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Risorgimento Firenze

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Focus

FESTIVAL delle Associazioni Culturali Fiorentine

11/09/2023 da Sergio Casprini

FESTIVAL delle Associazioni Culturali Fiorentine Firenze

1° settembre /21 settembre 2023

Istituto Italiano dei Castelli – Sezione Toscana

Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Sabato 16 settembre ore 16:30

Lyceum Club Internazionale di Firenze Lungarno Guicciardini n. 17

Introduce e coordina Nicoletta Maioli,

Presidente della Sezione Toscana dell’Istituto Italiano dei Castelli

Storia di un dominio e cronache di recenti restauri: la Fortezza da Basso a Firenze

Maurizio De Vita, Architetto Università degli Studi di Firenze

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La Fortezza da Basso e la Firenze militare negli anni del Risorgimento

Sergio Casprini, Presidente Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Giovanni Cipriani, Storico Università degli Studi di Firenze

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Prenotazione obbligatoria

prenotazione.festivalfirenze@gmail.com o SMS e WhatsApp 333 6886294

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Quando a Firenze si incontravano Manzoni e Leopardi

02/09/2023 da Sergio Casprini

È il 3 settembre del 1827 quando Vieusseux organizza un ricevimento per lo scrittore venuto a «ripulire» i panni in Arno. Quella sera chi c’era assisterà al suo storico incontro con Leopardi.

Il 3 settembre 1827 è un lunedì. Alessandro Manzoni è a Firenze per risciacquare in Arno i suoi «lenzuoli», cioè i Promessi sposi appena pubblicati a Milano, in tre tomi, nel giugno di questo stesso 1827 (la cosiddetta Ventisettana). «Risciacquare» vuol dire che intende ripulire l’assetto linguistico del romanzo, cioè  sostituire il toscano dell’uso, impiegato alla meglio nella prima edizione, con il fiorentino parlato dalle persone colte, messo a punto nella seconda e definitiva edizione del 1840 (la Quarantana).

Il padre dei Promessi sposi arriva a Firenze mercoledì 29 agosto 1827. Viene con la madre, la moglie, la «nidiata» (come dice lui) di sei degli otto figli, più quattro domestici (tredici persone, in due carrozze). In città si trattiene fino al 1° ottobre. Alloggia alla Locanda delle Quattro Nazioni, nell’attuale Lungarno Corsini n. 4, nell’edificio attiguo a Palazzo Gianfigliazzi, dove ha abitato ed è deceduto nell’ottobre 1803 Vittorio Alfieri.

Giovan Pietro Vieusseux, figura eminente a Firenze, direttore dell’Antologia (la più importante rivista italiana dopo la soppressione a Milano del Conciliatore nel 1819) e del Gabinetto Scientifico-Letterario a Palazzo Buondelmonti in Piazza Santa Trinita, pensa di rendere omaggio all’ospite illustre come autore degli Inni sacri e delle due tragedie, Il Conte di Carmagnola e Adelchi. Così organizza un ricevimento ufficiale, al secondo piano del Palazzo Buondelmonti, per la sera di lunedì 3 settembre, dalle ore 19 alle 21. È un’occasione di cortese mondanità, abituale nella prassi del padrone di casa, autentico gentiluomo, intellettuale, affabile conversatore, sagacissimo tessitore e organizzatore di cultura. Sono presenti, con Vieusseux, alcuni selezionati personaggi letterari, come Giovanni Battista Niccolini, Terenzio Mamiani, Mario Pieri, Gaetano Cioni, Pietro Giordani (esule in Toscana dal 1824). Ma a rendere eccezionale la serata è il fatto che tra i presenti si trova Giacomo Leopardi. Manzoni ha 42 anni, Leopardi 29. Manzoni è un’autorità, Leopardi uno scrittore noto ma non celebre, non nell’opinione corrente.

Cronista della serata è Mario Pieri (classicista, originario di Corfù, divenuto fiorentino dal 1823), che nel suo diario annota particolari curiosi. Riferisce che Giordani, ateo e materialista, letterato di gran nome, temibile per la sua lingua acuminata, si accosta a Manzoni, appena entrato in sala mentre è da tutti ossequiato, e gli domanda rischiando un incidente diplomatico: «È vero che credete ai miracoli?». In risposta riceve, dal saggio conte milanese, non una replica dura, che sarebbe stata fuori luogo, ma una pacata e riflessiva battuta quasi monologante: «Eh! È una gran questione». A parte i dettagli curiosi due cose importano. La prima è il merito che spetta a Vieusseux per essere riuscito a fare incontrare i due nostri massimi campioni moderni. La seconda cosa è il valore emblematico che va riconosciuto all’incontro che avviene, per accrescerne il rilievo simbolico, una settimana prima di quel lunedì 10 settembre 1827, che è il giorno in cui chiude, fuori d’Italia, i suoi giorni, irato agli altri e a se stesso, nel malinconico sobborgo londinese di Turnham Green, Ugo Foscolo, il poeta che a Firenze, sulla collina di Bellosguardo, un quindicennio prima, nell’agosto 1812 – luglio 1813, ha placato il suo affanno di esule, fuggitivo, con la stupendamente serena stagione delle Grazie, mitico riscatto dalle amare disillusioni della storia. Manzoni e Leopardi sono autori antitetici e s’incontrano a Firenze, città dove può accadere l’impossibile. Manzoni ha pubblicato nel giugno 1827 a Milano il suo romanzo e Leopardi nello stesso giugno, sempre a Milano, ha pubblicato le sue Operette morali. Due libri tra loro quanto mai distanti. Un romanzo nella lingua dell’uso e una raccolta di dialoghi filosofico-fantastici nella più selettiva lingua letteraria. Il romantico Manzoni per arrivare al capolavoro si è «sliricato» (ha abbandonato la centralità dell’io). Il classicista Leopardi resta indubitabilmente un sommo lirico. Manzoni contesta la mitologia e proclama il «vero» come bello; Leopardi difende la mitologia come fonte di poesia, su posizioni duramente antiromantiche, e identifica il bello con il «finto» (opposto al «vero» manzoniano) e identifica il bello con l’illusione, con l’immaginazione: «e sovrumani / silenzi, e profondissima quiete / io nel pensier mi fingo (L’infinito, vv. 5-7).

