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Risorgimento Firenze

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Focus

ISTRIANI, GIULIANI, DALMATI PERCHÉ L’ESODO FU RIMOSSO

10/02/2022 da Sergio Casprini

LETTERE al Corriere della Sera 10 febbraio 2022

Caro Aldo,

il Giorno del Ricordo è stato istituito per conservare e rinnovare la memoria di tutte le vittime delle foibe e dell’esodo dalle loro terre di istriani, fiumani e dalmati. Il Confine Orientale è argomento che non buca il video, e francamente ritengo improprio ricorrere sempre agli spregevoli delitti delle foibe o alla straziante vicenda di Norma Cossetto per creare interesse sull’argomento. Chiediamo che il Paese ricordi con serietà e orgoglio i suoi 350.000 figli estirpati dalle loro terre e dimenticati per decenni, cosa mai verificatasi altrove nel mondo per le minoranze nazionali disperse. Toni Concina  Presidente dell’Associazione  Dalmati Italiani nel Mondo, Sindaco del Libero Comune di Zara in Esilio 

Caro Toni, Grazie per le sue parole. In effetti l’esodo di istriani, dalmati, giuliani dopo la Seconda guerra mondiale è oggetto di una enorme rimozione. I nostri giovani — e non soltanto loro — non ne sanno assolutamente nulla. Mi chiedo come questo possa essere accaduto. Forse perché era una storia da cui nessuna fazione politica poteva lucrare vantaggi; semmai doveva riconoscere vergogne. All’origine di quella tragedia ci fu la disastrosa guerra voluta dal regime fascista, con il corollario delle atrocità commesse nell’occupazione della Jugoslavia. Ma a costringere gli italiani alla fuga furono i partigiani comunisti titini; e spesso gli esuli furono accolti con freddezza, per usare un eufemismo. L’Italia democristiana aveva soprattutto voglia di girare pagina.

Ora il Giorno del Ricordo viene spesso messo in contrapposizione con la Giornata della Memoria (istituita da una legge che dovrebbe portare il nome della personalità che si è battuta per farla approvare, Furio Colombo). Ma è una contrapposizione artificiosa e falsa. Non esistono ricorrenze di destra e ricorrenze di sinistra. Non si tratta di relativizzare o fare confronti. Non esistono memorie condivise; di memoria ognuno ha la sua, e non la può cambiare. Esistono sofferenze che vanno rispettate.

Rendiamo idealmente omaggio ai resti di Nazario Sauro, che era di Capodistria, diede la vita per l’Italia nella Grande Guerra, lasciò una lettera piena di dignità prima di salire sul patibolo austriaco, fu portato a spalla dagli esuli istriani e ora riposa al Lido di Venezia, la capitale morale di quella patria adriatica oggi perduta. Aldo Cazzullo

Monumento a Nazario Sauro Molo dei Bersaglieri Trieste

 

 

 

 

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Verga a Firenze, con amore

29/01/2022 da Sergio Casprini

A cento anni dalla morte ricordo del padre del Verismo che qui scrisse «Storia di una capinera». I salotti, la colazione da Doney e la passione tormentata per Giselda Fojanesi

Luca Scarlini Corriere Fiorentino 29 gennaio 2022

 

Giovanni Verga arriva a Firenze nel maggio 1865, dopo avere abbandonato gli studi di legge a Catania, a cui lo indirizzava la famiglia. Dalla lettura della rivista La Nuova Europa gli era chiaro che l’ambiente della città, che aveva ormai salda fama di Atene d’Italia, era quello che a lui serviva per poter tentare la carriera di scrittore. Nella città siciliana a ventun anni aveva pubblicato il romanzone risorgimentale I carbonari della montagna, stampato da Galatola. Proprio la Nuova Europa gli pubblica a puntate un’altra fiammeggiante trama di politica e amore, Sulle lagune, tra l’agosto 1862 e il marzo 1863.

Nel frattempo come era proprio di ogni giovane che arrivava nella città che nel 1865 sarebbe diventata la capitale del nuovo regno d’Italia, il polo di attrazione principale era La Nuova Antologia, prestigiosissima testata, diretta con polso ferreo da Francesco Protonotari, che aveva sede in via San Gallo. Su queste pagine, molto più tardi,nel 1881, comparve una parte del romanzo più noto dello scrittore, I Malavoglia, che fece sensazione.

Salotto Rosso  Borgo dei Greci

In quelle stanze circolava anche il conterraneo Mario Rapisardi, che nel 1865 pronunciò una infiammata e assai retorica Ode a Dante, nell’occasione dello svelamento della statua in Piazza Santa Croce. Meno facile per il giovane Verga fu l’accesso al salotto rosso in Borgo dei Greci di Emilia Peruzzi, potentissima dama letteraria, in cui spadroneggiava Edmondo de Amicis, ancora in divisa, che stava già dando prove di sé destinate in breve a dargli larga popolarità. Invece il giovane catanese sta nei ricevimenti dei Pozzolini e degli Assing, in cui si discute di nuove forme espressive e di politica, mentre il tema che è più in primo piano e l’arrivo della nuova nazione a Roma, dove il papa nega ogni sviluppo della storia italiana.

