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Risorgimento Firenze

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Rassegna stampa

ORDIRE LA TELA DEL NOSTRO RISCATTO

27/03/2023 da Sergio Casprini

Gerolamo Induno La partenza dei coscritti nel 1866 1878

Risorgimento italiano: prende le mosse dal 1815 il superamento della frammentazione campanilistica del Bel Paese e si forma l’idea di nazione come spazio civile e non solo culturale

Angelo Varni  Il Domenicale del Sole 24 ore 26 marzo 2023

Certo il turbinio del ventennio napoleonico, a cavallo tra ’700 e ’800, molto aveva contribuito a squarciare la cappa di arretratezza gravante, sia pure in forme diverse e con qualche bagliore di innovazione, sull’intera penisola. Parole, concetti, principi nuovi vi erano penetrati.

Costituzione, libertà, sovranità del cittadino coi suoi diritti e doveri, repubblica, uguaglianza di fronte alla legge, laicità di uno Stato sottratto all’arbitrio dell’assolutismo e delle cerchie nobiliari e feudali: questi, e tanto d’altro, i valori, del resto, tradotti in concreti effetti istituzionali, politici, di rapporti sociali, di intraprese economiche, con i quali d’improvviso trovarono a misurarsi quelle generazioni sbalzate per impulso invincibile delle baionette napoleoniche dalle avvizzite consapevolezze di un mondo che sapeva ancora molto di medioevo ad una modernità fino ad allora intravista solo dai ristretti circoli dell’intellettualità illuminata settecentesca, impossibilitata poi a perseguirla davvero nella concretezza del reale.

Ed anche, senza dubbio, il richiamo a un sentimento di patria, di nazione, di italianità che non fosse più solo quell’antica preziosissima comunità culturale della tradizione letteraria, da Dante a Petrarca, al Rinascimento; bensì partecipazione di popolo a un progetto unitario, che vide sventolare i primi tricolori, costruire Stati col nome di Italia, pur con la pesante contraddizione della sudditanza alla “grande nazione” francese; che, ancora, animò il generoso proclama murattiano del 1815 agli “Italiani” e che indusse gli stessi occupanti austriaci di quell’anno di chiusura dell’esperienza napoleonica ad avanzare nelle terre di Romagna richiamandosi subdolamente a una loro pretesa difesa di italianità.

1815 Congresso di Vienna

Quanto di più lontano, però, dalla risistemazione della penisola certificata dal Congresso di Vienna, con una cesura rispetto all’esperienza appena trascorsa, che non fu solo di strutture materiali, ma pure di totale forzata ritessitura degli orditi dipanati lungo la straordinaria cavalcata imposta dal giovane generale corso fino all’Impero e all’irrimediabile Waterloo.

E da qui, da questi anni di profonda rimeditazione per l’intera società del nostro Paese della propria stessa scala di valori, di progetti, di costruzione di futuro, si avvia la ricostruzione della vicenda risorgimentale ora effettuata da Roberto Balzani, nel saggio Genio ed accidentalità di una nazione (1815-1849) di apertura del volume a due voci Risorgimento: costituzione e indipendenza nazionale; l’altra quella di Carlo M. Fiorentino Percorsi per l’Unità (1849-1866).

Una riflessione dell’autore davvero esemplare per la capacità di ricollegare la linearità della narrazione post-risorgimentale che abbiamo tutti appreso fin dai banchi della scuola elementare, con i suoi ben noti eventi canonici (primi moti carbonari, rivolte del ’31, e poi Mazzini, Giovane Italia, i martiri, Gioberti, Pio IX, Carlo Alberto, prima guerra d’indipendenza, Cavour, il ’48, Repubblica Romana, e così via), ad approfondimenti interpretativi che ne colgono un’inedita complessità ricca di variabili anche contraddittorie, che si collocano lungo i crinali spesso decisivi delle relazioni internazionali, delle atmosfere culturali, dei processi economici, del succedersi generazionale, delle condizioni sociali, tali da consentire davvero di ripercorrere quegli anni con la sensazione di essere guidati verso un’accresciuta consapevolezza di quanto accaduto, senza limitarne il percorso di maturazione alla meta “risorgimentale”, ma anzi arricchendolo di nuove ragioni e di nuove interpretazioni.

Per di più sapendo osservare – come fa Balzani – l’intrecciarsi degli eventi individuandovi a pieno titolo fattori di trasformazione meglio leggibili con l’occhio di un oggi ancora più che mai in essi coinvolto a distanza di due secoli: dalla mondializzazione al ruolo della comunicazione, dallo sviluppo tecnologico alla massificazione della politica, dall’aggregazione sociale allo stesso diffondersi delle epidemie, dai fenomeni migratori alle battaglie di solidarietà umanitaria, fino all’inserimento in una sorta di spazio “occidentale”, liberale e democratico, aperto alle intraprese e alla dialettica delle idee.

Si dipana in tal modo un cammino che porta il Paese a via via superare la frammentazione campanilistica di medievale ricordo, l’unico riferimento culturale rimasto alle pur immutabili classi dirigenti dopo – secondo la suggestiva immagine di Balzani– «l’esplosione della supernova napoleonica» con le sue sparse ricadute di “frammenti”, quali furono i sommovimenti carbonari e le turbolenze territoriali siciliane o romagnole dei decenni Venti e Trenta.

I messaggi rivoluzionari della Grecia, poi di Parigi, del Belgio, della Polonia, di là dagli esiti specifici, fecero intendere che “risorgere” fosse possibile, che si poteva cessare di vivere in un eterno presente e costruire un futuro affidato alle giovani generazioni. E fu Mazzini con le sue parole d’ordine a fare della nazione uno spazio civile e non solo culturale.

Su tutte, prevalente, comunque, l’indipendenza dallo straniero, la libertà di decidere da sé e per sé. Il ’48 “primavera dei popoli”, si chiuse con le tragedie del ’49, ma che aprirono una nuova stagione, laica, piemontese e cavouriana, quella ben spiegata dal successivo saggio di Fiorentino Percorsi per l’Unità (1849-1866); quella della seconda durissima restaurazione a Napoli come a Roma, nei Ducati come nel Lombardo-Veneto e persino a Firenze.

Restava, dunque, è ben noto, solo il Regno Sardo a mantenere costituzione e cittadinanza rappresentativa, sotto la guida ispirata di Cavour, che l’autore segue con lucida attenzione nelle sue delicate relazioni interne e internazionali fino alla guerra del ’59 e alla delusione di Villafranca, mentre le popolazioni dell’Italia centrale reclamarono l’annessione al Regno Sabaudo.

I Mille e il conseguente allargamento del nascente Stato unitario al Sud, sancirono l’irreversibile processo di consolidamento unitario, che la guerra del ’66 completò a est, mentre irrisolta restava la questione della Roma pontificia e, soprattutto, di come trascinare il Paese verso un’equilibrata modernizzazione economica, non meno che culturale e civile.

Risorgimento. Costituzione e indipendenza nazionale

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VITTORIO EMANUELE II NON ERA VLADIMIR PUTIN

21/03/2023 da Sergio Casprini

Monumento di Vittorio Emanuele II a Firenze

LETTERE al  Corriere della Sera 17 marzo 2023

Caro Aldo, visto l’aggettivo farsa attribuito ai referendum organizzati da Putin in Ucraina, quale aggettivo è possibile attribuire al Plebiscito indetto il 21 e 22 ottobre 1866 nelle Provincie Venete e in quella di Mantova? Il Plebiscito riguardava l’annessione di tali Provincie al Regno d’Italia, all’indomani delle sconfitte da questo subite a Custoza e a Lissa. Le operazioni di voto consistevano nella consegna all’elettore di due schede di colore diverso, contrassegnate, rispettivamente, dalle parole Sì e No, da deporre, una delle due, nella corrispondente urna posta su un tavolo diversa dall’altra, e contrassegnate anch’esse, rispettivamente con le parole Sì e No. All’elettore che deponeva la scheda del No nella corrispondente urna del No venivano immediatamente richieste le generalità. Questo alla faccia della libertà di espressione della propria scelta! Il risultato del Plebiscito è riportato in una targa posta sotto il porticato (lato laguna) del Palazzo Ducale di Venezia. Teseo Norrito

Caro Teseo, non paragonerei Putin a Vittorio Emanuele II. Il Veneto non fu invaso dalle truppe italiane. Il Veneto si ribellò al dominio austriaco nel 1848, quando insorsero tutte le sue città, tranne Verona che era uno dei perni del quadrilatero, quindi la caserma degli asburgici (ma fu una Verona festante quella che gli austriaci dovettero lasciare nel 1866, sparando sulla folla e uccidendo una donna incinta, Carlotta Aschieri). Massimo d’Azeglio — un uomo straordinario del tutto assente dalla memoria nazionale — accorse al fianco dei difensori di Vicenza e fu ferito gravemente. Alessandro Poerio cadde in difesa di Venezia: gli amputarono una gamba, spirò a casa del comandante delle truppe napoletane, Guglielmo Pepe, morto in esilio a Torino, che gli ha dedicato una statua.