Carlo Emilio Gadda

Antitetici, eppure compagni di strada. Ce lo ricorda Carlo Emilio Gadda. Quest’anno ricorre il 150° anniversario della morte di Manzoni e, insieme, ricorre il 50° della morte di Gadda, altro straordinario narratore che ha scelto Firenze come elettiva patria linguistica. Proprio Gadda ha sottolineato i tratti che uniscono Manzoni e Leopardi e lo ha fatto a Firenze, la città del loro incontro sulla rivista Solaria, condiretta da Alessandro Bonsanti, che è stato dal 1941 al 1980 grande e indimenticato direttore dello stesso Gabinetto Vieusseux.

Su Solaria, nel saggio Apologia manzoniana del gennaio 1927, nel centenario della Ventisettana, così Gadda si è espresso: «] Manzoni] volle che il suo dire fosse quello che veramente ognun dice, […] e non la roca trombazza d’un idioma impossibile. […] Volle romperla una buona volta con certi toni della vacua magniloquenza. […] Volle parlare da uomo agli uomini, come, a lor modo, parlarono tutti quelli che ebbero qualche cosa di non cretino da raccontare. Ebbe compagno nell’impresa della spazzatura un altro conte suo contemporaneo […]. La parola di quest’ultimo ha una nitidezza lunare: Dolce e chiara è la notte». Gadda unisce Manzoni e Leopardi, i due grandi che nel capoluogo toscano si sono avvicinati per l’unica volta nella loro vita. E li unisce nell’impresa della «spazzatura», ovvero nella ricerca fondamentale di un linguaggio antiretorico e antieloquente, anticonformista e antiservile.

Gino Tellini, Critico letterario e italianista

Corriere Fiorentino 2 settembre 2023

Palazzo Buondelmonti. Sede del Gabinetto Vieusseux nel 1827

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Su e giù per le porte-torri

19/07/2023 da Sergio Casprini

La vista della città da Porta San Frediano, aperta al pubblico dopo il restauro

L’unica rimasta ad altezza originaria è quella di San Niccolò, c’è poi quella della Zecca e quella restaurata di San Frediano: racchiudono la storia della città e regalano panorami inconsueti

Mauro Bonciani Corriere Fiorentino 16 luglio 2023

«Firenze, fino all’anno 1866, era racchiusa entro il quarto cerchio di mura, che rimontava alla fine del secolo XIII, stato edificato su disegno di Arnolfo di Cambio, che ne ebbe incarico dalla Signoria nel 1284». Così Giuseppe Conti nel suo Firenze vecchia inizia a parlare nelle mura e delle porte-torri di Firenze e se la cinta muraria, tranne alcuni tratti in Oltrarno, è stata distrutta per far posto ai boulevard disegnati da Giuseppe Poggi su incarico del Comune per modernizzare la città, molte delle antiche porte sono rimaste. Spesso ridotte a spartitraffico, come Porta la Croce in piazza Beccaria o Porta al Prato, ma alcune valorizzate in tempi recenti e visitabili, per un tour che regala panorami inconsueti e tante storie.

Porta S.Niccolò 1865 c.a  Fotografia su carta fotografica

La torre più celebre, l’unica rimasta dell’altezza originaria, è Torre San Niccolò, che svetta per 45 metri e al contrario delle altre non è stata «scapitozzata», cioè, abbassata in altezza, per adeguare la difesa cittadina all’arrivo delle artiglierie che richiedevano strutture basse e larghe. Le torri furono «tagliate» con l’assedio di Firenze del 1529-30, che pose fine alla Repubblica per dare il potere ai Medici, ma quella di San Niccolò, completata nel 1345, era protetta dalla collina sovrastante — su cui secoli dopo fu realizzato piazzale Michelangelo — e non ci fu bisogno di scapitozzarla. In cima alla torre ci sono i tipici merli guelfi, cioè a forma rettangolare, e ora non è accessibile per i lavori di restauro in corso, ma di solito fa parte del circuito delle torri visitabili a pagamento e dalla sua vetta si scorge un magnifico panorama, con piazzale Michelangelo a portata di mano. La torre-porta oggi è isolata, ma era collegata alle mura, come tutte le altre, ed il sistema difensivo era completato dalla pescaia, che, come quella di Santa Rosa, impediva alle navi di poter entrare liberamente in città. E quindi anche assalti via fiume, come quello dei vichinghi nell’VIII secolo che risalirono l’Arno fingendosi innocui mercanti per poi attaccare la ricca Fiesole.

