria» in ascesa e destinata a conquistare il fatidico «posto al sole». In seguito, Sabbatucci aveva indirizzato le sue indagini verso le turbolenze attraversate dal sistema politico italiano all’indomani della Prima guerra mondiale, con l’irruzione delle masse sulla scena pubblica. Aveva pubblicato nel 1974 il saggio I combattenti nel primo dopoguerra (Laterza), ma più in generale si era soffermato sul clima di generale delegittimazione dello Stato che aveva prima propiziato l’ascesa del Partito socialista, collocato allora su posizioni di radicalismo rivoluzionario, e poi favorito la violenta reazione del fascismo.
A proposito delle mosse compiute da Mussolini per assicurarsi il potere assoluto, Sabbatucci aveva puntato la sua attenzione sulla riforma elettorale del 1923, che prevedeva un abnorme premio di maggioranza per la lista risultata prima nella graduatoria proporzionale. L’approvazione di quel testo fu definita da Sabbatucci «il suicidio della classe dirigente liberale»: una dimostrazione di pavidità tanto più grave in quanto allora il fascismo disponeva a Montecitorio di un numero limitato di deputati. In seguito, Sabbatucci aveva analizzato i diversi fallimenti del socialismo italiano. In un saggio intitolato Il riformismo impossibile (Laterza, 1991) si era soffermato sulle ragioni per cui le correnti massimaliste avevano finito per prevalere nel Psi, in particolare per l’effetto dell’«ancoraggio simbolico» fornito loro dal successo della rivoluzione sovietica, e i comunisti avevano conquistato un’egemonia stabile all’interno dello schieramento progressista.
Forse l’opera di maggiore impegno interpretativo dello storico umbro è però un successivo volume del 2003, Il trasformismo come sistema (Laterza). Qui la pratica della cooptazione nelle maggioranze governative di pezzi dell’opposizione, inaugurata nell’Ottocento dal primo ministro Agostino Depretis, viene considerata non un’espressione di malcostume politico, ma un’esigenza strutturale dovuta alla debolezza della costruzione nazionale. Per garantire stabilità al sistema, in un quadro di forti divaricazioni ideologiche e profonde fratture sociali, era divenuto necessario allargare le maggioranze parlamentari sulla base delle convergenze possibili, sacrificando la coerenza programmatica agli imperativi della governabilità. Tale modello si era per alcuni versi riproposto, secondo Sabbatucci, all’indomani della Seconda guerra mondiale, sia pure in un contesto dominato da forze politiche organizzate che avevano invece un peso di gran lunga inferiore, inizialmente nullo, nell’Italia liberale. Anche la stagione democratica postbellica, fino all’avvento del sistema elettorale maggioritario nei primi anni Novanta, si era articolata intorno a maggioranze conflittuali ma inamovibili, facenti capo alla Democrazia cristiana, attraverso un complicato gioco di mediazioni partitiche e correntizie che aveva diversi punti in comune con l’esperienza trasformista.
Sempre in riferimento alla Repubblica nata nel 1946, merita poi di essere ricordata la critica argomentata che Sabbatucci aveva mosso alle visioni cospirative delle sue vicende, per esempio in due saggi contenuti nel volume a più voci Miti e storia dell’Italia unita (il Mulino, 1999). Trovava insostenibile l’ipotesi di un grande complotto ordito nell’ombra per condizionare in senso conservatore gli equilibri politici. Riteneva piuttosto che si dovesse indagare sul terrorismo, le mafie, le trame eversive sviscerando le peculiarità dei diversi episodi, senza la pretesa di ricondurre tutto a un unico filo. Significative anche le sue considerazioni sul caso Moro, un delitto che, sulla scorta delle risultanze processuali, addebitava alla responsabilità esclusiva delle Brigate rosse, criticando l’idea che qualcuno fosse stato in grado di dirigerle o comunque di manipolarne l’operato dall’esterno.
