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Risorgimento Firenze

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Focus

Gloria: Apoteosi del soldato ignoto

05/11/2021 da Sergio Casprini

L’«invenzione» del Milite Ignoto e la narrazione del Paese

Aldo Grasso Corriere della Sera 4 novembre 2021

 Per Rai Storia Nicola Maranesi e Marco Mondini hanno presentato una formidabile puntata sul Milite Ignoto: «L’ultimo eroe. Viaggio nell’Italia del Milite Ignoto». Il programma ha ripercorso il lento viaggio in treno della bara, accolta in ogni stazione da folle reverenti, dalla Basilica di Aquileia fino all’arrivo a Roma, dove il 4 Novembre 1921, a tre anni esatti dalla vittoria italiana nella Grande guerra, si celebrò l’atto finale della sepoltura all’Altare della Patria. Quella cerimonia, il rito collettivo di una Nazione che si riconosce nel sacrificio dell’eroe postumo, è stata probabilmente il primo grande evento mediatico della storia d’Italia. 

Costruito con una attenzione scenografica che oggi non può che stupire. Non solo per la cerimonia in sé (la velocità moderata del treno consentì alle folle inginocchiate lungo il percorso di esprimere sentimenti di venerazione), non solo per la colonna sonora che accompagnò la liturgia patriottica («La canzone del Piave»), non solo per la presenza costante di coprotagonisti (ex combattenti, mutilati, vedove, orfani), ma soprattutto perché fu girato un film, Gloria: Apoteosi del soldato ignoto, per documentare tutte le fasi della cerimonia, dalla preparazione del carro funebre allestito a Trieste al momento più toccante: la scelta del caduto, tra undici salme di morti ignoti, che simboleggerà il sacrificio della Nazione intera (scelta affidata a Maria Bergamas, madre di un volontario triestino disperso in guerra).

L’«invenzione» del Milite Ignoto (che fecero anche altri Paesi) è una narrazione di cui l’Italia aveva estremamente bisogno: creare un’icona per rispondere all’angoscia che la guerra aveva generato, per «monumentalizzare» i caduti, per conciliare la religione cattolica con la religione della Patria, per creare una liturgia inclusiva che desse un senso a troppi morti («la storia del nostro lungo travaglio, la storia della nostra grande vittoria»).

4 NOVEMBRE 2021.  Il Presidente Mattarella  onora il Milite Ignoto

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L’ingegner Fucini a Firenze

06/10/2021 da Sergio Casprini

Tutti lo conoscono come scrittore e poeta, poco invece si sa del suo «tirocinio professionale» Lavorò per il Comune e col Poggi alla progettazione del viale dei Colli. A lui si deve il villino Bernhardt

Francesco Gurrieri Corriere Fiorentino 6 Ottobre 2021

Questo nostro 2021 è anche il centenario della morte di Renato Fucini (Empoli, 1921). Di «Neri Tanfucio» e della sua poesia, grazie agli studi di Davide Puccini, si sa tutto, un po’ meno della sua attività professionale. Infatti, che il De Amicis lo incontrasse spesso per le vie di Firenze «in mezzo a turbe di muratori e di scalpellini», avendo sottobraccio il disegno d’una casa, o uno scartafaccio pieno di cifre, era indicazione nota, scivolata però, per quanto si sappia, nel ragionevole disinteresse dei suoi critici e dei suoi non pochi detrattori.

Del resto, se il Fucini narratore ha il suo spazio sicuro nella stagione veristica della nostra letteratura, difficile è trovar traccia delle sue opere nella storia dell’architettura, diciamo, dell’eclettismo.  Tutti conoscono i bonheurs d’expression del «giovanotto di spirito », pochi sanno, appunto, del suo tirocinio professionale e della sua maggior opera, il villino Bernhardt in via dei della Robbia.

Quando cominciarono a girare in Firenze i suoi primi sonetti manoscritti, la città viveva la sua grande, irripetibile stagione di capitale del Regno. Com’è noto, la deliberazione della Camera del 18 novembre 1864 sanzionò: «la capitale del Regno sarà trasferita a Firenze, dentro sei mesi dalla data della presente legge». E, nonostante più d’un fiorentino sospettasse subito che «l’onere potesse esser maggiore dell’onore», i lavori per la sistemazione logistica dei ministeri e di quant’altro fosse necessario presero il via con effetto immediato. Fatale dunque che a tali oneri si dovesse far fronte con nuove assunzioni di personale.

Fu così che il Fucini, col suo diploma di perito agrario e con gli studi di disegno che aveva fatto a Livorno nello studio del pittore Baldini, si ritrovò nel «registro dei giornalieri» del municipio di Firenze, fin dall’ ottobre del ‘64. Nella filza sul «riordinamento del ruolo organico», oggi conservata nell’archivio storico del nostro comune, lo «stato di servizio » va dal ‘64 al ‘69; vi si legge «come titolo speciale ebbe impegno grandissimo, come punti di merito dieci» e in allegato vi è un attestato (che con il senno del poi possiamo giudicare determinante) dell’ingegner Giacomo Roster, uno dei maggiori professionisti del tempo, del quale, più tardi, il Fucini sposò la figlia Emma. Sempre stando agli «atti», il Fucini è ingegnere di seconda classe, nella terza sezione dell’Uffizio d’Arte. La circostanza è di qualche interesse per la complessa sistemazione dei ministeri in vari compendi monumentali (la Camera dei deputati nel Salone dei Cinquecento e il Senato nel Salone dei Dugento). La cosa non può non stimolare subito il Fucini, che ci lascerà in un sonetto del Guazzabuglio («Dopo il trasferimento degli Uffizi comunali in Palazzo Vecchio») la sua satira graffiante: «Per aver qui un’idea della distanza / O meglio, sproporzione all’infinito / Che v’è tra un impiegato e la sua stanza, / Facendo un calcoletto a menadito / Si troverà la stessa discrepanza / Che v’è tra la su’ paga e ‘1 su’ appetito ».