La torre della Zecca prima della demolizione delle mura, dipinta da Fabio Borbottoni nell’Ottocento

La torre non è visitabile, ma lo è sua «cugina», la Torre della Zecca, sulla riva destra dell’Arno, da cui parte la pescaia di San Niccolò, sotto cui c’è un tunnel che arriva fino alla riva sinistra, dove c’è il giardino davanti alla Torre di San Niccolò. La torre — eretta a protezione del mai realizzato ponte Reale, progettato prima della disastrosa alluvione del 1333 e che doveva omaggiare Roberto d’Angiò — è alta solo 25 metri e alla sua base ci sono ampi locali sotterranei dove fu ospitata la zecca, che sfruttava la forza dell’acqua per coniare le monete, compreso il Fiorino d’oro che aveva fatto la fortuna della città, mentre i due grandi archi che la rendevano più leggera nel corso dei secoli sono stati murati. La torre era il centro di un imponente sistema difensivo, il primo a protezione della città, e non fu abbattuta nell’Ottocento al contrario della vicina Porta della Giustizia, che era alla fine di via Malcontenti, così chiamata perché lì si trovavano i patiboli a cui venivano condotti i condannati a morte per essere giustiziati. Della torre non sono visitabili i locali sotterranei, ma salendo le scale si arriva fino alla cima, con la città antica e moderna sotto di noi.

Appena restaurata e resa accessibile per la prima volta è Porta San Frediano, raggiungibile grazie ad una scala metallica esterna che conduce al sottotetto della porta, una delle più imponenti delle mura e la più grande con i suoi venti metri di larghezza, disegnata da Andrea Pisano, collegata alle mura trecentesche, che in quel tratto dell’Oltrarno non sono state abbattute. L’aspetto attuale è frutto dell’abbassamento e della copertura con un tetto avvenute come detto nel XVI secolo ed il portone in legno di quercia, alto 12 metri, è quello originale del Trecento, con uno spessore fino a 40 centimetri nella parte più bassa e rafforzato dai grossi chiodi in ferro. Sulla facciata esterna della porta ci sono feritoie ed i resti di due tabernacoli in pietra che sorreggevano i leoni simbolo di Fiorenza e verso l’Arno lungo le mura si trovano il torrino di Verzaia e il torrino di Santa Rosa che rafforzavano la cinta difensiva. Proprio da Porta San Frediano entrò in città nel 1494, in pompa magna, Carlo VIII, Re di Francia, seguito da molti soldati. L’arroganza sua e delle sue milizie, fu resa vana dal gonfaloniere Pier Capponi. Che al Re di Francia che minacciava di «far suonare le trombe» cioè di scatenare i soldati nel saccheggio, rispose «E noi suoneremo le nostre campane…», cioè chiameremo a raccolta il popolo in armi, con il risultato che Carlo VIII pochi giorni dopo lasciò la città passando dalla stessa porta, questa volta alla chetichella, senza aver ottenuto quello che voleva ed umiliato.

Porta Romana dipinta dal Borbottoni nell’Ottocento

Altra visita da non perdere è quella a Porta Romana, anch’essa collegata alle mura, disegnata da Iacopo Orcagna, scapitozzata, ed al lato della quale furono aperte porte laterali più piccole, l’ultima nel 1930. Nella lunetta del lato interno della porta ecco l’opera del Franciabigio con la Madonna protettrice di Firenze, e sotto il suo arco passarono sia Leone X, al secolo Giovanni de’ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico, sia l’imperatore Carlo V, tutti e due con grandi onori, tra due ali di folla. Anche a Porta Romana si accede al sottotetto e il circuito di torri e fortezze visitabili grazie a Muse comprende il Forte di Belvedere, il suggestivo e vicino Bastione di San Giorgio, un vero tuffo indietro nel Medioevo, affacciato su via dei Bastioni che corre lungo le mura rafforzate da Michelangelo in occasione dell’assedio di Firenze, e la Fortezza da Basso, le cui mura sono state rese agibili, con il grande mastio con lo stemma mediceo che guarda verso la città. Sì, perché la Fortezza da Basso e Forte Belvedere raccontano un’altra storia: non facevano parte del sistema difensivo repubblicano, ma furono volute dai Medici e realizzate nel ‘500 per tenere sotto tiro di cannone i fiorentini ed impedire che si ribellassero nuovamente alla loro Signoria.

Firenze. La cinta muraria trecentesca dalla Veduta della Catena 1470

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La signora Anita Garibaldi ci porta a spasso nel tempo

02/06/2023 da Sergio Casprini

Maurizio Porro Corriere della Sera 1 giugno 2023i

Lezioni di Risorgimento parte II: dopo Rapito di Bellocchio il regista storico Luca Criscenti svela la signora Garibaldi nel bel documentario La versione di Anita, in cui la donna non è solo la compagna dell’eroe Giusè, ma una eroica rivoltosa e coraggiosa, quattro volte madre, nata in Brasile nel 1821 ma morta di malaria in Italia a soli 28 anni nel 1849. In mezzo ci sta la sua e la nostra Storia, i viaggi in Uruguay e Nizza, fra scelte sempre difficili e coraggiose.

Essendo il film distopico ecco Anita che oggi a 200 anni si fa intervistare alla radio da Marino Sinibaldi (quello vero) sostituendo così alla visione leggendaria, romantica, ottocentesca della casalinga del Risorgimento, la donna che cavalca meglio di Garibaldi (Lorenzo Lavia), lotta in anticipo sui tempi scavalcando la retorica dei libri di testo.