Antonio Carioti Corriere della Sera 3 dicembre 2024

Piero Calamandrei presidenzialista: “le dittature sorgono dai governi instabili”

Nel pomeriggio del 5 settembre 1946 Piero Calamandrei, uno dei più prestigiosi giuristi italiani, chiese la parola nella sottocommissione seconda del Comitato dei 75 incaricato di redigere il testo della Costituzione italiana. Esordì con una frase che non poteva non colpire l’uditorio: “Ritiene – dice il verbale – di essere il solo che abbia qualche simpatia, nonostante la discussione, per la repubblica presidenziale”. “Crede – aggiunse con una punta di mal celata amarezza – che il risultato di questa discussione sia piuttosto scoraggiante, tanto per i fautori della repubblica presidenziale, in quanto ve n’è uno solo, che è lui, quanto per i fautori della repubblica parlamentare, che sono tutti gli altri, perché tutti, a quanto sembra, sono d’accordo nel ritenere che le costituzioni non servono a cambiare la situazione sociale quale è in realtà”.
Il suo discorso successivo, uno dei più alti – come riconobbero gli stessi avversari – che si fossero tenuti nell’aula dei costituenti, non ebbe successo. A fine seduta, dopo numerosi interventi contrari di tutti i partiti, fu approvata la nota formula dell’ordine del giorno di un altro giurista, Tommaso Perassi: “La Seconda sottocommissione – vi si leggeva –, udite le relazioni degli onorevoli Mortati e Conti, ritenuto che né il tipo di governo presidenziale né quello del governo direttoriale risponderebbero alle condizioni della società italiana, si pronuncia per l’adozione del sistema parlamentare da disciplinarsi, tuttavia, con dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di Governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo”.
Di seguito uno dei passaggi chiave del discorso di Calamandrei. A chi dice che la repubblica presidenziale presenta il pericolo delle dittature, ricordo che in Italia si è veduta sorgere una dittatura non da un regime a tipo presidenziale, ma da un regime a tipo parlamentare, anzi parlamentaristico, in cui si era verificato proprio il fenomeno della pluralità dei partiti e della impossibilità di avere un governo appoggiato ad una maggioranza solida, che gli permettesse di governare. Quindi il problema è questo: come si fa a far funzionare una democrazia che non possa contare sul sistema dei due partiti, che in Italia, in questo momento non esiste e che ancora per qualche tempo non esisterà ma che deve invece funzionare sfruttando e attenuando gli inconvenienti di quella pluralità dei partiti, la quale non può governare altro che attraverso un governo di coalizione? Cioè, qual è la forma dello Stato che meglio serve a far funzionare un governo di coalizione, impedendo quelle crisi a ripetizione che sono la rovina della democrazia (…). Le dittature sorgono non dai governi che durano, ma dalla impossibilità di governare dei governi democratici.
Assemblea costituente, Commissione per la Costituzione, Seconda sottocommissione, Seduta di giovedì 5 settembre 1946, p. 119.

Insediamento dell’Assemblea Costituente 25 maggio 1946
L’etica della parola, la passione civile: la grande attualità di Tommaseo
Lo scorso 1° maggio sono trascorsi 150 anni dalla morte di Niccolò Tommaseo (illustre fiorentino onorario) e opportunamente il Gabinetto Scientifico Letterario G.P. Vieusseux ( la mattina alle ore 9,30) e l’Accademia della Crusca ( il pomeriggio alle ore 15) hanno deciso di ricordarlo, nell’intera giornata del 22 ottobre, con un convegno che mi vede accanto a una folta schiera di studiosi, di differente provenienza e di differenti interessi disciplinari: storici della letteratura e critici letterari, storici della lingua, linguisti, archivisti, antropologi, cultori di tradizioni popolari. La pluralità delle competenze riflette la stupefacente varietà dei campi che Tommaseo ha coltivato.