Credo, gentile signor Norrito, che quando parliamo del Risorgimento dovremmo avere più rispetto per due generazioni di compatrioti per i quali l’Italia era un ideale che valeva la vita. Purtroppo il Risorgimento non è di nessuno. La sinistra lo considerò un moto borghese (e in parte lo fu davvero, ma non sarebbero bastati i «sciuri» per cacciare gli austriaci da Milano). I cattolici lo considerarono un affronto al Papa, senza comprendere che liberarsi dal potere temporale fu una straordinaria fortuna per i Pontefici, ora riconosciuti non come leader politici ma come autorità spirituali e universali. La destra reazionaria lo aborre; preferisce separatisti e briganti. La consultazione che si tenne in Veneto, e prima in Emilia, nelle Romagne, in Toscana non era un referendum democratico, ma appunto un plebiscito. Quelli indetti dai francesi a Nizza e nella Savoia ebbero un esito analogo. Servivano a sancire decisioni prese altrove. Ma il Risorgimento fu una rivoluzione nazionale, non sociale. Solo un Paese che in fondo si disprezza e si vuole male come il nostro può infangarlo a ogni occasione, anziché coltivarne un ricordo orgoglioso e commosso. Aldo Cazzullo

Episodio delle 5 giornate di Milano
Baldassare Verazzi 1848

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La Nazione «pragmatica» antidoto al sovranismo

21/02/2023 da Sergio Casprini

Francesco Chiamulera Corriere della Sera 20 febbraio 2023

Uno spettro si aggira per l’Europa: il sovranismo.

Al turbolento decennio delle nuove destre è dedicato il saggio del politologo dell’Università di Perugia Alessandro Campi. Una delle premesse del Il fantasma della nazione Per una critica del sovranismo è che un un po’ tutta «la variopinta compagnia filosofica contemporanea» ci ha descritto la nazione come un costrutto artificiale, moribondo; ma allora come spieghiamo la sua residua capacità di sbancare le urne in Usa come in India, in Svezia come Polonia, in Italia con il primo governo di destra-centro? Lasciamo quindi da parte il giudizio dello storico Hobsbawm, che la considerava un passaggio transitorio: magari in futuro andrà così, ma per ora, scrive Campi, il ventunesimo secolo, dalla Catalogna e Scozia al Kurdistan, mostra che la nazione è viva. E lotta insieme a noi. Proprio il conflitto in Ucraina non è solo uno scontro tra totalitarismo e democrazia, ma tra il «principio imperiale» della Russia di Putin, impegnata a fare quello che sempre fanno gli imperi, cioè invadere e assoggettare, e il «principio nazionale» degli ucraini. Che al grido di Slava Ukraïni! lottano per difendere il diritto all’autodeterminazione. La questione però si complica, se si vuole capire «cosa sia esattamente la nazione dal punto di vista di coloro che continuano a difenderla alla stregua di un’eredità storica da rivendicare con orgoglio. Si può ancora offrirne una concezione chiusa, organicistica e totalizzante, come si è fatto spesso in passato?» No. Soprattutto: possono i sovranisti, con la loro retorica che santifica il popolo come sempre buono, giusto e moralmente probo, proporsi come interpreti credibili di questa idea? Tanto meno. Perché se il nazionalismo, pur con tutti i suoi infiniti limiti (e macerie e morti), era animato almeno da una spinta di progetto, secondo Campi il sovranismo (in Italia rappresentato soprattutto dall’esperimento di coalizione gialloverde nel 2018/19) è veramente un affare di modesto calibro. Più che un’ideologia nel senso nobile del termine è «l’espressione di un umore collettivo, di un sentimento di massa segnati da una sensazione di decadenza, debolezza e incertezza, è la traduzione dell’angoscia e dello smarrimento provocati dal mondo globalizzato». Il sovranismo è difensivo e protezionista. Con i suoi vaghi appelli per il made in Italy in un mondo «segnato irreversibilmente dalla libera circolazione delle merci» è più dannoso che utile. Ignorando i vincoli che legano l’Italia «all’Europa, agli Stati Uniti e all’Occidente» dimentica gli interessi della nazione. E mentre il giudizio sul governo Meloni sembra rinviato, Campi identifica infine l’unica «nazione possibile»: quella che vada al di là della retorica alla Rousseau, ma anche di triadi intrinsecamente violente (perché imposte) come Dio, patria e famiglia.

Una nazione «pragmatica», «funzionale», aperta al mondo, che risponda alle esigenze dei cittadini mentre essi si riconoscono in essa conciliando diritti e doveri. Resta solo da trovarla.

Il fantasma della nazione

Autore Alessandro Campi

Editore Marsilio

Pag.      208

Prezzo  € 15

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L’ERRORE DI SALVEMINI

27/01/2023 da Sergio Casprini

APPARE INGENEROSA L’ACCUSA A GIOLITTI DI AVER ANTICIPATO I METODI DI MUSSOLINI

Paolo Mieli Corriere della Sera 24 gennaio 2023

Nato a Molfetta (Bari) nel 1873 (quest’anno ricorre il 150°) lo storico Salvemini si caratterizzò per il suo impegno a favore del riscatto del Sud e poi per la forte opposizione al fascismo. A lungo esule all’estero sotto il regime, morì a Sorrento nel 1957

Giovanni Giolitti

La «campagna» di Gaetano Salvemini contro Giovanni Giolitti durò una ventina d’anni e anche oltre. Coinvolse il «Corriere della Sera» di Luigi Albertini, la «Voce» di Giuseppe Prezzolini e il fior fiore degli intellettuali italiani. Contro Giolitti, Salvemini scrisse un libro che fece epoca: Il ministro della mala vita. Poi con l’avvento del regime mussoliniano, Salvemini fondò il primo periodico antifascista, «Non mollare», firmò il manifesto promosso da Benedetto Croce (1925), lasciò l’università ed espatriò. A Parigi fu, assieme a Carlo Rosselli, tra i fondatori di Giustizia e Libertà. Emigrò poi negli Stati Uniti dove restò, alternando l’attivismo politico all’insegnamento universitario, fino alla seconda metà degli anni Quaranta. Di questa sua complessa attività offre adesso un eccellente profilo Sergio Bucchi in La filosofia di un non filosofo. Le idee e gli ideali di Gaetano Salvemini, che sta per essere pubblicato da Bollati Boringhieri.

Il rientro di Salvemini in Italia nel dopoguerra non fu trionfale come ci si sarebbe potuto attendere in considerazione dei suoi meriti. La sua riammissione all’Università di Firenze fu lenta, assai tribolata. E quando finalmente riuscì a tornare, l’accoglienza fu entusiasta tra i suoi seguaci, ma ci fu qualche segno di ostilità da parte di Benedetto Croce e di Palmiro Togliatti. Forse per quella lontana polemica antigiolittiana. Forse anche per qualcos’altro.