L’attrice Flaminia Cuzzoli ci porta a spasso nel tempo risorgimentale, aiutando il compagno in guerra con francesi e austriaci e tutto pare ben studiato alle fonti e ben sedimentato nella sceneggiatura del regista e di Silvia Cavicchioli e Daniela Ceselli. Materiale ottimo: libri, foto, fotografie, cimeli, quadri, monumenti, pezzi reali (la tomba della figlia a Montevideo), oltre a stimati professori descrivono l’altra Anita mentre s’intersecano piani temporali, ideologici e morali, raccontando il matrimonio più complicato per la nascita dell’Italia.

Non manca neppure la teste Anna Magnani che fu una tradizionale Anita e in Camicie rosse, ‘52, con la litigiosa regìa dell’ex marito Alessandrini.

Flaminia Cuzzoli nei panni di Anita Garibaldi in una scena del docufilm «La versione di Anita»

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Non ci verrà mica in mente di cancellare quel vecchio colonialista di Mazzini?

20/05/2023 da Sergio Casprini

Giovanni Belardelli Il Foglio Quotidiano18 maggio 2023

In America almeno un paio di Padri fondatori – Thomas Jefferson e Alexander Hamilton – sono stati colpiti negli ultimi tempi dagli strali della cancel culture per aver impiegato schiavi (cosa che, come è noto, all’epoca non era un reato). In Gran Bretagna, qualche mese fa, un sondaggio ha segnalato che solo un quinto dei giovani ha un’opinione positiva di Winston Churchill, considerato da molti di loro soprattutto un razzista e un colonialista. Da noi questo genere di discorsi, per fortuna, sembra non aver ancora attecchito, probabilmente perché non abbiamo, come in Gran Bretagna o negli Stati Uniti, una altrettanto significativa presenza di discendenti di schiavi o comunque di popolazioni che in passato sono state colonizzate (già in Francia la situazione è diversa perché questa presenza c’è ed è importante). Ma proviamo a giocare d’anticipo e a immaginare cosa accadrebbe se applicassimo anche all’Italia i criteri della cancel culture, se “decolonizzassimo” la nostra storia come si fa nel mondo anglosassone bandendo chi in passato abbia anche solo accettato il colonialismo.

Per non essere da meno degli americani, prendiamo anche noi un indiscusso padre della patria, Giuseppe Mazzini. Disinteressiamoci per un momento di tutte le cose buone che ha fatto (ne avevano fatte non poche, del resto, anche Jefferson, Hamilton, Churchill e tanti altri) e occupiamoci di ciò che pensava del colonialismo. Ebbene, ne dava un giudizio decisamente positivo. Questo può sembrare strano, visto che fu uno dei massimi teorici dell’autodeterminazione dei popoli e che vagheggiava un’umanità (con la maiuscola) composta di nazioni libere e indipendenti, tra loro associate secondo un disegno di collaborazione dei popoli che aveva per lui il crisma di un comandamento divino. È vero però che, per Mazzini il concetto di Umanità era sostanzialmente equivalente al concetto di Europa, considerata la “leva del mondo”, cioè la protagonista del processo di civilizzazione. E proprio il colonialismo europeo era a suo avviso uno degli strumenti di espansione della civiltà. Lo scrisse nel 1871, un anno prima della morte, in un testo generalmente escluso dalle antologie dei suoi scritti e che viene spesso valutato (e ignorato) alla stregua di una momentanea défaillance. Ma non è così, non si trattava affatto di un giudizio estemporaneo visto che fin dagli anni Trenta Mazzini aveva considerato le conquiste coloniali come il prodotto dello stesso spirito rivoluzionario che attraversava l’intera Europa provocando rivolgimenti politici, sociali, nazionali e che imponeva anche di piantare “la bandiera dell’incivilimento europeo sulle spiagge africane”. Mazzini credeva fermamente in un futuro “affratellamento di tutte le razze”, ma dopo che ciascuna fosse stata portata nell’alveo della civiltà anche grazie al colonialismo europeo.

Le conquiste coloniali rappresentavano un passaggio epocale così importante da indurlo a giustificarne almeno in parte gli aspetti violenti. Fino a un certo punto, ovviamente. Nel 1845, scrivendo alla madre, ne condivideva il giudizio di condanna delle “infamie” compiute dai francesi in Algeria: era appena avvenuto uno dei tanti eccidi che abbiamo dimenticato (o forse non abbiamo mai conosciuto), lo sterminio dei componenti di un’intera tribù – uomini, donne e bambini – soffocati dalle fiamme e bruciati vivi nelle grotte dei monti Dahra, dove si erano rifugiati. Mazzini considerava fatti del genere orribili e infami, anche perché tradivano quella missione di civiltà di cui era convinto: “Io credo che l’Europa sia provvidenzialmente [cioè per volere della Provvidenza] chiamata a conquistare il resto del mondo all’incivilimento progressivo”. Non dovrebbe stupire allora che, nel suo scritto del 1871 di cui si diceva, esortasse anche l’Italia a impegnarsi nelle conquiste africane: “Nel moto inevitabile che chiama l’Europa a incivilire le regioni africane, come Marocco spetta alla Penisola iberica e l’Algeria alla Francia, Tunisi […] spetta visibilmente all’Italia”. Un’Italia che si doveva anzi affrettare, secondo lui, perché non vi arrivassero prima i francesi (come invece poi accadde).

