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Risorgimento Firenze

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Rassegna stampa

Vernice e insulti sulla statua di Indro Montanelli a Milano

14/06/2020 da Sergio Casprini

 

Lo scopo è pretestuoso, il metodo vergognoso

Giangiacomo Schiavi Corriere della Sera 14 giugno 2020 

C’è un vento di stupida emulazione americana dietro l’imbrattamento della statua di Indro Montanelli e c’è sempre più  gente che non avendo altro da fare se la prende con i monumenti scaricando rabbia, insulti e vernice a effetto mediatico. Si può soltanto giudicare con il metro dell’imbecillità che fa notizia lo sfregio alla scultura del grande giornalista nei giardini di via Palestro a Milano. Perché è pretestuoso lo scopo e vergognoso il metodo, che si commenta da solo: si può discutere, contestare e condannare un episodio che appartiene a una storia lontana, a una guerra coloniale con orrori e sopraffazioni comuni a ogni guerra, evitando di scatenare furiose invettive che sfociano in gesti di violenza e in scritte insensate e anche vigliacche. Dare del razzista a Montanelli che ha fatto della libertà, dell’anticonformismo e dell’irriverenza verso il potere e i voltagabbana uno stile di vita e di giornalismo, vuol dire non conoscerlo nemmeno. A Montanelli non sono mai piaciuti i monumenti e nemmeno le glorificazioni. Se qualcuno l’ha fatto nei giardini pubblici di Milano, in questo caso l’ex sindaco Albertini, è perché Montanelli è stato un simbolo, il testimone di un secolo, un monumento lui stesso per il giornalismo e per la cultura liberale aperta al dissenso * Ai nostri occhi la storia della giovane abissina e del soldato che ne fa la sua sposa bambina per un’usanza vergognosa dell’esercito regio è una storia sbagliata  Ma ci fa vergognare di più chi se la prende con un episodio di novant’anni fa da inserire nel contesto di un’epoca e di una guerra coloniale, quando ancora oggi in tante parti del mondo tante donne minori, indifese e sole, sono vittime di soprusi inaccettabili, di usurpazioni e violenze tollerate da famiglie e da governi ciechi, che ignorano ogni umanità. Quella che Montanelli aveva, e i suoi imbrattatori non hanno.

 *…Roberto Cenati guida l’associazione milanese dell’ANPI. E rimane fermo sulla posizione già espressa, un invito ad analizzare l’intera vita e la professione del giornalista: «Nessuno vuole difendere quel passato. Ma ricordo che il monumento a Montanelli è stato costruito a pochi passi da dove fu gambizzato dai brigatisti. Ha un significato particolare, questa statua. Quei terroristi avevano voluto colpire la libertà di stampa”…

 Andrea Galli e Maurizio Giannattasio Corriere della Sera   14  giugno  2020

La foto del 1940 che ha ispirato la statua

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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FIRENZE: IL FRANCHI ALLE SCUOLE (E LO STADIO A CAMPI)

27/05/2020 da Sergio Casprini

Bisogna decidersi: da una parte vogliamo essere disponibili alle esigenze del futuro, dall’altra vogliamo rimanere medievali

Aureliano Benedetti Corriere Fiorentino 27 Maggio 2020

Il  futuro del Franchi è legato alle scelte che saranno fatte per il nuovo stadio. Probabilmente a Campi. E non è comprensibile la resistenza di Palazzo Vecchio a tale ipotesi perché lo stadio verrebbe costruito fuori dal Comune di Firenze; ma Firenze non è città metropolitana?

Scrive il poeta: Ma il popolo è, ben lo sapete, un cane,/ E i sassi addenta che non può scagliare,/E specialmente le sue ferree zane/ Gode nelle fortezze esercitare;/ E le sgretola; e poi lieto si stende / Latrando su le pietre ruinate,/ Fin che si leva e a correr via riprende/ Verso altri sassi ed altre bastonate.

L’articolo di Matteo Magrini sul Corriere Fiorentino del 23 Maggio mi ha fatto tornare in mente le due quartine parte della bellissima poesia di Giosuè Carducci il Canto dell’Amore. Infatti l’ipotesi dell’abbattimento dello stadio che anche nel nome ha avuto vita tormentata: prima si chiamava Giovanni Berta, poi Comunale, poi finalmente dedicato ad Artemio Franchi, seguirebbe la curiosa, poi non tanto, consuetudine che a Firenze ci sia sempre voglia di abbattere elementi della sua storia.

È accaduto, tra le altre, anche per la bellissima costruzione in Piazza Beccaria, che aveva la sfortuna di chiamarsi Palazzo della Gioventù Littoria, che offriva uffici, cinematografo, piscina e questa con alle pareti mosaici di Sironi, complesso abbattuto per costruirci, a 200 metri dal fiume, l’archivio di Stato che raccoglie solo parzialmente la documentazione relativa, sparpagliata anche in capannoni alla periferia di Firenze. Se dovesse accadere un’altra alluvione l’archivio spostato dagli Uffizi, sempre vicino al fiume, potrebbe subire altre peripezie; recentemente nell’imbarazzante silenzio sull’accaduto, per una rottura di tubazioni d’acqua nel seminterrato, le pergamene ivi depositate sono state spostate poi con la pala. Ebbene seguendo la consuetudine degli abbattimenti già con i mondiali del 1990 lo stadio di Firenze fu stuprato per renderlo non più stadio, ma un cinema del calcio, abbassandone la platea di circa 3 metri per guadagnare alcune gradinate ed inoltre, mortificando l’ardita pensilina in cemento armato di Nervi, furono realizzate due contigue pensiline di plastica che ricordano le orecchie dell’elefantino Dumbo; quando circola molto denaro non si guarda a nulla, l’importante è incassare! Mentre con i cospicui finanziamenti ricevuti per i mondiali, invece di dissiparli in tale «manutenzione straordinaria», sarebbe stato possibile costruire un altro stadio nuovo di zecca! La Soprintendenza ha già spiegato che è impossibile per il vincolo storico incidere sullo stadio Franchi, ma per certi ambienti politici le Soprintendenze, eroici presidi a difesa della nostra civiltà, sono dei brontosauri che disturbano l’efficienza odierna. Anche parziali correzioni consentite dalla Soprintendenza farebbero diventare lo stadio una struttura ridicola. È possibile comprendere l’atteggiamento di Rocco Commisso, abituato a veder costruire ed abbattere nell’arco di venti anni negli Stati Uniti quei grandi scatoloni chiamati building, che nella sua logica di imprenditore, vorrebbe abbattere lo stadio per farne un’opera più funzionale alle attuali esigenze. E si comprende anche che, in alternativa, lui proponga la costruzione di uno stadio per il calcio a Campi. Non è comprensibile invece la resistenza del Comune di Firenze a tale ipotesi perché lo stadio verrebbe costruito fuori dal Comune di Firenze; ma Firenze non è ormai città metropolitana? E con gli accadimenti recenti, vedi coronavirus, spaziare in territori più vasti, anche per le manifestazioni sportive, non sarebbe più logico? Non è pensabile che si continui a ritenere che tutto deve avvenire a Firenze intra moenia. Da una parte vogliamo essere disponibili alle esigenze del futuro, dall’altra vogliamo rimanere medievali. Così ogni volta che viene celebrata una partita di calcio nello stadio Franchi mezza città è paralizzata diverse ore prima e alcune ore dopo. Oggi le partite di calcio sono viste non soltanto dai fiorentini; se poi, secondo l’auspicio di Commisso, la Fiorentina potesse gareggiare tra le prime, verrebbero a vederla non soltanto da Prato o da Pistoia ma anche da tante città d’Italia e poiché la città si è spostata ad Ovest negli ultimi 70 anni, quanto di più logico, evidentemente con adeguata viabilità, lo Stadio a Campi. Lo stadio Franchi invece meriterebbe di essere riportato alla sua originaria struttura e quindi anche con gli spazi per l’atletica e quando ci si domanda che fine potrebbe fare senza le partite della Fiorentina, non viene in mente che le scuole fiorentine, dalle elementari fino alla università non hanno mai avuto impianti in cui far gareggiare i propri studenti; potrebbe essere usato quindi per agevolare la competizione sportiva dei nostri ragazzi con meno movida, meno apericena e più sport! Certamente con meno circolazione di denaro, che tanto ha avvelenato lo sport del calcio! Non sarebbe dignitoso infatti che ancora una volta il popolo fiorentino si ritrovasse assimilato al cane di Carducci.