Benedetto Croce

Ma facciamo un passo indietro e torniamo a quando Salvemini era ancora negli Stati Uniti. Nel 1943 le Lezioni di Harvard (ripubblicate poi da Feltrinelli con il titolo Le origini del fascismo in Italia) fornirono a Salvemini, scrive Bucchi, «la cornice in cui formulare da storico il giudizio espresso da tempo nell’aspra requisitoria del Ministro della mala vita». Salvemini accusava ancora l’ex presidente del Consiglio liberale di esser stato «un tenace conservatore che voleva comprare l’appoggio riformista col minimo di concessioni possibili». E di aver ereditato dai suoi predecessori «il costume di “manipolare” le elezioni». Gli riconosceva però — e in termini espliciti — di esser stato «il primo statista italiano a considerare i sindacati come associazioni legali, lo sciopero un diritto dei lavoratori e non un delitto della lotta di classe». Il primo «a sostenere che nei conflitti del lavoro il governo doveva rimanere neutrale».

In quello stesso 1943 Salvemini accettò di scrivere la prefazione a un libro di Arcangelo William Salomone, giovane storico americano di origini italiane allievo dell’orientalista Giorgio Levi della Vida, anche lui fuoruscito, espulso dall’università italiana per aver rifiutato nel 1931 di prestare giuramento al regime fascista. Il libro, Italian Democracy in the Making (pubblicato poi nel 1949 in Italia dall’editore De Silva con il titolo L’età giolittiana), riprendeva una considerazione di Piero Gobetti secondo il quale quella contro Giolitti era stata una «crociata» a cui Salvemini aveva preso parte «con l’entusiasmo dell’apostolo». Riportando il passo gobettiano, Salomone tradusse «crociata» con crusade e «apostolo» con crusader. Un crusader, che si opponeva al capo del governo, secondo Salomone, per una forma di «incompatibilità psicologica tra il tipo dell’italiano ispirato da alti scopi morali e da ideali disinteressati e il tipo realistico rappresentato al meglio da Giolitti mosso essenzialmente da moventi politici». «Crociato» era però un termine che non giovò a Salvemini. Coloro «che per ovvi motivi erano rimasti all’oscuro degli sviluppi del pensiero di Salvemini nei venticinque anni dell’esilio», scrive Bucchi, «accolsero la sua introduzione come un atto di pentimento e di ripudio delle posizioni assunte un tempo».

Nel 1949 — quando il libro di Salomone fu dato alle stampe in Italia con la prefazione salveminiana — uscì in libreria anche Il ministro della buona vita (Longanesi) di un celebre giornalista: Giovanni Ansaldo. Si trattava di un pamphlet nel quale si tessevano le lodi dell’uomo che aveva guidato l’Italia negli anni precedenti alla Prima guerra mondiale. «Dall’alto del suo storicismo», ricostruisce Bucchi, Ansaldo rimproverò a Salvemini di «non aver saputo cogliere “tutto l’elemento di necessità” che caratterizzò l’azione di Giolitti, motivo per cui la condanna dei metodi giolittiani non fu altro che un “fervore di giustizia” che lo spinse a “travedere e farneticare”». Si accusava in sostanza Salvemini di essersi scagliato contro Giolitti sulla base di una sorta di impazzimento «provocato dall’ aver perso nel 1912 il lume della ragione per la malaugurate elezioni di Molfetta». Ansaldo secondo Bucchi dimostrava «di non aver neppure letto il libro salveminiano di cui si apprestava a fare il controcanto». E si lasciò sfuggire gravissime inesattezze: la campagna salveminiana contro Giolitti era iniziata nel 1902, molti anni prima dell’insuccesso elettorale di cui parla Ansaldo; l’8 marzo del 1909 Salvemini aveva pubblicato sull’«Avanti!» un articolo, I misfatti del governo a Gioia del Colle, in cui si denunciavano le sopraffazioni di un esponente giolittiano, Vito De Bellis, nelle elezioni del 1909; Il ministro della mala vita era stato poi pubblicato del 1910 (e si basava su considerazioni riferite alle suddette elezioni del 1909); Salvemini, infine, si candidò a Molfetta nel 1913 e dichiarò fin da principio d’esser sceso in lizza per poter meglio denunciare i «metodi giolittiani», mai pensando di poter essere eletto. Era sufficiente tenere a mente questi dati incontrovertibili per escludere che Il ministro della mala vita fosse stato scritto per il risentimento di un Salvemini trombato alle elezioni.

In ogni caso, le malignità di Ansaldo sarebbero forse passate pressoché inosservate se Benedetto Croce — che di Giolitti era stato ministro — nel salutare «acidamente» (scrive Bucchi) l’uscita del libro di Salomone non avesse rilanciato le insinuazioni di cui si è detto. Avvalorando la tesi secondo cui quello definito da Croce il «violento libello» salveminiano altro non era che il frutto avvelenato della sconfitta di Salvemini all’elezione di Molfetta. E adesso, secondo Croce, «dopo una quarantina d’anni», con quella prefazione al libro di Salomone il «crociato» Salvemini era costretto a «riconoscere d’avere sbagliato».

I rapporti tra Croce e Salvemini erano improntati da oltre un decennio alla reciproca diffidenza. Eugenio di Rienzo — in Benedetto Croce. Gli anni dello scontento 1943-1948 (Rubbettino) — ricorda quella volta in cui, incontrandosi a Parigi in casa Rosselli, Salvemini chiese a Croce di promuovere una raccolta di fondi presso gli industriali italiani per finanziare il movimento Giustizia e Libertà. Croce sostenne d’essere il meno adatto per un compito del genere e Salvemini reagì dicendogli: «Allora la borghesia merita di andare in fondo ad un pozzo!». Croce ne restò turbato e avrebbe ricordato in seguito: «Io per Salvemini ero diventato l’esponente della borghesia meridionale meritevole di affogamento!». Il banchiere amico di Croce Anton Dante Coda — nelle memorie dal titolo Un malinconico leggero pessimismo. Diario di politica e di banca (1946-1952) pubblicate nei Quaderni dell’Archivio Storico della Compagnia di San Paolo — riferisce che in uno di quegli incontri parigini Salvemini disse a Croce: «Se alla vostra libertà non unite qualcosa di concreto, nessuno vi capirà». Croce avrebbe reagito con parole gelide: «La libertà è un principio morale e non la fetta di pane di un sandwich a cui bisogna aggiungere il prosciutto e il formaggio». Secondo Coda, Salvemini imputava a Croce di essere rimasto in Italia e di non aver preso la via dell’esilio perché «amante dei suoi libri e del dialetto napoletano». Nel 1946, in un opuscolo dal titolo Che cosa è un liberale italiano (assai elogiato da Norberto Bobbio), Salvemini scrisse che Croce era diventato «il nume indigete del liberalismo italiano» e i liberali nient’altro che i «conservatori italiani» i quali portavano in giro Croce in Italia e all’estero «come se fosse il santissimo sacramento».

In una lunga assai celebre lettera inviata da Cambridge nel Massachusetts il 10 aprile del 1947 a Ernesto Rossi — che si può leggere nel carteggio tra i due dal titolo Dall’esilio alla Repubblica (Bollati Boringhieri) — Salvemini tornò ad accusare lo statista liberale: «Giolitti ai suoi tempi diceva che il popolo italiano era gobbo e lui non poteva fare a un gobbo che un abito da gobbo. E, certo il popolo italiano era gobbo. Ma Giolitti lo rese più gobbo che non fosse prima, invece di fare quanto sarebbe stato possibile per farne non dico un bel tipo diritto come un fuso, ma un gobbo meno gobbo di quello che egli aveva trovato». Per poi aggiungere parole amare sui propri compatrioti: «Sissignori, il popolo italiano non era famoso sotto Giolitti, diventò peggiore sotto Mussolini, ed è diventato peggiore in questi quattro anni di regime postfascista». Negli anni intercorsi tra il 1943 e il ’47 gli italiani sarebbero dunque peggiorati rispetto a quel che erano stati nel ventennio precedente. Un giudizio ancor più severo andava a colpire l’Italia liberale, il cinquantennio che aveva preceduto la Prima guerra mondiale.