Sono anni di intensa attività edilizia: l’ufficio d’arte municipale era diretto dall’architetto Del Sarto e, per «razionalizzare un’equa distribuzione del lavoro e delle responsabilità» fu creato un nuovo ufficio per l’atterramento delle mura e l’allargamento della città, affidandolo a Giuseppe Poggi.  In quegli anni il Fucini frequenterà i salotti più mondani. Ma, nello stesso tempo, è chiamato dal Poggi a collaborare ai grands travaux di Firenze capitale, vigilando e dirigendo i lavori di un nucleo di operai. È ragionevole pensare che il nostro ingegnere di seconda classe abbia tracciato — topograficamente — buona parte del Viale dei Colli. Ma ben presto Firenze doveva lasciare a Roma una vocazione che forse non aveva mai avuto. Non è dato sapere se l’ingegner Fucini fosse stato licenziato o si fosse collocato in aspettativa: fatto è che nei registri riguardanti il «Personale Provvisorio all’ Uffizio d’Arte », al 22 gennaio 1872, si legge: «Renato Fucini, incerto ».

Certa è invece la paternità fuciniana di un importante episodio professionale. Nell’inserto 383, al 15 febbraio 1872, nelle «carte Poggi», il sindaco di Firenze scrive: «Per quanto concerne questa direzione può essere approvato l’unito disegno previsto per il quale l’ing. sig. Renato Fucini si propone di dar forma esternamente ad un villino che il sig. Bernhardt vuol costruire sopra il lotto XXV via dei Robbia, quartiere Savonarola. Il villino del Fucini, ancor oggi visibile in via dei della Robbia, è una corretta realizzazione di quell’architettura eclettica che a Firenze si espresse con tratti stilistici neo-rinascimentali, con redazione di membrature in malta di calce.

Anche come «ingegnere» dunque, il Fucini sembra compendiare i pregi e i limiti dei toscani, che, se non ebbero nell’architettura fin de siécle guizzi monumentali, nemmeno si persero in inutili trionfalismi.

1878 Antonio Ciseri Ritratto di Renato Fucini

 

 

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PERCHÉ CRISTINA TRIVULZIO SI ASPETTAVA UN MONUMENTO

02/10/2021 da Sergio Casprini

LETTERE al Corriere della Sera 2 ottobre 2021

 

Caro Cazzullo, ecco finalmente la «primadonna di Milano»! La prima statua femminile a Milano, dedicata alla nobildonna Cristina Trivulzio di Belgioioso, eroina del Risorgimento, ha trovato la più giusta e naturale collocazione in piazza Belgioioso, a fianco dell’omonimo palazzo in cui entrò come giovane sposa. Possiede la grazia e l’eleganza di Carla Fracci, unite all’indomabile carattere e la disinvolta dolcezza di Alda Merini, due delicate anime infrangibili! Una donna davvero «di spicco». Che ne pensa? Aldo Benedetti Piacenza

Caro Benedetti, Cristina Trivulzio di Belgioioso è stata una donna straordinaria. Protagonista del Risorgimento, madre della patria. Una donna che scrive lettere di presentazione per il viaggio in Italia di Balzac, ascolta Liszt e Chopin suonare per lei, ispira poesie di Heine, cucina per Lafayette, conversa di musica con Bellini, scrive lettere di conforto ai milanesi prigionieri allo Spielberg, accoglie l’esule Maroncelli con una gamba sola, finanzia Mazzini e ricama le bandiere delle sue fallimentari spedizioni, fonda un giornale patriottico e chiama a collaborarvi Giuseppe Montanelli, fa tradurre Leopardi in francese, sorride a Hugo che giocando con il suo nome la chiama «belle joyeuse», ascolta Chateaubriand leggere le Memorie d’oltretomba e le trova noiosissime, fa innamorare De Musset: «Aveva terribili occhi da sfinge/ così grandi, ma così grandi, che mi ci sono perduto/ e non mi ritrovo più». Forse ha anche una storia con George Sand, la scrittrice vestita da uomo che si crede la reincarnazione di Saffo; di sicuro una notte indossa anche lei abiti maschili, per accompagnare il futuro Napoleone III, allora giovane cospiratore carbonaro, a recuperare un carico di 316 fucili su una spiaggia della Versilia: come compenso ne chiede uno per sé. Arruola volontari napoletani per sostenere le Cinque Giornate di Milano, organizza gli ospedali da campo della Repubblica romana, Goffredo Mameli muore tra le sue braccia. In esilio viene pugnalata dall’infido servitore, ma si salva. Di sé Cristina disse che, se fosse stata un uomo, avrebbe avuto un monumento su tutte le piazze d’Italia. Almeno uno, finalmente, ce l’ha. Aldo Cazzullo

 

Ritratto di Cristina Trivulzio di Belgiojoso  Francesco Hayez 1832

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Rosario Romeo, un liberale che leggeva Marx

27/09/2021 da Sergio Casprini

Dino Messina Corriere della Sera 27 settembre 2021

In un Paese che ha sempre lamentato la carenza di cultura liberale, Rosario Romeo (1924-1987) è stato una figura di eccezione, perché capace di confutare l’egemonia marxista del secondo dopoguerra non soltanto in punto di dottrina, ma sul campo solido della ricerca storica. Ora un suo allievo, Guido Pescosolido, il maggiore studioso attuale del meridionalismo, ne traccia un ampio profilo biografico per gli Editori Laterza, Rosario Romeo. Uno storico liberaldemocratico nell’Italia repubblicana (pagine 370, 30). In pagine chiare, fitte e appassionate, Pescosolido allarga la ricerca avviata nel 1990 in un breve scritto, usando materiali inediti provenienti dall’archivio famigliare e dai vari fondi.

