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Risorgimento Firenze

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Focus

È GIUSTO CHE DANTE RIPOSI A RAVENNA

23/12/2022 da Sergio Casprini

La tomba di Dante a Ravenna

LETTERE AL CORRIERE DELLA SERA

23 dicembre 2022

Caro Aldo, mi chiedo come mai Firenze e i fiorentini non rivendichino il diritto e non avvertano il dovere di reclamare le ceneri di Dante. Sarebbe, a mio parere, il reclamo dei reclami e la traslazione delle traslazioni. Ravenna permettendo, Firenze avrebbe una ragione in più (e che ragione!) di attirare orde di visitatori. Non quelli con la consueta bottiglietta di minerale in mano, bensì quelli con la Divina Commedia in mano. Mansueto Piasini

Caro Mansueto, Io invece trovo giusto che Dante riposi a Ravenna, dove fu accolto e dove morì. A Firenze tutto parla di lui; non serve aggiungere un sarcofago per alimentarne la memoria. Tutti giustamente collegano Dante alla sua città, da cui trasse la lingua viva che parliamo ancora adesso. Ma Dante è anche il grande poeta della nazione italiana. Per lui l’Italia non era uno Stato (credeva nell’Impero, l’Europa di allora); era un patrimonio di idee, valori, bellezza, cultura. Dante ha vissuto a lungo in Romagna, e l’ha amata.

E la Divina Commedia è anche un viaggio in Italia. Dante descrive posti che conosce bene, come la Romagna: c’è un dannato, Guido da Montefeltro, che gli chiede notizie della Romagna, e Dante gli fa una rassegna delle città romagnole, Ravenna, Rimini, Cervia, Forlì, Faenza, Cesena, Imola, che comincia così: «Ravenna sta come sta è molt’anni»; a Ravenna non cambia mai nulla. Ma Dante descrive con altrettanta maestria anche posti in cui non è mai stato. Come la Sicilia, che ama perché è la terra della poesia, della scuola siciliana: la chiama la bella Trinacria, descrive l’Etna — lo chiama Mongibello, con il nome arabo con cui ancora adesso lo chiamano i siciliani —, e lo stretto di Messina, Scilla e Cariddi. Dante traccia proprio i confini d’Italia. Lo fa nel decimo canto, quello di Farinata degli Uberti. Qui sono puniti gli eretici, chiusi dentro sepolcri. Per dare un’idea del paesaggio infernale, Dante lo paragona a due sepolcreti. Uno ad Arles, in Provenza, ai confini occidentali dell’Italia, sorto secondo la leggenda in una notte per dare sepoltura ai cavalieri cristiani caduti combattendo contro gli infedeli.

L’altro a Pola, nel golfo del Quarnaro, «che Italia chiude e i suoi termini», i suoi confini, «bagna». Questo è un verso citato da generazioni di irredentisti: trentini, triestini, giuliani, istriani, dalmati, che erano sudditi austriaci ma italiani di lingua e di cuore, e si battevano per innalzare statue a Dante, e per aprire scuole italiane da intitolare a Dante. Aldo Cazzullo

IL cenotafio di Dante a Santa Croce a Firenze

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Il popolo del Risorgimento nel film di Blasetti

13/11/2022 da Sergio Casprini

 

Lettera al Corriere della Sera 12 novembre 2022

 

Aldo Cazzullo in un suo articolo sul Corriere della Sera, dice bene: «Non è vero che nel Risorgimento non ci sia il popolo».

Istruttiva risulta in questo senso la visione del film di Alessandro Blasetti «1860», che pure racconta una vicenda romanzata sullo sfondo storico del Risorgimento: il giovane pastore e patriota siciliano Carmeliddu, sposato con Gesuzza, deve lasciare la sua donna per raggiungere il continente e qui sollecitare Giuseppe Garibaldi ad attuare lo sbarco dei Mille in Sicilia. Per realizzare il film, Blasetti legge Noterelle di uno dei Mille di Giuseppe Cesare Abba, compulsa la bibliografia prodotta per il cinquantenario della morte di Garibaldi, le carte depositate presso gli archivi di Napoli e Palermo, utilizza come fonti iconografiche il libro di Gustavo Sacerdote Mode, costumi, divise borboniche e i quadri dei pittori Girolamo Induno e Silvestro Lega.

Nasce così il film «1860» che, prodotto nel 1933, appare nelle sale nel 1934 e poi verrà rieditato nel 1951 in versione ridotta con il sottotitolo «I Mille di Garibaldi». A dispetto dell’omaggio al fascismo quando sostiene la tesi della continuità Risorgimento-Grande Guerra-Fascismo e stabilisce una somiglianza tra la figura di Garibaldi e quella di Benito Mussolini, «1860» è un film antiretorico e poco celebrativo. Non dispiacque infatti alla gioventù intellettuale antifascista: «Fummo il pubblico che batteva le mani a “1860” di Blasetti e che fischiava Forzano (regista del film di propaganda fascista “Camicia nera” del 1933)» ricorderà il comunista Lucio Lombardo Radice, figlio del pedagogista Giuseppe.

Più in particolare, il film descrive un’Italia popolata dai dialetti di diverse regioni e dagli esponenti di tutte le classi sociali.

Lorenzo Catania

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L’eredità di nonna Lisa che amava il tricolore

09/11/2022 da Sergio Casprini

LETTERE AL CORRIERE DELLA SERA

9 novembre 2022

Avrebbe compiuto 111 anni Luisa Zappitelli, «nonna Lisa» per tutti: era nata l’8 novembre 1911 a Villa Seminario di Città di Castello. Se ne è andata il 19 giugno 2021, pochi giorni dopo le celebrazioni del 2 giugno, Festa della Repubblica, che lei aveva impressa nel cuore come data simbolo del calendario della vita accanto al 25 Aprile, all’8 marzo e al Primo Maggio, festa dei lavoratori. Anche in quella occasione dalla finestra di casa accanto alla figlia Anna Ercolani, professoressa in pensione, omaggiata da un indimenticabile concerto improvvisato sul giardino dal maestro Fabio Battistelli e dalla musica del suo clarinetto ispirata all’Inno di Mameli, aveva baciato il tricolore  e appoggiato la guancia su di esso a testimoniare tutto il suo amore per la Patria. «Quella immagine è la sintesi della sua vita — racconta la figlia Anna —, la mamma è stata e sarà sempre una donna straordinaria che lascia in particolare ai giovani una eredità importante. È l’immagine dei momenti belli e brutti, delle conquiste sociali, del primo voto nel 1946 con alcune amiche, delle passioni, dell’amore per la vita e la famiglia. La mamma, per tutti nonna Lisa è stata questo e tanto altro e lo sarà spero anche in futuro per le giovani generazioni per i valori e i sentimenti per la patria e le regole, anche quelle stradali, come il casco da indossare e i limiti di velocità da rispettare. E poi l’amore innato e ammirazione verso il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per lei e per noi da sempre punto di riferimento da seguire fino agli ultimi istanti di vita. Così e per sempre la vogliamo ricordare».
Giorgio Galvani