Palmiro Togliatti

Ad assestare un ulteriore colpo a Salvemini fu un intervento del segretario del Pci Palmiro Togliatti (a Torino il 30 aprile 1950). Sergio Bucchi se ne era già occupato curando — sempre per Bollati Boringhieri — la riedizione del Ministro della mala vita. Il nodo essenziale per Togliatti, secondo Bucchi, «non risiedeva nella veridicità o meno dei fatti denunciati da Salvemini, vale a dire nella condotta elettorale giolittiana, quanto piuttosto nel comprendere come la contraddizione tra quella politica sostanzialmente democratica di Giolitti rivelasse il tratto specifico non di un uomo ma di un tempo e di un sistema». Ma, a conclusione del ragionamento, Togliatti non aveva rinunciato a colpire Salvemini parlando di «inconsistenza delle condanne dettate da pura ispirazione moralistica». Una stoccata destinata a lasciare il segno.

Anche con Togliatti Salvemini aveva un conto aperto. Innanzitutto, per essere stato e rimasto uno dei pochi ad essere ad un tempo antifascista e anticomunista. Poi per un fatto specifico. Tornato ad insegnare nell’Università di Firenze, nel discorso inaugurale per l’anno accademico 1949-1950, Salvemini ricordò d’aver avuto in quello stesso ateneo come «alunni ed amici» Nello Rosselli e Camillo Berneri: «il primo con suo fratello Carlo doveva essere assassinato nel 1937 da sicari francesi per mandato italiano… il secondo doveva essere soppresso in Spagna dai comunisti nel 1937». Su «Rinascita» Togliatti, con lo pseudonimo Roderigo di Castiglia, accusò Salvemini di aver divulgato una «tra le più infamanti calunnie della libellistica anticomunista».

Salvemini, secondo Gaetano Arfé all’epoca impegnato ad aiutarlo a raccogliere gli scritti sulla questione meridionale, non restò indifferente alle parole di Croce e Togliatti. Disse, riferì Arfé, che «in un Paese dove anche i comunisti diventavano, in veste di storici, crociani e giolittiani in politica, l’antigiolittismo era sempre attuale e andava propinato in dosi massicce». Sostenne nel 1952 Gaetano Salvemini che se tra Giolitti e Mussolini poteva esser rilevata una differenza, questa era stata «in quantità e non in qualità». «Giolitti fu per Mussolini quel che Giovanni il battezzatore fu per Cristo: gli preparò la strada». Fu Giolitti — sempre secondo Salvemini — a ridurre le elezioni a quel che Mussolini avrebbe definito «ludi cartacei». Poi Salvemini provò a dividere Croce da Togliatti: «Chi accetta le istituzioni rappresentative — se le accetta sul serio — non ha il diritto, come fa Benedetto Croce, di passare innanzi ai metodi con cui Giolitti faceva a suo tempo le elezioni ignorandoli o negandoli… La posizione di Togliatti è logica, quella di Benedetto Croce è assurda: peggio che assurda, è equivoca».

Sostanzialmente Salvemini aveva tutte le ragioni nel rintuzzare le ricostruzioni dei fatti di Gioia del Colle di Ansaldo e Croce. Ma, rianalizzata alcuni decenni dopo, la sua tesi — che tra Giolitti e Mussolini ci fosse stata una differenza «di quantità» e non «di qualità» — non regge. Altrettanto lunare è la tesi per cui, quattro anni dopo la caduta del fascismo (e due dopo la fine della guerra), il popolo italiano fosse peggiorato. È un limite di molti intellettuali italiani quello di voler difendere, al di là di ogni evidenza, tesi che hanno sostenuto in passato. Accadde a Salvemini tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta. Era capitato ad altri prima di lui. Capiterà ancora.

 Gaetano Salvemini, primo da sinistra, con Luigi Einaudi, al centro, e Ferruccio Parri, in piedi.

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EUROPA E NAZIONE

24/10/2022 da Sergio Casprini

La destra ne fa uno stile, la sinistra dice Paese, un po’ tutti diciamo patria; Stato non lo dice nessuno. 

 Aldo Cazzullo  Corriere della Sera 23 0tt0bre

La parola chiave di Giorgia Meloni è nazione. «Questa nazione» ha ripetuto per due volte nel brevissimo discorso all’uscita del Quirinale. «Nazione» è il motto ricorrente dei ministri dopo il giuramento. Non è difficile prevedere che la stessa parola riecheggerà più volte nell’intervento al Senato e alla Camera della prima donna presidente del Consiglio. Le parole sono importanti. In particolare quelle con cui si indica l’Italia. La sinistra dice di solito «questo Paese»; e più è radicale, populista, indignata, più calca l’accento su «questo», come a dire che l’Italia è altro rispetto a loro, e gli italiani (come da titolo dell’ultimo libro di Francesco Cossiga) sono sempre gli altri.  Un vecchio poster di An diceva: «Prima eravamo in pochi a dire la parola patria, ora siamo la maggioranza». Non era un poster sbagliato.

Carlo Azeglio Ciampi

Ci fu un tempo in cui patria era una parola connotata a destra; ora la usano un po’ tutti. Decisivo è stato il grande lavoro politicoculturale di Carlo Azeglio Ciampi, che sul recupero della patria e dei suoi simboli — l’inno, il tricolore, financo il famigerato Vittoriano, che in realtà è bellissimo — ha costruito il proprio settennato. Ciampi dimostrò che la patria, frettolosamente data per morta dopo l’8 settembre 1943, era invece radicata nel cuore degli italiani; a cominciare proprio da coloro che all’indomani dell’8 settembre si batterono a Cefalonia contro i tedeschi, dando inizio alla Resistenza. L’idea della Resistenza plurale, e non «cosa di sinistra», è entrata o meglio rientrata nella discussione pubblica proprio con Ciampi. E il presidente, visitando El Alamein e gli altri campi di battaglia, ha restituito dignità e onore ai combattenti della Seconda guerra mondiale, tra i quali lui stesso; in Albania il giovane tenente Ciampi se la vide brutta, e amava ricordare che gli alpini della Julia — motto: «Mai daur», mai indietro — avevano salvato una spedizione mal preparata e peggio comandata, immolandosi sul Pindo per dare il tempo agli altri soldati italiani di ripiegare.

Ma patriottismo non è sinonimo di nazionalismo. «Il nazionalismo è la guerra» diceva un altro presidente che la guerra l’aveva conosciuta, François Mitterrand (caduto con il suo reparto nelle mani dei tedeschi dopo il crollo francese, per tutta la vita concesse il tu solo ai compagni di prigionia). E ancora oggi il nazionalismo estremo ha acceso una guerra sui confini orientali d’Europa.  Ovviamente Giorgia Meloni usa la parola «nazione» in un’altra ottica. Nessuna obiezione, se il senso è dire che l’unità italiana è indissolubile, con buona pace di nordisti e sudisti, dei vecchi leghisti che ancora sognano se non la secessione un’autonomia totale, e dei neoborbonici secondo cui la colpa dei mali del Sud è del Nord. Ma se il senso è contrapporre la nazione italiana, che tutti o quasi amiamo, alle altre nazioni europee, allora le obiezioni sono legittime. A cominciare alla prima: l’interesse nazionale, giustamente caro alla Meloni, in questa fase storica non passa certo per la contrapposizione con l’Europa. Anzi. La costruzione europea doveva servire a un italiano a non sentirsi straniero a Berlino, a Madrid, a Parigi; il che non vuol dire solo andare nelle altre capitali senza passaporto e senza dover cambiare valuta, ma percepire la nostra nazione come ormai indissolubilmente legata alle nazioni tedesca, spagnola, francese; nella prospettiva di unirle in un’unica nazione europea. In Francia si è votato pochi mesi fa per scegliere tra un presidente che fa suonare l’Inno alla Gioia prima della Marsigliese, e una candidata che aveva annunciato di voler togliere le bandiere europee, perché non intendeva «governare una regione d’Europa». Giorgia Meloni da che parte sta? Dalla parte di Emmanuel Macron, che ha vinto — e sarà il primo capo di Stato che lei incontrerà —, o da quella di Marine Le Pen, che ha perso?