 

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Il Tricolore simbolo d’Italia

23/04/2020 da Sergio Casprini

La sfida vinta da Ciampi

Aldo Cazzullo Corriere della Sera 23 Aprile 2020

Carlo Azeglio Ciampi divenne capo dello Stato senza mai avere tessere di partito, se non — per un anno — quella del Partito d’azione, destinato a scomparire quasi subito. Salito al Quirinale, si ripropose di risvegliare l’orgoglio nazionale e il senso di appartenenza. Non di crearlo; era convinto che esistesse già, nel profondo delle coscienze; e che occorresse solo riportarlo alla luce.

All’inizio andò al Vittoriano. La «macchina per scrivere», la «torta nuziale» secondo gli esteti (come sappiamo denigrarci noi italiani, nessuno). Ciampi lo visitò da solo, all’alba. Rimase colpito dalle due scritte sui frontoni: «Patriae unitati» e «Civium libertati», all’unità della patria e alla libertà dei cittadini. Segno che il Risorgimento — oggi dimenticato o denigrato — coincide non soltanto con l’unificazione, ma anche con l’inizio delle libertà civili: fine delle forche, della tortura, dei ghetti, del potere temporale del clero e del potere assoluto del sovrano; scuola pubblica, non confessionale, gratuita, obbligatoria.

Poi il presidente viaggiò a ritroso nella nostra storia. È stato a El Alamein, nel deserto egiziano, a rendere omaggio al valore sfortunato dei fanti. Ha ricordato i caduti in Russia e in Albania, dove aveva combattuto lui stesso. Ovviamente l’antifascista Ciampi condannava l’alleanza con Hitler e deprecava l’intervento in guerra; ma distingueva l’errore e l’orrore del regime dal sacrificio dei soldati.

Quindi andò a Cefalonia, l’isola dove la Resistenza iniziò, all’indomani dell’8 settembre, e fu pagata con il sangue della divisione Acqui. In quell’occasione espose la sua idea della Resistenza plurale, fatta non solo dai partigiani — di ogni fede politica — ma anche dai militari, dai carabinieri, dai religiosi, dagli ebrei, e dalle donne: moltissime donne. Il Tricolore divenne il segno di quel lavoro culturale, insieme con l’Inno: il modo più sicuro per far arrabbiare Ciampi era chiedergli se si dovesse cambiare l’inno di Mameli, che considerava davvero il Canto degli Italiani.

Ovviamente dietro la rivendicazione della storia comune c’era una visione politica. Erano gli anni in cui la Lega si chiamava ancora Lega Nord e predicava la secessione. Ed erano gli anni in cui si diffondeva il movimento neoborbonico. Due fenomeni speculari. Per i nordisti, il Sud è una palla al piede, senza la quale il Nord sarebbe ricco e felice come la Baviera. Per i sudisti, il Nord conquistò il Sud e lo condannò all’arretratezza. In realtà, entrambi stavano dicendo la stessa cosa, consolatoria ma controproducente: la colpa dei nostri mali non è nostra, ma di altri italiani; quindi non ci possiamo fare nulla.

Ciampi non condannava l’idea della piccola patria. Era anzi convinto che il bello di essere italiani fosse essere diversi gli uni dagli altri. Pensava che il legame con il campanile, il territorio, il dialetto, le memorie familiari e locali fosse una ricchezza da difendere; anche perché non è incompatibile, anzi può rafforzare il legame che ci unisce alla patria comune. Di sé diceva: «Mi sento profondamente livornese, toscano, italiano ed europeo». Era un’Europa più lungimirante, in cui l’Italia contava di più.

Quest’anno, il 9 dicembre, Carlo Azeglio Ciampi avrebbe compiuto cent’anni. Era nato dieci giorni prima di sua moglie Franca, che ancora oggi — lucidissima — ne custodisce la memoria. Il presidente commise anche errori, come tutti. Ma aveva capito una cosa importante: la storia italiana non è fatta di grandi vittorie militari, di eserciti in grado di incutere timore, di politici capaci di disegni strategici globali (con due eccezioni: Camillo Cavour, al fianco di Vittorio Emanuele II, e Alcide De Gasperi, con Luigi Einaudi al Quirinale). La storia italiana era ed è fatta dalla genialità e dall’umanità della nostra gente. Una genialità che si è espressa in un patrimonio artistico più grande di quello di tutte le altre nazioni messe assieme, e un’umanità che si è tradotta in capacità di sacrificio e di lungimiranza.

