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Risorgimento Firenze

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Focus

Non ci verrà mica in mente di cancellare quel vecchio colonialista di Mazzini?

20/05/2023 da Sergio Casprini

Giovanni Belardelli Il Foglio Quotidiano18 maggio 2023

In America almeno un paio di Padri fondatori – Thomas Jefferson e Alexander Hamilton – sono stati colpiti negli ultimi tempi dagli strali della cancel culture per aver impiegato schiavi (cosa che, come è noto, all’epoca non era un reato). In Gran Bretagna, qualche mese fa, un sondaggio ha segnalato che solo un quinto dei giovani ha un’opinione positiva di Winston Churchill, considerato da molti di loro soprattutto un razzista e un colonialista. Da noi questo genere di discorsi, per fortuna, sembra non aver ancora attecchito, probabilmente perché non abbiamo, come in Gran Bretagna o negli Stati Uniti, una altrettanto significativa presenza di discendenti di schiavi o comunque di popolazioni che in passato sono state colonizzate (già in Francia la situazione è diversa perché questa presenza c’è ed è importante). Ma proviamo a giocare d’anticipo e a immaginare cosa accadrebbe se applicassimo anche all’Italia i criteri della cancel culture, se “decolonizzassimo” la nostra storia come si fa nel mondo anglosassone bandendo chi in passato abbia anche solo accettato il colonialismo.

Per non essere da meno degli americani, prendiamo anche noi un indiscusso padre della patria, Giuseppe Mazzini. Disinteressiamoci per un momento di tutte le cose buone che ha fatto (ne avevano fatte non poche, del resto, anche Jefferson, Hamilton, Churchill e tanti altri) e occupiamoci di ciò che pensava del colonialismo. Ebbene, ne dava un giudizio decisamente positivo. Questo può sembrare strano, visto che fu uno dei massimi teorici dell’autodeterminazione dei popoli e che vagheggiava un’umanità (con la maiuscola) composta di nazioni libere e indipendenti, tra loro associate secondo un disegno di collaborazione dei popoli che aveva per lui il crisma di un comandamento divino. È vero però che, per Mazzini il concetto di Umanità era sostanzialmente equivalente al concetto di Europa, considerata la “leva del mondo”, cioè la protagonista del processo di civilizzazione. E proprio il colonialismo europeo era a suo avviso uno degli strumenti di espansione della civiltà. Lo scrisse nel 1871, un anno prima della morte, in un testo generalmente escluso dalle antologie dei suoi scritti e che viene spesso valutato (e ignorato) alla stregua di una momentanea défaillance. Ma non è così, non si trattava affatto di un giudizio estemporaneo visto che fin dagli anni Trenta Mazzini aveva considerato le conquiste coloniali come il prodotto dello stesso spirito rivoluzionario che attraversava l’intera Europa provocando rivolgimenti politici, sociali, nazionali e che imponeva anche di piantare “la bandiera dell’incivilimento europeo sulle spiagge africane”. Mazzini credeva fermamente in un futuro “affratellamento di tutte le razze”, ma dopo che ciascuna fosse stata portata nell’alveo della civiltà anche grazie al colonialismo europeo.

Le conquiste coloniali rappresentavano un passaggio epocale così importante da indurlo a giustificarne almeno in parte gli aspetti violenti. Fino a un certo punto, ovviamente. Nel 1845, scrivendo alla madre, ne condivideva il giudizio di condanna delle “infamie” compiute dai francesi in Algeria: era appena avvenuto uno dei tanti eccidi che abbiamo dimenticato (o forse non abbiamo mai conosciuto), lo sterminio dei componenti di un’intera tribù – uomini, donne e bambini – soffocati dalle fiamme e bruciati vivi nelle grotte dei monti Dahra, dove si erano rifugiati. Mazzini considerava fatti del genere orribili e infami, anche perché tradivano quella missione di civiltà di cui era convinto: “Io credo che l’Europa sia provvidenzialmente [cioè per volere della Provvidenza] chiamata a conquistare il resto del mondo all’incivilimento progressivo”. Non dovrebbe stupire allora che, nel suo scritto del 1871 di cui si diceva, esortasse anche l’Italia a impegnarsi nelle conquiste africane: “Nel moto inevitabile che chiama l’Europa a incivilire le regioni africane, come Marocco spetta alla Penisola iberica e l’Algeria alla Francia, Tunisi […] spetta visibilmente all’Italia”. Un’Italia che si doveva anzi affrettare, secondo lui, perché non vi arrivassero prima i francesi (come invece poi accadde).