 Carlo Bossoli, La battaglia di Solferino 1859

Contrapporre una nazione all’altra non porta lontano; e non solo perché senza l’armata francese, vincitrice a Magenta e a Solferino a prezzo di migliaia di morti, la nazione italiana non esisterebbe; e forse non sarebbe sopravvissuta senza i fanti francesi e inglesi schierati sul Piave dopo Caporetto (anche se la prima resistenza sul fiume si deve ai nostri nonni). Certo, dall’Europa gli inglesi si sono chiamati fuori; ma siamo sicuri che abbiano fatto un affare?

Se dire «nazione» significa essere consapevoli e orgogliosi di noi stessi, bene; se significa considerare l’Europa una sovrastruttura burocratica da cui guardarsi, va meno bene. E non è comunque nell’interesse di un Paese che veleggia verso i tremila miliardi di debito pubblico, finanziato dalla Banca centrale europea, posseduto per almeno il 10% dagli investitori francesi, e di fatto garantito dai tedeschi, che hanno accettato il debito comune del Pnrr e prima o poi accetteranno di farne altro per vincere la battaglia dei prezzi. A maggior ragione ora che i tassi tornano a salire, e aumenta il costo del denaro, l’Italia ha bisogno dell’Europa come non mai. E fino a quando gli europei non eleggeranno tutti insieme il loro presidente, gli egoismi nazionali — lo dimostra proprio in questi giorni la Germania — saranno sempre destinati a prevalere. Come dice uno dei mentori di Giorgia Meloni, Vittorio Feltri, nel condominio europeo noi siamo l’inquilino moroso: l’ultimo che può alzare la voce.

In sintesi: la sinistra dice Paese, la destra dice nazione, un po’ tutti diciamo patria; Stato non lo dice nessuno. Fa venire in mente i bolli, le code, le tasse. Lo Stato è sempre altro rispetto a noi: il poliziotto è lo sbirro, il Palazzo di Giustizia il Palazzaccio. Forse la nuova destra di governo dovrà occuparsi anche di questo.

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IL GIARDINO DI DOGLIANI DOVE RIPOSA LUIGI EINAUDI

13/10/2022 da Sergio Casprini

 

LETTERE al Corriere della Sera 13 ottobre 2022

Caro Aldo, nella sua risposta (Corriere, 28 settembre) ho notato che, tra i nomi degli illustri piemontesi da lei citati non appare quello di Luigi Einaudi. Non voglio credere che si sia trattato di una volontaria omissione, bensì di un semplice lapsus calami. Io, da liberale quale sono stato e quale sono tuttora nella mia tardissima età, ma purtroppo senza più quel partito di Benedetto Croce e Luigi Einaudi in cui militai, ne sono rimasto dispiaciuto, pur, come ho già detto, non facendogliene una colpa. Perché non ci parla di questa grande figura di cui sarebbe attualissimo oggi rileggere le sue stupende pagine del libro «Le prediche inutili»? Luigi Morelli, Fabriano (An)

Caro Morelli, lei ha perfettamente ragione. Il nome di Luigi Einaudi e di suo figlio Giulio mi è rimasto nella penna. Ma ora rimediamo. Quando chiesi a Elémire Zolla, lo scrittore-sciamano che leggeva il Mahabharata in sanscrito, quali fossero stati i libri della sua formazione, rispose: «La Scienza delle Finanze di Luigi Einaudi. È il libro più importante mai stato scritto da un italiano nel secolo ventesimo».

Einaudi insegnava all’Università di Torino. Un giorno gli entrò in ufficio uno dei suoi studenti. Una matricola. Era il figlio di un droghiere, che aveva una bottega nel centro di Torino. Quel ragazzo chiese a Einaudi se volesse scrivere un articolo per una piccola rivista che aveva deciso di pubblicare. Specificò di non poter pagare. Einaudi fu attratto dalla sua intelligenza, e anche dal suo coraggio. E rispose che avrebbe scritto molto volentieri l’articolo, senza compenso. Il ragazzo si chiamava Piero Gobetti, e sarebbe morto qualche anno dopo in esilio, a Parigi, dopo essere stato manganellato per tre volte. Einaudi fu tra i liberali che si illusero di poter usare il fascismo contro le sinistre e ricondurlo nell’alveo della democrazia. Si accorse ben presto di essersi sbagliato. Non fu un antifascista attivo, giurò fedeltà al regime come quasi tutti i docenti; ma un altro suo allievo illustre, Edgardo Sogno, lo ricordava al suo esame di laurea in camicia bianca, in mezzo a colleghi in camicia nera.

Dopo la Liberazione, Einaudi fece la politica economica del nostro Paese, da ministro delle Finanze, governatore della Banca d’Italia, presidente della Repubblica. Era favorevole a una lira forte e contrario all’assistenzialismo: sosteneva che la ricchezza, prima di essere redistribuita, andasse creata. A lungo molti commercianti italiani hanno affisso nella loro bottega una sua citazione, in cui elogiava la laboriosità dei negozianti, degli artigiani, dei piccoli imprenditori, e prendeva le loro difese dall’invadenza della burocrazia. Ha vissuto una vita lunga e serena, e riposa in un luogo molto bello, un giardino nel cimitero di Dogliani, accanto alla signora Ida, a Giulio e altri figli e parenti, di cui tutti sulle Langhe custodiscono una memoria grata e affettuosa.

Aldo Cazzullo

 

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I RETROSCENA DI FIUME

29/09/2022 da Sergio Casprini

Il poeta Gabriele D’Annunzio (1863-1938) a cavallo nella città di Fiume con i suoi legionari

L’IMPRESA DI D’ANNUNZIO VENNE ISPIRATA DA AMBIENTI ECONOMICI E FINANZIARI

Paolo Mieli Corriere della Sera 26 settembre 2022

Un saggio di Eugenio Di Rienzo indaga sugli appoggi occulti e palesi che il poeta ottenne in quelle drammatiche circostanze

Dieci mesi dopo la fine della Prima guerra mondiale, ai primi di settembre del 1919, partì la spedizione per Fiume. A guidare la conquista della città contesa tra il Regno d’Italia e quello dei Serbi, Croati e Sloveni, c’era Gabriele D’Annunzio. Il poeta proclamò la Reggenza del Carnaro e istituì un regime libertario, festante, vagamente ispirato all’anarcosindacalismo. A Fiume, ricordò lo scrittore Giovanni Comisso che prese parte all’impresa, «si faceva senza alcun ritegno tutto ciò che si voleva». Qualcuno cinquant’anni dopo paragonò l’aria respirata in quei giorni a Fiume a quella del Sessantotto. Altri, a ridosso degli eventi, vollero che fosse stata un’anticipazione della «marcia su Roma» e una sperimentazione in vitro di certi aspetti che avrebbe avuto il regime mussoliniano. Ipotesi e tesi confutate dagli studi assai seri sulle origini del fascismo di Nino Valeri, Renzo De Felice e Roberto Vivarelli, che misero ben in evidenza le diversità tra dannunzianesimo e mussolinismo. Ai quali si sono aggiunti, in tempi più recenti, i due preziosi libri di Marco Mondini — Fiume 1919. Una guerra civile italiana (Salerno) — e di Maurizio Serra: L’Imaginifico. Vita di Gabriele D’Annunzio (Neri Pozza).

Il governo d’Italia presieduto da Francesco Saverio Nitti in un primo tempo fu relativamente tollerante nei confronti di D’Annunzio. Finché, alla fine del 1920, Giovanni Giolitti (successore di Nitti) mise termine all’occupazione nei giorni di un Natale definito all’epoca — non senza una qualche enfasi — «di sangue»: i morti, tra soldati del Regio esercito, legionari dannunziani e civili, furono poco più di una cinquantina. L’avventura durò 476 giorni. Arrotondati a 500 da Giordano Bruno Guerri nel documentatissimo Disobbedisco. Cinquecento giorni di rivoluzione. Fiume 19191920 (Mondadori).