Dovremmo dunque “cancellarlo” anche noi dalla nostra storia per valutazioni del genere? Ovviamente sarebbe assurdo perché le sue idee sul colonialismo erano allora diffuse tra liberali, democratici e perfino socialisti. E proprio certe sue affermazioni sull’espansione dell’Europa fuori dai suoi confini ci aiutano a capire come la storia sia cosa diversa da certe ricostruzioni in bianco e nero che vengono diffuse oggi, con l’intenzione di “correggere” il passato epurandolo da quelli che sono ritenuti i “cattivi”, e magari erano solo (come è ovvio) uomini del loro tempo. Il Mazzini che esortava gli europei a conquistare l’africa era infatti lo stesso che difendeva libertà e indipendenza delle nazioni come principio di un nuovo ordine internazionale, esercitando un’influenza vasta e duratura. Il presidente americano Woodrow Wilson, grande fautore del principio di autodeterminazione dei popoli, recandosi a Parigi nel 1919 per la conferenza di pace, passò da Genova per deporre una corona di fiori sul monumento a Mazzini. Alle idee di quest’ultimo si richiamarono molti esponenti indipendentisti dei vari continenti e fra essi lo stesso Gandhi, leader dell’indipendenza di un paese – l’india – la cui colonizzazione Mazzini aveva giudicato positiva. Ma la storia è fatta di questi chiaroscuri, di processi complessi e contraddittori.

1939. Mappa delle colonie europee in Africa

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STORIA DI RAMELLI E DANTE DI NANNI

25/03/2023 da Sergio Casprini

LETTERE al Corriere della Sera 25 marzo 2023

Caro Aldo, non crede che stia emergendo sempre più una deriva violenta in quello che non voglio chiamare antifascismo ma utile idiotismo? La plateale contestazione alla sottosegretaria del ministero dell’Istruzione e del merito a Milano mentre commemorava l’assassino di Sergio Ramelli non ne è forse la conferma? «Utile idiota», d’altronde, è una definizione storicamente nata all’interno della sinistra e che quindi ben si adatta a questo genere di contestatori. Ricordando sempre che se «tutti i democratici sono antifascisti non tutti gli antifascisti sono democratici». Mario Taliani, Noceto

Caro Mario, Sergio Ramelli fu ammazzato quando non aveva ancora 19 anni e non aveva fatto nulla di male. Non c’è niente di antifascista in quell’orrendo delitto. Non c’è niente di antifascista nel contestare chi giustamente tiene viva la memoria di quel ragazzo e la condanna dei suoi assassini. L’antifascismo è il colonnello Montezemolo che tace sotto le torture e prima di essere ucciso dai nazisti con un colpo alla nuca grida «Viva l’Italia». L’antifascismo è il tenente dei carabinieri Genserico Fontana che alle Fosse Ardeatine conforta la moglie che le SS obbligano ad assistere all’eccidio: «Coraggio cara, siamo uomini e siamo italiani, dobbiamo affrontare il destino da uomini e da italiani». L’antifascismo è don Pietro Pappagallo cui viene offerto di avere salva la vita ma sceglie di morire con gli altri 334 martiri, tentando con le mani legate di impartire loro l’estrema unzione. L’antifascismo però è anche Dante Di Nanni, il gappista comunista che asserragliato in una casa di Torino resiste fino all’ultima cartuccia, poi per non essere preso vivo si getta nel vuoto dopo aver salutato la folla con il pugno chiuso e gridato, anche lui, «Viva l’Italia». Per questo, gentile signor Taliani, dire «tutti i democratici sono antifascisti ma non tutti gli antifascisti sono democratici» è una brillante formula perfetta per discutere oggi nei talk show, ma uno scioglilingua privo di spessore umano e significato politico quando c’era da decidere da quale parte stare: se con quelli che portavano gli ebrei ad Auschwitz, o contro quelli che portavano gli ebrei ad Auschwitz.

Aldo Cazzullo

Giardino Sergio Ramelli a Milano

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Le case editrici perdute nella Firenze di Palazzeschi e Papini

09/02/2023 da Sergio Casprini

Aldo Palazzeschi

Il «gatto» di Palazzeschi, la libreria stamperia di Lumachi, talent scout di Prezzolini e Papini, i Fratelli Stianti

Luca Scarlini Corriere Fiorentino 8 Febbraio 2023

In principio fu il gatto. Ossia l’immortale Cesare Blanc, a cui il giovane Aldo Giurlani, spinto dai genitori borghesi al cambiamento del nome in Palazzeschi, dedicò dal 1910 la casa editrice immaginaria che ebbe il nome del felino, per pubblicare le sue prime poesie e prose. Poi venne Filippo Tommaso Marinetti, che mise sotto i colori del Futurismo l’autore de Le sorelle Materassi, ma proprio sotto il segno del gioco e dello sberleffo si segnalava una città fatta di case editrici in buona parte tramontate e spesso dimenticate.

Casa editrice Bibliohaus

A Firenze all’inizio del secolo trascorso era in primo piano la libreria-stamperia Lumachi che mise il suo nome su proposte innovative di cultura (alla sua avventura ha dedicato da poco una bella monografia Giovanna Grifoni, edita da Biblohaus nel 2021). Fu Francesco Lumachi il primo a dare spazio ai rinnovatori della cultura della città, Giuseppe Prezzolini e Giovanni Papini (che per un certo tempo seguendo l’esempio di Palazzeschi mise alla luce trattati e testi antichi con il marchio SELF nel suo domicilio), al tempo della proposta idealista del Leonardo. Quest’ultimo pubblicò con questi tipi la raccolta più importante dei suoi racconti, Il tragico quotidiano, che entusiasmò Borges e che da poco è stato riproposto da Clichy nel quadro dell’edizione complessiva dei Racconti.