Caffè Doney

Il giovane Verga aveva le idee chiare, dalla sua residenza in via dell’Alloro programmava le sue giornate: «Mi alzo alle otto, dalle nove e mezzo lavoro fino a mezzogiorno, poi vado a fare colazione di caffè e latte da Doney. All’una sono di nuovo a lavorare, alle sei vado a pranzo, alle sette e mezzo faccio la mia passeggiata e se è domenica, lunedì o giovedì nelle case dove mi hanno invitato». Firenze era favorevole assai alla letteratura siciliana e nella città era assai presente il magistero di Michele Amari, che nel 1854 aveva clamorosamente pubblicato da Le Monnier la sua importantissima Storia dei musulmani di Sicilia. Questo frenetico apprendistato si riflette nei primi romanzi: in Eva (1873) la ballerina protagonista incontra il giovane Enrico Lanti alla Pergola, in Tigre reale (1875) il giovane Giorgio La Ferlita fa le prime esperienze di mondanità in riva all’Arno. Il teatro era il territorio a cui i giovani si rivolgevano per cercare fortuna, e anche Verga, che ottenne trionfi assai più tardi con Cavalleria rusticana, a Firenze si cimentò con il genere, scrivendo tra il 1865 e il 1866 I nuovi tartufi, che rimase inedita. Il testo voleva essere una satira di un mondo conservatore, con il possidente Prospero Montalti, indotto dal bigotto e arraffone Fernando Codini a mettersi in politica. A Firenze Verga scrisse Storia di una capinera, che uscì nel 1871 da Lampugnani a Milano e fu il suo primo vero successo. Al libro ha dedicato una acuta ricerca, Verga a Firenze, Irene Gambacorti, edita da Le Lettere nel 1994. Il romanzo traeva origine da una esperienza autobiografica, quando lo scrittore adolescente, in fuga da Catania con la famiglia per una epidemia di colera, si era innamorato follemente della giovane educanda Rosalia, che studiava al convento di Vizzini. La storia della protagonista, innocente e sempre ostacolata dal fato, trova il titolo in una suggestione fiabesca: «vidi una povera capinera chiusa in gabbia: era timida, triste, malaticcia ci guardava con occhio spaventato».

Giselda Fojanesi

A Firenze nacque l’amore infelice con la bella Giselda Fojanesi, letterata, che doveva recarsi a Catania come docente al Convitto Nazionale. Dalla nativa Foiano della Chiana, di cui recava anche il nome, nel 1861 si era infatti trasferita nel capoluogo per gli studi, dove aveva dato notevoli prove, concludendo a soli diciotto anni l’abilitazione all’insegnamento. Da allora fu una presenza costante nei salotti culturali cittadini, dove conobbe molti dei protagonisti del suo tempo, tra cui l’anarchico Michail Bakunin, il cui pensiero la sedusse. Nelle celebrate stanze di Erminia Fuà Fusinato, padrona di casa abilissima nell’accogliere il meglio della produzione artistica e intellettuale in città, accade l’incontro che cambia la sua vita. Nel 1869 è il momento per l’Arno di vedere una fitta comunità di siciliani a caccia di riconoscimenti: a breve distanza l’avanguardistica signorina incontra quindi Giovanni Verga e Mario Rapisardi. Sospesa tra Verga (che la usò come consulente per la vita di collegio in Storia di una capinera) a cui fu legata per tutta la vita da una amicizia amorosa e Rapisardi, gelosissimo e sospettoso, infine convolò con il secondo. La relazione a tre fece discutere a lungo: Luigi Pirandello si ispirò alla Fojanesi per il personaggio di Marta Ajala ne L’esclusa.

 

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La lezione dei Presidenti

11/01/2022 da Sergio Casprini

 

 Pertini, Cossiga, Ciampi… Valdo Spini nel saggio «Sul colle più alto» (Solferino) racconta storie e aneddoti sugli inquilini del Quirinale.

 Edoardo Semmola Corriere Fiorentino 11 gennaio 2022

Se c’è una lezione che Valdo Spini spera che l’attuale Parlamento abbia imparato, è quella che nel 1978 portò all’elezione di Sandro Pertini a Presidente della Repubblica. Ci vollero 16 tentativi ma «alla fine fu trovata una candidatura giusta e di successo». Per trovare la lezione al contrario, quella da non replicare, fa un salto in avanti di sette anni: Cossiga. «Eletto al primo scrutinio ma si è rivelato una figura discussa».

