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Risorgimento Firenze

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Focus

PERCHÉ IL 25 APRILE TUTTI POSSIAMO ESPORRE IL TRICOLORE

22/04/2021 da Sergio Casprini

LETTERE al Corriere della Sera 22 aprile 2021

Caro Aldo, c’è chi per questo 25 aprile invita a esporre il tricolore alle finestre. Credo però che l’adesione all’invito non sarà sorprendente. Il motivo è presto detto: il 25 aprile è una festa divisiva e molti non se la sentono di esporre un simbolo che ha la funzione primaria di chiamare a raccolta. Il 25 aprile è ancora troppo intriso di ideologia. Forse lo stesso Carlo Azeglio Ciampi, che amava il tricolore, non se la sarebbe sentita di invitare a esporlo in un giorno così foriero di contrapposizioni. Qualcuno dirà: ma nemmeno il 2 giugno, che non è una festa divisiva, il tricolore si è visto sventolare diffusamente dalle finestre degli italiani. Una cosa mi sembra certa: non vengono scrupoli di sorta nell’esporre il tricolore quando vince la nazionale italiana di calcio. Quindi? Alessandro Prandi

Caro Alessandro, in questi giorni la Francia celebra i duecento anni della morte di Napoleone, l’uomo che mandò i francesi (e pure molti italiani) a morire sui campi di battaglia di mezzo mondo, dalla Spagna alla Russia, dall’Egitto alla Turingia. La festa nazionale francese è il 14 luglio, simbolo di quella Rivoluzione che fece cadere migliaia di teste e causò massacri spaventosi come quelli dei vandeani; eppure, a distanza di tempo, prevale il riconoscersi attorno a quei valori di libertà, fraternità, uguaglianza disattesi molte volte dagli stessi rivoluzionari. Ogni data in sé è potenzialmente divisiva. Anche il 2 giugno. Quel giorno si svolse un referendum: una cosa divisiva per definizione. Il 45,7 per cento degli elettori italiani, quasi undici milioni di donne e di uomini, votarono per la monarchia, e furono quindi sconfitti; ed è curioso notare che nel Sud, dove oggi è molto diffuso un movimento di ostilità ai Savoia e all’unità nazionale, la monarchia sabauda stravinse. Questo non ci impedisce oggi di festeggiare la Repubblica. Quanto a Ciampi, contrariamente al solito lei, gentile signor Prandi, su questo punto non è bene informato. Ciampi teneva moltissimo a che si esponesse il tricolore il 25 aprile. E fece un grande lavoro politico e culturale per de-ideologizzare la Resistenza, valorizzandone il carattere plurale.

Ci furono molti modi di dire No ai nazifascisti: partigiani di ogni fede politica, e poi donne, ebrei, sacerdoti, suore, carabinieri, internati in Germania, militari che combatterono con gli Alleati… anche per questo domenica 25 aprile possiamo esporre tutti liberamente il tricolore.             Aldo Cazzullo

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PERCHÉ DANTE È DAVVERO L’INVENTORE DELL’ITALIA

29/03/2021 da Sergio Casprini

 

LETTERE al Corriere della Sera  28 marzo 2021 

Caro Ald0, a proposito di Dante e di chi ha avuto «la prima idea d’Italia» sicuramente Dante ha dato un contributo molto importante e forse per primo giunge ad una sintesi completa, ma prima di lui c’è stata la «Lega Longobarda», (la «Longobardia» era praticamente tutto il Nord Italia e la Toscana) con la famosa rivolta dei comuni contro Barbarossa e ancora prima la Contessa Matilde di Canossa (anch’essa di sangue longobardo, il cui regno andava da Viterbo a Mantova) e che si contrappone per prima all’imperatore Enrico IV. Con questo, non sostengo certo che ci sia una sostanziale attinenza tra Longobardia e Lega Nord, ma gli Stati nazionali europei si sviluppano tutti sui regni barbarici post-romani. Carlo Grillenzoni

Caro Carlo, dobbiamo distinguere tra l’Italia come Stato e l’Italia come idea, come missione culturale, come patrimonio di bellezza e di valori. Dante è il padre dell’Italia in questa seconda accezione. Per lui l’Italia aveva conquistato il mondo due volte, con l’impero romano e con la fede cristiana; per lui l’Italia aveva una missione, conciliare la classicità con la cristianità. In questo senso Fernando Pessoa, il grande poeta portoghese che adorava Dante, lo considerava — lui uomo del Medioevo — il primo umanista, e quindi il primo uomo moderno.