Dovremmo dunque “cancellarlo” anche noi dalla nostra storia per valutazioni del genere? Ovviamente sarebbe assurdo perché le sue idee sul colonialismo erano allora diffuse tra liberali, democratici e perfino socialisti. E proprio certe sue affermazioni sull’espansione dell’Europa fuori dai suoi confini ci aiutano a capire come la storia sia cosa diversa da certe ricostruzioni in bianco e nero che vengono diffuse oggi, con l’intenzione di “correggere” il passato epurandolo da quelli che sono ritenuti i “cattivi”, e magari erano solo (come è ovvio) uomini del loro tempo. Il Mazzini che esortava gli europei a conquistare l’africa era infatti lo stesso che difendeva libertà e indipendenza delle nazioni come principio di un nuovo ordine internazionale, esercitando un’influenza vasta e duratura. Il presidente americano Woodrow Wilson, grande fautore del principio di autodeterminazione dei popoli, recandosi a Parigi nel 1919 per la conferenza di pace, passò da Genova per deporre una corona di fiori sul monumento a Mazzini. Alle idee di quest’ultimo si richiamarono molti esponenti indipendentisti dei vari continenti e fra essi lo stesso Gandhi, leader dell’indipendenza di un paese – l’india – la cui colonizzazione Mazzini aveva giudicato positiva. Ma la storia è fatta di questi chiaroscuri, di processi complessi e contraddittori.

1939. Mappa delle colonie europee in Africa

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STORIA DI RAMELLI E DANTE DI NANNI

25/03/2023 da Sergio Casprini

LETTERE al Corriere della Sera 25 marzo 2023

Caro Aldo, non crede che stia emergendo sempre più una deriva violenta in quello che non voglio chiamare antifascismo ma utile idiotismo? La plateale contestazione alla sottosegretaria del ministero dell’Istruzione e del merito a Milano mentre commemorava l’assassino di Sergio Ramelli non ne è forse la conferma? «Utile idiota», d’altronde, è una definizione storicamente nata all’interno della sinistra e che quindi ben si adatta a questo genere di contestatori. Ricordando sempre che se «tutti i democratici sono antifascisti non tutti gli antifascisti sono democratici». Mario Taliani, Noceto

Caro Mario, Sergio Ramelli fu ammazzato quando non aveva ancora 19 anni e non aveva fatto nulla di male. Non c’è niente di antifascista in quell’orrendo delitto. Non c’è niente di antifascista nel contestare chi giustamente tiene viva la memoria di quel ragazzo e la condanna dei suoi assassini. L’antifascismo è il colonnello Montezemolo che tace sotto le torture e prima di essere ucciso dai nazisti con un colpo alla nuca grida «Viva l’Italia». L’antifascismo è il tenente dei carabinieri Genserico Fontana che alle Fosse Ardeatine conforta la moglie che le SS obbligano ad assistere all’eccidio: «Coraggio cara, siamo uomini e siamo italiani, dobbiamo affrontare il destino da uomini e da italiani». L’antifascismo è don Pietro Pappagallo cui viene offerto di avere salva la vita ma sceglie di morire con gli altri 334 martiri, tentando con le mani legate di impartire loro l’estrema unzione. L’antifascismo però è anche Dante Di Nanni, il gappista comunista che asserragliato in una casa di Torino resiste fino all’ultima cartuccia, poi per non essere preso vivo si getta nel vuoto dopo aver salutato la folla con il pugno chiuso e gridato, anche lui, «Viva l’Italia». Per questo, gentile signor Taliani, dire «tutti i democratici sono antifascisti ma non tutti gli antifascisti sono democratici» è una brillante formula perfetta per discutere oggi nei talk show, ma uno scioglilingua privo di spessore umano e significato politico quando c’era da decidere da quale parte stare: se con quelli che portavano gli ebrei ad Auschwitz, o contro quelli che portavano gli ebrei ad Auschwitz.

Aldo Cazzullo

Giardino Sergio Ramelli a Milano

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Le case editrici perdute nella Firenze di Palazzeschi e Papini

09/02/2023 da Sergio Casprini

Aldo Palazzeschi

Il «gatto» di Palazzeschi, la libreria stamperia di Lumachi, talent scout di Prezzolini e Papini, i Fratelli Stianti

Luca Scarlini Corriere Fiorentino 8 Febbraio 2023

In principio fu il gatto. Ossia l’immortale Cesare Blanc, a cui il giovane Aldo Giurlani, spinto dai genitori borghesi al cambiamento del nome in Palazzeschi, dedicò dal 1910 la casa editrice immaginaria che ebbe il nome del felino, per pubblicare le sue prime poesie e prose. Poi venne Filippo Tommaso Marinetti, che mise sotto i colori del Futurismo l’autore de Le sorelle Materassi, ma proprio sotto il segno del gioco e dello sberleffo si segnalava una città fatta di case editrici in buona parte tramontate e spesso dimenticate.

Casa editrice Bibliohaus

A Firenze all’inizio del secolo trascorso era in primo piano la libreria-stamperia Lumachi che mise il suo nome su proposte innovative di cultura (alla sua avventura ha dedicato da poco una bella monografia Giovanna Grifoni, edita da Biblohaus nel 2021). Fu Francesco Lumachi il primo a dare spazio ai rinnovatori della cultura della città, Giuseppe Prezzolini e Giovanni Papini (che per un certo tempo seguendo l’esempio di Palazzeschi mise alla luce trattati e testi antichi con il marchio SELF nel suo domicilio), al tempo della proposta idealista del Leonardo. Quest’ultimo pubblicò con questi tipi la raccolta più importante dei suoi racconti, Il tragico quotidiano, che entusiasmò Borges e che da poco è stato riproposto da Clichy nel quadro dell’edizione complessiva dei Racconti.