Quasi tutte le famiglie italiane conservano un frammento della memoria nazionale, confermato da lettere, fotografie, onorificenze, medaglie, cartoline, divise. Bandiere. Molto spesso custodite dalle donne. L’amor di patria, diceva un Papa straniero che ha amato l’Italia, san Giovanni Paolo II, è un’estensione del Quarto Comandamento: onora il padre e la madre.

Se ne volete una prova, digitate su Google il nome di Cleonice Tomassetti. Vedrete la fotografia in bianco e nero di un corteo di quarantadue uomini. Stanno andando a morire in riva al Lago Maggiore. Due sono costretti a reggere un cartello: «Sono questi i liberatori d’Italia oppure sono i banditi?». In testa c’è una donna. È molto elegante, ma i vestiti non sono suoi; lei indossava stracci sporchi di sangue; sono gli abiti che le mogli degli altri condannati le hanno regalato, per consentirle di morire con dignità. Sarà Cleonice Tomassetti a fare coraggio ai compagni, sino all’ultimo. Poco prima, sotto le torture — che hanno fatto fremere di rabbia anche alcuni militi di Salò —, ha detto ai nazisti: «Se percuotendomi volete mortificare il mio corpo, è superfluo farlo; esso è già annientato. Se invece volete uccidere il mio spirito, vi avverto che è inutile; quello non lo domerete mai».

 

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Lottare nel nome del Tricolore

22/04/2020 da Sergio Casprini

Aldo Cazzullo Corriere della Sera  22 Aprile 2020

Non è vero che dopo Caporetto siamo stati salvati dai francesi e dagli inglesi. Furono i reduci del Carso i primi a resistere sul Piave. E furono i ragazzi del ’99, gettati nella mischia appena scesi dai treni, a fermare con un assalto risorgimentale all’arma bianca gli austriaci che avevano già passato il fiume. Cominciava così la battaglia d’arresto che salvò l’Italia.

Non è vero neppure che l’8 settembre 1943 morì la patria. Semmai si sfaldò la monarchia, dopo che il 25 luglio era caduto il fascismo. Circa 800 mila soldati italiani furono fatti prigionieri e portati nei campi tedeschi. Vennero picchiati, umiliati, affamati, spogliati della divisa. Poi fu loro detto: ora vi rivestiamo, vi sfamiamo, vi diamo un’uniforme, vi liberiamo; però dovete firmare qui e impegnarvi a combattere per la Germania di Hitler. Oltre 600 mila, la netta maggioranza, rifiutarono. E scelsero di restare in condizioni disumane nei lager. Più di 50 mila morirono di fame e stenti. Il 5 aprile 1944 uno di loro, il capitano Giuseppe De Toni, scrive al fratello una lettera per spiegare perché non può tornare a casa: «Anche pochi, saremo sempre in numero sufficiente a dimostrare che vi sono degli Italiani pronti a sacrificare tutto per un’Italia rispettata, onorata».

Lo stesso giorno, il capitano Franco Balbis viene fucilato con gli altri capi del Comitato militare di Liberazione del Piemonte: ufficiali di carriera e rappresentanti dei partiti antifascisti. Per il Partito d’azione c’è Paolo Braccini, veterinario, che sarà sostituito da un avvocato di Cuneo: Duccio Galimberti. Tra la folla che accompagna i condannati a morte, Braccini riconosce la giovane moglie Marcella e le grida: «Ciao cocca!». Lei risponde: «Forza Paolo, che muori per l’italia! Penso io a tua madre!». Così, a ciglio asciutto. Prima di affrontare il plotone d’esecuzione, il capitano Balbis scrive al padre. Chiede di celebrare una messa ogni anno il 9 novembre, anniversario della battaglia di El Alamein, per tutti i commilitoni che hanno perso la vita in Africa. E aggiunge: «Possa il mio sangue servire per ricostruire l’unità italiana e riportare la nostra terra a essere onorata e stimata nel mondo intero». Quel 5 aprile due ufficiali dell’esercito italiano, che non si sono mai visti né parlati, scrivono la stessa cosa. Nessuna migliore prova della coralità della Resistenza.

La Resistenza è stata vittima di una grande falsificazione ideologica, come se fosse solo una «cosa rossa», da comunisti. Ieri ne è stata responsabile una parte della storiografia marxista. Oggi paradossalmente ne sono responsabili i neofascisti — una piccola minoranza — e gli anti-antifascisti, che sono molti di più. In realtà, la Resistenza è un patrimonio che appartiene alla nazione e non a una fazione. Perché tra i partigiani c’erano combattenti di ogni fede politica, e molti che non sapevano neppure cosa fossero i partiti ma non volevano schierarsi con Hitler. E perché ci furono molti modi di resistere, di dire No ai nazifascisti; e quel No fu detto da contadini, carabinieri, ebrei, militari, sacerdoti, suore. Senza dimenticare molti italiani che fecero in buona fede la scelta sbagliata, e morirono convinti di aver servito la patria.

Le due guerre mondiali furono due tragedie per l’Italia. Lo fu anche la Prima, nonostante la vittoria. Quello che va salvato è lo spirito di resistenza che i nostri nonni, fanti contadini, mostrarono sul Piave e sul Grappa. La generazione successiva, dopo aver dato prova di valore sfortunato sulle Alpi e in Albania, nel deserto africano e nell’inverno russo, tradita dal regime che l’aveva gettata nella fornace del conflitto senza la preparazione e gli equipaggiamenti necessari, trovò il riscatto nella Resistenza — le prime bande furono fondate da ufficiali degli alpini — e nella campagna di liberazione, condotta da decine di migliaia di soldati italiani accanto agli Alleati.

Dare oggi una lettura ideologica delle guerre italiane serve solo ad alimentare la polemica politica del presente. Sul Piave, come sulle montagne della Resistenza, si combatteva per la libertà, l’indipendenza, il futuro della Patria. Tra i partigiani c’erano uomini fedeli al re e altri che sognavano la Repubblica, cattolici che guardavano al Vaticano e comunisti che avrebbero voluto fare come in Russia (e che per fortuna furono fermati, dopo aver seminato lutti che non hanno giovato alla causa della Resistenza). La nostra è storia di uomini, fatta di errori e talora di orrori. Ma del sacrificio di quegli uomini non possiamo che andare fieri. Compreso l’operaio comunista Eusebio Giambone, fucilato con Braccini e i militari il fatidico 5 aprile 1944, che alla figlia bambina scrive: «Studia di buona lena per crearti un avvenire. Studia non solo per te ma per essere più utile nella società. La vita vale di esser vissuta quando si ha un ideale, quando si vive onestamente, quando si ha l’ambizione di essere non solo utili a se stessi, ma a tutta l’umanità».