Lei, gentile signor Grillenzoni, cita guerre contro l’imperatore. Ma nessuno all’epoca pensava di unificare la penisola. Anzi, per Dante il potere politico era l’Impero, nel rispetto delle libertà comunali. L’ideale politico di Dante è lontano dalla nostra visione, e pure da quella dell’Ottocento. Tuttavia non dobbiamo essere troppo timidi nell’indicare in Dante il padre spirituale della nazione; essendo l’Italia una potenza culturale, non certo politica o militare. Scrive Anna Maria Chiavacci Leonardi, l’autrice di quello che considero il miglior commento alla Divina Commedia: «L’idea dell’Impero come garante della pace fra le nazioni in cui Dante credette era tramontata già nel suo stesso tempo». Inoltre, parlando della celebre invettiva «Ahi serva Italia», «non si deve sottovalutare l’importanza che viene qui ad assumere l’Italia come nazione. Certo Dante non ebbe dell’Italia la stessa idea che gli attribuirono i nostri padri del Risorgimento, che per questa pagina si commossero e a essa si ispirarono. Ma è anche vero che non si può dire — come si è detto — che per Dante l’Italia era solo un’entità geografica e linguistica. Traspare chiaramente da questo testo l’idea dell’Italia come nazione: nave senza guida, abbandonata e misera, serva dei vari signori, cavallo non ben guidato; tutte immagini che solo a una nazione potevano riferirsi».    Aldo Cazzullo

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PERCHÉ A POCHI IMPORTA IL COMPLEANNO DELL’ITALIA

18/03/2021 da Sergio Casprini

LETTERE al Corriere della Sera 18 marzo 2021

Caro Aldo, ogni anno mi chiedo perché la ricorrenza dell’Unità d’Italia continui a trascorrere in sordina. Se escludiamo le iniziative per il 150° anniversario (2011), non mi pare ci sia la dovuta attenzione per una data comunque importante per il nostro Paese. Eppure il 17 marzo del 1861 per l’Italia accadde qualcosa di straordinario. Roberto Tomassoni

Caro Roberto, la risposta alla sua giusta domanda potrebbe essere questa. La storia nazionale ci entusiasma, ci indigna, ci ispira quando incrocia la storia delle nostre famiglie; e sono poche le famiglie italiane che ricordano o conoscono qualche antenato che abbia fatto il Risorgimento. Questo non perché nel Risorgimento non ci sia il popolo: dopo le Cinque Giornate, Carlo Cattaneo andò all’obitorio a vedere chi fossero i 335 milanesi caduti, e notò che avevano mani callose, da artigiani, da operai; tra loro c’erano 38 donne e 4 bambini; non sarebbero bastati i «sciuri» a cacciare gli austriaci da Milano. Resta il fatto che le normali famiglie italiane, tranne magari quelle appassionate di araldica, non risalgono per i rami dell’albero genealogico fino al 1848. L’altro giorno ho visto sfilare in tv signori che si chiamano di cognome Garibaldi e Mazzini ma, parlando con rispetto, non è che ci possano dire molto dei loro illustri avi. Inoltre, la parte politica che ha fatto l’Italia, quella liberale, è praticamente estinta. Il Risorgimento non lo rivendica quasi nessuno; in compenso in Rete sono attivissimi i neoborbonici. Il Corriere del Mezzogiorno ha pubblicato un articolo terrificante ma prezioso di Pietro Treccagnoli, che raccontava di aver sentito con le sue orecchie a Gaeta un padre dire al figlio bambino: «I piemontesi sono stati e saranno sempre il male dell’Italia, dobbiamo odiarli». Così, tipo Amilcare Barca al giovane Annibale. Il piccolo dovrebbe invece leggere il libro di Dino Messina, Italiani per forza, che dimostra come i «40 mila morti» del «lager» di Fenestrelle siano in realtà 40, e che nelle «stragi naziste» di Pontelandolfo e Casalduni siano caduti più soldati italiani (non piemontesi; italiani) che civili.

Eppure, nonostante tutto questo, sono convinto che noi italiani siamo più legati all’Italia di quel che pensiamo di essere. Il senso della patria esiste. Per il senso dello Stato, riparliamone tra altri 160 anni.  Aldo Cazzullo

 

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LE «COLOSSALI INVENZIONI» SUL «LAGER» DI FENESTRELLE

26/02/2021 da Sergio Casprini

 

LETTERE al Corriere della Sera 26 febbraio 2021

Caro Aldo, a Napoli, e in tutto il Sud, esistono ancora molti nostalgici del Regno delle Due Sicilie. Ricordo che, nel 2009, si celebrò una messa nella chiesa di San Ferdinando, a Napoli, per i 150 anni dalla morte di Ferdinando II. Bene, non solo la chiesa era strapiena;ma si riempì anche la centralissima piazza Trieste e Trento, tant’è che i vigili furono costretti a deviare il traffico. La prima tratta ferroviaria è stata la Napoli- Portici, inaugurata nel 1839. Ma poi nel 1861 al Nord esistevano 1000 km di binari, contro i 100 del Sud. Alcuni periodi storici non son stati studiati abbastanza; o forse non a trecentosessanta gradi. Il Regno delle Due Sicilie è uno di quelli?  Salvo Iavarone