Francobollo anno 2003

Sono proprio Giuliano il Sofista e Gian Falco che propongono al dinamico stampatore Attilio Vallecchi di diventare il tipografo delle edizioni della La Voce, che subito diventa anche una libreria nel complesso di Palazzo Davanzati, edificio assai male in arnese prima dei restauri all’inizio del secolo. La pubblicazione periodica, tra letteratura, politica e filosofia, catalizza l’attenzione della cultura nazionale, i quaderni, spesso di soggetto polemico, escono a getto continuo, come anche le pubblicazioni di poeti e prosatori, spesso determinanti per la cultura nazionale, che sono poi destinati a grandi successi. Il marchio Vallecchi, nato nel 1913, ha avuto enorme importanza fino agli anni Settanta, poi ci sono stati fallimenti e revisioni, con una struttura che esiste ancora oggi in un nuovo assetto. Gli anni d’oro saranno quelli dalla Prima Guerra in poi, i nomi sono quelli della letteratura italiana: Palazzeschi, Papini, Rebora, Landolfi e chi ne ha più ne metta.

 In città tale era l’attività che molte erano le attività editoriali di tipi non prevedibili: i tipografi Fratelli Stianti di San Casciano (che stampavano non pochi dei libri di cui parliamo), raccontata da Marino Parenti, era notevole nel proporre un mix di letteratura e manuali della coltura della terra e della vinificazione. Nel 1932 il ristorante dell’Antico Fattore, a cui è stato legato un longevo premio letterario pubblicava l’autore che quell’anno aveva ottenuto il riconoscimento, Salvatore Quasimodo, con la raccolta Odore di Eucalyptus.

Galleria L‘Indiano

Numerose anche le gallerie d’arte editrici, come l’Indiano, legato a uno scrittore notevole e da tempo poco frequentato, se non dimenticato, Piero Santi o Tecne, che negli anni 60-70 pubblicava i vivaci episodi della poesia visiva (da Lucia Marcucci, a Luciano Ori, a Lamberto Pignotti per citare solo alcuni nomi), che trovavano anche udienza presso la Libreria Feltrinelli di via Martelli, centro di mostre e performance, che stampava anche volumi di neoavanguardia, o invece testi impegnati di memoria dell’antifascismo e della resistenza (come la biografia del comandante partigiano Potente, opera di Gino e Emirene Varlecchi, con prefazione di Sebastiano Timpanaro, 1975). Non mancavano nemmeno esperienze di editoria nella moda, come quelle avallate dalla geniale «sarta intellettuale» Germana Marucelli che finanziava a Milano concorsi di poesia, e che chiese a Fernanda Pivano di scrivere la sua biografia.

Tra i molti nomi che non ci sono più sono in evidenza nella saggistica La Nuova Italia, fondata dalla coppia Elda Bossi-Giuseppe Maranini negli anni 20 e poi diretta da Ernesto Codignola (nonno di Roberto Calasso, che da questa esperienza trasse varie ispirazioni) che ebbe un ruolo centrale nelle edizioni di studio (da Werner Jaeger a Delio Cantimori, passando per Aby Warburg e Franco Cardini, con una attenzione particolare alla cultura classica e ai temi di studi del Rinascimento) come anche nelle proposte della didattica.

Nettissimo anche il profilo nella produzione narrativa delle Edizioni di Solaria, legate alla rivista omonima, fondata nel 1926 e diretta poi da Giansiro Ferrata e Alessandro Bonsanti. Gli esordi e le presenze di qualità sono abbaglianti: Carlo Emilio Gadda, Cesare Pavese, Elio Vittorini senza scordare la presenza di Umberto Saba.

Insomma, un carnevale, una giostra, un panopticon e una vertigine, che qui si riassume solo per sommi capi e che racconterò domenica 26 febbraio  in forma di spettacolo a Testo, il Salone del libro alla Stazione Leopolda , con immagini di opere spesso rarissime. Una storia, quindi, ricchissima e piena di sorprese, che è ancora largamente da ricostruire, e a cui dedicherò ulteriori approfondimenti.

Fratelli Stianti San Casciano

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Quei ragazzacci delle riviste

03/02/2023 da Sergio Casprini

Giovanni Papini foto di Mario Nunes Vais

Anticonformisti, artefici di un libero pensiero senza limiti: 120 anni fa con «Il Leonardo» di Papini e Prezzolini iniziava una stagione che fece di Firenze crocevia di cultura fuori dagli schemi

Mario Bernardi Guardi Corriere Fiorentino 31 gennaio 2023

Gran fioritura di effervescenze multicolori quella del Primo Novecento Fiorentino. Dal 1903 fino alla Grande Guerra sono anni di insonne creatività, con un pugno di ragazzi che, tra manifesti, proclami, sfide, scoperte, provocazioni, danno l’assalto al cielo, rivoluzionano la cultura, chiamandola vigorosamente a tutti gli appuntamenti con l’attualità e con la storia. E si tratta davvero di ragazzi perché quando il 4 gennaio del 1903, partono gli squilli di battaglia con l’uscita del primo numero di Leonardo, i promotori dell’impresa, Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini, hanno 22 e 21 anni. I due, che assumono gli pseudonimi rispettivamente di Gian Falco e di Giuliano il Sofista, si dichiarano pagani, individualisti, vogliosi di universalità, «nemici di ogni forma di pecorismo nazareno e di servitù plebea», alfieri della bellezza e di un libero pensiero inteso a varcare ogni limite. La rivista esce in fascicoli di otto pagine, con scadenza irregolare, si fregia delle incisioni del dannunziano Adolfo De Carolis, ha tra i collaboratori altri giovani dal multiforme ingegno come il palermitano «intoscanito» Giovanni Antonio Borgese, e Ardengo Soffici  di Poggio a Caiano.