Gerardo Dottori  Benito Mussolini il Duce 1933

Resta il fatto che, dopo Fiume, D’Annunzio gradualmente sparì dalla scena politica e si affermò, invece, Benito Mussolini. Nel duello ingaggiato dopo il 1921 con Mussolini, D’Annunzio fu sconfitto perché «nella competizione tra un dilettante e un professionista della politica l’esito della sfida era del tutto scontato», scrive Eugenio Di Rienzo in D’Annunzio diplomatico e l’impresa di Fiume, edito da Rubbettino. Ma Di Rienzo non insiste più di tanto sulla «congenita inadeguatezza politica» del poeta. Dal momento che la tesi dell’«inadeguatezza» non terrebbe in sufficiente considerazione l’«indubbia maestria di mediare tra la sinistra e la destra fiumana» del Vate che riuscì ad avere in mano «sempre stretto» il bastone del comando. E fu capace, «con maggiore o minore successo», di far fronte a «maestri di intrighi della stazza di Badoglio, Nitti, Giolitti, Sforza». Anche se Di Rienzo, citando Thomas Mann, fa qualche concessione al concetto di «impoliticità dannunziana». Impoliticità ampiamente documentata da manifestazioni di «nausea per la politica» (sulle quali si soffermò Benedetto Croce) e di «disgusto per i maneggi del politicantismo giolittiano». Ciò che non fece di D’Annunzio un protofascista. Ma «costituì il terreno di coltura per l’affermarsi di simpatie per il fascismo anche presso i più illustri esponenti del fronte liberale».

Detto questo, va aggiunto — secondo Di Rienzo — che l’impresa di D’Annunzio fu probabilmente «ispirata e resa materialmente possibile dal concorso dei Poteri forti (economici e finanziari), dei vari gruppi di pressione, a volte difficilmente etichettabili politicamente, della Fratellanza massonica, della grande e media stampa schierata o che si autodefiniva indipendente». Forze, queste, «ben radicate nella struttura dello “Stato invisibile” che, intrecciando la loro azione con quella dello “Stato visibile” (Forze armate, agenzie di intelligence, apparato burocratico, spezzoni del governo) in quel momento dettavano o quantomeno influenzavano fortemente l’agenda della politica italiana».

Se si accetta questa ipotesi, è da ridimensionare anche la definizione di «Antistato fiumano». Perché l’organismo statale italiano a cui quell’«Antistato» mirava appunto a contrapporsi, «si era già disgregato di fronte alla crisi dell’immediato dopoguerra in vari tronconi». Tronconi che avrebbero agito molto spesso autonomamente. Quali? Regio Esercito, Regia Marina (con i loro servizi di informazione e le loro attività coperte), Ministero dell’Interno con i suoi bureaux preposti ai cosiddetti «Affari riservati», «spesso deviati rispetto ai loro fini istituzionali». Senza escludere, inoltre, che «i germi di questa frammentazione della sovranità statale si annidarono persino nel cuore profondo dell’esecutivo». Dove? Nella presidenza del Consiglio, risponde Di Rienzo, nella Consulta in cui «Carlo Sforza e l’onnipotente segretario generale del ministero degli Affari Esteri, Salvatore Contarini erano rimasti fedeli all’eredità della politica estera assertiva di Sonnino».

A queste forze si dovrebbe aggiungere la Casa regnante: «l’enigmatico» Vittorio Emanuele III ed Emanuele Filiberto, Duca d’Aosta, «perennemente in fregola di smanie golpiste». Tutti loro «consentirono all’impresa fiumana — finanziata, controllata e indirizzata dallo Stato Maggiore Generale, dai Palazzi romani, dalle banche e dai complessi industriali dell’Italia settentrionale — di nascere, sopravvivere consolidarsi, svilupparsi». Salvo poi abbandonarla al suo destino quando quell’impresa verrà giudicata «non più funzionale ai loro obiettivi».

Questa la tesi di Di Rienzo. D’Annunzio non sarebbe stato «né l’ideatore né l’incontrastato primo attore dell’avventura di Fiume». In realtà — secondo l’autore — egli ricoprì, «fino ad un certo punto almeno», il ruolo di «semplice strumento manovrato da altri» come «alcuni politici e analisti di quella tormentata stagione avevano perfettamente compreso».

Francesco Saverio Nitti

Lo stesso Nitti, nelle sue memorie — Rivelazioni. Dramatis personae (Edizioni Scientifiche Italiane) —, affermò che si era voluto fare di D’Annunzio «il creatore del movimento fiumano che certo contribuì a creare» mentre egli invece «fu, in definitiva, soprattutto l’esecutore di una situazione che era all’infuori di lui». Gaetano Salvemini, il quale avanzò un’ipotesi che Di Rienzo definisce «inquietante» e cioè che gli stessi Nitti e Giolitti avessero agito dietro le quinte per disgregare il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni. In tutto ciò, prosegue Di Rienzo, «è veramente difficile non scorgere una continuità stretta con la “diplomazia di movimento” di Cavour prima sperimentata nei Balcani, attuata poi nella guerra non dichiarata contro Francesco II». Una diplomazia corsara di cui si avvalse in seguito Urbano Rattazzi nell’agosto 1862 e nell’ottobre-novembre 1867 «per giungere alla conquista di Roma senza arrivare a uno scontro frontale con la Francia del Secondo Impero». Servendosi nuovamente, come nel maggio del 1860, in Sicilia, «dei servigi del disobbediente-obbediente Giuseppe Garibaldi».

Dove si troverebbero le tracce delle trame a cui si riferisce Di Rienzo? Nitti, tra le personalità più importanti dell’epoca, fu colui che, nelle citate memorie, per primo chiamò in causa la massoneria. Massoneria da cui lui stesso sostenne di essersi sentito minacciato. E che, a suo dire, «aveva rappresentanti e agenti in tutti i centri importanti di popolazione, spesso anche in alcuni centri minori». Nessun partito se non la massoneria, secondo Nitti, «poteva nello stesso giorno e alla stessa ora inscenare riunioni e dimostrazioni e far credere a movimenti della coscienza nazionale che in realtà non esistevano». Ancor più puntuale in questo atto d’accusa, l’uomo che all’epoca era a capo del governo, scriveva: «Fra gli aderenti dell’insano tentativo di D’Annunzio furono, infatti, molti massoni». E «gli organi superiori della massoneria non avversarono D’Annunzio ma anzi esaltarono la sua impresa e la favorirono ben prima del suo inizio».

Nitti era convinto che la massoneria era stata responsabile nel 1915 «dell’entrata in guerra dell’Italia in forma incostituzionale e con procedimenti e metodi messicani». E che al Grand’Oriente fosse riconducibile «il male che fece il colpo di mano di Fiume». Responsabile, la massoneria, «solo in parte» per ciò che era accaduto tra l’aprile e il maggio del 1915. In «gran parte» invece per quel che si produsse tra il 1919 e il 1920. Il tutto comprovato dalle ammissioni del gran maestro di Palazzo Giustiniani, Domizio Torrigiani, il quale, in tempi successivi, «tenne non solo a riconoscere ma anche a rivendicare il merito della contribuzione massonica alla scellerata avventura dannunziana».

Torrigiani dal giugno del 1919 era stato, come successore di Ernesto Nathan, alla guida del Grand’Oriente d’Italia. Simpatizzò per l’avventura del Carnaro e si recò a Fiume per due missioni (concordate con Nitti). Poi, quando nel 1920 l’impresa dannunziana prese un carattere nettamente antigovernativo, se ne distaccò.

Negli anni seguenti Torrigiani ebbe problemi con Mussolini soprattutto dopo la crisi successiva al rapimento e all’uccisione di Giacomo Matteotti. In quell’occasione Torrigiani tenne contatti con Giovanni Amendola e svolse un ruolo di rilievo nel rendere pubbliche carte che danneggiavano la reputazione di Mussolini. Nel 1925 il regime fascista sciolse le logge massoniche e il gran maestro espatriò in Francia. Tornato a Roma nel 1927, fu arrestato dalla polizia e mandato al confino, prima a Lipari, poi a Ponza. Si ammalò, venne curato sommariamente e gli fu restituita la libertà soltanto nell’aprile del 1932. Giusto in tempo per poter morire cinquantaseienne, a fine agosto del 1932, nella villa di famiglia a San Baronto, frazione di Lamporecchio, in provincia di Pistoia.