Morale della favola: la fretta è cattiva consigliera, la capacità di riflettere oltre le logiche di parte, è ciò di cui il Paese ha bisogno. Mancano due settimane all’inizio della maratona parlamentare che porterà a scegliere il successore di Sergio Mattarella al Colle. Chi sarà il tredicesimo presidente? Per avvicinarsi a questa risposta, l’ex parlamentare e ministro socialista fiorentino ha pensato di mettere in fila ricordi e aneddoti sui dodici inquilini del Quirinale che finora si sono succeduti.

Ne è nato un libro: Sul colle più alto (Solferino) distribuito in edicola insieme al Corriere della Sera e in tutte le librerie.

Di storie ne ha messe insieme quattordici perché «ho voluto inserire anche De Gasperi, è a lui che si deve la decisione di proclamare la vittoria della Repubblica sulla Monarchia nella notte tra il 12 e il 13 giugno del 1946 quando il re era ancora al Quirinale e si merita il titolo di capo provvisorio dell’Italia». Per arrivare a 14 si deve considerare che ha tenuto divisi i due mandati di Giorgio Napolitano «per la differenza dei due momenti e per il significato che quella differenza porta con sé: dovrebbe dissuaderci dal tentare nuovamente l’ipotesi del secondo mandato».

Le forze politiche stanno animando il dibattito sulla successione a Mattarella più che mai. Perché lei ha voluto contribuire a questo dibattito con un libro di taglio storico?

«Perché in un Paese così difficile e delicato come l’Italia, la scelta del Presidente è sempre un estremamente importante: quando le istituzioni vanno in panne, è lui che le deve riattivare. Non ho mai creduto nel premierato e nemmeno in un appannamento dei poteri del Capo dello Stato, come se fosse una Regina Elisabetta senza corona. E poi, avendo 8 legislature alle spalle, partecipo personalmente ai dubbi e ai problemi che i parlamentari di oggi si staranno ponendo: il periodo che stiamo vivendo richiede riflessioni di saggezza, mi ricorda molto l’elezione del 1992 che fu condizionata dalla strage di Capaci e costrinse in 24 ore le forze politiche a eleggere uno dei due presidenti delle Camere, Oscar Luigi Scalfaro».

Fu la volta che stava per diventare presidente un grande fiorentino, Giovanni Spadolini. Nel suo libro di passaggi «toscani» ce ne sono diversi.

«Intanto ci sono i due presidenti toscani: il livornese Carlo Azeglio Ciampi e il pisano Giovanni Gronchi. Eh sì, ci manca un fiorentino. Ci siamo andati solo vicini, con Spadolini. Poi c’è il ricordo della strage dei Georgofili con Ciampi all’epoca al governo. Mettendo in relazione il mandato di Scalfaro e quello di Ciampi, nella chiave dello stragismo».

Ciampi è uno dei più amati, dagli italiani, ma anche da lei, per come ne parla…

«Di lui ricordo anche la visita ufficiale che fece a Massa Carrara e in cui fa accolto benissimo. E quando inaugurò a Cinquale il monumento alle donne sulla Linea Gotica».

I suoi ricordi più belli?

«Quando ho accompagnato Pertini alla prima visita di un Presidente della Repubblica a Sant’Anna di Stazzema, il 30 settembre 1982. E poi l’anno successivo quando mi chiamò per rallegrarsi della mia rielezione. Gli dissi: “Adesso presidente la patata bollente è tua”. E lui risponde che De Mita ha perso il 6%, che Spadolini ha fatto il suo tempo, e che se Craxi se la sente potrebbe fare il governo lui. A quel punto gli chiesi se potevo dirglielo, a Craxi. Pertini risponde: “Sì ma digli anche di non farsi troppo nemici i comunisti”».

Quali insegnamenti possiamo trarre da queste storie per leggere quello che sta per succedere?

«Il Parlamento deve ricordarsi la necessità di formare una convergenza su una candidatura giusta come fu quella di Pertini, perché oggi c’è un’indubbia crisi di personale politico: il fatto che si dica tutti che Draghi deve stare o al governo o al Colle, quando in passato avremmo avuto sicuramente un lotto di personalità più ampio, è indicativo. Adesso oltre al Pnrr ci serve un miniprogramma di risanamento istituzionale che parta da una nuova legge elettorale, dalla riforma dei regolamenti parlamentari, e dall’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione per dare ai partiti una forma compiutamente democratica».

Cosa è cambiato nel tempo, e cosa è rimasto uguale?

«È cambiato che in passato la scheda veniva deposta a cielo aperto, poi nel 92 furono introdotte le cabine per difendere la segretezza del voto, e ora il progresso della tecnologia mette in crisi quei catafalchi, perché potendo fotografare il proprio voto siamo tornati al rischio di dover dimostrare di aver rispettato le consegne di partito. Sarebbe fondamentale ricreare le condizioni di serenità e segretezza del voto di un tempo».