 

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PATRIA, NAZIONE, NAZIONALISMO

11/10/2022 da Sergio Casprini

Patria e Nazione non coincidono

 Livio Ghelli 

Iniziamo dalle parole:

Patria, sostantivo femminile, è l’ambito territoriale, di tradizioni e cultura cui si riferiscono le esperienze affettive, morali, politiche di un individuo in quanto appartenente a un popolo.

Patriottismo, sostantivo maschile, è il sentimento di amore e devozione verso la patria. Patriota, sostantivo maschile e femminile, significa amante della patria e pronto a lavorare e lottare per essa.

Nazione è, o forse era, qualcosa di un po’ diverso dalla patria: definiva un complesso di individui legati da una stessa lingua, da una stessa storia, da una stessa civiltà, dagli stessi interessi, in antico anche da una stessa religione imposta dal sovrano.

Dunque, Patria e Nazione non coincidono. Un esempio: nella nostra penisola da secoli vivono comunità di lingua albanese, greca, ladina, francese, tedesca, slovena. Sono circa due milioni e mezzo di italiani, con una lingua madre diversa dall’italiano. Senza contare la comunità Rom. Ovviamente tutti imparano l’italiano a scuola e la loro patria è l’Italia. Ma la loro identità, le loro radici, parole, canzoni, cibo, danze, preghiere affondano –dovrei dire affondavano, oggi siamo tutti omologati- in una terra diversa di cui conservano il ricordo. Altro esempio: un altoatesino può battersi con valore per difendere la patria italiana anche se la sua lingua madre è il tedesco.

Il fascismo, a suo tempo, intervenne con ferocia per italianizzare forzatamente questi cittadini di lingua e tradizioni diverse: divieto assoluto di esprimersi nella propria lingua, cognomi e nomi di luoghi sostituiti con nomi italiani, monumenti e simboli nazionali distrutti, maestri locali licenziati, bastonature, fucilazioni, campi di concentramento di cui pochissimo si sa.  Mi riferisco al periodo tra le due guerre, dal 1918 al 1940, e ad una repressione iniziata da governi sedicenti liberali già prima dell’affermarsi della dittatura, che poi fece di peggio.

Situazioni analoghe, di nazionalità diverse in una patria comune, le troviamo sia in Europa che in tutti gli Stati del Mondo: Irlandesi, Gallesi, Scozzesi, Inglesi nel Regno Unito, Fiamminghi e Valloni in Belgio, Baschi e Catalani in Spagna, Indios dell’Amazzonia in Brasile, Quechua e Aimara in Perù. Conflitti sono nati, spesso, tra lo Stato che considerava queste minoranze con lingue e culture diverse, al proprio interno, come corpi estranei, da assimilare, o assoggettare, o anche distruggere. In nome dell’unità della Nazione.

Bisognerebbe invece riuscire a creare una identità comune a tutti i gruppi etnici, linguistici, religiosi e regionali in modo che si sentano parte della stessa comunità politica: tutti, nessuno escluso, e senza che un determinato gruppo etnico o sociale mantenga le posizioni di potere e di comando a spese degli altri. La costruzione della Nazione richiede giustizia e uguaglianza assolute. E altre cose: la solidarietà di tutti, il consenso generale sui valori fondamentali, l’accettazione dell’unità nella diversità… Un lavoro immenso. Massimo d’Azeglio, consapevole, diceva: “Fatta l’Italia bisogna fare gli Italiani”.

Vorrei terminare con Rousseau: “Soltanto in democrazia lo Stato è veramente la patria di tutti gli individui che lo compongono e può contare su tanti difensori interessati alla sua causa quanti sono i suoi cittadini.” Uno stato democratico, appunto. Ma quanti sono al mondo gli stati veramente democratici? E le garanzie democratiche, il diritto ad avere diritti, valgono per i soli cittadini, o valgono, come sarebbe giusto, per tutti compresi i migranti, gli esuli, i senza patria? Perché è questo il punto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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IL DISPREZZO PER IL RISORGIMENTO È DISPREZZO PER NOI STESSI

25/09/2022 da Sergio Casprini

LETTERE       

Corriere della Sera  23 settembre 2023

Caro Aldo, il 20 settembre presso la breccia di Porta Pia si è svolta come ogni anno una cerimonia commemorativa. I bersaglieri di Cadorna nel 1870 invasero lo Stato Pontificio con le armi in pugno e lo conquistarono con la motivazione che era parte dell’Italia. Per giustificare agli occhi del mondo l’annessione armata di uno Stato straniero legittimamente esistente il Regno d’Italia indisse subito un plebiscito locale che ratificò l’annessione a maggioranza dei votanti. Oggi la Russia sta facendo qualcosa di simile. Ha invaso le province russofone dell’Ucraina, sostenendo che appartengono territorialmente e linguisticamente alla Russia. E ora si appresta a indire un referendum locale per ratificare l’annessione armata. Ma noi applaudiamo i bersaglieri e critichiamo la Russia. Lei che ne pensa? Mauro Martini

Caro Mauro, Non vorrei mai ricevere lettere come la sua. Purtroppo sono numerose. Il Risorgimento — quest’epopea meravigliosa che ispirò Alessandro Manzoni e Giuseppe Verdi, che fece discutere personaggi della statura di Mazzini, Gioberti, Cattaneo, Cavour, che vide lo slancio di volontari di tutta Italia, che fece di Garibaldi l’uomo più famoso del mondo — è il periodo più odiato della storia d’Italia. Da tempo è senza padri: né i democristiani né i comunisti sapevano cosa farsene. Poi sono arrivati i leghisti, che volevano dividere l’Italia, e i loro fratelli neoborbonici, convinti che i mali del Sud siano solo responsabilità del Nord, e quindi non ci si possa fare nulla.