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L’emblema nazionale dei combattenti per la libertà

Dopodomani, venerdì 24 aprile, i lettori troveranno in edicola, con il «Corriere della Sera» e il suo Magazine «7», la bandiera nazionale italiana (in una versione di stoffa che misura 90 centimetri per 60) al prezzo di 2 euro più il costo del quotidiano e del settimanale. L’iniziativa, attuata in collaborazione con Unicredit, nasce dall’idea di lanciare al Paese un forte messaggio di coesione e di unità, simboleggiato dal tricolore, alla vigilia del settantacinquesimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo, mentre tutti i cittadini, ciascuno nel ruolo che gli spetta, sono impegnati ad affrontare la drammatica emergenza provocata dall’epidemia da Covid-19.

Benché il Risorgimento avesse anche provocato dei conflitti nel corpo sociale, per via della soppressione dello Stato pontificio e delle manifestazioni anche cruente della questione meridionale, dopo l’unità d’Italia il simbolo del tricolore dimostrò nel tempo una notevole capacità inclusiva, facilitando il riassorbimento delle tensioni. Durante la prova terribile della Prima guerra mondiale fu l’emblema della volontà di resistere, nonostante le sofferenze e i lutti. Poi il fascismo cercò di assumere il monopolio del patriottismo e dunque anche del tricolore, favorito dall’errore dei socialisti massimalisti di svalutarlo a favore della bandiera rossa. Ma vi fu sempre una parte significativa dell’antifascismo che rivendicò i valori di libertà del Risorgimento contro la dittatura. E durante la Resistenza anche i comunisti recuperarono quel retaggio, inserendo il tricolore nell’emblema del loro partito e intitolando a Giuseppe Garibaldi le loro brigate. La nuova Italia inaugurata dalla Costituente poté così innalzare il tricolore come un vessillo riconosciuto da tutti, malgrado le divisioni politiche.

 

 

 

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IL TRICOLORE E L’ORGOGLIO CHE CI MANCA

09/04/2020 da Sergio Casprini

Corriere Fiorentino 9 Aprile 2020

Paolo Armaroli

Oggi il Corriere della Sera regala ai suoi lettori il Tricolore, la nostra bandiera nazionale. Se ne avvertiva il bisogno. Perché, perfino in questi tempi poco allegri, il simbolo della nostra unità nazionale si vede pochino alle finestre. Salvo che negli edifici pubblici, una rarità in quelli privati. Nel mio piccolo, ho una spiegazione paradossale. La nostra bandiera è repubblicana perché nella banda centrale non ha alcuno stemma. Così volle l’Assemblea costituente. E il presidente della commissione dei Settantacinque, Meuccio Ruini, tagliò corto: «La Commissione si pronuncia intanto pel tricolore puro e schietto, semplice e nudo, quale fu alle origini e lo evocò e lo baciò, cinquant’anni fa, il Carducci; e così deve essere la bandiera dell’Italia repubblicana». E allora vorrà dire che, non vedendo lo stemma sabaudo, i monarchici, tornati in maggioranza, si rifiutano di esporre una bandiera per l’appunto «semplice e nuda». Una bella rivincita rispetto al referendum istituzionale del 2 giugno 1946.

Come si sa, il Tricolore sventola per la prima volta a Reggio Emilia, ai tempi della Repubblica cisalpina, il 7 gennaio 1797. Dove il verde sostituisce il blu francese. E nel corso della XIII legislatura repubblicana si stabilì con legge, approvata anche con il voto di chi scrive, che il 7 gennaio, a distanza esatta di due secoli, fosse la festa della Bandiera. Una festa, a dire il vero, onorata appena appena. Come quella donna incinta, ma appena appena. Basterà ricordare che qualche anno fa si pensò di portare per le vie di Reggio l’enorme bandiera cucita a Modena. Lunga, manco a dirlo, 1.797 metri. Alla presenza del Capo dello Stato. Orbene, si dovette tagliare un pezzo del Tricolore perché non si trovarono braccia sufficienti a sorreggere la Bandiera. Nonostante che Reggio Emilia non sia un borgo popolato da una manciata di anime.

Per fortuna, non sempre le cose sono andate così. Nel 1861, nell’anno dell’Unità d’Italia, Odoardo Borrani, un pisano morto per sua disgrazia a Firenze, dipinse un meraviglioso quadro, che potete vedere in questa pagina, dal titolo «26 aprile 1859».* Cioè il giorno prima della partenza da Firenze del granduca Leopoldo II di Lorena per non farvi più ritorno. Il quadro raffigura una donna che, alla luce di una finestra, cuce con intelletto d’amore il Tricolore. La nostra bandiera poi, dopo Reggio Emilia, ricompare a Torino nel 1848. Alla vigilia della prima guerra d’indipendenza. E la cosa ha davvero dello straordinario. Difatti l’articolo 77 dello Statuto albertino così stabiliva: «Lo Stato conserva la sua bandiera: la coccarda azzurra è la sola nazionale». Fatto sta che questa norma rimase sulla carta. Infatti in forza del successivo articolo 82, lo Statuto sarebbe entrato in vigore dal giorno della prima riunione delle due Camere. Cioè l’8 maggio. Ma nel frattempo maiora premunt.

Vale la pena riportare un passo del «Commento allo Statuto del Regno» di Racioppi e Brunelli, che rievocano la storica scena che si svolse a Torino la sera del 23 marzo 1848 davanti alla reggia. Con una popolazione in delirio per la notizia delle vittoriose «Cinque giornate di Milano». «A mezzanotte decisa la guerra, il Re stesso presentasi al verone per darne l’annunzio al suo popolo: non può essere udito da tutta la moltitudine: egli allora con un lampo felicissimo di genio comunica la desiata notizia sventolando sul suo capo la fascia tricolore che l’inviato lombardo cingeva ai suoi fianchi». E ancora: «Il simbolo rivoluzionario, il simbolo nazionale, il simbolo proscritto dallo Statuto venti giorni prima, diveniva, in pugno del Re di Piemonte, pegno, vincolo e promessa di una non mentita alleanza con le aspirazioni di tutta la penisola».