Figlio di un notaio siciliano, Rosario Leonardo, e di una donna di notevoli doti intellettuali, Teresa Patané, il giovane Romeo si segnala sin da giovanissimo come un fuoriclasse. A 14 anni legge il Medioevo di Gioacchino Volpe, da autodidatta affronta Il Capitale di Karl Marx, nel 1942 si trasferisce a Roma per seguire le lezioni di Volpe. Le vicende di guerra lo portano a rientrare in Sicilia, dove incontra Nino Valeri, nominato professore all’Università di Catania. Sotto la sua influenza scriverà il primo dei suoi libri, rielaborazione della tesi di laurea, Il Risorgimento in Sicilia, un saggio nato anche per rispondere alle tesi separatiste di Finocchiaro Aprile. In quel primo saggio si rivelano le qualità emerse nei lavori successivi: il rigore della ricerca, l’attenzione ai fatti politici ma anche al contesto economico, tanto da subire un attacco da Panfilo Gentile che lo accusa di filomarxismo. In realtà Gentile ha frainteso il discorso di Romeo, che in un’opera successiva, Risorgimento e capitalismo, maturata durante la collaborazione con la rivista «Nord e Sud», sferra un attacco micidiale alle tesi di Emilio Sereni, autore del Capitalismo nelle campagne, ma soprattutto ad Antonio Gramsci.

Il nucleo della tesi di Romeo è che una rivoluzione agraria avrebbe rallentato e non favorito il processo risorgimentale (difficile ipotizzare l’appoggio della Francia in presenza di una rivoluzione sociale) e che comunque la diffusione della piccola proprietà contadina avrebbe impedito il processo di accumulazione primaria di cui parlava Marx nel III libro del Capitale. Insomma, Romeo usa Marx contro i marxisti. Non c’è qui lo spazio per rievocare il dibattito che l’opera suscita anche a livello internazionale, né possiamo parlare degli importanti studi sul Cinquecento e la scoperta delle Americhe.

Nel 1954, a trent’anni, Romeo ha già vinto il concorso di libero docente, e nel 1955 gli è assegnata una cattedra all’università di Messina. Nessuna meraviglia, dunque, che quando Federico Chabod, direttore dell’Istituto di studi storici fondato da Benedetto Croce, deve indicare un nome per una biografia di Cavour commissionata dalla Famiglia Piemonteisa di Roma, fa il nome del suo collaboratore Romeo. Per questi comincia un’avventura durata un quarto di secolo, che lo porta a scrivere i tre volumi dell’opera definitiva sullo statista piemontese e che lo consacrano quale maggiore studioso del Risorgimento.

Pescosolido non trascura le battaglie politiche e giornalistiche del maestro, la collaborazione con il «Corriere», il passaggio al «Giornale» dopo un duro scambio di lettere con Piero Ottone, l’impegno in politica e nel Partito repubblicano, fino all’elezione al Parlamento europeo nel 1984 e alla prematura scomparsa tre anni dopo.

 

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Cristina, principessa carbonara .Vita della signora di Belgioioso

15/09/2021 da Sergio Casprini

Pier Luigi Vercesi ricostruisce per Neri Pozza la parabola di una protagonista del Risorgimento 

 Giancristiano  Desiderio   Corriere della Sera 13 settembre 2021

 

I rapporti tra Cavour e Cristina di Belgioioso furono improntati prima alla burrasca e poi alla stima. Fu la principessa che mise sulla buona strada il conte quando, servendosi di Giuseppe Massari, gli fece sapere: «Riferisca a Cavour che può fare di me ciò che vuole e star certo ch’io non vado per ciò in collera con lui». Il modo di pensare la politica era nella Trivulzio tutt’altro che tempestoso e romantico. Facoltà di giudizio e quel tanto di visione che rende possibile non solo «vedere» ma anche «fare» il futuro erano sue doti che il grande liberale apprezzò. Cavour prese a frequentarla e quando si dimise da primo ministro in seguito all’armistizio di Villafranca con cui Napoleone III rinunciando al Veneto poneva fine alla guerra contro l’Austria, furono in molti a voltargli le spalle. Tra quei molti non c’era la Belgioioso che gli scrisse: «Se Dio vuole il vostro allontanamento non durerà a lungo. Quando avrete fatto l’Italia spetterà a voi ed a voi solo di farne uno Stato, una monarchia costituzionale ordinata, libera, civile e felice». Felicità a parte, sapete come andò a finire la storia.