L’odio per il Piemonte e lo spappolamento culturale della città che fu di Gramsci e Gobetti, Einaudi e Bobbio, hanno fatto il resto. Ma non è solo questo. C’è di mezzo il disprezzo degli italiani per se stessi. E l’idea, teorizzata da Francesco Cossiga, per cui gli italiani sono sempre gli altri.

Ma come si fa, gentile signor Martini, a paragonare i soldati italiani — non piemontesi; italiani — che entrarono in Roma ai soldati russi che hanno invaso l’Ucraina? A Roma nessuno venne torturato, nessuno fu violentato, nessuno fu gettato in una fossa comune con le mani legate dietro la schiena. Legga cosa scrive un cronista d’eccezione, Edmondo De Amicis. I soldati italiani entrarono nella città eterna intimoriti e ammirati: quasi nessuno era mai stato a Roma in vita sua (a proposito, la proposta molto criticata di rendere obbligatoria una gita scolastica a Roma è invece giusta, perché anche adesso molti ragazzi del Nord e del Sud non sono mai stati a Roma in vita loro).

Pio IX — sempre Cossiga disse che la sua beatificazione era uno schiaffo del Vaticano all’Italia — aveva scelto di difendere con le armi, sia pure simbolicamente, il potere temporale dei Papi. Ma la perdita del potere temporale è stata una fortuna per il Papa, che anche per questo ora è leader spirituale e universale. Il 20 settembre segna la fine dell’Ancien Régime, dei ghetti e delle forche, della tortura e del foro ecclesiastico, e l’inizio della scuola laica, delle libertà civili, dell’uguaglianza di fronte alla legge. Non esiste un Paese al mondo in cui l’unificazione nazionale e il ricongiungimento della capitale con la patria siano considerate sciagure.

Lettere come la sua, gentile signor Martini, mi inducono a pensare che avesse ragione de Gaulle, quando diceva che l’Italia non è un Paese povero, è un povero Paese. Aldo Cazzullo

Edmondo De Amicis

 

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Decennio dopo decennio, Elisabetta è diventata la Marianne britannica

19/09/2022 da Sergio Casprini

Giovanni Belardelli

  • Il Foglio Quotidiano 17 settembre 2022
  • Subito dopo la morte di Elisabetta II più d’uno ha richiamato il celebre volume di Ernst Kantorowicz I due corpi del Re (Einaudi).

In estrema sintesi, il libro analizza l’idea, che si afferma a partire dalla teologia politica medievale, secondo la quale il sovrano possiede, oltre a un corpo naturale destinato ad ammalarsi e a morire, anche un corpo politico che gli sopravvive poiché rappresenta la perennità del potere sovrano. La formula che tutti conosciamo “il re è morto, viva il re” evidenzia questa indipendenza della sovranità dalla vita di un certo particolare sovrano. Bene, il rinvio al libro di Kantorowicz, tanto più alla morte di colei che l’opinione globale sente essere l’ultima vera regina, è molto suggestivo. Ma anche del tutto sbagliato.

Quel discorso sui “due corpi del re” valeva per l’antico regime, quando l’autorità sovrana coincideva con l’esistenza stessa della nazione: Luigi XV, re di Francia, affermò per esempio nel 1766: “Il mio popolo esiste solo attraverso la sua unione con me; i diritti e gli interessi della nazione […] risiedono unicamente nelle mie mani”. E’ necessario dunque, possiamo aggiungere, che la regalità sia immortale perché lo stesso popolo francese, che esiste solo in unione con il re, possa sopravvivere al fatto contingente della morte di quest’ultimo. Non molti anni dopo, però, doveva cambiare tutto.

La testa di Luigi XVI cadeva sotto la lama della ghigliottina il 21 gennaio 1793, ma il corpo immortale del re si era già dissolto da qualche tempo. Con la Rivoluzione francese, infatti, l’unione tra monarchia e popolo si era spezzata e la sovranità si era trasferita dal primo al secondo: il popolo diventava il vero sovrano. Per la verità l’art. 3 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino sosteneva che “ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione”, non dunque nel popolo; questo avveniva per l’intenzione di evitare i rischi di una democrazia radicale e aprire la strada a un sistema rappresentativo non ancora a suffragio universale. Ma la piena affermazione della sovranità popolare era un esito inarrestabile (“La sovranità risiede nel popolo”, proclamava la nuova Dichiarazione del 1793) e nazione e popolo sarebbero diventati sinonimi. Da allora, nelle democrazie, a possedere un corpo incorruttibile, che dunque non muore (anche se forse si ammala, come mostrano tante vicende contemporanee: ma questo è un altro discorso), a non morire – dicevo – è il popolo come entità collettiva e se vogliamo mistica, poiché non coincide con la semplice somma dei cittadini che lo compongono. I re costituzionali ormai, anche quando sono circondati da un’ammirazione e un affetto globali come Elisabetta II, hanno un solo corpo, che subisce gli oltraggi del tempo e infine muore come quello di tutti noi.

Ma forse, fatta questa precisazione, c’è ancora qualcosa che resta da dire. Riandiamo un momento alla fine della peculiare immortalità del sovrano – del suo secondo corpo – che si verifica con la Rivoluzione francese. La nazione, che ora è diventata sovrana, si dota in molti paesi di una rappresentazione femminile che rimpiazza quella del corpo del re. Si tratta di una allegoria di donna che diventa celebre soprattutto in Francia. E in Francia ha avuto anche, da un certo punto in poi, un nome proprio, Marianne. Nel nuovo clima ottocentesco che vede al centro della vita associata la nazione, quasi tutti gli stati europei – sia quelli esistenti sia quelli che aspirano, come l’Italia, a esistere come paesi indipendenti e sovrani – si rappresentano attraverso allegorie femminili di questo tipo; si moltiplicano perciò le immagini di donna che raffigurano Germania, Italia, Francia, Svizzera e così via (compresi gli Stati Uniti). La nazione assume le sembianze femminili per tante ragioni, a cominciare dal fatto che una tale immagine rinvia alle capacità generatrici della donna, dunque alla fertilità e per analogia alla prosperità di tutta la collettività nazionale. La donna-nazione è un’immagine materna e protettiva (si parla della madre-patria), personifica la continuità di un paese al di là del cambiamento dei regimi politici, delle guerre e delle sconfitte, dei passaggi da una monarchia alla repubblica (o viceversa): rappresenta dunque la perpetuità dell’esistenza di una nazione, il suo “corpo” immortale.