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Padova e la battaglia delle statue

04/01/2022 da Sergio Casprini

Una donna in Prato della Valle

Elvira Serra Corriere della Sera 3 gennaio 2022

C’è chi già parla di cancel culture. Anche se qui, in realtà, più che cancellare, si vuole aggiungere qualcosa. Anzi, qualcuno. Una donna, su uno dei piedistalli rimasti vuoti nei due anelli che circondano l’Isola Memmia sul Prato della Valle di Padova, una delle cinque piazze più grandi d’Europa. Le statue, 78 e tutte numerate, raffigurano soltanto uomini, da Michele Savonarola a Galileo Galilei, da Francesco Petrarca a Torquato Tasso. In linea con lo spirito dei tempi: i lavori di bonifica dell’area, voluti dall’allora provveditore Andrea Memmo, erano partiti nell’estate del 1775. Delle ottantotto statue di personalità eccellenti di Padova o con un legame con la città, sei furono distrutte dall’esercito napoleonico (perché raffiguravano dogi veneziani); al loro posto furono messi degli obelischi e due piedistalli rimasero vuoti. «Forse non è così risaputo che i soggetti cui sono dedicate le effigi lapidee sono tutti, senza alcuna eccezione, uomini», c’è scritto nella mozione presentata il 21 dicembre in consiglio comunale da Simone Pillitteri e Margherita Colonnello, su suggerimento di Anna Piva, cittadina sensibile alle tematiche di genere e innamorata della figura di Elena Lucrezia Cornaro Piscopia, prima donna nel mondo a essersi laureata proprio a Padova, nel 1678.

1686 In morte di Elena Lucrezia Cornara Piscopia accademica

È a lei che viene proposto di dedicare la statua da aggiungere su uno dei piedistalli vuoti. «Ha aperto idealmente la strada a un percorso che oggi vede, nel nostro Ateneo, una quota di dottoresse pari, e in alcune materie nettamente superiore, a quella dei colleghi, oltre alla prima Magnifica Rettrice dopo 800 anni di storia». Sul Mattino di Padova il soprintendente Fabrizio Magani ha manifestato apertura, sia sull’iniziativa che sulla scelta del nome: «Inserirla nel pantheon delle glorie venete contribuirebbe a dotare la città di un nuovo modello di ispirazione e sarebbe coerente con la ragione per cui anche le altre statue si trovano lì». Ma non sono mancate le critiche: dei puristi, docenti o ex amministratori, che hanno avuto da ridire. Dimenticando lo spirito con cui è nata la mozione, che vuole dare un segnale di come oggi la realtà, e la sensibilità, siano diverse.

«L’argomento è molto più ampio e va al di là della singola statua», interviene la magnifica rettrice Daniela Mapelli, prima donna a ricoprire l’incarico in otto secoli di vita dell’ateneo padovano. Al telefono, puntualizza: «Io la cancel culture la trovo pericolosa, ma penso che si possa ripartire da ora. Ci sono tante donne contemporanee che stanno facendo la storia. Il vero tema è che, non solo a Padova, ma in tutta Italia, anche i nomi delle vie e delle piazze rispecchiano una cultura che appartiene al passato. È importante che la storia cominci a cambiare, e non per riscriverla».

2021 Statua di Cristina Trivulzio di Belgiojoso, Milano

Un paio di mesi fa, dopo il caso della spigolatrice «sexy» di Sapri, l’associazione «Mi Riconosci» censì, attraverso professionisti dei beni culturali, statue e monumenti femminili in tutta Italia. Il risultato, sconfortante, fu di 148 statue, sessanta delle quali raffiguravano donne anonime, partigiane, mondine, lavandaie. Mettendo insieme Roma, Napoli, Milano, Torino, Firenze, Bologna, Bari, Palermo, Cagliari e Venezia, il totale è di venti statue (sono escluse quelle che si trovano nei cortili pubblici o privati e che rappresentano figure allegoriche).

«È importante che questo dibattito sia partito a Padova», chiude Mapelli. Ma sulla scelta di Elena Lucrezia Cornaro Piscopia ha qualche riserva: «La sua statua l’abbiamo già nel nostro ateneo e quella è la sua casa. Per il Prato della Valle non si deve pensare necessariamente a lei. È giusto che nella scelta venga coinvolta la città intera».

Prato della Valle Padova

 

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I SORDI, L’ITALIA E LA COSTITUZIONE

18/12/2021 da Sergio Casprini

E’ dovere e impegno di una società civile saper vedere le disuguaglianze, combatterle e rimuoverle

15 dicembre 2021: le persone completamente sorde, al mondo, sono oltre 83 milioni, a fronte di una popolazione terrestre stimata attorno a 7,85 miliardi di persone. Nel mondo dunque una persona su 94 è impossibilitata a percepire qualsiasi suono, con le ricadute che si possono immaginare sul suo percorso scolastico, nella crescita, nelle amicizie, nella famiglia, nel lavoro. Nella mia vita ho conosciuto ragazzi che ci sentivano, ma che avevano la madre o il padre -o anche entrambi i genitori-, affetti da sordità; ho conosciuto genitori che ci sentivano, ma che vivevano con angoscia la sordità di una figlia, o di un figlio.  L’angoscia di quei genitori era data dalla paura dell’esclusione che già vedevano nel futuro dei loro figli: esclusione o ghettizzazione in un ambito di soli non udenti.