A riprova che ex facto oritur ius, l’11 aprile Carlo Alberto dal campo di Volta Mantovana emanava un decreto del seguente tenore: «Le nostre navi da guerra e le navi della nostra marina mercantile inalbereranno qual bandiera nazionale la bandiera tricolore italiana (verde, bianco e rosso) collo scudo di Savoia al centro. Lo scudo sarà sormontato da una corona per le navi da guerra». Un 23 marzo 1848 che, dopo tante tribolazioni, anticipa il 17 marzo 1861, giorno dell’Unità d’Italia. Il Tricolore in tutti questi anni ci ha accompagnato nella buona e nella cattiva sorte, in guerra e in pace. A proposito, c’è ancora l’uso d’issare la Bandiera sugli edifici appena costruiti? Ma sembrano lontani anni luce i tempi in cui le donne si facevano un punto d’onore, come nello splendido e toccante quadro di Borrani, di cucire il Tricolore e di esporlo nel salotto buono. E ai balconi nelle feste comandate.

Sì, lontano anni luce. Sarà per questo che il mio amico Dino Cofrancesco, un autorevole storico delle dottrine politiche dalle idee chiare, sostiene che noi italiani abbiamo tante eccellenze per compensare la fossa delle Marianne che ci fa sfigurare agli occhi del mondo. E già, perché ci sono gl’italiani, degni di questo nome, e gli apolidi, come li definiva Indro Montanelli. Senza radici, senza futuro, immersi in un presente in bianco e nero. Dei contemporanei, per dirla con Ugo Ojetti. E nulla più.

* Il quadro di Odoardo Borrani, uno degli esponenti dei Macchiaioli, rappresenta una donna intenta a cucire il tricolore italiano il 26 Aprile 1859 a Firenze, ossia il giorno prima dei moti di rivolta dei Fiorentini che portarono alla caduta della monarchia del granduca Leopoldo II di Toscana e alla richiesta dei Toscani di unirsi al regno di Sardegna l’anno successivo

 

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PERCHÉ IL 17 MARZO NON È IL 14 LUGLIO

20/03/2020 da Sergio Casprini

 LETTERE al Corriere della Sera 20 Marzo 2020

Caro Aldo, da appassionato di storia mi chiedo come mai il 17 marzo, anniversario della proclamazione dell’Unità d’italia, non sia mai stato proclamato giorno di festa nazionale (a parte le celebrazioni del 2011) come il 2 giugno o il 25 aprile. So che dal 2012 è stata dichiarata «Giornata dell’unità nazionale», ma di fatto questa data è quasi sempre passata inosservata. Penso che il nostro 17 marzo sia la commemorazione di un evento per noi veramente fondativo, al pari del 4 luglio statunitense o del 14 luglio francese, visto che il nostro Paese era diviso dai tempi delle Guerre Gotiche di Giustiniano nel VI secolo. Questa giornata meriterebbe molto più spazio. Che cosa ne pensa? Federico Poppelmann

Caro Federico, il 14 luglio, data della presa della Bastiglia (1789), rappresenta per i francesi la Rivoluzione, ed è la festa nazionale. Ovviamente la Rivoluzione si fece contro qualcuno. Monarchi, cortigiani, aristocratici, alto clero. Alla Rivoluzione seguì la Restaurazione, e il tentativo impossibile di fare come se non fosse accaduto nulla. E anche nella storia successiva della Francia c’è sempre stato un filone reazionario, forte anche di vasto consenso popolare, che si estinse (sia pure non del tutto, si pensi al terrorismo dell’Oas) con la fine del collaborazionismo di Vichy, sconfitto dalla storia, e grazie al fatto che il leader della Resistenza fosse un uomo di destra, sia pure repubblicana e cattolica, come il grande Charles de Gaulle. Insomma oggi il 14 luglio è festa per tutti i francesi, anche per i discendenti di coloro che avversarono la Rivoluzione.

Questo purtroppo non vale per l’Italia. Non vale per il 25 aprile, e neppure per il 17 marzo. Che simboleggia il Risorgimento. Una pagina straordinaria, di cui dovremmo andare fieri, ma che viene oggi vilipesa e negata da diverse correnti «culturali», dai venetisti ai neoborbonici.

Resta una consolazione: come stiamo vedendo in questi giorni, noi italiani siamo più legati all’Italia di quanto siamo disposti a riconoscere. Ne parliamo male, ma se lo fanno gli stranieri ci ribelliamo: l’Italia è come la mamma, la possiamo criticare soltanto noi. E la patria, intesa come terra dei padri — e delle madri —, è per noi una cosa seria. Aldo Cazzullo

 

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1925, una statua per Ovidio. La lunga attesa di Sulmona

25/02/2020 da Sergio Casprini

Giuseppe Guastella  Corriere della Sera  22 Febbraio 2020

Quale ministro della Pubblica istruzione, ma quali politici, prelati, nobili, burocrati, commendatori e grandi ufficiali: a presiedere il comitato d’onore che doveva raccogliere i fondi per erigere a Sulmona la statua in bronzo del poeta latino Publio Ovidio Nasone poteva essere solo un altro poeta, «tanto più che il suo Abruzzo gliene poteva oggi offrire uno degno d’amarlo e di esserne amato — Gabriele d’Annunzio».

Dalla prima pagina del «Corriere della Sera», il 23 giugno 1906, Ugo Ojetti, giornalista e letterato, ironizzava su cosa avrebbe potuto pensare l’autore delle Metamorfosi e dell’Arte di amare «d’un comitato così decorato e così decorativo», dato che «le autorità del suo tempo, nella persona di Augusto» lo «fecero morire di strazio in un esilio feroce tra i barbari Geti sul Mar Nero».

Bisognerà attendere il 1925 prima che la statua venisse scoperta alla presenza del re Vittorio Emanuele III in piazza XX settembre, ma D’Annunzio, ormai personaggio quasi leggendario, di quel famoso comitato d’onore era stato solo chiamato a fare parte. Il nome del Vate, infatti, compare nello sterminato elenco di autorità allegato all’accorato e aulico appello con cui l’allora sindaco, barone Federico Tabassi, diede il via alla sottoscrizione e di cui di recente è stata riprodotta una copia a cura del Circolo collezionismo e del Lions di Sulmona.