Caro Salvo, nei Neoborbonici riconosco una passione autentica e l’amore per la propria terra. Purtroppo ci sono personaggi che strumentalizzano questa passione per costruire un racconto antipiemontese e antirisorgimentale che va ben oltre le atrocità della guerra civile combattuta nel Mezzogiorno negli anni 60 dell’Ottocento, di cui in effetti si è sempre parlato poco; ma che non fu una guerra civile del Nord contro il Sud, bensì tra l’esercito italiano affiancato dalle milizie dei meridionali che sostenevano l’unità e i nostalgici dei Borbone e del potere temporale del clero, oltre ai briganti in senso tecnico. È appena uscito un bel libro «Italiani per forza. Le leggende contro l’unità d’Italia che è ora di sfatare» (Solferino), scritto da una storica firma del Corriere, Dino Messina. Dino è un intellettuale del Sud, che ama la propria terra. Proprio per questo smonta quelle che definisce «colossali invenzioni»: ad esempio le leggende secondo cui a Fenestrelle sarebbero morte decine di migliaia di prigionieri (in realtà sono cinque nel primo anno, 40 in un decennio compresi soldati papalini e vittime di regolamenti di conti tra camorristi), e migliaia sarebbero cadute in un’insurrezione; che in realtà non ci fu, non venne sparato un colpo, tutto si concluse in un processo a dieci imputati che vennero assolti. Perché allora questo racconto infarcito di menzogne ha preso piede, al punto da trovare eco in uno striscione esposto dai tifosi del Napoli in occasione di una partita con il Torino («Lager Fenestrelle. Napoli capitale continua ad odiare!»)?

Perché è consolatorio sentirsi dire che la colpa dei mali del Sud è di altri italiani. La stessa logica dei nordisti, secondo cui il Settentrione non è la Baviera per colpa del Sud. Aldo Cazzullo

 

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Amor di patria

17/02/2021 da Sergio Casprini

Mercoledì 17 febbraio 2021 Mario Draghi al Senato per la fiducia al Governo così conclude il suo intervento:

…Questo è il terzo governo della legislatura. Non c’è nulla che faccia pensare che possa far bene senza il sostegno convinto di questo Parlamento. E’un sostegno che non poggia su alchimie politiche ma sullo spirito di sacrificio con cui donne e uomini hanno affrontato l’ultimo anno, sul loro vibrante desiderio di rinascere, di tornare più forti e sull’entusiasmo dei giovani che vogliono un paese capace di realizzare i loro sogni.

Oggi, l’unità non è un’opzione, l’unità è un dovere.
 Ma è un dovere guidato da ciò che son certo ci unisce tutti: l’amore per l’Italia”.

 

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Mezzo secolo di progetti e lavori per la Strada del Muraglione

29/01/2021 da Sergio Casprini

Il Galletto del Mugello

Tra storia e cronaca Sabato 30 Gennaio 2021

Un saggio di Pierluigi Farolfi ripercorre la realizzazione della strada del Muraglione terminata nel 1836. Fa seguito alla mostra e al Convegno che l’autore, assieme ad altri studiosi promosse nel 2019 a Dicomano.

Riportiamo la recensione del saggio che Andrea Ragazzini ha pubblicato sulla rivista “Annali di Romagna 2021”

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Il 19 ottobre 2019 si festeggiò al Passo del Muraglione il restauro della lapide che ricorda l’inaugurazione, nel 1836, della nuova strada rotabile voluta da Leopoldo II, che “diede facile accesso alla Romagna Toscana”, fino ad allora in una condizione di sostanziale isolamento dal resto del Granducato.

L’idea del restauro era stata promossa da associazioni e comitati sia sul versante romagnolo che su quello toscano (L’accademia degli Incamminati di Modigliana, I Comitati Toscani per il Risorgimento), che avevano poi anche raccolto con una sottoscrizione i fondi necessari per finanziare l’iniziativa. Gli stessi promotori hanno poi pensato che fosse ugualmente indispensabile un approfondito restauro della memoria storica di quella straordinaria impresa costruttiva, con un importante convegno e una mostra storico-fotografica dal titolo “1836: ecco il Muraglione che unisce“, ospitati, nel novembre successivo, dal Comune di Dicomano.