Ardengo Soffici Foto di Mario Nunes Vais

Soffici fa il bohémien a Parigi dove frequenta tutta l’avanguardia artistica, con Apollinaire, Max Jacob e Pablo Picasso e invia articoli con lo pseudonimo di Saint Cloud. Per cinque anni il Leonardo è tutto un ribollire di spiriti antipositivisti, di appelli contro il passatismo e le accademie: i contrassegni sono D’Annunzio e Nietzsche. Ma nel 1907 la tensione si allenta e la rivista chiude i battenti. Perché? Perché, spiegano Gian Falco e Giuliano il Sofista, non ce l’abbiamo fatta a «scoprire uomini, svegliare e trasformare anime, trovare giovini che fossero per noi compagni e schermidori e non pappagalli male ammaestrati».

La diana dell’italica riscossa contro la minaccia della sovversione socialista e la viltà della borghesia liberale, la fa risuonare un altro intellettuale fiorentino, Enrico Corradini — 38 anni — che, il 29 novembre 1903, fa uscire il primo numero de Il Regno. Tra i collaboratori i leonardiani Papini e Prezzolini che tuonano contro il parlamentarismo e la politica giolittiana. Anche qui si respira un’aura dannunziana: l’avvenire nell’Italia è sul mare. Solo che, contrariamente al francofilo Vate, Corradini è a favore della Triplice Alleanza e vede nei cugini d’Oltralpe gli insidiatori del nostro espansionismo nel Mediterraneo. E se Il Regno chiude nel 1906, lui procede spedito e nel 1910, è tra i fondatori dell’Associazione Nazionalista Italiana.

Ma se è bello e giusto far politica, nel santo nome dei destini d’Italia, i giovani fiorentini non scordano certo la letteratura. La esaltano — pura, raffinata, aristocratica— i nazionalisti Corradini e Papini, firmando articoli per Hermes, fondata da Borgese nel gennaio 1904 (durerà fino al luglio 1906), col proposito di guerreggiare contro razionalisti, materialisti e positivisti, in nome di un appassionato idealismo e delle forme più alte del sapere. Tutta un figliar di idee, manifesti, programmi, questa Firenze primonovecentesca.

Giuseppe Prezzolini

Troppi propositi, però, rischiano di diventare spropositi. Se ne accorge Prezzolini che il 20 dicembre 1908 fonda La Voce. E parla subito chiaro. Non abbiamo bisogno di geni ma di persone di carattere. In Italia non manca il cervello, «ma si pecca perché lo si adopera per fini frivoli e bassi». Piuttosto che inneggiare alla rivoluzione, parliamo di riforme, di educazione, di miglioramenti nelle istituzioni, nella società, nella scuola, diamo spazio al dibattito, alle energie nuove che vengono fuori nella cultura e nella politica, al giudizio contro il pregiudizio. A crederci è il fior fiore della cultura: saranno «vociani» Papini, Soffici, Slataper, Murri, Amendola, Salvemini, Serra… E anche Mussolini, allora agitatore socialista, che, nel 1909, segretario della camera del Lavoro di Trento, si darà un gran daffare per diffondere la rivista e che, per i Quaderni della Voce, pubblicherà Il Trentino visto da un socialista.

Tante le polemiche di marca vociana, tante le scoperte e l’impegno di promozione culturale. Un occhio speciale per le avanguardie poetiche e artistiche con gli articoli di Soffici su Courbet, Picasso, Braque ecc., la pubblicazione di un «Quaderno» dedicato a Rimbaud, l’allestimento nel ’12 della prima mostra italiana sull’Impressionismo con opere di Cezanne, Degas, Renoir, Monet, Pizarro, Gauguin, Van Gogh, e 17 sculture di Medardo Rosso. E tante le stagioni vociane, irrorate di litigi, polemiche, distinguo, fino alla chiusura, nel ’16.

Il fatto è che Prezzolini ci tiene ormai ad essere un educatore, dallo sguardo alto e profondo; i suoi numi tutelari sono ormai Croce e Gentile, col contrassegno dell’idealismo militante, mentre Papini e Soffici non hanno smarrito la vocazione eretica e ribellistica. Tanto che il primo gennaio del ’13 hanno battezzato Lacerba, un foglio quindicinale nemico del buon senso, del moralismo, del riformismo, e programmaticamente «urtante e spiacevole». E fieramente avanguardista, con una memorabile copertina disegnata da Picasso. E visto che quattro anni prima è stato lanciato il Manifesto Futurista di Filippo Tommaso Marinetti, loro lo reinventano, lo estremizzano, spernacchiano religione, borghesia, democrazia e pubblicano il Programma Politico Futurista che è un «al di là della destra e della sinistra» portato al massimo, «vanno in guerra» prima che la guerra scoppi. Il 22 maggio del ’16 esce l’ultimo numero. E via, tutti al fronte. Poi ognuno continuerà a suo modo a scriver la storia dell’intelligenza fiorentina: quindici anni di giovinezza, mai vissuta così bene.