Ci sono libri che si leggono per studio, altri per diletto e altri ancora per errore. Il libro di Pier Luigi Vercesi — La donna che decise il suo destino. Vita controcorrente di Cristina di Belgioioso (Neri Pozza) — racchiude tutt’e tre le categorie. Infatti, si può iniziare a leggere la più completa, ragionata e appassionata biografia della Belgioioso che sia mai stata scritta credendo di avere tra le mani uno di quei libercoli che guardano la storia dal buco della serratura, ma presto la lettura si rivelerà un errore. Tuttavia, il lettore non riuscirà a staccarsi dalle pagine preso com’è dal fascino della tanto bella quanto intelligente principessa e continuerà la lettura con gusto e con piacere. Così facendo giungerà a metà del libro e si renderà conto di trovarsi nel bel mezzo dello studio della storia risorgimentale e anche quando Vercesi gli dirà che il Risorgimento fu «un groviglio di vipere e di eroi» e la figura di Cristina di Belgioioso sembra fatta apposta per passare nella fantasia dei posteri nel classico ruolo femminile a metà tra l’alcova e la subordinazione, il lettore avrà capito che Pier Luigi Vercesi viene a capovolgere luoghi comuni e calunnie presentando l’opera di una donna che prese in mano vita e destino e attraversò dall’inizio alla fine la storia di quel «groviglio di vipere e di eroi» di cui essa stessa fu autrice e attrice, vipera ed eroina.

Cristina Trivulzio di Belgioioso nacque a Milano il 28 giugno 1808, nel pieno dell’età napoleonica, e la sua generazione è la stessa dei tre «maggiori»: Mazzini (1805), Garibaldi (1807), Cavour (1810). Il libro di Vercesi serve proprio a questo: a vedere come la vita della Belgioioso, così ricca di avventure e di sventure e piena di spostamenti e soggiorni da Milano a Genova a Roma a Napoli e, poi, a Parigi, fino in Anatolia e Gerusalemme per ritornare a Milano, non fu da meno delle vite di «avventure, di fede e di passione» — per dirla con Croce — dei tre «mostri sacri» del nostro Risorgimento. Sono così tanti gli uomini e le donne, i personaggi reali e perfino i personaggi letterari, che entrano nella vita di Cristina di Belgioioso che si rimane stupiti della sua capacità di relazioni che mandò fuori di testa il capo della polizia austriaca Torresani. Il poeta Heinrich Heine (non solo lui) ne era innamorato: «Era uno di quei visi che sembrano appartenere piuttosto al regno dei sogni poetici che alla rude realtà della vita», scrisse nelle Notti fiorentine. Ma la Belgioioso — ecco il punto che mette in luce Vercesi — appartenne «alla rude realtà della vita». E diede battaglia tanto sul piano della vita privata — sbagliò il matrimonio con il libertino Emilio Barbiano di Belgioioso — quanto sul piano della vita pubblica come riformatrice, repubblicana, scrittrice e, naturalmente, «giardiniera» ossia carbonara diventando, come dicevano gli umanisti di un tempo, artefice del proprio destino. 

Cavour morì pochi mesi dopo aver compiuto il suo «capolavoro». La Belgioioso sopravvisse all’opera di Cavour e morì dieci anni dopo. Tra il 1868 e il 1869 apparvero le sue opere politiche: Osservazioni sullo stato attuale dell’Italia e sul suo avvenire; Sulla moderna politica internazionale. Senza retorica Cristina concludeva la sua vita onorando i grandi nomi che, come diceva Giovanni Spadolini, fecero l’Italia: con loro aveva discusso e, dice Vercesi, si era scornata ricevendo ingiurie «perché donna che voleva ragionare di argomenti che spettavano agli uomini».

 

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L’OSPEDALE MEYER

28/08/2021 da Sergio Casprini

Il sogno di Anna, l’ospedale fondato alle Cure

 in suo ricordo dal marito Giovanni.

Donatella Lippi Corriere Fiorentino27 agosto 2021

«La più parte de’ frutti cadono prima di maturare…». Così il protochirurgo dell’Ospedale Maggiore di Milano, nel 1780, descriveva i livelli della mortalità infantile, contro la quale la Medicina è stata a lungo inerme.

Del resto, l’attenzione al mondo dei piccoli, così come alle donne, ai malati di mente e agli animali non umani, era stata una conquista dell’Europa rivoluzionaria: i primi messaggi in favore dell’infanzia erano venuti dal pensiero illuminista, che aveva sollecitato il trattamento dei bambini non come piccoli adulti, ma come esseri umani in formazione, bisognosi di cure mirate.

Il mondo industrializzato ha poi avuto bisogno della manodopera infantile per far funzionare le filature, le tessiture, le miniere di carbone e il bambino è stato operaio e lavoratore prima che scolaro: la scuola per tutti è nata in Europa nel 1800 e, con il dibattito sull’educazione, è scaturito anche quello su salute e malattia, stimolando l’osservazione di un mondo nuovo, quello dell’infanzia, fino ad allora sommerso dalla cultura dell’adulto. È in questo momento storico che si colloca la nascita della pediatria, dal punto di vista della affermazione e della visibilità accademica: cambiano i luoghi che fanno da scenario al mondo dei piccoli, che diventano pazienti, e si diversificano le modalità di relazione. Nascono anche ospedali a loro riservati.