Un saggio di Pier Luigi Farolfi, curatore della mostra insieme a Susanna Rontani, ripercorre con puntuali riferimenti documentari e iconografici la vicenda progettuale che portò alla realizzazione dell’opera in un arco di tempo di oltre cinquant’anni: i dibattiti sul tracciato, le grandi difficoltà tecniche e finanziarie, i benefici economici e sociali che ne derivarono. È una vicenda che inizia con due visite nella Romagna Toscana (nel 1777 e nel 1781) del Granduca Pietro Leopoldo, il grande sovrano riformatore che nei venticinque anni del suo regno percorse in lungo e in largo il Granducato per conoscerne di persona i problemi. Constatata la pessima situazione delle comunicazioni viarie tra la Romagna e la Toscana, nel 1782 il Granduca deliberò la costruzione di un primo tratto di strada rotabile tra Pontassieve e Ponticino, poco prima di San Godenzo, realizzato tra il 1783 e il 1787, incaricando poi il matematico Pietro Ferroni di studiare i possibili percorsi per scavalcare l’Appenino e raggiungere il confine con lo Stato Pontificio. I progetti erano in tutto sei, anche se le direttrici principali erano sostanzialmente tre: una verso Faenza, dal Mugello alla valle del Lamone, attraverso il passo della Colla di Casaglia; una verso Forlì, da San Godenzo alla Valle del Montone, attraverso il passo della Colla di Pratiglioni (poi passo del Muraglione); una terza da Pontassieve a Meldola, attraverso la Consuma.

 Il dibattito sulle difficoltà, i vantaggi e i costi delle diverse soluzioni proposte proseguì a lungo anche sotto Ferdinando III, succeduto al padre che nel 1790 era divenuto Imperatore d’Austria. Farolfi ne dà conto con una approfondita analisi dei pro e dei contro, sia dal punto di vista tecnico che da quello dei costi, ma anche dei divergenti interessi delle comunità romagnole, ciascuna delle quali, comprensibilmente, faceva pressioni perché fosse scelto il percorso più favorevole al proprio territorio.

Fu Leopoldo II, sul trono granducale dal 1824, a prendere la decisione definitiva, scegliendo il percorso che da Ponticino di San Godenzo (dove si era fermata la strada realizzata da Pietro Leopoldo) passava per la Colla di Pratiglioni, San Benedetto in Alpe, Bocconi, Portico, fino a Rocca San Casciano. Lo giudicava il percorso più agevole e conveniente ed era d’altro canto anche quello che avrebbe privilegiato il nonno Pietro Leopoldo. Nel 1831 conferì l’incarico di progettare e realizzare la strada all’ingegnere Alessandro Manetti, professionista allora già molto affermato, figlio dell’architetto e paesaggista Giuseppe. Diviso il grande cantiere in otto sezioni, due in Toscana e sei in Romagna, l’opera fu completata nell’arco di quattro anni, dal 1832 al 1836.  Sulla Colla di Pratiglioni il Manetti ritenne necessario costruire “un grosso muraglione a vela” per creare due carreggiate, in modo che i veicoli potessero scegliere l’una o l’altra per proteggersi dai forti venti, a seconda della loro direzione.

L’ultima ampia parte del saggio è dedicata dall’autore alle ricadute economiche e sociali che la nuova strada comportò per tutta la vallata del Montone e che, come si può immaginare, furono molto importanti, a partire dal gran numero di lavoratori occupati per la sua realizzazione. La fine dell’isolamento rispetto al resto del Granducato e la possibilità di rapidi spostamenti di persone e merci portò agli abitanti di quei territori nuove possibilità di sviluppo e benessere.

Tra i molti esempi riportati da Farolfi, si può citare il caso di San Benedetto, dove già nel 1836 un mugnaio ottenne di costruire un mulino nei pressi della nuova rotabile. Tre anni dopo gli abitanti, su iniziativa del parroco, chiesero che fosse realizzata una strada di collegamento tra la Provinciale di Romagna e il Poggio, la parte alta del paese dove si trovavano la Chiesa, le scuole e la maggior parte delle botteghe. La strada però fu realizzata solo nel 1880, dopo un lungo contenzioso con il Comune di Portico, che non intendeva contribuire alle spese.

Ma probabilmente il paese che trasse il maggior vantaggio dalla nuova situazione fu Rocca San Casciano, che fu promossa a capoluogo del Circondario, con l’istituzione di un Tribunale e di un Regio Commissariato, e che per questo fu anche il primo centro della valle a essere dotato di illuminazione pubblica, allora indubbiamente uno dei simboli del progresso.