Lacerba, anno II, n.15 1°agosto1914

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È GIUSTO CHE DANTE RIPOSI A RAVENNA

23/12/2022 da Sergio Casprini

La tomba di Dante a Ravenna

LETTERE AL CORRIERE DELLA SERA

23 dicembre 2022

Caro Aldo, mi chiedo come mai Firenze e i fiorentini non rivendichino il diritto e non avvertano il dovere di reclamare le ceneri di Dante. Sarebbe, a mio parere, il reclamo dei reclami e la traslazione delle traslazioni. Ravenna permettendo, Firenze avrebbe una ragione in più (e che ragione!) di attirare orde di visitatori. Non quelli con la consueta bottiglietta di minerale in mano, bensì quelli con la Divina Commedia in mano. Mansueto Piasini

Caro Mansueto, Io invece trovo giusto che Dante riposi a Ravenna, dove fu accolto e dove morì. A Firenze tutto parla di lui; non serve aggiungere un sarcofago per alimentarne la memoria. Tutti giustamente collegano Dante alla sua città, da cui trasse la lingua viva che parliamo ancora adesso. Ma Dante è anche il grande poeta della nazione italiana. Per lui l’Italia non era uno Stato (credeva nell’Impero, l’Europa di allora); era un patrimonio di idee, valori, bellezza, cultura. Dante ha vissuto a lungo in Romagna, e l’ha amata.

E la Divina Commedia è anche un viaggio in Italia. Dante descrive posti che conosce bene, come la Romagna: c’è un dannato, Guido da Montefeltro, che gli chiede notizie della Romagna, e Dante gli fa una rassegna delle città romagnole, Ravenna, Rimini, Cervia, Forlì, Faenza, Cesena, Imola, che comincia così: «Ravenna sta come sta è molt’anni»; a Ravenna non cambia mai nulla. Ma Dante descrive con altrettanta maestria anche posti in cui non è mai stato. Come la Sicilia, che ama perché è la terra della poesia, della scuola siciliana: la chiama la bella Trinacria, descrive l’Etna — lo chiama Mongibello, con il nome arabo con cui ancora adesso lo chiamano i siciliani —, e lo stretto di Messina, Scilla e Cariddi. Dante traccia proprio i confini d’Italia. Lo fa nel decimo canto, quello di Farinata degli Uberti. Qui sono puniti gli eretici, chiusi dentro sepolcri. Per dare un’idea del paesaggio infernale, Dante lo paragona a due sepolcreti. Uno ad Arles, in Provenza, ai confini occidentali dell’Italia, sorto secondo la leggenda in una notte per dare sepoltura ai cavalieri cristiani caduti combattendo contro gli infedeli.

L’altro a Pola, nel golfo del Quarnaro, «che Italia chiude e i suoi termini», i suoi confini, «bagna». Questo è un verso citato da generazioni di irredentisti: trentini, triestini, giuliani, istriani, dalmati, che erano sudditi austriaci ma italiani di lingua e di cuore, e si battevano per innalzare statue a Dante, e per aprire scuole italiane da intitolare a Dante. Aldo Cazzullo

IL cenotafio di Dante a Santa Croce a Firenze

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Il popolo del Risorgimento nel film di Blasetti

13/11/2022 da Sergio Casprini

 

Lettera al Corriere della Sera 12 novembre 2022

 

Aldo Cazzullo in un suo articolo sul Corriere della Sera, dice bene: «Non è vero che nel Risorgimento non ci sia il popolo».

Istruttiva risulta in questo senso la visione del film di Alessandro Blasetti «1860», che pure racconta una vicenda romanzata sullo sfondo storico del Risorgimento: il giovane pastore e patriota siciliano Carmeliddu, sposato con Gesuzza, deve lasciare la sua donna per raggiungere il continente e qui sollecitare Giuseppe Garibaldi ad attuare lo sbarco dei Mille in Sicilia. Per realizzare il film, Blasetti legge Noterelle di uno dei Mille di Giuseppe Cesare Abba, compulsa la bibliografia prodotta per il cinquantenario della morte di Garibaldi, le carte depositate presso gli archivi di Napoli e Palermo, utilizza come fonti iconografiche il libro di Gustavo Sacerdote Mode, costumi, divise borboniche e i quadri dei pittori Girolamo Induno e Silvestro Lega.

Nasce così il film «1860» che, prodotto nel 1933, appare nelle sale nel 1934 e poi verrà rieditato nel 1951 in versione ridotta con il sottotitolo «I Mille di Garibaldi». A dispetto dell’omaggio al fascismo quando sostiene la tesi della continuità Risorgimento-Grande Guerra-Fascismo e stabilisce una somiglianza tra la figura di Garibaldi e quella di Benito Mussolini, «1860» è un film antiretorico e poco celebrativo. Non dispiacque infatti alla gioventù intellettuale antifascista: «Fummo il pubblico che batteva le mani a “1860” di Blasetti e che fischiava Forzano (regista del film di propaganda fascista “Camicia nera” del 1933)» ricorderà il comunista Lucio Lombardo Radice, figlio del pedagogista Giuseppe.