A spingere Ugo Ojetti a proporre il nome di d’annunzio, oltre alla stima, era probabilmente l’amicizia che lo legava al poeta pescarese con il quale condivideva l’ammirazione per le donne. Inviato di guerra, romanziere e saggista, «il principe dei giornalisti italiani» fu per molti anni firma del «Corriere», che diresse tra il 1926 e il 1927. «Aveva buon gioco con le signore, che lo apprezzavano almeno quanto lui apprezzava loro. Non che fosse un libertino, né del resto glielo avrebbe permesso sua moglie, nobildonna piemontese dal piglio energico, che gli fu fedelissima e richiese altrettanto», scriveva di Ojetti su questo giornale Gaetano Afeltra nel 2003. Poeta lui stesso, Ojetti consigliava che, oltre a d’annunzio, in quel comitato sedessero «altri dieci o dodici poeti viventi» in grado di spiegare «che Ovidio non è una statua ma è un uomo. Poeti, essi avrebbero parlato di lui con parole di realtà e di rispettosa fratellanza». Solo loro avrebbero capito di Publio Ovidio Nasone ciò che per molti politici è incomprensibile: «La spontaneità dell’arte sua, la sua debolezza sentimentale, l’egoismo e l’impazienza di godere, la forza dell’osservazione di sé stesso. La franchezza nel confessarsi tutto al pubblico, l’irruenza nella pena come nella gioia, l’eleganza di quel suo scetticismo superficiale».

L’assenza di una statua del suo figlio più illustre, nato nel 43 a.c., era, per Sulmona una ferita aperta quando Ojetti ne scriveva sul «Corriere», tanto più che nel 1887, ben 19 anni prima, ne era stata eretta una a Costanza, in Romania, l’antica Tomi dove Ovidio morì nel 17 d. C. nell’esilio a cui lo aveva condannato Augusto per fargli pagare i suoi crimini. «Erano due, dice egli stesso: un errore e una poesia, carmen et error, forse un pettegolezzo che toccò da vicino le molto tangibili donne della casa d’augusto», annotava Ojetti. Autore delle due statue fu lo scultore Ettore Ferrari *, massone, antimonarchico, ex parlamentare, poi perseguitato dal fascismo che, come ricorda l’archeologa sulmonese Emanuela Ceccaroni, non partecipò all’inaugurazione non perché aveva 80 anni, ma perché, come scrisse lui stesso, «la coscienza politica non permette in modo assoluto di intervenire». 

*Lo scultore Ettore Ferrari è l’autore del monumento a Giordano Bruno a Campo dei Fiori a Roma nel 1889 e del monumento a Mazzini sull’Aventino sempre a Roma agli inizi del XX secolo

 

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1848. Tutti i diritti ai Valdesi, Carlo Alberto crede nelle libertà

22/02/2020 da Sergio Casprini

Gianni Oliva La Stampa 18 febbraio 2020

Il 17 febbraio è ancora oggi celebrato dalle comunità valdesi con le fiaccolate e i falò: in quel giorno del 1848, tre settimane prima di proclamare lo Statuto, il re di Sardegna Carlo Alberto concedeva ai «poveri di Lione», seguaci di Pietro Valdo, «tutti i diritti civili e politici de’ nostri Sudditi».
Una conquista inimmaginabile sino a poco prima: scomunicati come eretici sin dalle origini per il loro pauperismo e la loro carica di protesta antiecclesiale, perseguitati duramente dal duca sabaudo Vittorio Amedeo II che nel 1686 aggredisce le valli uccidendo oltre duemila uomini, imprigionando nelle fortezze chi rifiuta la conversione e costringendo i superstiti all’esilio. Ritornati nel loro ghetto di montagna tre anni dopo con la «glorieuse rentrée» attraverso i valichi alpini da Ginevra alla Val Pellice, i Valdesi hanno condotto per secoli una «vita ai margini», trasformando la propria identità religiosa e culturale in forza di resistenza.

Invisi al potere perché intellettualmente autonomi, sospetti alla plebe cattolica per gli anatemi delle predicazioni, i «barbett» (dal piemontese «barba», zio, termine che indica i predicatori evangelici in contrapposizione al «padre» del cattolicesimo romano) accolgono le lettere patenti del 17 febbraio come un atto di liberazione.

La concessione è figlia dei tempi assai più che del sovrano. Carlo Alberto è profondamente radicato nella religione cattolica, sensibile alle pressioni che vengono dagli ambienti dell’ortodossia gesuitica e da personaggi come il conte Solaro della Margarita, campione del sanfedismo sabaudo e sino al 1847 ministro degli Esteri. Il 1848 è però una stagione di fermenti che attraversano l’Europa, la penisola, Torino: una borghesia imprenditoriale attiva e propulsiva, vero motore di una società che va modernizzandosi, vuole compartecipare all’esercizio del potere politico superando i vincoli dell’assolutismo monarchico. La richiesta di «costituzioni» che limitino l’autorità regia si intreccia con l’avversione ideologica per l’alleanza tra Trono e Altare, caposaldo di un’Europa restaurata ormai esausta: è il risultato di un fervore di idee in cui la libertà religiosa diventa uno dei temi centrali.
C’è chi, come Cavour, ritiene che non si debba interferire sulla libertà di coscienza e guarda alla separazione tra Stato e Chiesa, riconosciuta nella Costituzione degli Stati Uniti sin dal 1776; ci sono i cattolici liberali, come Gioberti, che avversano le rigidità dei Gesuiti e la loro interferenza sulla vita pubblica; c’è chi, come Mazzini, fa coincidere la «redenzione» con la liberazione dei popoli, in tutte le accezioni del termine «liberazione».

Di fronte alle spinte di una classe dirigente liberale emergente e alle accelerazioni di una stagione convulsa, Carlo Alberto imbocca la strada del rinnovamento, persuaso che «concedere» sia meglio che «essere costretti a concedere». Le aperture sono prudenti: mentre in Francia già nel 1830 è stata introdotta costituzionalmente la libertà religiosa, il re sabaudo la rifiuta come vincolo costituzionale e l’8 febbraio 1848, quando preannuncia i principi su cui sarà fondato Statuto, specifica che «la Religione Cattolica Apostolica Romana è la sola Religione dello Stato», mentre gli «altri Culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi». Il 17 febbraio segna tuttavia un passo in avanti decisivo: la concessione della parità di diritti, cioè l’emancipazione politica.
Il 29 marzo successivo, sul campo di battaglia di Voghera, verrà firmato un decreto ulteriore, con cui i diritti saranno concessi anche agli ebrei e agli altri acattolici. Negli anni seguenti Cavour, primo ministro, si farà affiancare nella segreteria particolare da un consigliere ebreo, l’astigiano Isacco Artom. Uno Stato moderno che guarda al futuro, come il Piemonte degli anni del Risorgimento, deve essere inclusivo e richiamarsi agli insegnamenti di maestri della tolleranza come Erasmo da Rotterdam e Tommaso Moro. È in questa atmosfera che maturano le «lettere patenti» del 1848.
Guardando la Torino di quasi 170 anni dopo, dove compaiono sui muri le scritte antisemite e talvolta vengono divelte le «pietre di inciampo», non si può non provare smarrimento. È vero che si tratta di gesti isolati e che ogni generazione ha sempre avuto qualche «socialconfuso» aggressivo. Una differenza tuttavia risulta evidente. Nel 1848 c’è stata una classe dirigente capace di guidare un percorso di emancipazione, imprimendo un’accelerazione non solo alle leggi, ma ancor più alla «cultura»: non era facile veicolare l’idea di tolleranza in ambienti popolari abituati alle demonizzazioni, quando nei cimiteri i «barbet» avevano un rettangolo riservato per non contaminare i defunti cattolici con gli acattolici.