Sul terreno della poesia, esordisce in gioventù con le Confessioni (1836), una coraggiosa e aspra investigazione autoanalitica che si nutre di antitesi non pacificate e di forti chiaroscuri, una inchiesta inquisitoria sulle proprie colpe che innesca un moto senza fine tra pentimento e gusto acre del peccato. In tarda età offre alle generazioni postunitarie la complessiva raccolta delle Poesie (1872), un libro memorabile che vale da prezioso giacimento di soluzioni espressive e di strutture metriche per Carducci, Pascoli, D’Annunzio e altri più giovani. Come narratore, si afferma con racconti storici (Il Duca d’Atene, 1837; Sacco di Lucca, 1838) che riescono a collaudare una personalissima e suggestiva sceneggiatura dei grandi eventi del passato senza ricorrere alla canonica saldatura di storia e invenzione brevettata da Manzoni nei Promessi sposi (1827).
Poi nel 1840, con il romanzo Fede e bellezza, segna una svolta decisiva: si lascia alle spalle la narrativa della storia e inaugura, anzitempo da noi, il moderno romanzo di analisi su materia di vita contemporanea, tanto che Luigi Capuana, nel giugno 1889, nella premessa alla terza edizione di Giacinta (1879), gli rilascia clamorosamente un esplicito elogio di precursore.
Sul versante linguistico, nessuno ignora il fondamentale rilievo storico del Tommaseo-Bellini, ma importa rammentare anche il magistrale Dizionario dei sinonimi (tante volte ristampato dalla princeps fiorentina del 1830 alla edizione definitiva del 1867). Esso non solo attesta una sensibilità linguistica acutissima, un talento supremo nel soppesare la parola in controluce, nelle sue minime increspature, ma anche dà testimonianza del nesso stretto tra parola e società, tra parola e morale, tra parola e civiltà. Nell’epoca attuale, di feroce manomissione delle parole, falsificate, deviate, distorte dal potere politico come dall’idolo della pubblicità, dobbiamo a Tommaseo profonda riconoscenza per il suo lavoro di tutta la vita dedicato al rispetto, alla responsabilità, all’etica della parola (ch’egli definisce, nel suo trattato Sul numero, un’«arma possente»). Un solo esempio: si veda l’articolo 1471 del Dizionario dei sinonimi (sono complessivamente 3564 articoli), dove si discorre di Istruzione e di Educazione: «L’istruzione riguarda la mente; l’educazione abbraccia tutta la persona. […] La prima ha per fine il vero; l’altra, e il vero e il buono, e l’utile e il conveniente. […] L’educazione data da una povera donna può essere più proficua dell’istruzione data da un gran letterato. Se gl’istruttori non hanno la virtù, l’autorità, la cura di farsi […] educatori, la società è depravata». La diagnosi riguarda anche i tempi nostri, perché la cultura oggi è in mano a istruttori che troppo spesso non sanno farsi educatori.
Ma c’è un altro aspetto che rende attuale la lezione di Tommaseo: le sue tormentate peregrinazioni di espatriato, dalla nativa Sebenìco in Dalmazia a Firenze, dal primo esilio in Francia e in Corsica al soggiorno veneziano, dal secondo esilio nell’isola di Corfù al rientro in Italia a Torino, quindi di nuovo (e definitivamente) a Firenze, la città che ha definito «patria del pensiero». L’esule Tommaseo, instancabile polemista, ha familiarizzato con genti e lingue diverse, con attenzione e rispetto per le diversità etniche e antropologiche. Il saggio Ai popoli slavi (1840), logorati dall’«antica piaga» della «divisione», è un accorato e dolente invito alla concordia, notevolissimo, perché dettato da una disperata lucidità, dalla consapevolezza che l’appello rimarrà inascoltato. Il saggio Italia, Grecia, Illirio, la Corsica, le Isole Ionie e la Dalmazia (1850) affonda nell’inestricabile matassa di intrecci commerciali, di lingue, di culture, di guerre spietate, un groviglio che dall’epoca preromana ha legato tutta la costa orientale adriatica, con Trieste e Venezia e i popoli slavi (sloveni, croati, bosniaci, serbi, macedoni, kosovari), al resto d’Italia e alla Grecia, alla Francia, alla Corsica. Da tale prospettiva mediterranea è nato un libro formidabile, Scintille, apparso a Venezia nel 1841. In apertura vi si leggono queste parole: «Meglio che trapiantare, giova […] innestare; che per tal modo s’ha il nuovo, e non si abbatte l’antico». Nella distinzione tra «innesto» e «trapianto» si vede bene come la perspicuità del sinonimista non sia mai mero fatto formale e non si dissoci mai dalla passione civile. La questione riguarda le migrazioni e i vincoli tra popoli diversi: ecco che «trapianto» rinvia a una coabitazione di identità incomunicanti, mentre «innesto» significa scambio e convergenza di identità attive che devono mantenere, ognuna, la propria specificità.