Parlare di questo non riguarda  anche la difesa dei valori del Risorgimento? O i principi della nostra Costituzione? O non ribadisce, in senso politico più ampio, valori di giustizia e libertà, al di là di un approccio solo medico e organizzativo al problema? E perché, in questo momento, scrivo di sordità, e non piuttosto di cecità, paraplegia, o di altre condizioni di grande sofferenza ed esclusione?

Il sordomutismo iniziò ad essere affrontato come problema sociale, in Italia, dal 1784: il primo educatore dei sordi fu l’abate Tommaso Silvestri, che portò avanti l’esperienza di Charles-Michel de L’Epée, inventore in Francia di un metodo di mimica gestuale per comunicare. Gli allievi di Silvestri venivano istruiti nell’articolazione, nella lettura labiale, ma con il supporto dei segni gestuali come mezzo fondamentale di comunicazione. Cominciarono a nascere diverse scuole per sordi, prima a Roma e in seguito in altre città italiane.  C’è da dire che, a differenza dei ciechi, i sordi in tutta Europa erano considerati malati mentali, e per questo fatto esclusi dalla maggior parte dei diritti civili.

Monumento a Tommaso Silvestri Abate, Trevignano Romano, Roma

In pratica: un cieco poteva gestire una propria attività, vendere, comprare, donare o ereditare beni, ma un sordomuto -non si ragionava punto sul rapporto tra sordità e mutismo, né sul fatto che nella stragrande maggioranza dei casi il mutismo è legato alla sordità-, ritenuto mentalmente minorato, se possidente era affidato ad un tutore, non poteva gestire i propri beni, né poteva ereditare direttamente; se poi era povero poteva ritrovarsi, senza colpa, ‘incatenato in carcere assieme agli altri pazzi’.  

Successivamente, intorno al 1880, emerge la figura di Filippo Smaldone, che stese programmi e progetti educativi, linee di metodo e di didattica, esaltando il metodo orale labiale, basato sulla lettura delle labbra, escludendo l’uso delle lingue dei segni. In Italia solo a partire dal 1980 sorgeranno le prime ricerche linguistiche e scientifiche sulla lingua dei segni italiana. Nel 2020 il Festival di Sanremo è stato per la prima volta totalmente tradotto in diretta nella lingua dei segni. Al di là del dibattito scientifico e pedagogico, se sia appropriato insegnare la lingua dei segni, oppure il metodo orale labiale, oppure entrambi contemporaneamente, è dovere e impegno di una società civile saper vedere le disuguaglianze, combatterle e rimuoverle. Anche nel caso della sordità.

Livio Ghelli  Comitato Fiorentino per il Risorgimento

 Nello Studio 4 di via Teulada traduzione in diretta con la lingua dei segni delle canzoni del Festival di Sanremo 2020

 

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Andiamo al cinema a studiare la storia

05/12/2021 da Sergio Casprini

Cinema Italia

I film che hanno fatto gli italiani

Autore   Giovanni De Luna

Editore   Utet

Anno     2021

Pag.      334

Prezzo    € 22,00

 

«Da Pontecorvo a Giordana, da Fellini a Martone, da Pasolini a Scola, sono innumerevoli i registi che hanno contribuito a fare gli italiani. Cinema Italia è un libro che dovrebbe stare in ogni scuola, da consigliare a chi ama la storia e a chi si ostina a insegnarla ai più giovani» – Simonetta Fiori, Robinson

Nel 1914 esce Cabiria, forse il più grande kolossal della storia del cinema italiano. La storia, in teoria, documenta l’epico scontro tra Roma e Cartagine, ma l’estetica orientaleggiante e liberty dell’epoca, con tanto di D’Annunzio alla sceneggiatura, raccontano facilmente in controluce anche il presente di quell’Italia desiderosa di guadagnare visibilità e credibilità internazionale. Parte da qui un percorso appassionante nel cinema italiano visto dall’ottica inedita di uno storico che, senza timore di mescolare alto e basso, utilizza i film come documento del periodo in cui venivano realizzati, del gusto del pubblico e della temperie culturale. E questo sia quando il cinema si faceva specchio del presente (l’immediato dopoguerra di Ladri di biciclette, i primi venti del boom di Un americano a Roma, la lotta sociale de La classe operaia va in paradiso ma anche l’estetica pre-Mani Pulite dei vari Vacanze di Natale) sia quando il cinema si fa strumento a sua volta di indagine storica: non solo Cabiria ma ovviamente La grande guerra, Una giornata particolare, La notte di San Lorenzo, La meglio gioventù…