Cosa c’entra con tutto questo la regina inglese appena scomparsa? C’entra, perché non è da escludere che una sovrana che ha regnato per un tempo incredibilmente lungo, riscuotendo un eccezionale successo in termini di simpatia e rappresentando per i suoi sudditi una figura materna e protettiva, simbolo dell’identità nazionale, sia diventata in qualche modo, decennio dopo decennio, l’allegoria femminile del suo paese. Avendolo accompagnato con equilibrio lungo una storia spesso complicata ha finito per essere una specie – viene da dire – di Marianne britannica. In questo senso, è vero che nessun re (e nessuna regina) hanno più da tempo il “secondo corpo” dei sovrani di antico regime.

Ma nell’immaginario dei suoi sudditi, e un po’ anche nel nostro, la sua immagine fa tutt’uno con quella del suo paese.

 

 

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Quei fascisti tutti d’un pezzo innamorati del sovversivo Giuseppe Mazzini

05/09/2022 da Sergio Casprini

Giovanni Belardelli

Il Foglio Quotidiano 3 settembre 2022

Nelle bancarelle che qua e là per l’Italia vendono vecchi giornali e riviste, francobolli e cartoline d’epoca, non è difficile acquistare per pochi spiccioli uno almeno dei tre francobolli (da 25 cent., 1 lira e 2 lire e mezza) raffiguranti i volti di Attilio ed Emilio Bandiera, i giovani mazziniani protagonisti nel giugno 1844 di una disperata spedizione in Calabria che valse, a loro e ai loro compagni, la fucilazione.

I fratelli Bandiera

A ricordare con un’emissione filatelica questi due personaggi ormai quasi dimenticati (ma gli dedica ora un bellissimo capitolo del suo Otto vite italiane, Marsilio, Ernesto Galli della Loggia) fu nel 1944, per la prima e ultima volta nella storia nazionale, la Repubblica sociale italiana. Potrebbe sembrare strano, ma non lo è affatto. Al di là dell’occasione rappresentata allora dal centenario della morte dei Bandiera, il piccolo episodio testimonia di quel ritorno di fiamma mazziniano che caratterizzò il fascismo di Salò, che – pur asservito all’occupante tedesco e in una situazione di guerra civile – credette o finse di credere in un ritorno al repubblicanesimo delle origini come reazione al “tradimento” del re.

Ma in realtà un po’ tutto il fascismo fu percorso fin dall’inizio da simpatie mazziniane, ed è questo un capitolo poco noto della fortuna di Mazzini nella storia italiana che – a centocinquant’anni esatti dalla morte – merita d’essere ricordato. Furono continui i riferimenti al fondatore della Giovine Italia fatti per tutto il Ventennio da Giovanni Gentile che ad esempio, nel manifesto degli intellettuali fascisti da lui redatto nel 1925, scrisse che il nuovo regime ritornava alle “idee politiche, morali e religiose” di Mazzini. Dal mazzinianesimo venivano anche figure importanti del fascismo: Italo Balbo, per fare solo un nome, aveva fatto la sua tesi di laurea sui Doveri dell’uomo di Mazzini. Ma anche Mussolini non era rimasto impermeabile a qualche influsso mazziniano visto l’ambiente che aveva frequentato nella sua iniziale carriera politica da socialista rivoluzionario: quel sovversivismo romagnolo caratterizzato appunto da marcate simpatie, spesso da un vero e proprio culto, per Mazzini.

 Uno dei maggiori storici italiani del secondo Dopoguerra, Delio Cantimori, ricorderà di avere lui stesso aderito da ragazzo al fascismo sognando che questo avrebbe fatto la rivoluzione repubblicana, insieme sociale e nazionale, di Mazzini. Dopo di lui molti storici hanno fatto (e a volte continuano a fare) fatica a riconoscere la presenza di queste simpatie mazziniane nel regime, ma sbagliano per almeno due motivi.

Il primo, ovvio, è che il passato – se non vogliamo scivolare anche noi nella cancel culture– è passato e non è nella disponibilità degli storici o di chicchessia cambiarlo per renderlo compatibile con le proprie idee. Può non piacere il fatto che in nessun periodo come durante il Ventennio si sia tanto scritto – e con toni generalmente molto elogiativi – di Mazzini, ma così è stato. Il secondo motivo per cui la reticenza di cui dicevo è un errore sta in questo: proprio il fatto che si siano richiamati a Mazzini intellettuali e politici di diverse e spesso opposte tendenze dimostra l’influenza forse unica che questi ha avuto nella nostra storia.

Non diversamente del resto da quel che è accaduto per Marx, visto che si proclamavano marxisti sia Lenin sia il Kautsky da lui violentemente attaccato come “rinnegato”; e che marxisti furono sia Rosa Luxemburg sia il ministro della Difesa della Spd Gustav Noske, tra i responsabili del suo assassinio.

Naturalmente, va detto che se il fascismo trovava in Mazzini elementi di pensiero che sentiva come congeniali – il richiamo quasi religioso alla nazione, la critica del Risorgimento come rivoluzione interrotta che il fascismo intendeva completare facendo entrare le masse nello stato, la critica della lotta di classe e altro ancora – c’erano pure elementi fondamentali del pensiero mazziniano che i fascisti ignoravano completamente, a cominciare dall’idea di un’umanità formata da nazioni indipendenti e libere. Fatto sta che perfino la partecipazione alla seconda guerra mondiale – qualcosa dunque che sintetizzava perfettamente il carattere militaristico e aggressivo del regime mussoliniano – poté essere giustificata come l’occasione per unificare l’Europa come vaticinato più di un secolo prima da Mazzini. Idea ovviamente inverosimile, questa di una nuova Giovane Europa costruita grazie alle armate hitleriane, ma qualcuno lo sostenne; la storia è fatta anche di questi paradossi e di queste illusioni.