Gino Tellini Corriere Fiorentino 20 ottobre 2024

Lapide a Settignano in memoria di Niccolò Tommaseo. 1878
Commozione più che comprensione, e il Giorno della Memoria perde di senso
Nella grande foto che il 7 ottobre illustrava la pagina di apertura del Foglio Quotidiano colpiva una cosa. Non il cartello del manifestante in primo piano – “Oggi il genocidio a Auschwitz lo vedi in diretta tv a Gaza” – in tutto simile agli slogan che da un anno si vanno ripetendo dappertutto. Bensì il fatto che chi lo portava doveva certamente essere passato anche lui per i tanti discorsi annuali che da vent’anni e più scandiscono ogni 27 gennaio, Giorno della Memoria, la condanna dello sterminio degli ebrei. Ma ciò non lo aveva reso minimamente consapevole di cosa effettivamente sia stato Auschwitz, di ciò che rende la Shoah incomparabile con i bombardamenti israeliani e con le vittime che questi provocano tra migliaia di civili. Né lo aveva reso capace di riconoscere la verità dell’intenzione di un nuovo sterminio degli ebrei, proclamata ai quattro venti da Hamas e dai suoi protettori iraniani.
Insomma, dobbiamo probabilmente concludere che il Giorno della Memoria è stato inutile; ha rappresentato l’occasione per ricordare e condannare un fatto storico orribile, ma quel ricordo e quella condanna non ci hanno protetto dal ritorno in grande dell’antisemitismo. Ciò è probabilmente avvenuto perché il Giorno della Memoria si è troppo spesso affidato, più che allo studio e alla comprensione, a un sentimento momentaneo e volatile come la commozione, suscitata dal racconto dei sopravvissuti o dalla proiezione di qualche film sulla Shoah. Né ha aiutato il fatto di aver scelto, sulla scia di altri paesi, una data (il 27 gennaio, giorno della liberazione di Auschwitz) che in fondo a noi non dice nulla, invece che date – come qualcuno provò inutilmente a proporre – che rimandano a momenti della nostra storia, come l’approvazione delle “leggi razziali” o la deportazione degli ebrei romani dell’ottobre 1943. Così quella data, e un po’ anche il fatto che avrebbe dovuto ricordare, è rimasta astratta, ufficiale, diciamolo pure: da molti è stata subìta come una perdita di tempo.
E’ perfino possibile che il Giorno della memoria sia stato controproducente. Ha finito infatti con l’attirare e fissare definitivamente la nostra attenzione sulla connessione tra il razzismo hitleriano e la soluzione finale, imputando in toto l’antisemitismo all’estrema destra. Oggi dobbiamo ammettere che, se non avevamo visto arrivare questa nuova ondata di livore antisraeliano-antiebraico, è anche perché guardavamo dalla parte sbagliata: frange di antisemitismo di estrema destra esistono ancora, in Italia o altrove, ma ormai tutti ammettono che il fenomeno a cui assistiamo viene da sinistra, si è sviluppato negli ambienti liberal delle università americane e prospera con un segno progressista, è parte integrante di quell’antiamericanismo e di quell’antioccidentalismo che accompagnano da decenni le democrazie euroatlantiche. Per provare a invertire la rotta, si potrebbe forse cominciare a usare diversamente il Giorno della Memoria, includendo nel novero degli ebrei sterminati anche quelli uccisi nel pogrom del 7 ottobre. Qualcuno lo farà?
Giovanni Belardelli Il Foglio Quotidiano 17 ottobre 2024

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