Giovanni De Luna è docente di Storia contemporanea all’Università di Torino. Ha collaborato alla «Stampa» e a «Tuttolibri» ed è autore di varie trasmissioni radiofoniche e televisive. Tra i suoi titoli ricordiamo: Donne in oggetto. L’antifascismo nella società italiana (1995), La passione e la ragione. Il mestiere dello storico contemporaneo (2004), Storia del Partito d’Azione (2006), Il corpo del nemico ucciso (2006), Le ragioni di un decennio (1969-1979) (2009), La repubblica del dolore (2011), Una politica senza religione (2013), La Resistenza perfetta (2015). Per Einaudi ha inoltre curato L’Italia del Novecento. Le fotografie e la storia (2005-2006), La Repubblica inquieta (2017), Juventus. Storia di una passione italiana. Dalle origini ai giorni nostri (con Aldo Agosti, 2019). Fonte immagine: sito editore Feltrinelli.

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FIRENZE IMMAGINATA

03/12/2021 da Sergio Casprini

LETTERE MAI SCRITTE DI PERSONAGGI STORICI FIORENTINI

Autore Jacopo Berti
Editore Aska Edizioni
Anno 2021
Pagine 152
Prezzo € 15,00

 

Questo volume raccoglie scorci inediti delle vite di personaggi più o meno noti della storia di Firenze in una serie di trentaquattro lettere mai scritte, ma ritrovate nella mente di chi le ha pensate.
L’autore infatti è penetrato idealmente nel pensiero e nei sentimenti dei protagonisti calandosi nel loro contesto storico. Attraverso le parole delle lettere si percorrono le strade e i quartieri di una città unica al mondo, unica anche per gli ingegni straordinari che vi vissero, che l’amarono e che soffrirono dentro le sue mura. Trentaquattro storie per scoprire il volto nascosto della città, un percorso nello spazio e nel tempo in trentaquattro tappe: un numero simbolico come la sommatoria delle lettere ebraiche e che rimanda alla prima lettera della Bibbia, escatologico come i canti dell’Inferno dantesco, ipnotico come la costante di un quadrato magico quattro per quattro, lacerante come la cella di Edmond Dantès al Castello d’If. Forse ciò che è davvero interessante della Storia avviene lontano dalla luce del sole e si scoprono solo per caso le vicende degli uomini tra le righe di una lettera anche solo immaginata. La storia millenaria di una città si intreccia così con la memoria individuale dei suoi abitanti illustri, una memoria ricostruita grazie alla quale il lettore ripercorre vicende ed emozioni, rivede i luoghi, gli oggetti di una quotidianità vissuta e la loro bellezza. George Gordon Byron scriveva che uno dei piaceri di leggere le vecchie lettere, è sapere che non occorre rispondere; quindi non resta che intraprendere questo viaggio insolito alla scoperta di Firenze attraverso la storia dei suoi personaggi.

Jacopo Berti è docente di lettere presso il Liceo «Niccolò Machiavelli» di Firenze. Laureato con lode in lettere moderne presso l’Università degli studi Firenze e vincitore del Premio Palazzeschi 1995. Ha insegnato per quasi vent’anni in università italiane e straniere in Italia e negli Stati Uniti tra le quali New York University, University of North Carolina at Chapel Hill, California State University, Centro di Cultura per Stranieri dell’Università di Firenze come docente di Lingua, Letteratura, Storia europea e Cultura italiana. Si è occupato del pensiero di Niccolò Tommaseo e ha collaborato con diverse pubblicazioni con le riviste «Studi Italiani», «Antologia Vieusseux», «Nuovo Rinascimento». Nel 2020 è uscito per la casa editrice Le Càriti Versi metafisici, un’edizione critica di due opuscoli poetici di Tommaseo mai ripubblicati.

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IL MILITE IGNOTO E IL VIZIO ITALIANO DI DISPREZZARSI

26/11/2021 da Sergio Casprini

 

 LETTERE al Corriere della Sera  26 novembre 2021

 

Caro Cazzullo, in questi giorni siamo stati bombardati da memorie della Prima guerra mondiale. E d’altra parte quella l’avevamo vinta. Piccola riflessione: come mai, secondo lei, tra le numerose aspiranti madri di un milite ignoto, fu scelta Maria Bergamas, cittadina austriaca fino alla vittoria e madre di un cittadino austriaco disertore per aver voluto arruolarsi nell’esercito italiano, dunque grande eroe per noi ma traditore (e con qualche buon motivo) per gli austriaci? Non sembra quasi più uno schiaffo al nemico vinto che un onore al popolo italiano? Angela de Filippis Roma