Francobollo anno 2003

Sono proprio Giuliano il Sofista e Gian Falco che propongono al dinamico stampatore Attilio Vallecchi di diventare il tipografo delle edizioni della La Voce, che subito diventa anche una libreria nel complesso di Palazzo Davanzati, edificio assai male in arnese prima dei restauri all’inizio del secolo. La pubblicazione periodica, tra letteratura, politica e filosofia, catalizza l’attenzione della cultura nazionale, i quaderni, spesso di soggetto polemico, escono a getto continuo, come anche le pubblicazioni di poeti e prosatori, spesso determinanti per la cultura nazionale, che sono poi destinati a grandi successi. Il marchio Vallecchi, nato nel 1913, ha avuto enorme importanza fino agli anni Settanta, poi ci sono stati fallimenti e revisioni, con una struttura che esiste ancora oggi in un nuovo assetto. Gli anni d’oro saranno quelli dalla Prima Guerra in poi, i nomi sono quelli della letteratura italiana: Palazzeschi, Papini, Rebora, Landolfi e chi ne ha più ne metta.

 In città tale era l’attività che molte erano le attività editoriali di tipi non prevedibili: i tipografi Fratelli Stianti di San Casciano (che stampavano non pochi dei libri di cui parliamo), raccontata da Marino Parenti, era notevole nel proporre un mix di letteratura e manuali della coltura della terra e della vinificazione. Nel 1932 il ristorante dell’Antico Fattore, a cui è stato legato un longevo premio letterario pubblicava l’autore che quell’anno aveva ottenuto il riconoscimento, Salvatore Quasimodo, con la raccolta Odore di Eucalyptus.

Galleria L‘Indiano

Numerose anche le gallerie d’arte editrici, come l’Indiano, legato a uno scrittore notevole e da tempo poco frequentato, se non dimenticato, Piero Santi o Tecne, che negli anni 60-70 pubblicava i vivaci episodi della poesia visiva (da Lucia Marcucci, a Luciano Ori, a Lamberto Pignotti per citare solo alcuni nomi), che trovavano anche udienza presso la Libreria Feltrinelli di via Martelli, centro di mostre e performance, che stampava anche volumi di neoavanguardia, o invece testi impegnati di memoria dell’antifascismo e della resistenza (come la biografia del comandante partigiano Potente, opera di Gino e Emirene Varlecchi, con prefazione di Sebastiano Timpanaro, 1975). Non mancavano nemmeno esperienze di editoria nella moda, come quelle avallate dalla geniale «sarta intellettuale» Germana Marucelli che finanziava a Milano concorsi di poesia, e che chiese a Fernanda Pivano di scrivere la sua biografia.

Tra i molti nomi che non ci sono più sono in evidenza nella saggistica La Nuova Italia, fondata dalla coppia Elda Bossi-Giuseppe Maranini negli anni 20 e poi diretta da Ernesto Codignola (nonno di Roberto Calasso, che da questa esperienza trasse varie ispirazioni) che ebbe un ruolo centrale nelle edizioni di studio (da Werner Jaeger a Delio Cantimori, passando per Aby Warburg e Franco Cardini, con una attenzione particolare alla cultura classica e ai temi di studi del Rinascimento) come anche nelle proposte della didattica.

Nettissimo anche il profilo nella produzione narrativa delle Edizioni di Solaria, legate alla rivista omonima, fondata nel 1926 e diretta poi da Giansiro Ferrata e Alessandro Bonsanti. Gli esordi e le presenze di qualità sono abbaglianti: Carlo Emilio Gadda, Cesare Pavese, Elio Vittorini senza scordare la presenza di Umberto Saba.

Insomma, un carnevale, una giostra, un panopticon e una vertigine, che qui si riassume solo per sommi capi e che racconterò domenica 26 febbraio  in forma di spettacolo a Testo, il Salone del libro alla Stazione Leopolda , con immagini di opere spesso rarissime. Una storia, quindi, ricchissima e piena di sorprese, che è ancora largamente da ricostruire, e a cui dedicherò ulteriori approfondimenti.

Fratelli Stianti San Casciano

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Quei ragazzacci delle riviste

03/02/2023 da Sergio Casprini

Giovanni Papini foto di Mario Nunes Vais

Anticonformisti, artefici di un libero pensiero senza limiti: 120 anni fa con «Il Leonardo» di Papini e Prezzolini iniziava una stagione che fece di Firenze crocevia di cultura fuori dagli schemi

Mario Bernardi Guardi Corriere Fiorentino 31 gennaio 2023

Gran fioritura di effervescenze multicolori quella del Primo Novecento Fiorentino. Dal 1903 fino alla Grande Guerra sono anni di insonne creatività, con un pugno di ragazzi che, tra manifesti, proclami, sfide, scoperte, provocazioni, danno l’assalto al cielo, rivoluzionano la cultura, chiamandola vigorosamente a tutti gli appuntamenti con l’attualità e con la storia. E si tratta davvero di ragazzi perché quando il 4 gennaio del 1903, partono gli squilli di battaglia con l’uscita del primo numero di Leonardo, i promotori dell’impresa, Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini, hanno 22 e 21 anni. I due, che assumono gli pseudonimi rispettivamente di Gian Falco e di Giuliano il Sofista, si dichiarano pagani, individualisti, vogliosi di universalità, «nemici di ogni forma di pecorismo nazareno e di servitù plebea», alfieri della bellezza e di un libero pensiero inteso a varcare ogni limite. La rivista esce in fascicoli di otto pagine, con scadenza irregolare, si fregia delle incisioni del dannunziano Adolfo De Carolis, ha tra i collaboratori altri giovani dal multiforme ingegno come il palermitano «intoscanito» Giovanni Antonio Borgese, e Ardengo Soffici  di Poggio a Caiano.