Andrea Ragazzini

PIER LUIGI FAROLFI: La nuova strada rotabile di Romagna (1782-1836). Progettazione, costruzione e sue ricadute socio-economiche nelle Comunità della Valle del Montone, in “Alpe Appennina”, rivista cartacea e on-line, n. 2 / 2020, Monti Editore, Cesena, pp. 9-50.

 

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La Shoah nel ricordo di un fiorentino ultraottantenne

26/01/2021 da Sergio Casprini

Nel giorno della memoria della Shoah, come non ricordare Santa Marta? 

 Riccardo Carlo Geri *

Era il tempo della ultima guerra, anni bui, quando noi ragazzi, un centinaio, cinque classi, dai sei ai dieci anni abbiamo passato l’infanzia a Villa Santa Maria. Chi cinque anni; io tre. Le suore dell’ordine di Santa Marta hanno supplito le mamme: chi non le aveva, e chi le aveva come me, ma impegnate nel lavoro; Suor Amedea, suor Marta, suor Lidia, e alcune altre che la memoria vede ma delle quali non ricordo il nome, furono le nostre mamme.

Ci sistemavano alla meglio la mattina con un grembiulino a quadretti celesti per il collegio, o con quello nero per la scuola; e, lavato il viso, facevamo la fila per farci pettinare. Il collegio era la nostra famiglia. Da questa famiglia senza padre, arrangiata, si andava alla scuola elementare Desiderio da Settignano, come tutti i ragazzi del paese. In fila sulla via Settignanese con il vento o con la pioggia, senza ripari, o il bel sole a primavera.

Il riscaldamento era fatto con le stufe a legna; e a scuola veniva il custode con il corbello a caricarle. Avevamo i pantaloni corti e qualche gelone ai ginocchi o alle mani, anche con i mezzi guanti, e alle labbra. Il mondo di allora era così. Abbiamo pregato tanto in quegli anni: tante messe mattutine, prima della colazione e della scuola, tante funzioni serali prima di andare a letto, e in estate con il sole, nei cameroni dai tanti lettini affiancati come tanti fratelli; e si dormiva subito. Tanta ricreazione su quel piazzale panoramico, dal quale si vedeva la città intera, con la buona stagione. In inverno, nella loggia vetrata all’ultimo piano e con la terrazza sulla via Settignanese dalla quale si vedeva arrivare il filobus che sostava a una fermata davanti all’istituto. Qui scendevano i parenti, per chi li aveva, e che si incontravano nel parlatorio vicino all’ingresso e alla cappella al pianterreno, nei giorni di festa.
Si giocava con nulla: qualche pallina di terracotta o qualche sassetto rotondo preso nel giardino del grande cedro che decorava la villa da Sud e che ora non c’è più. Si guardava quello che le suore leggevano: la Domenica del Corriere con le copertine di Beltrame che ci vedevano sempre o vincitori o in imprese eroiche in quella guerra che sapevamo che c’era. Non si cantavano le canzoni del regime inculcate ai ragazzi della Gioventù del Littorio. Si cantava il Tantum Ergo e si recitavano in coro il rosario serale e le litanie a Maria Santissima, tutto in latino; e il canto comune piaceva. Niente parate e niente monture.

Il nostro pomeriggio era fatto di doposcuola nelle pluriclassi; e quando uno aveva fatto i compiti che suor Marta riguardava con severità, di una ricreazione in cortile. Allora: chiacchere, corse e salti e qualche gioco con i sassetti come ho detto e niente altro; ma soprattutto aria buona.Per merenda una fetta di pane casalingo calmava la fame prima della cena. Non sapevamo della tessera annonaria e che il collegio godeva alcuni privilegi: tante minestre in brodo, e poi un pezzo di lesso, pane casalingo e tante patate lesse. Non abbiamo patito la fame.

La guerra ci ha colto alla fine del ’43. Una notte ci ha svegliato l’ululato delle sirene dell’allarme. Le suore ci hanno fatto alzare velocemente; e tutti siamo andati alla finestra. Da un libro di ricordi:

Il cielo è illuminato a giorno. Sono i bengala dei bombardieri inglesi che passano sulla città… Dove andranno? Non succede niente ma si instaura in noi un senso di paura.
Una mattina suona di nuovo l’allarme. Scendiamo tutti al piano di sotto della villa dove ci sono i magazzini che danno sul giardino del grande cedro. Si sente un rombo cupo continuo, intenso, che si fa sempre più vicino. È quello dei bombardieri che si avvicinano. Un rombo che fa gelare il sangue. Ora… ora sono vicini.
Scoppi tremendi di esplosioni… terrore! Momenti di impressione inenarrabili. Ci guardiamo smarriti. Siamo in tanti in questo stanzone. Un compagno davanti a me vedo che diventa bianco e comincia a scivolare dalla panca. Le suore accorrono. Pregate bambini. Qualcuno piange. ‘Ave Maria piena di grazia.’ Si inizia il rosario.