Gentile signora de Filippis, pubblico la sua lettera con un profondo senso di scoramento. Credo che non esista nessun popolo come il nostro che disprezzi così tanto se stesso. Se ci sono figure luminose, sono quelle degli irredentisti. Nazario Sauro dopo la cattura venne messo a confronto con la madre, la quale negò di conoscere il figlio ma non riuscì a salvarlo dalla forca. Cesare Battisti, figura limpida del socialismo europeo, fu impiccato come un criminale: la foto del boia con bombetta giunto apposta da Vienna e degli ufficiali austriaci che si fanno beffe del suo cadavere destò un enorme impressione in tutto il mondo, Karl Kraus — anche lui suddito dell’imperatore — la portò in scena negli Ultimi giorni dell’umanità come memento della ferocia dei suoi connazionali. Gli austriaci impiccavano gli italiani — come avevano fatto con Ciro Menotti e con i martiri di Belfiore — perché non ci riconoscevano dignità di nazione. Eravamo per loro un’espressione geografica e un popolo inferiore. Nell’Ottocento occupavano direttamente le regioni più ricche — la Lombardia, Venezia — e mandavano i cadetti delle loro dinastie a governare Parma, Modena, Firenze. Ovviamente non dobbiamo pensare alla pacifica Austria di adesso, ma alla maggiore potenza continentale. Dovemmo combattere contro di loro tre guerre di indipendenza e una tragica guerra mondiale da 650 mila morti per riconquistarci una patria. Rilegga l’ultima lettera di Antonio Bergamas, gentile signora de Filippis, quella in cui spiega alla madre Maria le ragioni della sua scelta di andare a morire per l’Italia. Forse ci ripenserà.  Aldo Cazzullo 

 

12 luglio 1916:L’impiccagione di Cesare Battisti al castello del Buon Consiglio di Trento

 

 

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Gloria: Apoteosi del soldato ignoto

05/11/2021 da Sergio Casprini

L’«invenzione» del Milite Ignoto e la narrazione del Paese

Aldo Grasso Corriere della Sera 4 novembre 2021

 Per Rai Storia Nicola Maranesi e Marco Mondini hanno presentato una formidabile puntata sul Milite Ignoto: «L’ultimo eroe. Viaggio nell’Italia del Milite Ignoto». Il programma ha ripercorso il lento viaggio in treno della bara, accolta in ogni stazione da folle reverenti, dalla Basilica di Aquileia fino all’arrivo a Roma, dove il 4 Novembre 1921, a tre anni esatti dalla vittoria italiana nella Grande guerra, si celebrò l’atto finale della sepoltura all’Altare della Patria. Quella cerimonia, il rito collettivo di una Nazione che si riconosce nel sacrificio dell’eroe postumo, è stata probabilmente il primo grande evento mediatico della storia d’Italia. 

Costruito con una attenzione scenografica che oggi non può che stupire. Non solo per la cerimonia in sé (la velocità moderata del treno consentì alle folle inginocchiate lungo il percorso di esprimere sentimenti di venerazione), non solo per la colonna sonora che accompagnò la liturgia patriottica («La canzone del Piave»), non solo per la presenza costante di coprotagonisti (ex combattenti, mutilati, vedove, orfani), ma soprattutto perché fu girato un film, Gloria: Apoteosi del soldato ignoto, per documentare tutte le fasi della cerimonia, dalla preparazione del carro funebre allestito a Trieste al momento più toccante: la scelta del caduto, tra undici salme di morti ignoti, che simboleggerà il sacrificio della Nazione intera (scelta affidata a Maria Bergamas, madre di un volontario triestino disperso in guerra).

L’«invenzione» del Milite Ignoto (che fecero anche altri Paesi) è una narrazione di cui l’Italia aveva estremamente bisogno: creare un’icona per rispondere all’angoscia che la guerra aveva generato, per «monumentalizzare» i caduti, per conciliare la religione cattolica con la religione della Patria, per creare una liturgia inclusiva che desse un senso a troppi morti («la storia del nostro lungo travaglio, la storia della nostra grande vittoria»).

4 NOVEMBRE 2021.  Il Presidente Mattarella  onora il Milite Ignoto

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L’ingegner Fucini a Firenze

06/10/2021 da Sergio Casprini

Tutti lo conoscono come scrittore e poeta, poco invece si sa del suo «tirocinio professionale» Lavorò per il Comune e col Poggi alla progettazione del viale dei Colli. A lui si deve il villino Bernhardt

Francesco Gurrieri Corriere Fiorentino 6 Ottobre 2021

Questo nostro 2021 è anche il centenario della morte di Renato Fucini (Empoli, 1921). Di «Neri Tanfucio» e della sua poesia, grazie agli studi di Davide Puccini, si sa tutto, un po’ meno della sua attività professionale. Infatti, che il De Amicis lo incontrasse spesso per le vie di Firenze «in mezzo a turbe di muratori e di scalpellini», avendo sottobraccio il disegno d’una casa, o uno scartafaccio pieno di cifre, era indicazione nota, scivolata però, per quanto si sappia, nel ragionevole disinteresse dei suoi critici e dei suoi non pochi detrattori.