Dell’iniziale appoggio di Torrigiani alla causa di D’Annunzio — dopo il primo viaggio del gran maestro a Fiume — sono rimaste innumerevoli tracce. Tra le quali, Eugenio Di Rienzo mette in risalto due articoli di giornale pubblicati lo stesso giorno: 6 novembre 1919.

Il primo comparve sul «Messaggero». Il giornale dei fratelli Perrone dava grande risalto a un comunicato del «Governo dell’ordine massonico» di esplicito sostegno ai legionari fiumani. La massoneria, sotto la guida di Torrigiani, assicurava il comunicato, «continuerà a seguire, come dall’inizio, con amorosa, ininterrotta cura e materiale sostegno, l’eroica azione concepita dall’eroe di Buccari e di Vienna per il trionfo dei popoli martiri e per il coronamento della Vittoria italiana». Il tutto era accompagnato da un commento con il quale il giornale romano esprimeva il proprio entusiastico sostegno alla presa di posizione della massoneria.

L’altro articolo fu pubblicato quello stesso giorno dal quotidiano socialista l’«Avanti!». In esso si denunciavano gli intrecci tra quella che era stata la «massoneria interventista» e «i generali massoni che sono di fatto i comandanti dell’esercito fiumano». Tutte prove eloquenti che il Grand’Oriente aveva «sobillato» la «faccenda di Fiume». «Quando ci sarà concesso di parlare», proseguiva il foglio del Psi con un esplicito accenno alla censura, «vedremo perché insieme alla massoneria anche stavolta agiscono gli emissari della Grandi Banche, i Toeplitz gli emissari dei Perrone, e, con loro, i più noti arruffoni dell’affarismo capitalistico internazionale». Un articolo che Di Rienzo definisce «in larga parte profetico». O forse soltanto ben informato. Dieci giorni dopo, il 16 novembre 1919, Badoglio comunicava a Nitti che D’Annunzio aveva ricevuto «una missione dei principali industriali e finanzieri italiani» tra i quali venivano, direttamente o indirettamente, individuati molti dei nomi pubblicati sull’«Avanti!».

Avanti ! 6 novembre 1919

 

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Guerre ed eserciti nell’età contemporanea

28/08/2022 da Sergio Casprini

 L’Italia e le forze militari

Pubblicato dal Mulino un volume a cura di Nicola Labanca

Globalfirepower (Gfp), un sito di informazioni militari alquanto misterioso sulle proprie fonti ma considerato attendibile dagli addetti ai lavori, dal 2006 pubblica ogni anno un indice che valuta le potenziali capacità belliche di un Paese in un conflitto combattuto con armi convenzionali.

Nel 2022 l’Italia risulta all’undicesimo posto su 142 nazioni esaminate, con un indice pari a 0,1801, dopo Francia (0,1283) e Gran Bretagna (0,1382) ma prima di Germania (0,2322) e Spagna (0,2901): la perfezione assoluta (non raggiunta da alcuno) sarebbe un indice pari a 0,0000. Sempre secondo Gfp, l’Italia ha, con 297 mila uomini, il secondo esercito più grande dell’Unione Europea dopo la Francia (415 mila). Sono notizie abbastanza sorprendenti, considerando la distratta indifferenza con cui l’opinione pubblica italiana (non) si occupa di questioni militari. Anche nella campagna elettorale in corso, il tema «difesa» appare del tutto assente dal dibattito politico, nonostante nel cuore dell’Europa sia in corso un conflitto dalle prospettive e conseguenze incerte.

Forse però ci si sorprenderebbe di meno sapendo che le classi dirigenti italiane, dalla nascita dello Stato unitario nel 1861 in poi, «hanno sempre voluto grosse formazioni militari»: dai governi dell’Italia liberale a quello fascista fino ai giorni nostri, dopo la fine della guerra fredda, l’amore per i grandi battaglioni (come li chiamava Napoleone) non è mai cambiato, tanto da poter «essere considerato un carattere originario della storia militare nazionale… un pegno da pagare perché in Europa l’Italia fosse considerata una grande potenza».

È quanto scrive lo storico Nicola Labanca nel saggio introduttivo di Guerre ed eserciti nell’età contemporanea, un libro appena uscito per Il Mulino che va a completare la quadrilogia della casa editrice bolognese dedicata al «rapporto complesso, intricato, luttuoso, sempre diverso, durato appunto secoli, fra italiani, guerre e forze armate». Un quarto volume, dunque, dopo quelli su soldati e conflitti nel periodo antico e nelle età medievale e moderna.

L’opera è divisa in due macro-capitoli, dedicati ai «tempi» e alle «forme» dell’impegno militare italiano dal XIX secolo in poi. I «tempi» sono: Le guerre dell’unificazione (Enrico Francia); L’età liberale (Marco Rovinello); La Grande guerra (Marco Di Giovanni); Il fascismo (Emanuele Sica); Nella guerra fredda e oltre (Nicola Labanca, curatore sia del volume che della quadrilogia). Le «forme» raccontano: Militari come forze di polizia e di ordine pubblico (Hubert Heyriès); La Marina e le guerre per mare (Fabio De Ninno); L’Aeronautica e la guerra tra le nuvole (Riccardo Cappelli); I servizi segreti e le guerre dell’Intelligence (Gastone Breccia); Operazioni internazionali e trasformazione militare (Fatima Farina).

Si tratta quindi di un lavoro collettivo i cui autori, scrive ancora Labanca, sono «tutti operanti nelle Università o da esse da poco formati (…) più giovani di altri (…) ritenendo che sia giunto il momento che una nuova generazione di studiosi e studiose esprima la propria visione».

Un’opera, viene da aggiungere dopo una rapida presa di contatto, qua e là anche felicemente iconoclasta quando va a smontare, su una base documentale, credenze errate passate in modo acritico nella narrazione condivisa. Per esempio, quello di un contributo «eccezionale» svolto dalle Forze armate nel «fare la nazione» mischiando tra loro ceti e classi, mentre in realtà durante gli oltre 150 anni di storia unitaria «in tempo di pace e in tempo di guerra una buona parte della classe dirigente italiana ha semplicemente evitato il reclutamento militare obbligatorio». Oppure il fatto di considerare irrilevanti i risultati ottenuti dalla sparuta aeronautica militare della repubblica di Salò: furono tali nel quadro complessivo del grande conflitto ma non in senso assoluto visto che, a uno sguardo retrospettivo, si presentano «mediamente migliori rispetto a quelli della Regia Aeronautica» (Cappelli), con 239 velivoli avversari abbattuti e 115 perduti in 4.100 ore di volo.

È chiaro che un’opera singola che affronta temi e periodi così ampi e complessi in alcuni casi non può che limitarsi a proporre indirizzi di ricerca: per questo, oltre alla bibliografia generale, ogni capitolo ha una sua lista specifica di testi cui fare riferimento per gli approfondimenti. Un esempio? Indagare su quelle che Fatima Farina nel suo saggio definisce le «contraddizioni irrisolte» della presenza femminile nelle forze armate, che contrariamente alle attese vede una «bassa attrattività presso le donne italiane» e quindi «una minore probabilità di incidere sulla realtà nel senso di una contaminazione di genere».

Paolo Rastelli  Corriere della Sera 28 agosto 2022

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Addio alla campionessa delle nevi. Sfidò il fascismo indossando gli sci

03/08/2022 da Sergio Casprini

 

Celina Seghi, la donna dei record, ci ha lasciato a 102 anni. La chiamavano topolino, per il fisico minuto, ma ben presto diventò la Regina delle Nevi per le incredibili vittorie. Ieri l’hanno ricordata in tanti. E tra questi anche una leggenda dello sci mondiale, Gustav Thoeni. «Con Celina ci siamo incontrati diverse volte, veniva a vedere le mie gare — ha ricordato commosso —. Una volta ad una gara di Coppa Europa all’Abetone fece l’apripista. Aveva già 80 anni».