Il quasi dimenticato “mazzinianesimo fascista” ci dice allora anche un’ultima cosa, cioè che la storia – e la storia delle idee in modo particolare – non è mai in bianco e nero ma è fatta di chiaroscuri, di influenze molteplici e contraddittorie. Tra esse cito un piccolo episodio che riguarda il giovane Luciano Della Mea – futuro partigiano ed intellettuale di spicco, negli anni 60, della sinistra extraparlamentare – il quale nel 1941 si arruolava in guerra da fascista convinto, com’era diventato – ricorderà molti anni dopo – anche grazie a Mazzini e Garibaldi. E proprio sull’eroe dei due mondi si potrebbero fare considerazioni analoghe a quelle fatte per Mazzini, a partire dalle grandi celebrazioni fasciste del 1932, nel cinquantenario della morte, quando il Duce dichiarò che le camicie nere erano figlie delle camicie rosse. Era vero, era falso? Anche in questo caso, un po’ entrambe le cose.

 

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DA PAPINI A PIRANDELLO. ROMA “CITTÀ INFETTA”

20/08/2022 da Sergio Casprini

Cosa è Roma per noi italiani? Non intendo dire per il resto del mondo, per tutti i turisti che ne visitano – ammirati – i monumenti incomparabili, ma cos’è per noi che l’abbiamo come capitale? La città è da tempo allo sbando: dai cinghiali che la invadono alle metropolitane che funzionano a singhiozzo, dalle montagne di spazzatura al manto stradale così disastrato da aver causato più di un morto; ma proprio per questo colpisce l’assoluta sua assenza nel nostro discorso pubblico, come se nessuno avesse nulla da dire sull’argomento, come se parlassimo di una città di un altro paese. Una possibile spiegazione potrebbe essere che – essendo stata governata Roma da sindaci di ogni colore – il disastro in cui versa da tempo non può essere utilizzato nella polemica politica spicciola e dunque dell’argomento non si parla. Ma in realtà c’è dell’altro, e non da oggi: un’ostilità sotterranea, una diffidenza antica che affondano le radici nella cultura del paese, nella sua memoria profonda. 

 

Giosuè Carducci

L’immagine di Roma era stata ben presente ai protagonisti del Risorgimento e si trattava in realtà, come è noto, di un’immagine assolutamente positiva. Nel 1849 Giuseppe Mazzini entrava nella città “trepido e quasi adorando”, convinto che dal Campidoglio, liberato dal giogo papale, si sarebbe dovuta proclamare l’universale liberazione dei popoli. Il mito di Roma avrebbe attraversato i decenni successivi, fino e oltre la conquista della città nel 1870, assumendo caratteri diversi. Per Carducci, che svolse un ruolo essenziale nell’alimentare quel mito presso generazioni di italiani, Roma rappresentava l’Italia ideale da contrapporre a “Bisanzio”, cioè alla prosaica e deludente realtà dell’Italia reale. Per Mussolini, vari decenni dopo, i tonitruanti richiami all’antica Roma imperiale sintetizzavano l’obiettivo di una nuova potenza italiana e i valori di forza e gerarchia che erano centrali nell’ideologia fascista.

Carlo Dossi

Ma parallelamente si erano diffuse da tempo nel paese anche immagini negative dell’urbe, che per qualcuno non era adatta a essere la capitale di un paese moderno, gravata com’era da un così ingombrante passato, dalle vestigia di una antica grandezza. L’arrivo degli uomini e delle strutture del nuovo stato non attenuava questo carattere di città non-moderna, come mostrava la stessa rappresentazione del ministeriale ozioso divenuta presto archetipica e sopravvissuta fino a oggi. Ecco quel che scriveva nel 1872 Carlo Dossi, allora dipendente del ministero degli Esteri: “Sono le 12.30. Gli impiegati cominciano a comparire tartarughescamente, ma nessuno si decide a far qualche cosa. M’accorgo che nei ministeri l’ozio è eretto ad impiego”. La popolazione della capitale, affermò quarant’anni dopo Giovanni Papini nel celebre e contestatissimo “Discorso di Roma” del 1913, “non aveva nessuna voglia d’ingegnarsi né di lavorare, abituata come era a vivere di benefici ecclesiastici e di minestre di frati”. Il discorso di Papini, che era allora nella sua breve fase futurista, voleva esplicitamente épater le bourgeois (e il pubblico infatti reagì lanciando frutta e ortaggi contro l’oratore). Ma nella sostanza quell’idea di Roma come città parassitaria, che viveva sulle spalle del resto del paese, era e sarebbe rimasta diffusissima.

Anche perché, in quegli stessi anni, avviandosi decisamente l’industrializzazione della penisola, si affermava pure la convinzione che il motore dello sviluppo economico italiano andasse trovato nel Settentrione e non certo in una città come Roma, in cui l’unica industria era quella dei forestieri. L’immagine di una città prigioniera del passato e refrattaria alla modernità veniva rafforzata dalla contrapposizione con Milano, che a molti appariva come una capitale alternativa. Una città, quest’ultima, che era effettivamente all’avanguardia dello sviluppo industriale e commerciale del paese e a stretto contatto con l’Europa più progredita. 

C’era poi chi notava che l’Italia era un paese di città (delle “cento città”, secondo la celebre definizione di Carlo Cattaneo), la cui vera identità era legata alla dimensione provinciale, prima che nazionale. Un paese perciò che mai avrebbe potuto avere nella capitale il suo centro pulsante, com’era invece Parigi per la Francia. Tanto più che prima dell’unità d’Italia, alcune di quelle città erano state a loro volta delle capitali: da Torino a Firenze, da Venezia a Napoli.