Più in particolare, il film descrive un’Italia popolata dai dialetti di diverse regioni e dagli esponenti di tutte le classi sociali.

Lorenzo Catania

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L’eredità di nonna Lisa che amava il tricolore

09/11/2022 da Sergio Casprini

LETTERE AL CORRIERE DELLA SERA

9 novembre 2022

Avrebbe compiuto 111 anni Luisa Zappitelli, «nonna Lisa» per tutti: era nata l’8 novembre 1911 a Villa Seminario di Città di Castello. Se ne è andata il 19 giugno 2021, pochi giorni dopo le celebrazioni del 2 giugno, Festa della Repubblica, che lei aveva impressa nel cuore come data simbolo del calendario della vita accanto al 25 Aprile, all’8 marzo e al Primo Maggio, festa dei lavoratori. Anche in quella occasione dalla finestra di casa accanto alla figlia Anna Ercolani, professoressa in pensione, omaggiata da un indimenticabile concerto improvvisato sul giardino dal maestro Fabio Battistelli e dalla musica del suo clarinetto ispirata all’Inno di Mameli, aveva baciato il tricolore  e appoggiato la guancia su di esso a testimoniare tutto il suo amore per la Patria. «Quella immagine è la sintesi della sua vita — racconta la figlia Anna —, la mamma è stata e sarà sempre una donna straordinaria che lascia in particolare ai giovani una eredità importante. È l’immagine dei momenti belli e brutti, delle conquiste sociali, del primo voto nel 1946 con alcune amiche, delle passioni, dell’amore per la vita e la famiglia. La mamma, per tutti nonna Lisa è stata questo e tanto altro e lo sarà spero anche in futuro per le giovani generazioni per i valori e i sentimenti per la patria e le regole, anche quelle stradali, come il casco da indossare e i limiti di velocità da rispettare. E poi l’amore innato e ammirazione verso il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per lei e per noi da sempre punto di riferimento da seguire fino agli ultimi istanti di vita. Così e per sempre la vogliamo ricordare».
Giorgio Galvani

 

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PATRIA, NAZIONE, NAZIONALISMO

11/10/2022 da Sergio Casprini

Patria e Nazione non coincidono

 Livio Ghelli 

Iniziamo dalle parole:

Patria, sostantivo femminile, è l’ambito territoriale, di tradizioni e cultura cui si riferiscono le esperienze affettive, morali, politiche di un individuo in quanto appartenente a un popolo.

Patriottismo, sostantivo maschile, è il sentimento di amore e devozione verso la patria. Patriota, sostantivo maschile e femminile, significa amante della patria e pronto a lavorare e lottare per essa.

Nazione è, o forse era, qualcosa di un po’ diverso dalla patria: definiva un complesso di individui legati da una stessa lingua, da una stessa storia, da una stessa civiltà, dagli stessi interessi, in antico anche da una stessa religione imposta dal sovrano.

Dunque, Patria e Nazione non coincidono. Un esempio: nella nostra penisola da secoli vivono comunità di lingua albanese, greca, ladina, francese, tedesca, slovena. Sono circa due milioni e mezzo di italiani, con una lingua madre diversa dall’italiano. Senza contare la comunità Rom. Ovviamente tutti imparano l’italiano a scuola e la loro patria è l’Italia. Ma la loro identità, le loro radici, parole, canzoni, cibo, danze, preghiere affondano –dovrei dire affondavano, oggi siamo tutti omologati- in una terra diversa di cui conservano il ricordo. Altro esempio: un altoatesino può battersi con valore per difendere la patria italiana anche se la sua lingua madre è il tedesco.

Il fascismo, a suo tempo, intervenne con ferocia per italianizzare forzatamente questi cittadini di lingua e tradizioni diverse: divieto assoluto di esprimersi nella propria lingua, cognomi e nomi di luoghi sostituiti con nomi italiani, monumenti e simboli nazionali distrutti, maestri locali licenziati, bastonature, fucilazioni, campi di concentramento di cui pochissimo si sa.  Mi riferisco al periodo tra le due guerre, dal 1918 al 1940, e ad una repressione iniziata da governi sedicenti liberali già prima dell’affermarsi della dittatura, che poi fece di peggio.

Situazioni analoghe, di nazionalità diverse in una patria comune, le troviamo sia in Europa che in tutti gli Stati del Mondo: Irlandesi, Gallesi, Scozzesi, Inglesi nel Regno Unito, Fiamminghi e Valloni in Belgio, Baschi e Catalani in Spagna, Indios dell’Amazzonia in Brasile, Quechua e Aimara in Perù. Conflitti sono nati, spesso, tra lo Stato che considerava queste minoranze con lingue e culture diverse, al proprio interno, come corpi estranei, da assimilare, o assoggettare, o anche distruggere. In nome dell’unità della Nazione.