È il 25 settembre del 1943, alle ore 11.25 una formazione di bombardieri ha bombardato l’area ferroviaria del campo di Marte. Nessuna bomba raggiunge l’obbiettivo, crollano invece edifici circostanti in un vasto raggio e si avranno i primi 300 morti.

Alla fine dell’anno ‘43, in collegio c’è una novità: arrivano un gruppo di bambini francesi di varie età. Non parlano italiano e non vengono a scuola con noi. Con loro giochiamo e ci intendiamo senza difficoltà. La vita comune è uguale per tutti. In fila ordinatamente per entrare al refettorio e dopo comune la ricreazione nel piazzale e nel giardino. Per il doposcuola formano una classe. Non avverto che loro sono assenti alle funzioni religiose.

Padre Ricotti domenicano di San Marco, Giusto delle Nazioni, accoglieva e sistemava ebrei in fuga dalla Francia in case private o in conventi. Memoria che sta in E quindi uscimmo a riveder le stelle, testo a cura di Barbara Trevisan in collaborazione con il Comune di Scandicci. Il Corriere fiorentino del 24 settembre 2013, con uno scritto di Mario Bonciani su Gino Bartali, Giusto delle Nazioni, ricorda come l’Istituto di Santa Marta di Settignano protesse e nascose diecine di bambini ebrei.

Sono passati molti anni da quando suor Marta, vecchissima, è stata insignita di una onorificenza al valore della Resistenza per aver salvato dalla deportazione e dallo sterminio un gruppo di bambini ebrei francesi provenienti dalla Francia occupata dai tedeschi attraverso non so quali peripezie. Ne dette notizia il giornale La Nazione. Sono onorato di averla conosciuta.

Mercoledì 27 gennaio 2021, giorno della Memoria della Shoah, è bene ricordare questi avvenimenti in modo che guardando la bellissima e radiosa villa di Santa Maria, non dimentichiamo che in questi luoghi hanno trovato protezione tanti bambini ebrei salvati dalla barbarie.

* Riccardo Carlo Geri.  Fiorentino ultraottantenne che ha frequentato da allievo interno  la Villa di Santa Maria

Villa Santa Maria oggi 

La Nazione, cronaca di Firenze del 22 gennaio 2020: VIA D’ANNUNZIO, CASE NELL’ANTICO CONVENTO. Un piano di recupero approvato dalla giunta. Tre ville abbandonate: Villa Santa Maria, Villa Elena e Villa degli Angeli saranno trasformate in appartamenti.

 

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GRANDE GUERRA: LA MEMORIA DIVISA DEGLI ITALIANI SUDDITI DELL’IMPERO

20/01/2021 da Sergio Casprini

La Domenica del Corriere 10/17 novembre  2018

LETTERE al Corriere della Sera 20 gennaio 2021

Caro Aldo, ho tre nonni austroungarici. Trentini-Tirolesi. Ogni volta che leggo o sento sugli eroismi italici della «Grande Guerra» io soffro. Soffro per quanto non sufficientemente detto sulla stupidità politica e militare dei vertici che indusse l’Italia al voltafaccia attaccando l’ex alleato, l’Austria, nel famoso 24 maggio, facendo uccidere 640.000 poveri ragazzi. Per che cosa? Soffro per quanto non detto sul dopo, sul disastro economico di Trento e Trieste, divenute italiane. Certo, la storia la scrivono i vincitori. Ma quando smetteremo di leggere quanto scritto da «noi» in quegli anni, finita la guerra, gli anni del fascismo nascente? Con stima e tristezza per quei 640 mila italiani e 250 mila austriaci inutilmente strappati alla vita. Stefano Niccolini

Caro Stefano, Mi rendo conto che la memoria condivisa non esiste; di memoria — l’ha scritto Pierluigi Battista — ognuno ha la sua, e non la può cambiare. I miei nonni e i suoi si sono trovati su due lati diversi della barricata; e nessuno può biasimare nessuno. (L’Austria mandava i sudditi trentini e triestini in Galizia contro i russi o in Serbia; ma alcuni finirono anche sul fronte dell’Isonzo, mentre in duemila disertarono e combatterono nell’esercito italiano). Ma non è vero che non si sia sottolineata la responsabilità delle classi dirigenti italiane — con eccezioni importanti, da Giolitti al mondo cattolico — nella scelta di trascinare il Paese nel massacro della Grande Guerra. Anche sulla pessima conduzione dei combattimenti si è scritto e detto molto. Se però lei mi chiede «per che cosa» si è combattuto, be’, Trento non era una città austriaca; e Trieste, per quanto cosmopolita, neppure. Disastro economico? Il Trentino è incomparabilmente più ricco oggi di un secolo fa. Trieste, che era il porto dell’Impero, a lungo ha perso centralità; ma oggi è tornata un crocevia d’Europa, l’avamposto settentrionale del mondo latino e l’avamposto meridionale di quello tedesco, un crogiolo di anime: la cattolica, l’ortodossa, l’ebraica; la veneta, la mitteleuropea, la slava. Povera, la città di Umberto Saba, Italo Svevo, Gillo Dorfles, Giorgio Strehler, Claudio Magris? Suvvia.