Luigi Pirandello

Ma soprattutto, tra le varie immagini negative di Roma la più potente fu quella della città come capitale della corruzione. Nata a fine 800, a partire dalla “febbre edilizia” di quegli anni e di scandali come quello della Banca romana, l’idea che la capitale, in quanto sede della politica nazionale, fosse anche luogo di collusione tra mondo della politica e mondo degli affari, dunque il centro dell’affarismo e della corruzione, ebbe subito una diffusione enorme. La letteratura ci avrebbe subito messo del suo, dipingendo Roma come “una città infetta” (D’annunzio), colpita da una “torbida fetida alluvione di melma” (Pirandello). Di tutte le rappresentazioni negative dell’urbe questa era destinata a essere la più longeva, che non sarebbe stata scalfita alla fin fine nemmeno dalle inchieste milanesi di Tangentopoli. Ma allora, se letta alla luce di certe antiche rappresentazioni negative, di certi sedimenti profondi della nostra cultura, l’assenza di qualunque riferimento alla capitale nel nostro discorso pubblico (e nella campagna elettorale), per quanto censurabile, diviene meno incomprensibile.

Giovanni Belardelli Il Foglio Quotidiano 20 agosto 2022

 

 

 

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UNA FAMIGLIA QUALUNQUE A FIRENZE NEL SECOLO SCORSO

26/07/2022 da Sergio Casprini

Ponte alla Vittoria e Oltrarno nei primi anni del 900

Nel 1918 ogni mattina prima delle 6 mio nonno Leone, falegname stipettaio, usciva dalla sua casa in Oltrarno, in via della Fonderia, vicino al Ponte alla Vittoria, e si incamminava verso le colline sopra il Galluzzo, diretto alla villa che il Principe Abamelek aveva messo a disposizione dello Stato italiano.

Lì venivano portati dall’ospedale militare i soldati che avevano subito amputazioni agli arti. Mio nonno e gli altri falegnami specializzati prendevano accuratamente le misure, proprio come fanno i sarti, ma invece che un cappotto o una giacca dovevano rifare dita, mani e piedi a persone che non le avevano più. Le falangi dovevano avere i loro snodi e poter essere piegate, un polso doveva ruotare quando serviva, il lavoro, perfetto dati i materiali di allora, doveva permettere alla persona, una volta applicata la protesi, di impugnare fermamente o reggere un oggetto con la mano di legno, e di lavorarci con l’altra. Oppure di stare in piedi su piedi di legno, anch’essi snodabili.  Si lavorava mantenendo un ritmo elevato ma regolare, che permettesse agli artigiani di rendersi conto bene di ciò che facevano perché ogni protesi era diversa e doveva servire per la vita. Molti soldati, a parte le mutilazioni, apparivano emaciati e in cattive condizioni generali. Un giorno mio nonno si sentì male. Un grande senso di tristezza e di oppressione. Non vedeva i colori, tutto sembrava grigio. Era spossato, aveva la febbre alta e respirava a fatica. Aveva preso la Spagnola. In casa sua la prese anche la bambina più grande, Aurora, di 5 anni, mentre furono risparmiate la nonna Dina e la Leonetta, di 2 anni. Poi Aurora guarì, e guarì anche il nonno, e tornò a lavorare, ma per diverso tempo quel senso di tristezza gli rimase. Ritornò a vedere i colori piano piano e tornò tutto come prima.

Sono passati un po’ più di cent’anni da allora, mio babbo non era ancora nato, delle zie più grandi una già sgambettava per il mondo, l’altra si mordeva i piedi con un certo entusiasmo, ma ancora non camminava. Le altre due zie sarebbero spuntate poi, dopo la nascita di mio padre. Videro la luce in un mondo diverso da quello su cui si erano affacciate le sorelle maggiori, e tutti i sabati sarebbero state vestite da Piccole Italiane, calzini bianchi, gonna nera, camicetta bianca con lo stemma quadrato verde-bianco-nero-rosso (deduco che questi fossero i colori) dalla parte del cuore, e un baschetto in testa, col braccino destro sollevato nel saluto romano, tutte serie, come racconta la piccola foto in bianco-nero che ho trovato dopo la morte della Pippa.  So che ai nonni dover mandare le bambine alle cerimonie di regime non piaceva per niente. E poi l’uniforme costava: era una spesa obbligata che, per famiglie che tiravano la cinghia, pregiudicava irrimediabilmente l’acquisto di cose davvero indispensabili, come altra legna per la stufa, un po’ di cibo in più, un paio di scarpe.

Riguardo al fascismo, l’atteggiamento giovanile delle componenti della nidiata familiare rimase strettamente collegato con l’anno di nascita: Aurora, nata nel 1913, e Leonetta, nata nel 1917, conservarono fin da piccine una certa distanza, una impermeabilità riservata. Semmai, in via della Fonderia, nel quartiere di San Frediano, andavano alla parrocchia del Pignone e frequentavano alcuni religiosi, di buona caratura morale, che si mantenevano molto freddi verso il regime. Le ripetute violenze delle squadracce, la notte di sangue del 1922, la paura diffusa nel quartiere, tra i vicini e gli amici, avevano lasciato come un deposito nella testa delle due sorelle maggiori, che le aveva protette e vaccinate anche quando il fascismo, indossato il doppiopetto, assunse l’immagine benevola e rassicurante di Mussolini padre ideale di tutti i bimbi d’Italia.

Mio babbo, nato nel 1920, da ragazzino era anche lui un po’ nella scia delle sorelle più grandi e di Leone, il padre falegname, che aveva sempre uno o due amici sovversivi che venivano a trovarlo in bottega, per chiacchierare, sfogarsi e fare qualche battuta in libertà. Così, a mio babbo ragazzino, del Duce e del Re gli importava il giusto. Aggiungerei che anche il Papa non doveva garbargli troppo, anche se poi andava con gli amici a suonare le campane al Pignone, e salivano non visti sul tetto del campanile, ma quello era per avventura. Però lo affascinavano il transatlantico Rex, che sarà affondato nel 1944, e tutte le meraviglie della nostra Marina, militare e civile. A dodici anni era fermamente convinto che in Italia si facessero le navi più belle del mondo. Così si infilò nei Balilla Marinaretti, indossò la divisa blu della Marina Militare italiana e il sabato andava a remare sull’Arno. Gli pareva una cosa più allegra e romantica che il sabato doversi mascherare col fez, la camicia nera e i pantaloni corti grigioverdi, come la maggior parte dei suoi compagni di scuola. Veniamo alle sorelle più giovani, Giuseppina (le dettero questo nome per via di Garibaldi, ma poi in casa l’hanno sempre chiamata Pippa) aveva i capelli rossi, era agile, snodata, burlona, spepera, menefreghista e, anche se con la nonna Dina c’era poco da scherzare, riusciva più degli altri a fare come le pareva. Ragazzina ideale per figurare nei saggi ginnici, una volta in quarta elementare, doveva essere il ’32, vinse anche un concorso su tema assegnato, roba tipo ‘i doveri dei bambini italiani’ o ‘il compito dell’Italia nel mondo. La fotografarono mentre il ras Alessandro Pavolini consegnava proprio a lei l’attestato di merito, e il fatto che quella fotografia fosse stata prudentemente distrutta, nei giorni della Liberazione, fu sempre vissuto con cruccio e rabbia da parte della Pippa: ‘macché problemi e problemi, avevo 9 anni, il mio tema era stato il migliore e la foto era un documento storico. Oltretutto era mia. Perché distruggerla? Non c’era da aver paura, la guerra ormai ci aveva aperto gli occhi, a tutti, e avevamo rifiutato il fascismo…’ e via dicendo.