Bettino Ferrini. Questo il nome del primo bimbo che il 15 febbraio 1891 venne trasportato dall’ospedale di Santa Maria Nuova all’ospedale Meyer, da poco fondato alla barriera delle Cure e del Pino, allora periferia della città, grazie all’impegno del commendator Giovanni Meyer, che ne sostenne integralmente le spese: due padiglioni a un piano erano stati eretti lateralmente a un edificio a due piani, per un totale di 48 letti, a cui si aggiungevano la sala operatoria, le stanze di isolamento e quelle per i medici. L’architetto era Giacomo Roster, che, negli stessi anni, lavorava al manicomio di San Salvi… Giovanni Meyer avrebbe donato al Municipio di Firenze l’ospedale intitolato a sua moglie Anna.

Giovanni Meyer

Il medico Giuseppe Barellai e il chirurgo Carlo Burci avevano a lungo denunciato la necessità di dedicare un apposito ospedale a bimbi «sciancati» e «gobbini», vittime di incidenti, di sventurate malformazioni congenite o di incomprensibili disturbi della crescita, che lasciavano segni indelebili a livello del cranio, con prominenza delle ossa frontali, disegnando sulle coste le nodosità tipiche del cosiddetto rosario rachitico e deformando gli arti inferiori.

Stefano Ussi I gobbini 1852

La malattia, che deturpava fisico e psiche, arrestava lo sviluppo, rendendo l’intero organismo vulnerabile, e poteva alterare drammaticamente la gabbia toracica e compromettere la respirazione, conducendo a morte prematura. E i bambini morivano: gastroenteriti, febbri tifoidi e paratifoidi. Regina delle malattie infettive era la scrofola o adenite tubercolare. Lo stigma che caratterizzava i bimbi colpiti dalla tubercolosi ossea, il morbo di Pott, si esprimeva in vistose gibbosità e si aggiungeva a poliomielite, piedi torti, vizi angolari del ginocchio, incurvature della colonna, mancata ossificazione e mineralizzazione dello scheletro in accrescimento, che rendeva le ossa malaciche e rammollite, pronte a lasciarsi facilmente piegare e deformare. Tre suore oblate, alcune infermiere, una cuciniera, un faticante e una portiera costituivano la «famiglia» dell’ospedale, diretto da due primari e due astanti, per combattere anche scarlattina, angina tonsillare, croup, sinoca reumatica, febbri… per affrontare situazioni chirurgiche, che solo da pochi anni potevano contare sui metodi dell’antisepsi e dell’asepsi. Fu nuovamente la generosità di Giovanni Meyer a realizzare l’ampliamento necessario per la Clinica pediatrica, che fu collocata tra via Buonvicini e via Mannelli, ricca di un anfiteatro per 70 studenti.

La tipologia dell’architettura e degli impianti era all’avanguardia, assecondando i dettami della scienza igienista, ma bisognava potenziare le competenze del personale addetto all’assistenza, adeguare il vitto ai bisogni dei bambini e sollecitare la registrazione del decorso quotidiano della malattia e gli interventi terapeutici su appositi libretti. Nel contempo, veniva potenziata la dotazione scientifica, i laboratori, gli apparecchi per la terapia e la riabilitazione. E l’opinione pubblica superava progressivamente la diffidenza verso una struttura, che, dalle sue origini, aveva riservato una particolare attenzione agli «indigenti e miserabili»: fiorivano altri ampliamenti, con il nuovo reparto di isolamento, l’aumento dei letti in chirurgia, il gabinetto radiologico, le culle speciali per prematuri e il convitto infermiere. Poi, venne l’emergenza della guerra, il trasferimento provvisorio, la ricostruzione, con l’istituzione del reparto per cerebrolesi, il centro per la conservazione e la preparazione del sangue, l’impianto per l’ossigenoterapia, l’arricchimento della biblioteca per la formazione di generazioni di pediatri, che ebbero, come docenti, figure di grande prestigio: tra gli altri, Moisè Raffaello Levi, Giuseppe Mya, Carlo Comba, Cesare Cocchi…

L’ospedale  Meyer sulla collina di Careggi

Il resto, è storia di oggi. Il Meyer era destinato ad ingrandirsi progressivamente, dotandosi di attrezzature sempre più sofisticate e di competenze sempre più qualificate, fino ad arrivare ad essere l’ospedale di eccellenza, che oggi sorge sulla collina di Careggi, dove un tempo si trovava Villa Ognissanti, per i malati di tubercolosi.

Grande, grandissimo, altamente specializzato, colorato, gentile. L’ospedale dei bambini.

 

 

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11 AGOSTO 1944. Liberazione di Firenze dall’esercito d’occupazione tedesco.

10/08/2021 da Sergio Casprini

L’11 agosto 1944 nel ricordo del professore Tassinari: piangevo per la fame e la gioia

Neri Fadigati* Corriere Fiorentino 10 agosto 2021

L’11 agosto si celebra la Liberazione di Firenze. In quella mattina del 1944, alle 6.45, il suono della Martinella, la campana di Palazzo Vecchio, lanciava il segnale d’insurrezione. Gli ultimi soldati tedeschi avevano lasciato il centro. L‘area oltre il Mugnone e la ferrovia, dalle Cascine a Coverciano, restava sotto il controllo dei paracadutisti del feldmaresciallo Kesserling.  Per liberare tutto il territorio ci vollero tre settimane che restano tra le più drammatiche nella storia della città. La popolazione dei quartieri nord, già provata dai bombardamenti alleati, soffrì duramente quell’ultimo scorcio di guerra.

Tra loro c’era un ragazzo di 15 anni che oggi ricorda quell’esperienza come se l’avesse vissuta ieri e non quasi 80 anni fa.