Ardengo Soffici Foto di Mario Nunes Vais

Soffici fa il bohémien a Parigi dove frequenta tutta l’avanguardia artistica, con Apollinaire, Max Jacob e Pablo Picasso e invia articoli con lo pseudonimo di Saint Cloud. Per cinque anni il Leonardo è tutto un ribollire di spiriti antipositivisti, di appelli contro il passatismo e le accademie: i contrassegni sono D’Annunzio e Nietzsche. Ma nel 1907 la tensione si allenta e la rivista chiude i battenti. Perché? Perché, spiegano Gian Falco e Giuliano il Sofista, non ce l’abbiamo fatta a «scoprire uomini, svegliare e trasformare anime, trovare giovini che fossero per noi compagni e schermidori e non pappagalli male ammaestrati».

La diana dell’italica riscossa contro la minaccia della sovversione socialista e la viltà della borghesia liberale, la fa risuonare un altro intellettuale fiorentino, Enrico Corradini — 38 anni — che, il 29 novembre 1903, fa uscire il primo numero de Il Regno. Tra i collaboratori i leonardiani Papini e Prezzolini che tuonano contro il parlamentarismo e la politica giolittiana. Anche qui si respira un’aura dannunziana: l’avvenire nell’Italia è sul mare. Solo che, contrariamente al francofilo Vate, Corradini è a favore della Triplice Alleanza e vede nei cugini d’Oltralpe gli insidiatori del nostro espansionismo nel Mediterraneo. E se Il Regno chiude nel 1906, lui procede spedito e nel 1910, è tra i fondatori dell’Associazione Nazionalista Italiana.

Ma se è bello e giusto far politica, nel santo nome dei destini d’Italia, i giovani fiorentini non scordano certo la letteratura. La esaltano — pura, raffinata, aristocratica— i nazionalisti Corradini e Papini, firmando articoli per Hermes, fondata da Borgese nel gennaio 1904 (durerà fino al luglio 1906), col proposito di guerreggiare contro razionalisti, materialisti e positivisti, in nome di un appassionato idealismo e delle forme più alte del sapere. Tutta un figliar di idee, manifesti, programmi, questa Firenze primonovecentesca.

Giuseppe Prezzolini

Troppi propositi, però, rischiano di diventare spropositi. Se ne accorge Prezzolini che il 20 dicembre 1908 fonda La Voce. E parla subito chiaro. Non abbiamo bisogno di geni ma di persone di carattere. In Italia non manca il cervello, «ma si pecca perché lo si adopera per fini frivoli e bassi». Piuttosto che inneggiare alla rivoluzione, parliamo di riforme, di educazione, di miglioramenti nelle istituzioni, nella società, nella scuola, diamo spazio al dibattito, alle energie nuove che vengono fuori nella cultura e nella politica, al giudizio contro il pregiudizio. A crederci è il fior fiore della cultura: saranno «vociani» Papini, Soffici, Slataper, Murri, Amendola, Salvemini, Serra… E anche Mussolini, allora agitatore socialista, che, nel 1909, segretario della camera del Lavoro di Trento, si darà un gran daffare per diffondere la rivista e che, per i Quaderni della Voce, pubblicherà Il Trentino visto da un socialista.

Tante le polemiche di marca vociana, tante le scoperte e l’impegno di promozione culturale. Un occhio speciale per le avanguardie poetiche e artistiche con gli articoli di Soffici su Courbet, Picasso, Braque ecc., la pubblicazione di un «Quaderno» dedicato a Rimbaud, l’allestimento nel ’12 della prima mostra italiana sull’Impressionismo con opere di Cezanne, Degas, Renoir, Monet, Pizarro, Gauguin, Van Gogh, e 17 sculture di Medardo Rosso. E tante le stagioni vociane, irrorate di litigi, polemiche, distinguo, fino alla chiusura, nel ’16.

Il fatto è che Prezzolini ci tiene ormai ad essere un educatore, dallo sguardo alto e profondo; i suoi numi tutelari sono ormai Croce e Gentile, col contrassegno dell’idealismo militante, mentre Papini e Soffici non hanno smarrito la vocazione eretica e ribellistica. Tanto che il primo gennaio del ’13 hanno battezzato Lacerba, un foglio quindicinale nemico del buon senso, del moralismo, del riformismo, e programmaticamente «urtante e spiacevole». E fieramente avanguardista, con una memorabile copertina disegnata da Picasso. E visto che quattro anni prima è stato lanciato il Manifesto Futurista di Filippo Tommaso Marinetti, loro lo reinventano, lo estremizzano, spernacchiano religione, borghesia, democrazia e pubblicano il Programma Politico Futurista che è un «al di là della destra e della sinistra» portato al massimo, «vanno in guerra» prima che la guerra scoppi. Il 22 maggio del ’16 esce l’ultimo numero. E via, tutti al fronte. Poi ognuno continuerà a suo modo a scriver la storia dell’intelligenza fiorentina: quindici anni di giovinezza, mai vissuta così bene.