Bisognerebbe invece riuscire a creare una identità comune a tutti i gruppi etnici, linguistici, religiosi e regionali in modo che si sentano parte della stessa comunità politica: tutti, nessuno escluso, e senza che un determinato gruppo etnico o sociale mantenga le posizioni di potere e di comando a spese degli altri. La costruzione della Nazione richiede giustizia e uguaglianza assolute. E altre cose: la solidarietà di tutti, il consenso generale sui valori fondamentali, l’accettazione dell’unità nella diversità… Un lavoro immenso. Massimo d’Azeglio, consapevole, diceva: “Fatta l’Italia bisogna fare gli Italiani”.

Vorrei terminare con Rousseau: “Soltanto in democrazia lo Stato è veramente la patria di tutti gli individui che lo compongono e può contare su tanti difensori interessati alla sua causa quanti sono i suoi cittadini.” Uno stato democratico, appunto. Ma quanti sono al mondo gli stati veramente democratici? E le garanzie democratiche, il diritto ad avere diritti, valgono per i soli cittadini, o valgono, come sarebbe giusto, per tutti compresi i migranti, gli esuli, i senza patria? Perché è questo il punto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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IL DISPREZZO PER IL RISORGIMENTO È DISPREZZO PER NOI STESSI

25/09/2022 da Sergio Casprini

LETTERE       

Corriere della Sera  23 settembre 2023

Caro Aldo, il 20 settembre presso la breccia di Porta Pia si è svolta come ogni anno una cerimonia commemorativa. I bersaglieri di Cadorna nel 1870 invasero lo Stato Pontificio con le armi in pugno e lo conquistarono con la motivazione che era parte dell’Italia. Per giustificare agli occhi del mondo l’annessione armata di uno Stato straniero legittimamente esistente il Regno d’Italia indisse subito un plebiscito locale che ratificò l’annessione a maggioranza dei votanti. Oggi la Russia sta facendo qualcosa di simile. Ha invaso le province russofone dell’Ucraina, sostenendo che appartengono territorialmente e linguisticamente alla Russia. E ora si appresta a indire un referendum locale per ratificare l’annessione armata. Ma noi applaudiamo i bersaglieri e critichiamo la Russia. Lei che ne pensa? Mauro Martini

Caro Mauro, Non vorrei mai ricevere lettere come la sua. Purtroppo sono numerose. Il Risorgimento — quest’epopea meravigliosa che ispirò Alessandro Manzoni e Giuseppe Verdi, che fece discutere personaggi della statura di Mazzini, Gioberti, Cattaneo, Cavour, che vide lo slancio di volontari di tutta Italia, che fece di Garibaldi l’uomo più famoso del mondo — è il periodo più odiato della storia d’Italia. Da tempo è senza padri: né i democristiani né i comunisti sapevano cosa farsene. Poi sono arrivati i leghisti, che volevano dividere l’Italia, e i loro fratelli neoborbonici, convinti che i mali del Sud siano solo responsabilità del Nord, e quindi non ci si possa fare nulla.

L’odio per il Piemonte e lo spappolamento culturale della città che fu di Gramsci e Gobetti, Einaudi e Bobbio, hanno fatto il resto. Ma non è solo questo. C’è di mezzo il disprezzo degli italiani per se stessi. E l’idea, teorizzata da Francesco Cossiga, per cui gli italiani sono sempre gli altri.

Ma come si fa, gentile signor Martini, a paragonare i soldati italiani — non piemontesi; italiani — che entrarono in Roma ai soldati russi che hanno invaso l’Ucraina? A Roma nessuno venne torturato, nessuno fu violentato, nessuno fu gettato in una fossa comune con le mani legate dietro la schiena. Legga cosa scrive un cronista d’eccezione, Edmondo De Amicis. I soldati italiani entrarono nella città eterna intimoriti e ammirati: quasi nessuno era mai stato a Roma in vita sua (a proposito, la proposta molto criticata di rendere obbligatoria una gita scolastica a Roma è invece giusta, perché anche adesso molti ragazzi del Nord e del Sud non sono mai stati a Roma in vita loro).

Pio IX — sempre Cossiga disse che la sua beatificazione era uno schiaffo del Vaticano all’Italia — aveva scelto di difendere con le armi, sia pure simbolicamente, il potere temporale dei Papi. Ma la perdita del potere temporale è stata una fortuna per il Papa, che anche per questo ora è leader spirituale e universale. Il 20 settembre segna la fine dell’Ancien Régime, dei ghetti e delle forche, della tortura e del foro ecclesiastico, e l’inizio della scuola laica, delle libertà civili, dell’uguaglianza di fronte alla legge. Non esiste un Paese al mondo in cui l’unificazione nazionale e il ricongiungimento della capitale con la patria siano considerate sciagure.

Lettere come la sua, gentile signor Martini, mi inducono a pensare che avesse ragione de Gaulle, quando diceva che l’Italia non è un Paese povero, è un povero Paese. Aldo Cazzullo

Edmondo De Amicis

 

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Decennio dopo decennio, Elisabetta è diventata la Marianne britannica

19/09/2022 da Sergio Casprini

Giovanni Belardelli

  • Il Foglio Quotidiano 17 settembre 2022
  • Subito dopo la morte di Elisabetta II più d’uno ha richiamato il celebre volume di Ernst Kantorowicz I due corpi del Re (Einaudi).