Era nata all’Abetone, Celina, il comune montano più amato dagli sciatori toscani, aveva vinto 25 titoli italiani, un bronzo ai mondiali di Aspen del 1950 e altri trofei internazionali e a 81 anni suonati si era «divertita a fare un voletto», come raccontò ai giornalisti, con un parapendio sfiorando le vette più alte dell’Appennino tosco-emiliano. Perché la signora Seghi, sposata con un chirurgo, non era solo una campionessa assoluta, ma una donna straordinaria. Che aveva collezionato record anche nella vita, sfidando l’immaginabile, precorrendo i tempi.

Negli anni 30, quando durante il regime fascista le ragazze studiavano «lavori donneschi», l’emancipazione femminile era un concetto sconosciuto e lo sport femminile aveva una funzione pedagogica legata al sesso di appartenenza, Celina aveva inforcato gli sci dimostrando ai maschi che anche una signorina poteva fare grandi cose. Gli allenamenti erano gli stessi degli uomini: durissimi, spesso pericolosi, senza ausilio di skilift o altre diavolerie tecniche. «Si scia e poi si sale in vetta cantando», rispondeva con ironia a chi le chiedeva dove la trovava tutta quella forza con quel fisico da educanda. Ma aveva anche un grande cuore, la super campionessa. Una mattina vide un bambino chiedere l’elemosina. «Perché non sei a scuola bimbo?», gli chiese. E lui le rispose che non aveva soldi per comparsi libri, cartella e quaderni. Celina non aspettò un minuto in più: andò in una cartoleria, comprò tutto ciò che serviva al bambino e glielo regalò con la promessa che avrebbe iniziato a frequentare la scuola. Tanti anni dopo, incontrò un avvocato. Era quel bambino che, grazie a lei, si era laureato.

Erano tempi formidabili ma non facili e non lo furono neanche quelli dell’immediato dopo guerra. Mentre signori benpensanti si fermavano a guardare stupiti le prime donne alla guida di un’auto, Celina sfrecciava sulle piste da sci di mezzo mondo e vinceva quasi sempre: 37 le medaglie appese al collo, l’ultima nel 1954 a 34 anni, due anni prima del ritiro dall’agonismo per diventare maestra di sci.

Quando decise di ritirarsi crollò un mito, quello della valanga azzurra dell’Abetone e della super-coppia (sportiva). Perché negli stessi anni e negli stessi luoghi brillavano altre stelle: quella di Zeno Colò e del caposcuola Vittorio Chierroni. Se le ricordava sempre quegli atleti e amici. Si allenava con loro nei boschi dell’Abetone e siccome era «il topolino delle nevi», mentre gli altri due erano dei «bellimbusti» riusciva a fare lo slalom tra alberi e cespugli lasciandoli indietro. «Li canzonavo e loro non ci rimanevano tanto bene ad essere battuti da una ragazzina», raccontava spesso la formidabile Seghi. Ma poi, subito dopo, aggiungeva che senza quegli amici e senza allenatori molto severi («mi mandavano a letto presto senza brindisi anche dopo aver vinto una medaglia») non sarebbe diventata una grande campionessa. E probabilmente neppure una donna forte, spavalda, generosa e incredibilmente moderna.

Marco Gasperetti Corriere della Sera 28 luglio 2022

 

 

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1915. Rivolta contro i padri

22/07/2022 da Sergio Casprini

Carlo Carrà Manifestazione interventista  (Festa patriottica-dipinto parolibero), 1914

 

L’intervento italiano nella Grande guerra fu anche una resa dei conti generazionale

Vent’anni fa si stimava che la letteratura sulle cause della Prima guerra mondiale superasse i 25 mila volumi, un oceano di parole che prendeva l’abbrivio dai documenti pubblicati, dopo la fine del conflitto, da tutti i Paesi coinvolti. L’immensa massa di carteggi e atti ufficiali aveva uno scopo principale: respingere o attribuire la responsabilità agli Imperi centrali di aver scatenato l’inferno nel Vecchio Continente per cercare di alleviare o giustificare le dure condizioni, soprattutto economiche, imposte agli sconfitti dal trattato di Versailles. Sia le carte bollate sia le memorie dei principali protagonisti, naturalmente, erano colme di reticenze e orientate a stabilire una verità politica piuttosto che i fatti reali.

Quel che accadde dopo non ha aiutato a fare ordine. L’Europa è ricaduta, come aveva previsto John Maynard Keynes, nell’orrore della Seconda guerra mondiale, che ha coinvolto gli stessi protagonisti della Prima. Terminato il conflitto, il mondo si è ideologicamente spaccato in due, cosa che non ha aiutato a formulare giudizi al di sopra delle parti. In Italia, in particolare, a partire dagli anni Sessanta, tutta la retorica della guerra vittoriosa si è trasformata in un atto di accusa contro generali incapaci e sadici che hanno mandato al massacro un popolo che voleva solo starsene tranquillo a casa.

La verità probabilmente sta nel mezzo. È quello che emerge da L’Italia della Prima guerra mondiale in 50 ritratti di Paolo Mieli e Francesco Cundari (Centauria editore), con le illustrazioni di Ivan Canu (efficaci più di mille parole), e l’idea di scegliere alcuni personaggi, non sempre tra i più noti, nasce dalla premessa fatta nell’introduzione: è assurdo pensare che ci fosse una regia sotterranea che portò al grande massacro; più o meno tutti, volontariamente o involontariamente, persino chi contrastò la guerra, contribuirono alla tragedia. Se, come scrisse il grande storico Johan Huizinga, «la povera Europa si avviava verso la Prima guerra mondiale come un’automobile sgangherata in mano di un conducente ubriaco per una strada tutta buche e cunette», è anche vero che, rievocando quei giorni, un osservatore sensibile come Stefan Zweig scrisse: «Non si temevano ricadute barbariche come le guerre tra popoli europei… I nostri padri erano tenacemente compenetrati dalla fede nella irresistibile forza conciliatrice della tolleranza». Calza a pennello la definizione che, dopo il libro scritto da Christopher Clark (pubblicato da Laterza), ha preso piede ogni qual volta si parli di coloro che contribuirono a scatenare il conflitto, vale a dire: I sonnambuli.

Mieli e Cundari, prima di scegliere i personaggi da far entrare in scena in questa efficace rappresentazione teatrale della tragedia, chiariscono la particolare situazione italiana. Se sonnambuli sono stati anche gli italiani, furono sonnambuli consapevoli. Roma ha avuto tutto il tempo di ponderare una decisione molto controversa perché si trattava di sfilarsi da un’alleanza per aderire a un’altra. Ligia alla mentalità politica con la quale i Savoia avevano «costruito» l’Italia, sperava di entrare dalla parte giusta al momento giusto pagando un prezzo modesto per ottenere ciò che voleva ai confini orientali. Il più attento di tutti (miglior interprete della casata sul trono), Giovanni Giolitti, rigorosamente contrario all’intervento, vedendo come si mettevano le cose pensò che la guerra si potesse infine dichiarare, lasciando però prima collassare l’Austria, vale a dire andandoci a prendere Trento e Trieste rischiando ben poco (non la pensava così anche Mussolini quando diede la pugnalata alla schiena della Francia?).

Ma la situazione italiana aveva una componente generazionale che altre nazioni non avevano. Era un malessere che veniva da lontano, una resa dei conti tra padri e figli. Già a Unità d’Italia compiuta si era manifestato tra i giovani che avevano visto gli ideali risorgimentali sfumare in un assalto al potere e alle ricchezze, ma si era limitato a manifestazioni artistiche e letterarie. Venuta al mondo una nuova generazione, fu automatico rifarsi ai nonni per smentire i padri. Ci cascarono intellettuali di grande spessore come Renato Serra, con il suo Esame di coscienza di un letterato, Scipio Slataper, Emilio Lussu e un antinazionalista come Gaetano Salvemini (personaggi inseriti nel libro). Da quella sbornia quasi adolescenziale venne sedotto persino Piero Gobetti, convinto che la classe dirigente italiana avesse il dovere di portare a termine il Risorgimento.

Pier Luigi Vercesi  Corriere della Sera 20 luglio

Piero Gobetti

 

 

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