Oggi si respira un clima diverso: troppe parole in libertà da parte di chi dovrebbe dare l’esempio, troppe insofferenze, troppi problemi irrisolti nascosti dietro la facile esecrazione del «diverso», la caccia all’untore del coronavirus,le minacce a Liliana Segre, l’infamia della scritta di Mondovì.

 

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Reichlin comunista tricolore

09/02/2020 da Sergio Casprini

 La vocazione nazionale del Pci

Antonio Polito Corriere della Sera 5 febbraio 2020

Il 20 marzo del 1956 nacque Pietro, il secondo figlio di Luciana Castellina, dirigente della Federazione giovanile comunista, e di Alfredo Reichlin, vice direttore dell’«Unità». La puerpera si era lasciata convincere da un compagno, Lello Misiti, che era stato in Francia a studiare la tecnica e doveva dimostrare che funzionava, di praticare il parto indolore. «In Unione Sovietica avevano inventato il parto indolore, sulla base degli studi sui riflessi condizionati, e questa cosa aveva fatto molto scalpore, tanto che il Papa aveva scomunicato tutti coloro che non solo lo avessero praticato ma anche solo ne avessero parlato. Questo fece sì che la Sezione femminile del Pci e l’udi si impegnassero a sostenere la novità».

Così chiedono a lei di «fare da cavia». Quando le vengono le doglie va al Policlinico, dove uno scettico primario di ginecologia, suo vecchio amico, la mette «in un anfiteatro chiamando tutti gli assistenti, gli infermieri, dicendo: adesso ci divertiamo a vedere il parto indolore». «In quel momento — racconta Luciana Castellina — ho capito qual è il meccanismo di difesa dalla tortura, perché quando uno ha una grande carica ideologica riesce anche a controllare il dolore. Io non so se sono stata male o non sono stata male, fatto sta che sapevo che non potevo gridare perché ne sarebbe andato di mezzo il prestigio dell’unione Sovietica, del Partito comunista, dell’Udi, e la carriera di Lello Misiti».

Ecco, per capire che cosa sia stato il Pci, che incredibile impasto di vita privata e militanza politica, di dedizione cieca e primato della ragione, bisogna leggere l’intervista di Luciana Castellina pubblicata nel volume edito dalla Treccani Alfredo Reichlin. Una vita. Dal giorno di quel parto, che tra l’altro coincide con la pubblicazione del rapporto segreto di Nikita Krusciov su Stalin, ne è passato di tempo. Ma nonostante le vicissitudini, le separazioni, gli scontri, le sconfitte e le innumerevoli svolte che hanno travolto quel mondo, Alfredo Reichlin è rimasto per tanti, anche esterni alla storia del Pci, una figura di riferimento, stimato per la sua acutezza, e per una tormentata intelligenza sempre alla ricerca di vie nuove.

Alfredo Reichlin è stato infatti innanzitutto un intellettuale. Apparteneva a quella generazione di giovanissimi, «che erano stati quasi tutti fascisti» e che il segretario del Pci Palmiro Togliatti, dopo la svolta di Salerno, promosse in incarichi di rilievo per costruire il suo «partito nuovo». Il modello era la figura di Giaime Pintor, di sei anni più vecchio di Alfredo, il quale era stato compagno di banco del fratello Luigi Pintor al liceo Tasso (come ricorda nel suo saggio Mariuccia Salvati, curatrice del volume).

E questo imprinting accompagnò poi Reichlin per tutta la sua lunga vita. «Era un togliattiano lui, e restò tale fino alla fine», sostiene Emanuele Macaluso, che condivise questa origine ma ha poi seguito altre strade. Nel Partito democratico, per esempio, Reichlin pensava di «poter introdurre l’idea del partito che aveva Togliatti, cioè il partito della nazione; ma non con l’interpretazione che ne è stata data, di partito pigliatutto: per lui era il partito per la nazione, cioè con un ruolo nazionale».

Nonostante le molte battaglie di Alfredo (quella meridionalista da dirigente del Pci in Puglia, quella contro il partito armato, quelle giornalistiche da direttore di «Rinascita» e dell’«Unità»), questa idea del «partito della nazione», una costante del suo pensiero nel mezzo delle mille trasformazioni succedute allo scioglimento del Pci, è quella che è rimasta di più nel dibattito politico, ancora oggi. Roberto Gualtieri ricorda che comparve per la prima volta in una nota che Reichlin spedì a Massimo D’alema dopo la sconfitta del 2001, e in cui sosteneva «la formazione di un soggetto politico nuovo capace di fare coalizione e di esercitare egemonia, di governare non solo dall’alto, un partito più nazionale, più country party, per fare quello che fece la Dc nel dopoguerra, elaborare una cultura e una visione delle riforme da realizzare insieme con le forze nuove dell’Italia».

Da questo punto di vista Reichlin fu certamente un precursore del Pd, anche se molte delle sue speranze sono andate deluse. Ma la sua inquietudine intellettuale, la sua ricerca continua, sono «i tratti caratterizzanti di un comunista segnato più dalla missione etica e nazionale (risorgimentale) di cui il suo partito doveva farsi carico che non dalle dottrine e dalle pratiche proprie del movimento cui apparteneva», come scrive nell’introduzione del volume Giuliano Amato. Un vecchio comunista, certo, ma che non parve mai davvero vecchio. Forse perché era legato — come ricorda nel volume Amartya Sen — «più al Marx umanista che al determinismo divenuto dottrina del comunismo praticato».

 

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VIEUSSEUX, ponte lungo 200 anni.

24/01/2020 da Sergio Casprini

Duecento anni di storia del Vieusseux: da Giovan Pietro a oggi

 Roberto Barzanti   Corriere Fiorentino 22 gennaio 2020

 

Dugento anni dopo. Il 25 gennaio 1820 apriva i battenti a Palazzo Buondelmonti, di faccia a Santa Trinita, il Gabinetto scientifico e letterario creato da Giovan Pietro Vieusseux (1779/1863), esperto uomo d’affari, nato a Oneglia, di famiglia ginevrina.