In estrema sintesi, il libro analizza l’idea, che si afferma a partire dalla teologia politica medievale, secondo la quale il sovrano possiede, oltre a un corpo naturale destinato ad ammalarsi e a morire, anche un corpo politico che gli sopravvive poiché rappresenta la perennità del potere sovrano. La formula che tutti conosciamo “il re è morto, viva il re” evidenzia questa indipendenza della sovranità dalla vita di un certo particolare sovrano. Bene, il rinvio al libro di Kantorowicz, tanto più alla morte di colei che l’opinione globale sente essere l’ultima vera regina, è molto suggestivo. Ma anche del tutto sbagliato.

Quel discorso sui “due corpi del re” valeva per l’antico regime, quando l’autorità sovrana coincideva con l’esistenza stessa della nazione: Luigi XV, re di Francia, affermò per esempio nel 1766: “Il mio popolo esiste solo attraverso la sua unione con me; i diritti e gli interessi della nazione […] risiedono unicamente nelle mie mani”. E’ necessario dunque, possiamo aggiungere, che la regalità sia immortale perché lo stesso popolo francese, che esiste solo in unione con il re, possa sopravvivere al fatto contingente della morte di quest’ultimo. Non molti anni dopo, però, doveva cambiare tutto.

La testa di Luigi XVI cadeva sotto la lama della ghigliottina il 21 gennaio 1793, ma il corpo immortale del re si era già dissolto da qualche tempo. Con la Rivoluzione francese, infatti, l’unione tra monarchia e popolo si era spezzata e la sovranità si era trasferita dal primo al secondo: il popolo diventava il vero sovrano. Per la verità l’art. 3 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino sosteneva che “ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione”, non dunque nel popolo; questo avveniva per l’intenzione di evitare i rischi di una democrazia radicale e aprire la strada a un sistema rappresentativo non ancora a suffragio universale. Ma la piena affermazione della sovranità popolare era un esito inarrestabile (“La sovranità risiede nel popolo”, proclamava la nuova Dichiarazione del 1793) e nazione e popolo sarebbero diventati sinonimi. Da allora, nelle democrazie, a possedere un corpo incorruttibile, che dunque non muore (anche se forse si ammala, come mostrano tante vicende contemporanee: ma questo è un altro discorso), a non morire – dicevo – è il popolo come entità collettiva e se vogliamo mistica, poiché non coincide con la semplice somma dei cittadini che lo compongono. I re costituzionali ormai, anche quando sono circondati da un’ammirazione e un affetto globali come Elisabetta II, hanno un solo corpo, che subisce gli oltraggi del tempo e infine muore come quello di tutti noi.

Ma forse, fatta questa precisazione, c’è ancora qualcosa che resta da dire. Riandiamo un momento alla fine della peculiare immortalità del sovrano – del suo secondo corpo – che si verifica con la Rivoluzione francese. La nazione, che ora è diventata sovrana, si dota in molti paesi di una rappresentazione femminile che rimpiazza quella del corpo del re. Si tratta di una allegoria di donna che diventa celebre soprattutto in Francia. E in Francia ha avuto anche, da un certo punto in poi, un nome proprio, Marianne. Nel nuovo clima ottocentesco che vede al centro della vita associata la nazione, quasi tutti gli stati europei – sia quelli esistenti sia quelli che aspirano, come l’Italia, a esistere come paesi indipendenti e sovrani – si rappresentano attraverso allegorie femminili di questo tipo; si moltiplicano perciò le immagini di donna che raffigurano Germania, Italia, Francia, Svizzera e così via (compresi gli Stati Uniti). La nazione assume le sembianze femminili per tante ragioni, a cominciare dal fatto che una tale immagine rinvia alle capacità generatrici della donna, dunque alla fertilità e per analogia alla prosperità di tutta la collettività nazionale. La donna-nazione è un’immagine materna e protettiva (si parla della madre-patria), personifica la continuità di un paese al di là del cambiamento dei regimi politici, delle guerre e delle sconfitte, dei passaggi da una monarchia alla repubblica (o viceversa): rappresenta dunque la perpetuità dell’esistenza di una nazione, il suo “corpo” immortale.

Cosa c’entra con tutto questo la regina inglese appena scomparsa? C’entra, perché non è da escludere che una sovrana che ha regnato per un tempo incredibilmente lungo, riscuotendo un eccezionale successo in termini di simpatia e rappresentando per i suoi sudditi una figura materna e protettiva, simbolo dell’identità nazionale, sia diventata in qualche modo, decennio dopo decennio, l’allegoria femminile del suo paese. Avendolo accompagnato con equilibrio lungo una storia spesso complicata ha finito per essere una specie – viene da dire – di Marianne britannica. In questo senso, è vero che nessun re (e nessuna regina) hanno più da tempo il “secondo corpo” dei sovrani di antico regime.

Ma nell’immaginario dei suoi sudditi, e un po’ anche nel nostro, la sua immagine fa tutt’uno con quella del suo paese.

 

 

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