«La mia generazione ha avuto poca infanzia, nessuna adolescenza ed è diventata adulta di colpo. Ho visto tanti morti per le strade». Salvatore Tassinari, classe 1928, ha insegnato storia e filosofia nei licei a due generazioni di fiorentini (sottoscritto incluso). Ha pubblicato un manuale di Storia della Filosofia, viene invitato nelle scuole per raccontare ai bambini la sua esperienza, tiene corsi per adulti e fa volontariato. «Ho la vita di un quarantenne» sorride con una punta di orgoglio.  Durante la chiusura del 2020 ha scritto un libro intitolato Compagna filosofia in cui spiega come interrogarsi sui grandi temi della vita possa essere di conforto nei momenti difficili. E difficili erano di certo i tempi della sua gioventù quando, minore di cinque figli, padre e fratelli militari, abitava con la madre e le due sorelle in via Puccinotti. «Eravamo sfollati a Peccioli, vicino a Pisa, da dei parenti — racconta — rientrammo a Firenze dopo l’8 settembre. Se i figli fossero tornati, mia madre voleva esserci. Ci trovammo sotto i bombardamenti, la nostra casa era al centro degli obbiettivi alleati: Campo di Marte, la stazione di Rifredi e il deposito ferroviario al Romito. Fu li, nell’obitorio improvvisato accanto alla chiesa, che vidi i primi cadaveri». Racconta che «le sirene di allarme aereo erano al Piazzale Michelangelo. Una volta suonarono in ritardo, correndo verso il rifugio alzai lo sguardo e vidi gli aerei e le bombe cadere, arrivato sul portone del palazzo lo spostamento d’aria di un’esplosione mi fece precipitare a testa in giù fino in fondo alle scale della cantina. Da quel momento la mia mamma ci faceva dormire vestiti per essere pronti a scappare».

Poi «ai primi di luglio del ’44 cominciarono a chiudere negozi e uffici. Mancò prima il gas, poi la luce e infine l’acqua, questo divenne il vero problema. Per fortuna nel giardino di una casa vicina c’era un pozzo. Mia madre trovò, non so dove, un carretto e ci mise sopra una damigiana per portarla a casa. Aveva sistemato una cucina economica in cortile per cuocere quel poco che c’era». Ma «il peggio doveva venire. Presto ci rendemmo conto di essere sulla linea del fronte, che correva lungo la ferrovia e il Mugnone».

La Battaglia di Firenze fu combattuta dai partigiani per preciso volere del Comitato Toscano di Liberazione Nazionale che si oppose al tentativo degli inglesi di disarmare le formazioni radunate sulle colline. Non era una questione militare, ma politica. Firenze, per il suo valore simbolico, prima città del Paese, doveva essere liberata dagli italiani e avere un governo civile. E così fu grazie allo sforzo dei combattenti della Divisione garibaldina Arno, che assunse poi il nome di battaglia del suo comandante «Potente«, Aligi Barducci, colpito a morte in Piazza S. Spirito.

Monumento ad Aligi Barducci   Piazza santo Spirito 1987  Allievi Istituto d’arte di Porta Romana

Una delle brigate di cui era composta portava il nome di un personaggio simbolo dell’antifascismo, Alessandro Sinigaglia, «Vittorio». Due uomini con storie molto diverse, il primo era stato ufficiale degli Arditi, reparto scelto dell’esercito, e un destino comune, morire sulle pietre fiorentine.  Nato a Fiesole ai primi del secolo scorso, figlio di un operaio ebreo comunista e di una donna di colore che serviva in casa di ricchi americani, Sinigaglia portava sulla pelle il segno della sua origine. Ereditata la fede politica dal padre era fuggito in Russia, poi aveva combattuto nella guerra di Spagna. Dopo l’armistizio rientrò a Firenze per organizzare le formazioni dei Gap, i Gruppi d’Azione Patriottica. 

Il 13 febbraio ’44, in via de’ Pandolfini, fu ucciso dai militi fascisti del Maggiore Mario Carità, nome quanto mai improprio, legato alle torture inflitte a «Villa Triste» sulla Bolognese. La Brigata Sinigaglia, la più decisa a opporsi all’ordine alleato di disarmo, fece in modo di entrare in città prima delle truppe britanniche. La mattina del 4 agosto arrivò a Gavinana e raggiunse l’Oltrarno. L’11 attraversò la pescaia di Santa Rosa e si scontrò col nemico alla Manifattura Tabacchi. Alla sua destra operavano le Brigate Rosselli di Giustizia e Libertà. In totale circa 1.700 uomini cui se ne aggiunse un altro migliaio di gruppi locali, tutti erano poco e male armati. Gli scontri con le truppe scelte germaniche furono durissimi. Careggi fu liberata il 31 agosto, Fiesole il giorno dopo. Il conto delle perdite fu pesante: oltre 200 partigiani caduti e 400 feriti; quasi 400 morti e 1.300 feriti tra la popolazione. Il 7 settembre il Comando alleato e le autorità civili consegnarono ai combattenti un certificato di benemerenza e i partigiani sfilarono disarmati per le vie cittadine, le armi erano state consegnate alla Fortezza da Basso.