Maria Grazia era l’ultima, morta un anno fa a 96 anni e mezzo dopo che, disciplinatamente in ordine di età, le altre sorelle e il fratello se ne erano andati  al termine di vite lunghe, spesso sofferte, a momenti serene, vissute con coerenza, testardaggine e ironia, ognuno a suo modo. Aveva 15 anni quando scoppiò la guerra, le sorelle più grandi lavoravano, Aurora appena sposata era rimasta vedova con due bambine piccolissime, Nando lavorava e studiava, la nonna Dina tornava stanca dal suo lavoro di bidella, il nonno Leone lavorava senza riuscire a farsi pagare. La Pippa stava a scuola di ricamo da due sorelle ricamatrici fiorentine, straordinariamente brave, e in casa non dava grandi aiuti. Così tutto il peso della casa, lavare, stirare, cucinare, riassettare, cambiare le bambine, ricadeva sulla Grazia, che si sentiva prigioniera e derubata della vita. Dopo le elementari era andato avanti negli studi soltanto Nando, per l’opera di convincimento sulla nonna di alcuni suoi insegnanti, per le borse di studio, perché maschio. Invece le sorelle, terminata la scuola dell’obbligo, vennero avviate al lavoro. Nessuna di loro era svogliata o stupida, anzi! Ma in famiglia soldi non c’erano, e bisognava scegliere.

Il 10 giugno 1940 Maria Grazia meditava sul grigiore dei suoi 15 anni e sui sogni infranti quando sentì la notizia: ‘Combattenti di terra, di mare, dell’aria… l’ora  segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria… l’ora delle decisioni irrevocabili… la dichiarazione di guerra è stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia! Scendiamo in campo…’ e pensò immediatamente: bene che c’è la guerra, qualcosa si muoverà, alla fine cambierà qualcosa, in questo grande squallore… che razza di imbecille che ero, io, Maria Grazia,in seguito si disse, quando nella guerra ci cascammo in pieno: non mangiavamo, le cannonate ci portavano via pezzi di casa e io tornavo dal lavoro, nella città vuota, con i passi dei soldati tedeschi che mi seguivano… Ma queste cose le sappiamo sempre col senno del poi! A 15 anni per un momento credetti che la guerra potesse essere un’opportunità, e come me lo credettero molti adulti che pure avevano passato la Grande Guerra, e dovevano sapere come stavano le cose. Però mio babbo, mia mamma, le mie sorelle maggiori e mio fratello videro fin da subito il nostro ingresso in guerra come una tragedia. Probabilmente anche la Pippa, chissà.

Ho raccontato un pezzettino della storia di una famiglia come tante, normali vite di donne e uomini non illustri che non avrebbero interessato la penna di Plutarco, che proponeva degli exempla. E la storia acquista un senso partendo dalla gente comune, dai fatti, dalle esperienze, dalle contraddizioni, dagli ideali e dalle speranze della gente. Ascoltiamo un po’ di più le testimonianze delle persone comuni, mettiamole a confronto, da quarant’anni ormai donne e uomini raccontano pochissimo della propria vita passata, delle proprie scelte ed esperienze. Facciamo che non sia così. Ci aiuterà ad essere migliori, come storici e come esseri umani. 

Livio Ghelli

 

 

 

 

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SIAMO FIGLI DELLA LIBERTA’

07/07/2022 da Sergio Casprini

  “Fare un Quarantotto” è un modo di dire che indica il crearsi di confusione e scompiglio. Deriva dai moti che sconvolsero l’Europa nell’anno 1848 e coinvolsero anche la nostra penisola, con l’inizio delle battaglie decisive del Risorgimento Italiano. Videro protagonisti tanti uomini e donne che si riunirono sotto un ideale di libertà. Fu la nostra prima guerra d’indipendenza. La meno fortunata, forse. Senz’altro la più eroica. Tale da innescare quel processo infine sfociato nella nascita di uno Stato italiano unitario e sovrano.

Il Comitato Valdarnese per la Promozione dei Valori Risorgimentali, la sezione editoriale del Varchi Comics e Big Ben Studio si sono uniti per realizzare questa splendida antologia a fumetti, che s’intitola Siamo figli della libertà. Tutte storie vere, eroicamente e tragicamente vissute, ricostruite minuziosamente sulla base di ricerche d’archivio e consultazione di numerosi documenti dell’epoca. Una testimonianza di come, anche dal Valdarno Superiore, soldati e volontari imbracciarono le armi durante l’epopea risorgimentale per liberare l’Italia, darle unità e indipendenza nazionale. Si tratta di un unicum nel suo genere. Un modo nuovo per divulgare la nostra storia anche presso le generazioni più giovani, studenti e non solo, bisognose oggi più che mai di recuperare la conoscenza del passato, delle vicende che hanno forgiato quella madrepatria che non possono continuare ad abitare nell’inconsapevolezza e nell’indifferenza. Pena il venir meno di qualsiasi governo. Questo potrà anche imporsi, ma non godrà di fiducia, se di fronte ha una comunità disgregata e disciolta nei mille rivoli dei particolarismi locali e individuali. Senza identità condivisa, nessun futuro nazionale può essere costruito. Mancano le basi, ampie e solide.