Stufo delle turbolenze del mercato, decise di fondare a Firenze un’impresa che si occupasse di un più calmo «commercio delle idee». Il Granducato di Toscana offriva condizioni ottimali. E venerdì con una mostra dedicata a Il Vieusseux dei Vieusseux: Libri e lettori tra Otto e Novecento. 1820-1923 (a cura di Laura Desideri), prenderà solennemente avvio un calendario fitto di incontri, conferenze, convegni, esposizioni.

Alle origini della volontà di un uomo imbevuto di una religiosità riformata, «magari non aliena — ha notato Ernesto Sestan — da commistioni illuministico-massoniche», stava la convinzione che quello era un punto adattissimo a costruire una cultura alimentata da senso pratico, da applicare e non da predicare, innestando nel dominante moderatismo una spinta progressista e patriottica. E ci voleva uno straniero per immettere in personalità in guardingo attrito tra loro un contagioso entusiasmo. Il secondo piano di Palazzo Buondelmonti divenne un crocevia dove interloquirono personalità che vi approdavano da ogni parte d’Italia e d’Europa. Mirate iniziative editoriali inoltre producevano libri utili e riviste: tra tutte spiccava la primogenita Antologia.

Il 3 settembre 1827 in una delle fatidiche serate del lunedì Alessandro Manzoni incontrò il conte Giacomo Leopardi, cortese ma chiuso in un suo ritroso silenzio, infastidito dalla loquacità impetuosa di Giovan Battista Niccolini e dalle provocatorie uscite anticlericali («È vero che credete ai miracoli?») dell’amico Pietro Giordani. Ne avrebbe riferito al padre Monaldo in una lettera freddina: «Me la passo con questi letterati, che sono molto sociali, e generalmente pensano e valgono assi più de’ Bolognesi. Tra’ forestieri ho fatto conoscenza e amicizia col famoso Manzoni di Milano, della cui ultima opera tutta l’Italia parla, e che ora è qui colla sua famiglia». Probabilmente Leopardi strinse la mano a Stendhal in un altro dei consueti ricevimenti. Nel 1828 era transitato Heinrich Heine. Nel 1835 lascia una firma un «giovane nizzardo» di nome Garibaldi. Robert Browning nel 1839. A più riprese Fëdor Dostoevskij, che nel 1868 alloggiava con la seconda moglie Anja in via de’ Guicciardini. A fine novembre si lamenta: «Adesso Firenze è un po’ più rumorosa e variopinta: per le strade c’è una calca terribile. Molta gente è venuta a Firenze in quanto capitale e la vita è più cara di prima». Nel pomeriggio aveva l’abitudine di andare a leggersi due giornali russi, in pause sottratte alla stesura delle parti finali del L’Idiota. Con la scomparsa del patron parve crollare un mondo. «Noi siamo sbandati!» sentenziò Raffaello Lambruschini. Al grido di dolore si sarebbero potuti associare personaggi più ingombranti quali Niccolò Tommaseo e il marchese Gino Capponi, che reagì rabbiosamente («quel maledetto gobbo si è messo in capo di coglionarci!») ai versi ironici scagliatigli contro da Leopardi in un’acre Palinodia.

Scorrendo il Libro dei soci a pagamento o di quanti chiedevano opere in prestito vien fuori una movimentata commedia in cinque Atti con i relativi cambi di scena. Eugenio, il nipote del fondatore, ottiene affitto dal sindaco Peruzzi il pianterreno di Palazzo Ferroni, dove il Gabinetto si trasferisce nel 1873, per poi approdare, nel 1898, in via dei Vecchietti n. 5. Sopportare gli oneri di uno stabilimento del genere era un carico fuori portata per un privato cittadino. Da Carlo Vieusseux il Credito Italiano acquistò il grosso del patrimonio accumulato e lo cedette al Comune nel ’23. All’Istituto, grazie a un decreto del 23 ottobre 1925, è attribuita la dignità di Ente morale di proprietà comunale: alla presidenza il sindaco o suo delegato con un consiglio d’amministrazione di sette membri. Dopo le tre sedi dei Vieusseux si profila una sistemazione nel Palagio di Parte Guelfa, in umidi locali ipogei.

Per la successione al direttore Tecchi è coinvolto un impacciato Carlo Emilio Gadda, che tira presto i remi in barca: «Quanto al Vieusseux io mi ci credo poco tagliato». Il presidente Paolo Emilio Pavolini presenta quindi al podestà conte Giuseppe della Gherardesca una terna da cui trarre il nuovo direttore. «Naturalmente — sottolineò Pavolini — son tutti iscritti al PNF». «Il terzo no» precisò l’estensore. «Nominiamo allora questo terzo, il non iscritto». Era costui Eugenio Montale: la sua fu una direzione storica. In una primaverile mattinata del 1933 si presenta a Montale una giovane studiosa americana che aveva letto con ammirazione Ossi di seppia. È Irma Brandeis, la Clizia sublimata in un enigmatico canzoniere. Il non iscritto Montale non era ben visto dall’ala dei fascisti più duri.

Per timore d’essere messo alla porta prepara un memoriale per farlo avere, tramite la mediazione dell’anarcoide Marcello Gallian, a Mussolini. L’11 luglio del ’38 lo interpella: «Tu sei sempre in buona amicizia con S.E. Galeazzo Ciano? E nel caso se ti mandassi il papiro, te la sentiresti di mandarlo per raccomandata e con una tua parola favorevole a Ciano, pregandolo di leggerlo e di farlo avere al Capo del Governo?». Niente da fare. Il primo dicembre del 1938 il consiglio d’amministrazione delibera di «dispensare il dottor Eugenio Montale dall’Ufficio di Direttore».

Il quinto Atto ha per scena Palazzo Strozzi ed è tuttora aperto. Protagonista ne è stato il direttore Alessandro Bonsanti, in carica fino al 1980 con eroica dedizione. Gloria Manghetti è la prima donna a gestire con sapienza filologica la complessa macchina. Anche alla presidenza è stata chiamata un donna, l’inventiva Alba Donati, che punta sulla letteratura dei nostri giorni. Che significa oggi concretizzare un cosmopolitismo all’altezza di esigenti domande? Il Gabinetto inventato da Giovan Pietro era anche un progetto civile che guardava ben oltre Firenze.

 

 

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