Certo, entrammo in guerra anche per ragioni meno nobili. In gioco era l’egemonia sull’Adriatico. E se la presenza italiana era forte sulle coste istriane e dalmate — territori dolorosamente amputati dopo il disastro del secondo conflitto mondiale —, altrove si pensava di assoggettare altri popoli. Ma, ribadito che l’ingresso in guerra fu un errore, oltre che una sorta di colpo di Stato, nel 1915 tutte le grandi e medie potenze europee stavano combattendo. Quanto all’«alleato austriaco», la Triplice Alleanza era stato un necessario accordo difensivo, dopo la rottura con la Francia; ma con l’Austria avevamo combattuto tre guerre di indipendenza in meno di vent’anni, l’Austria impiccava i nostri patrioti, come fece con Cesare Battisti. L’oscena foto del boia e degli altri che festeggiavano attorno al corpo del martire dell’irredentismo fu pubblicata da un altro suddito dell’imperatore, l’ebreo boemo di lingua tedesca Karl Kraus, ne Gli ultimi giorni dell’umanità, come monito contro la barbarie. ALDO CAZZULLO

Impiccagione di Cesare Battisti Trento, 12 luglio 1916)

 

 

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In nome degli eroi del Risorgimento

10/01/2021 da Sergio Casprini

Ultimo assalto alla battaglia di San Martino dipinta da Carlo Ademollo, che combatté nelle Guerre del Risorgimento 

Studenti di Lombardia , Piemonte  e Toscana impegnati a dare un’identità a quanti combatterono per l’Italia.
In un database già 380 mila nomi

Alessandro Fulloni Corriere della Sera 10 gennaio 2021

Edmondo De Amicis

Dall’autore del libro Cuore Edmondo De Amicis al pittore macchiaiolo Telemaco Signorini. Poi Arrigo Boito, librettista di Verdi; Pietro Wuhrer, della fabbrica bresciana della birra; Nino Bixio, il luogotenente di Giuseppe Garibaldi. Ma la sterminata lista comprende soprattutto ragazzi dai cognomi qualunque: Rossi, Bianchi, Esposito, Proietti, Trovatelli.

È emozionante cliccare questi nomi in quel motore di ricerca messo a punto dalla Società Solferino e San Martino: contiene l’elenco — con numero di matricola, grado, luogo di nascita, le battaglie — di tutti i soldati risorgimentali che dal 1848 al 1870 presero parte alle tre guerre d’indipendenza e alla presa di Roma.

Le loro identità sono regolarmente messe online — al ritmo di 2.000 al giorno — da un centinaio di studenti del liceo Bagatta e delle paritarie Rogazioniste di Desenzano e degli istituti Gonzaga di Castiglione delle Stiviere , dell’ Annunziata di Torino, , dell‘Accademia di Belle Arti di Firenze, dell’Istituto Maserati di Voghera (PV) e del Liceo Medi di Villafranca di Verona (VR) impegnati a dare un’identità a quanti combatterono per l’Italia. Tutti ragazzi «arruolati» nell’ambito del programma di alternanza scuola-lavoro. E (quasi) coetanei di quei soldati che fecero l’Italia le cui età, stando alla catalogazione, oscillavano tra i 20 e i 25 anni.

Fanti, artiglieri, bersaglieri, carabinieri e cavalieri dell’esercito del regno di Sardegna prima e del regno d’Italia poi. «In tutto 680.000 militari. Per ora siamo arrivati a inserire 380.000 nomi nel nostro database: contiamo di terminare entro l’anno» s’inorgoglisce Bruno Borghi, conservatore del museo della Società esteso in tre siti tra Solferino e Desenzano e che — nei tempi pre Covid — vanta ogni anno una media di 60.000 visitatori. Tra questi «tantissime famiglie di villeggianti in vacanza sul Garda. Molti gli austriaci, certo. Ma anche francesi, ungheresi, tedeschi…».