Danilo Breschi ha firmato l’introduzione al fumetto (Siamo figli della libertà, a cura di Francesco Benucci e Gianluca Monicolini, Phasar Edizioni, Firenze 2022, pp. 112, € 14,00. Disegni di Gianluca “Borg” Borgogni, Alessando De Col, Samuele Frattasio, Davide Landi, Caterina Mendolicchio, Elisabetta Simonti, Francesco “Frenks” Tassi. Sceneggiature di Francesco Benucci, Alessandro Bighellini, Alessandro De Col, Gianluca Monicolini, Corinna Pieri, Lorenzo Rotesi, Francesco “Frenks” Tassi). Per gentile concessione dell’Autore ne riproduciamo qui di seguito il testo

 

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“Loro credevano e per la libertà combatterono”: storie di umili eroi della libertà, esempi di vera amicizia 

  

 Danilo Breschi

 L’epica, questa sconosciuta. Anzi, rimossa. Una visione epica degli eventi storici è, a suo modo, una visione religiosa del mondo. Religiosa nel senso che mostra sia quanto l’essere umano possa farsi grande sia quanto questa sua grandezza sia autentica e feconda se e solo se la sua azione entra in sintonia con qualcosa di ancor più grande, che è al contempo istanza prima ed ultima. Si tratta delle forze che muovono la storia in senso edificante, costruttivo e migliorativo. Cos’è migliore? Cos’era tale per i giovani uomini e le giovani donne che, dal Valdarno superiore così come da ogni parte della penisola, talora rientrando da esili politici che li avevano costretti all’estero, si fecero militi volontari per l’unità e l’indipendenza dell’Italia?

Essere migliori significava per loro diventare più uniti e finalmente indipendenti, ossia liberi. Quel di più poteva darlo solo l’edificazione di uno Stato nazionale. Molti di quei volontari pensarono pure che la futura comunità politica nazionale dovesse avere forma repubblicana, affinché quell’unità e quella libertà trovassero concretezza e stabilità garantite per tutti da una costituzione.

Repubblica Romana.  Attacco del 30 aprile  (Museo Centrale del Risorgimento, Roma)

Nell’epopea risorgimentale, che non terminò nel 1861, una tappa luminosa fu la breve ma intensa esperienza della Repubblica romana del 1849. La Costituzione che ne scaturì fu un modello che ispirò persino le democrazie del secolo successivo. Fu la primavera della cittadinanza italiana ed europea.

Grazie alla passione per la storia e al talento per il disegno è nato un sodalizio di valdarnesi fiorentini e aretini, di nascita o acquisizione, che riporta alla luce dieci storie di alcuni e alcune, fra i molti e le molte, che contribuirono ad un’Italia una e indipendente. Militi volontari che è tempo di far transitare dallo status di ignoti a quello di noti, anzi famosi. Esempi di cui i giovani e le giovani di oggi, a quasi due secoli di distanza, possono andar fieri come italiani, come italiane. Ribadisco questo duplice riferimento di genere non per ossequio ad una stucchevole e talora ipocrita political correctness. Ribadisco perché proprio le vicende storiche messe magnificamente in scena dalle tavole illustrate di questo libro ci dicono di quante donne, giovani o meno, aristocratiche o popolane, s’impegnarono attivamente per la causa dell’Italia una e indipendente. Un impegno d’arme, di lingua, di sangue e di cuore. Combatterono di penna e persino di spada, o moschetto.

Di un po’ di eroi, quel tanto che basta, c’è sempre bisogno. E comunque in certi periodi della storia di un popolo è necessità indubbia, salutare. Eroe inteso come colui che si fa coraggio, si eleva al rango di coraggioso. E qui ci sovviene e conforta la lezione degli antichi. Nella sua Etica al figlio Nicomaco Aristotele ci insegna che «i coraggiosi agiscono per amore del bello, e l’impulsività coopera con loro; le bestie, invece, agiscono per il dolore, per il fatto di essere state colpite o spaventate».

Copia romana in  Palazzo Altemps a Roma del busto di Aristotele di Lisippo 

 E i Greci sapevano che il bello in senso proprio è anche il vero e il bene. Coincidono. Un’estetica non disgiunta dall’etica e dalla verità (storica) troverete perfettamente tradotta nelle tavole illustrate e sceneggiate con passione e talento.

Resterete avvinti dalle storie di questi umili eroi della libertà, esempi anche di cosa significhi essere veri amici. C.S. Lewis descrisse l’amicizia come quel legame affettivo che nasce quando una persona dice ad un’altra: “Cosa? Anche tu? Credevo di essere l’unico”. È scoprire la condivisione, in questo caso di un’idea alta e nobile perché rende la vita cosa degna, e dunque non più cosa, ma fuoco ardente. Fuoco che è logos. Sin dalle origini, pensate ad Eraclito, si è umani a pieno titolo se svegli e non dormienti. Solo chi è sveglio può intendere la verità, la struttura del mondo. Solo da svegli è meno difficile distinguere il bene dal male, ciò che rispetta e accresce la struttura intima e ultima del mondo da ciò che la ferisce e distrugge. Rendersi degni e diffondere tra il popolo il desiderio di dignità vuol dire combattere l’umiliazione, disdegnarla per sé e per gli altri. Questo il compito, tanto scomodo quanto esaltante, che vollero accollarsi i protagonisti delle storie qui poeticamente illustrate.

So bene quanta sete di combattenti per il bene della libertà e della giustizia scorra nelle vene dei giovani italiani ed europei di oggi. Se dormono, o così pare, è solo perché, sin da piccoli, sono stati imboccati con dosi massicce di cinismo e nichilismo. Non c’è più nulla per cui svegliarsi e drizzarsi, perché nulla vale una tale pena. Meglio dunque dormire. Così è stato tramesso dagli adulti di ieri e di oggi, a parole o con gesti, e molte omissioni. Poi, una sera, ti sorprendi a vedere frotte di ragazzini a far la coda al botteghino per l’ultimo film della saga degli Avengers o di Hunger Games (dove, peraltro, l’eroe è una ragazza che impugna le armi in nome della libertà). E allora cosa c’è di meglio, genitori e insegnanti, cosa di più coerente con il vostro ruolo e la vostra missione, se non prendere questo libro e regalare le sue immagini e storie di giovani eroi ai vostri figli e ai vostri studenti

 

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