«A San Gervasio — riprende il racconto Salvatore — il parroco aveva allestito un ricovero in chiesa e si prodigava per aiutare la cittadinanza. In quelle strade rimase ferito un mio compagno poco più grande di me. Un giorno sbirciando dalla finestra vidi un passante colpito da un cecchino all’angolo con piazza della Vittoria. Anche raccogliere i morti era difficile». Gli ultimi giorni «li passammo nascosti in una cantina, eravamo una trentina, capii per la prima volta il significato della parola solidarietà. Durante il fascismo regnava la diffidenza. Sentimmo lo scoppio dei ponti sul Mugnone e del cavalcavia dello Statuto come fosse un terremoto». Per nutrirsi «avevamo dei fagioli secchi e in po’ di sale, mia madre li bolliva scartando uno a uno quelli bacati che finivano in fondo al sacco, poi mangiammo anche quelli. Una sera davanti al quel misero piatto con lo stomaco che si contorceva per la fame, scoppiai in lacrime. La fine di tutto fu davvero una liberazione, ricorderò per sempre la gioia quando per la prima volta camminai fino a piazza della Signoria e la trovai gremita di una folla festante».

*  Neri Fadigati  Presidente dell’Archivio Giorgini

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LIBERTÀ COME BENE COMUNE

28/07/2021 da Sergio Casprini

Una scena del film Bronte di Florestano Vancini

Donatella Lippi* Corriere Fiorentino 28 luglio 2021

C’è una novella di Giovanni Verga, che si intitola Libertà.

Bronte, 1860: la «folla» inferocita uccide, infierisce, massacra i «galantuomini», le loro famiglie, i campieri, in nome di un «fazzoletto a tre colori», che viene appeso al campanile. E, dopo la carneficina, «ciascuno fra sé calcolava colle dita quello che gli sarebbe toccato di sua parte, e guardava in cagnesco il vicino. Libertà voleva dire che doveva essercene per tutti!». Per i contadini, che vivevano nella miseria, libertà significava la terra, per la quale erano stati disposti a distruggere la propria vita e quella degli altri: sinonimo di vendetta cieca contro soprusi secolari, aveva poi assunto i toni di giustizia e redenzione sociale, per trascolorare, infine, nell’amarezza del disinganno. Platone avrebbe parlato dell’incompetenza del plethos a governarsi e del fallimento della democrazia.

Nel nostro mese di luglio, la parola «libertà» è stata scandita, invece, tra croci uncinate e stelle a 6 punte, in un improbabile e oltraggioso richiamo agli anni bui della dittatura nazista. No al Green pass, no alla vaccinazione: fu stipulata a Roma, nel 1950, la Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali a cui fece seguito nel 1959 la Corte europea, per assicurarne l’applicazione e il rispetto, in un riconoscimento delle libertà individuali che, in una società democratica, possono essere limitate per problemi di sicurezza nazionale e di pubblica sicurezza e, tra l’altro, in nome della protezione della salute.

I vaccini sono stati una delle grandi conquiste della Medicina: nella storia, i governi più illuminati hanno sostenuto la vaccinazione. I pensatori dalla mente più aperta. Nell’Encyclopédie, manifesto illuminista, dove l’intelligenza è l’anima della libertà, l’inoculazione del vaiolo è motivo per una triplice battaglia: l’interesse dello Stato contro l’arbitrio dei singoli; la verità scientifica contro la superstizione; la ragione contro l’irrazionalità. Le varie tesi anti-inoculiste vengono demolite alla luce della logica: tra le motivazioni individuate come causa di questo atteggiamento negativo quella che appare più attuale è l’indifferenza al bene, in una prospettiva pubblica, collettiva, sociale. Ogni struttura di vita comune è il risultato di un esercizio costante della forma più nobile del compromesso, il patto con cui gli individui di una stessa società ne deliberano le norme, come esercizio del principio di responsabilità. Ed è questo il principio, che dovrebbe essere guida nei nostri comportamenti di oggi: libertà come partecipazione a un comune destino, adesione a un contratto sociale che include precisi impegni di solidarietà reciproca tra i cittadini. Nello stato di necessità a cui Covid-19 ci ha costretti il senso della libertà individuale dovrebbe trascolorare in una prospettiva collettiva, là dove il vaccino è l’unica, straordinaria opportunità che la medicina a oggi propone, per evitare la nonvita sospesa nella terapia intensiva, per eludere gli effetti a lungo termine della malattia. E quei bizzarri moduli neri nel quadrato bianco, il Qr code del Green pass, sono la cifra per il recupero della normalità, per essere di nuovo liberi.

Non era libertà quel «carnevale furibondo del mese di luglio» che guidò la folla di Bronte, così come è un equivoco senso di libertà quello che spinge a sfidare il contagio, a negare le regole, a dimenticare i morti di ieri e quelli di oggi, quelli dell’Olocausto e quelli della pandemia.

*Donatella Lippi, laureata in Lettere classiche con specializzazione in Archeologia, Archivistica e Storia della Medicina, è docente di Storia della Medicina presso l’Università di Firenze.  È presidente della Fondazione Scienza e Tecnica di Firenze e del Lyceum Club Internazionale di Firenze.