Lacerba, anno II, n.15 1°agosto1914

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È GIUSTO CHE DANTE RIPOSI A RAVENNA

23/12/2022 da Sergio Casprini

La tomba di Dante a Ravenna

LETTERE AL CORRIERE DELLA SERA

23 dicembre 2022

Caro Aldo, mi chiedo come mai Firenze e i fiorentini non rivendichino il diritto e non avvertano il dovere di reclamare le ceneri di Dante. Sarebbe, a mio parere, il reclamo dei reclami e la traslazione delle traslazioni. Ravenna permettendo, Firenze avrebbe una ragione in più (e che ragione!) di attirare orde di visitatori. Non quelli con la consueta bottiglietta di minerale in mano, bensì quelli con la Divina Commedia in mano. Mansueto Piasini

Caro Mansueto, Io invece trovo giusto che Dante riposi a Ravenna, dove fu accolto e dove morì. A Firenze tutto parla di lui; non serve aggiungere un sarcofago per alimentarne la memoria. Tutti giustamente collegano Dante alla sua città, da cui trasse la lingua viva che parliamo ancora adesso. Ma Dante è anche il grande poeta della nazione italiana. Per lui l’Italia non era uno Stato (credeva nell’Impero, l’Europa di allora); era un patrimonio di idee, valori, bellezza, cultura. Dante ha vissuto a lungo in Romagna, e l’ha amata.

E la Divina Commedia è anche un viaggio in Italia. Dante descrive posti che conosce bene, come la Romagna: c’è un dannato, Guido da Montefeltro, che gli chiede notizie della Romagna, e Dante gli fa una rassegna delle città romagnole, Ravenna, Rimini, Cervia, Forlì, Faenza, Cesena, Imola, che comincia così: «Ravenna sta come sta è molt’anni»; a Ravenna non cambia mai nulla. Ma Dante descrive con altrettanta maestria anche posti in cui non è mai stato. Come la Sicilia, che ama perché è la terra della poesia, della scuola siciliana: la chiama la bella Trinacria, descrive l’Etna — lo chiama Mongibello, con il nome arabo con cui ancora adesso lo chiamano i siciliani —, e lo stretto di Messina, Scilla e Cariddi. Dante traccia proprio i confini d’Italia. Lo fa nel decimo canto, quello di Farinata degli Uberti. Qui sono puniti gli eretici, chiusi dentro sepolcri. Per dare un’idea del paesaggio infernale, Dante lo paragona a due sepolcreti. Uno ad Arles, in Provenza, ai confini occidentali dell’Italia, sorto secondo la leggenda in una notte per dare sepoltura ai cavalieri cristiani caduti combattendo contro gli infedeli.

L’altro a Pola, nel golfo del Quarnaro, «che Italia chiude e i suoi termini», i suoi confini, «bagna». Questo è un verso citato da generazioni di irredentisti: trentini, triestini, giuliani, istriani, dalmati, che erano sudditi austriaci ma italiani di lingua e di cuore, e si battevano per innalzare statue a Dante, e per aprire scuole italiane da intitolare a Dante. Aldo Cazzullo

IL cenotafio di Dante a Santa Croce a Firenze

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Il popolo del Risorgimento nel film di Blasetti

13/11/2022 da Sergio Casprini

 

Lettera al Corriere della Sera 12 novembre 2022

 

Aldo Cazzullo in un suo articolo sul Corriere della Sera, dice bene: «Non è vero che nel Risorgimento non ci sia il popolo».

Istruttiva risulta in questo senso la visione del film di Alessandro Blasetti «1860», che pure racconta una vicenda romanzata sullo sfondo storico del Risorgimento: il giovane pastore e patriota siciliano Carmeliddu, sposato con Gesuzza, deve lasciare la sua donna per raggiungere il continente e qui sollecitare Giuseppe Garibaldi ad attuare lo sbarco dei Mille in Sicilia. Per realizzare il film, Blasetti legge Noterelle di uno dei Mille di Giuseppe Cesare Abba, compulsa la bibliografia prodotta per il cinquantenario della morte di Garibaldi, le carte depositate presso gli archivi di Napoli e Palermo, utilizza come fonti iconografiche il libro di Gustavo Sacerdote Mode, costumi, divise borboniche e i quadri dei pittori Girolamo Induno e Silvestro Lega.

Nasce così il film «1860» che, prodotto nel 1933, appare nelle sale nel 1934 e poi verrà rieditato nel 1951 in versione ridotta con il sottotitolo «I Mille di Garibaldi». A dispetto dell’omaggio al fascismo quando sostiene la tesi della continuità Risorgimento-Grande Guerra-Fascismo e stabilisce una somiglianza tra la figura di Garibaldi e quella di Benito Mussolini, «1860» è un film antiretorico e poco celebrativo. Non dispiacque infatti alla gioventù intellettuale antifascista: «Fummo il pubblico che batteva le mani a “1860” di Blasetti e che fischiava Forzano (regista del film di propaganda fascista “Camicia nera” del 1933)» ricorderà il comunista Lucio Lombardo Radice, figlio del pedagogista Giuseppe.

Più in particolare, il film descrive un’Italia popolata dai dialetti di diverse regioni e dagli esponenti di tutte le classi sociali.

Lorenzo Catania

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