A questo punto però occorre fare un passo indietro per spiegare l’origine di questo progetto e arriviamo alla sera del 24 luglio 1859. La battaglia di Solferino e San Martino è appena finita. Sì, gli austriaci sono in rotta ma è stata una mattanza «per noi e per loro — prosegue Borghi —. Il conteggio totale è di 40 mila soldati morti, feriti e dispersi». Chi viene colpito ha scarse possibilità di sopravvivere, non ci sono cure, medicine. Tanto che l’uomo d’affari svizzero Henry Dunant che si trovava nei pressi del campo di battaglia per incontrare Napoleone III, sconvolto, avvia un progetto per formare squadre di infermieri volontari. Nasce così la Croce Rossa.

Henry Dunant

I cadaveri vengono gettati nelle fosse comuni e ancora una decina d’anni dopo continuano ad affiorare dai campi. È allora che il prefetto e patriota Luigi Torelli — che per primo sventolò il Tricolore sul Duomo di Milano durante le Cinque Giornate e fu «l’inviato» scelto da Vittorio Emanuele II per le «missioni impossibili» — decide di costruire gli ossari che ospiteranno le spoglie di 11.000 caduti.

Nasce la Società, inizialmente una specie di «associazione veterani» del Risorgimento. «Aiutava gli invalidi, sosteneva le famiglie povere e stilava un elenco di tutti i combattenti» spiega il presidente Fausto Fondrieschi. I registri cartacei, 137 in tutto, finiscono al Museo del Risorgimento di Milano. Un paio d’anni fa viene l’idea di ricordare quelle identità «per renderle disponibili a tutti gli italiani». Ed ecco che i ragazzi delle quattro scuole copiano uno a uno i nomi, li mettono in un foglio excel convertito in una pergamena con grado, matricola, la battaglia combattuta. Sotto ogni voce, compare anche il nome dello studente che ha trascritto le generalità dal registro.

«Qualcosa che resta. E che emoziona» dicono dalla Società.

Il Sito di Solferino

 

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Trasumanar con Dante.

03/01/2021 da Sergio Casprini

Ivana Zuliani Corriere Fiorentino 31 dicembre 2020

Il 2021 inizia con un’esperienza che va oltre l’umano: «trasumanar» per dirla come Dante

 È questa la parola, che è stata scelta per il primo gennaio, del «calendario dantesco» dell’Accademia della Crusca: per ciascuno dei 365 giorni dell’anno, in cui si celebra il settecentesimo anniversario della morte del Sommo Poeta, l’Accademia dedicherà un diverso termine o espressione di Dante, pubblicandoli sul proprio sito e sui canali social.

Un modo per sottolineare la creatività, l’attualità e la leggibilità del linguaggio del poeta. Si tratta di locuzioni, motti, latinismi, neologismi creati da Dante, che fanno ancora parte del nostro patrimonio linguistico. Espressioni divenute proverbiali come «lo bello stilo», lo stile poetico di cui Dante è fiero, o «color che son sospesi», passato nell’italiano come forma per indicare uno stato di incertezza e di attesa; «il ben dell’intelletto», oggi espressione usata per indicare la pienezza della razionalità umana, o «bella persona», con cui Francesca da Rimini definiva il suo corpo, oggi invece riferita a doti morali come generosità e lealtà.

Ci sono poi i latinismi che arricchiscono il volgare come «baiulo», il portatore del segno dell’Impero, cioè l’imperatore, «colubro», il serpente che indica l’aspide con cui Cleopatra si diede la morte, «rubro», il rosso che Dante usa soltanto nell’espressione «lito rubro» per indicare il Mar Rosso.

Ma l’Alighieri non aveva paura di inventare parole nuove, soprattutto per descrivere l’esperienza paradisiaca e la dimensione sovra-umana. Creò così neologismi, dal «immiarsi» per indicare l’identificazione e la comprensione totale con l’altro o «trasumanar» appunto. La vita perfetta di Beatrice la «inciela», cioè la mette nel cielo, e Beatrice «imparadisa» la mente di Dante, rendendola adatta a contemplare le cose celesti. Il «tetragono» è chi è capace di resistere agli urti della sfortuna, il «botolo» è un cane piccolo, ma che si sfoga nell’abbaiare, e «broda», poi non è il brodo dei cuochi stellati, ma l’acqua del fiume infernale, fangosa, paludosa e fumosa. Non basta ancora: «bruti» sono non uomini, ma quasi animali, incapaci di desiderio di conoscenza, come insegna il canto di Ulisse. Risale a Dante anche la più antica voce onomatopeica dell’italiano scritto: «cricchi», con cui il poeta rende il rumore dello scricchiolio del ghiaccio che sta per rompersi, riferendosi al Cocito, il fiume infernale.

La parola di Dante, «fresca di giornata» nonostante i suoi sette secoli, sarà accompagnata tutti i giorni da un breve commento.

 

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