Del resto, se il Fucini narratore ha il suo spazio sicuro nella stagione veristica della nostra letteratura, difficile è trovar traccia delle sue opere nella storia dell’architettura, diciamo, dell’eclettismo.  Tutti conoscono i bonheurs d’expression del «giovanotto di spirito », pochi sanno, appunto, del suo tirocinio professionale e della sua maggior opera, il villino Bernhardt in via dei della Robbia.

Quando cominciarono a girare in Firenze i suoi primi sonetti manoscritti, la città viveva la sua grande, irripetibile stagione di capitale del Regno. Com’è noto, la deliberazione della Camera del 18 novembre 1864 sanzionò: «la capitale del Regno sarà trasferita a Firenze, dentro sei mesi dalla data della presente legge». E, nonostante più d’un fiorentino sospettasse subito che «l’onere potesse esser maggiore dell’onore», i lavori per la sistemazione logistica dei ministeri e di quant’altro fosse necessario presero il via con effetto immediato. Fatale dunque che a tali oneri si dovesse far fronte con nuove assunzioni di personale.

Fu così che il Fucini, col suo diploma di perito agrario e con gli studi di disegno che aveva fatto a Livorno nello studio del pittore Baldini, si ritrovò nel «registro dei giornalieri» del municipio di Firenze, fin dall’ ottobre del ‘64. Nella filza sul «riordinamento del ruolo organico», oggi conservata nell’archivio storico del nostro comune, lo «stato di servizio » va dal ‘64 al ‘69; vi si legge «come titolo speciale ebbe impegno grandissimo, come punti di merito dieci» e in allegato vi è un attestato (che con il senno del poi possiamo giudicare determinante) dell’ingegner Giacomo Roster, uno dei maggiori professionisti del tempo, del quale, più tardi, il Fucini sposò la figlia Emma. Sempre stando agli «atti», il Fucini è ingegnere di seconda classe, nella terza sezione dell’Uffizio d’Arte. La circostanza è di qualche interesse per la complessa sistemazione dei ministeri in vari compendi monumentali (la Camera dei deputati nel Salone dei Cinquecento e il Senato nel Salone dei Dugento). La cosa non può non stimolare subito il Fucini, che ci lascerà in un sonetto del Guazzabuglio («Dopo il trasferimento degli Uffizi comunali in Palazzo Vecchio») la sua satira graffiante: «Per aver qui un’idea della distanza / O meglio, sproporzione all’infinito / Che v’è tra un impiegato e la sua stanza, / Facendo un calcoletto a menadito / Si troverà la stessa discrepanza / Che v’è tra la su’ paga e ‘1 su’ appetito ».

Sono anni di intensa attività edilizia: l’ufficio d’arte municipale era diretto dall’architetto Del Sarto e, per «razionalizzare un’equa distribuzione del lavoro e delle responsabilità» fu creato un nuovo ufficio per l’atterramento delle mura e l’allargamento della città, affidandolo a Giuseppe Poggi.  In quegli anni il Fucini frequenterà i salotti più mondani. Ma, nello stesso tempo, è chiamato dal Poggi a collaborare ai grands travaux di Firenze capitale, vigilando e dirigendo i lavori di un nucleo di operai. È ragionevole pensare che il nostro ingegnere di seconda classe abbia tracciato — topograficamente — buona parte del Viale dei Colli. Ma ben presto Firenze doveva lasciare a Roma una vocazione che forse non aveva mai avuto. Non è dato sapere se l’ingegner Fucini fosse stato licenziato o si fosse collocato in aspettativa: fatto è che nei registri riguardanti il «Personale Provvisorio all’ Uffizio d’Arte », al 22 gennaio 1872, si legge: «Renato Fucini, incerto ».

Certa è invece la paternità fuciniana di un importante episodio professionale. Nell’inserto 383, al 15 febbraio 1872, nelle «carte Poggi», il sindaco di Firenze scrive: «Per quanto concerne questa direzione può essere approvato l’unito disegno previsto per il quale l’ing. sig. Renato Fucini si propone di dar forma esternamente ad un villino che il sig. Bernhardt vuol costruire sopra il lotto XXV via dei Robbia, quartiere Savonarola. Il villino del Fucini, ancor oggi visibile in via dei della Robbia, è una corretta realizzazione di quell’architettura eclettica che a Firenze si espresse con tratti stilistici neo-rinascimentali, con redazione di membrature in malta di calce.

Anche come «ingegnere» dunque, il Fucini sembra compendiare i pregi e i limiti dei toscani, che, se non ebbero nell’architettura fin de siécle guizzi monumentali, nemmeno si persero in inutili trionfalismi.

1878 Antonio Ciseri Ritratto di Renato Fucini

 

 

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