 

Green Pass: protesta in Piazza Signoria a Firenze

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LA MATURITÀ DEGLI ALTRI È SEMPRE PIÙ FACILE

17/07/2021 da Sergio Casprini

LETTERE al Corriere della Sera 17 luglio 2021

Caro Aldo, sono un docente di liceo. Penso che l’esame di maturità negli ultimi tempi sia diventato facilissimo. Non c’è più la terza prova scritta (da qualche anno); non ci sono prove scritte in generale; non ci sono membri esterni, e gli interni esaltano senza freni i propri alunni; non si possono fare domande, e i commissari si limitano ad ascoltare l’alunno che espone il suo elaborato e poi si collega liberamente, materia per materia, a ciò che preferisce. Gli studenti odierni si diplomano con voti superiori di 10, 15, 20 punti ai voti che avrebbero ricevuto in passato. Si attua una grande ingiustizia verso i giovani esaminati in altri anni, della quale però non si parla. Molti diplomati del ’20 e del ’21 passeranno davanti agli altri nei concorsi pubblici pur avendo capacità e conoscenze inferiori. Che ne pensa? Mariano Della Vedova

Caro Mariano, “ogni generazione che fa la guerra pensa che gli altri la guerra non sappiano cosa sia» ha scritto Giorgio Bocca, raccontando il rude trattamento che l’esercito israeliano vittorioso riservò agli inviati nel Sinai durante la guerra dei Sei Giorni. Parafrasando, ogni generazione pensa che il proprio esame di maturità sia stato più difficile di quello della generazione successiva.

Sono raffronti quasi sempre fuorvianti. Negli anni scorsi ho visto i miei figli preparare la maturità scientifica e classica (rigorosamente in scuole pubbliche), e mi è parso che i loro insegnanti li avessero fatti lavorare seriamente. Quand’ero ragazzo io, nel nostro liceo si studiavano soprattutto le materie letterarie, e quelle scientifiche erano trascurate; ovviamente sbagliavamo. Però avevamo una preparazione seria che veniva dalla scuola dell’obbligo.

Ci sono cose che noi consideravamo scontate, e che ai ragazzi oggi non vengono più insegnate. Il caso più clamoroso è la storia. Sta crescendo una generazione che sa poco o nulla di come è nata la nostra nazione (e di come sia rinata con la Resistenza). È possibile che in passato si facesse un po’ di retorica; ma a me fa impressione pensare che si possano completare gli studi senza aver mai sentito nominare Silvio Pellico, Ciro Menotti, Daniele Manin, Guglielmo Pepe e tanti italiani per cui l’Italia era un ideale che valeva la vita; e magari si pensa, per averlo letto su qualche sito spazzatura, che il Risorgimento — di cui si deve parlar male — sia stato un complotto massonico finanziato dagli inglesi. (E comunque, gentile signor Della Vedova, non sia troppo severo con i diciannovenni di oggi. In questi due anni hanno sofferto molto, più di noi alla loro età).  Aldo Cazzullo

Geminiano Vincenzi Ciro Menotti al supplizio litografia 1875

 

 

 

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L’UOMO PIÙ FAMOSO DEL MONDO SU GOOGLE NON LO CERCA NESSUNO

09/07/2021 da Sergio Casprini

Pietro Senno Garibaldi a Caprera 1870/1880

LETTERE al Corriere della Sera 9 luglio 2021

 

Caro Cazzullo, sull’onda del successo del Dantedì, proporrei di istituire il Garibaldì, dedicato a Giuseppe Garibaldi, alla figura di chi ha costruito materialmente l’Unità d’Italia, così come Dante ha realizzato l’unificazione linguistica del Paese. La data potrebbe essere il 5 maggio, giornata iniziale della spedizione dei Mille. Aldo Benedetti, Piacenza

Edoardo Matania Primo incontro con Anita Xilografia 1884

Caro Benedetti, siccome il 5 maggio è già passato, per rispondere alla sua mail sono andato su Google per vedere la data di nascita e di morte di Giuseppe Garibaldi. A digitare «Giuseppe» appare per primo Cruciani, il giornalista, poi Verdi, quindi Giuseppe Maggio (che non so chi sia, leggo «attore»), quindi Conte, l’ex premier, infine Tornatore, il regista. Di Garibaldi non c’è traccia; almeno a me è successo così. Gli italiani in Rete non cercano il suo nome.

A metà dell’Ottocento, Giuseppe Garibaldi era l’uomo più famoso del mondo. L’unico tra i protagonisti del Risorgimento ad assurgere a fama universale. Ovunque nel mondo ci fosse un popolo oppresso, in Sud America e in Europa, dalla Polonia ai Balcani, il Generale era venerato come un santo, nelle case si esponevano i suoi ritratti, nei cortei si gridava il suo nome. Le prime fotografie pubblicate sui giornali sono le sue. Scrivono di lui Victor Hugo e Alexandre Dumas, Karl Marx e Friedrich Engels.

Su Garibaldi circolavano biografie romanzesche come quella della scrittrice francese Louise Goethe, secondo cui Giuseppe era nato su una barca a remi, a nove anni aveva ucciso il capo dei pirati che avevano abbordato la sua nave, era stato brigante e precettore di una contessina che si innamorò di lui, aveva bruciato il castello del conte che si opponeva alle nozze, celebrate nei boschi da un eremita, poi aveva sedotto altre donne in Tunisia e infine sottratto la fidanzata creola al dittatore argentino Rosas. Lui amava dire di aver avvistato Anita con il cannocchiale in mare e di aver esclamato: «Tu devi essere mia!».

Se qualcuno oggi proponesse un film o una fiction su Garibaldi, lo guarderebbero come un matto. Del Risorgimento si deve parlare male: un complotto massonico finanziato dagli inglesi. Vagli a spiegare che Garibaldi non liberò né tantomeno conquistò la Sicilia; accese la rivolta dei siciliani contro i Borbone, e in pochi mesi fece crollare quel che restava di un sistema che si reggeva sulle armi austriache. Aldo Cazzullo

Renato Guttuso Battaglia di Ponte dell’Ammiraglio 1951

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