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Risorgimento Firenze

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Rassegna stampa

Milite ignoto: un simbolo che resta vivo

10/12/2021 da Sergio Casprini

Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera 10 dicembre 2021

 

Come addomesticare la morte, soprattutto quale senso dare ai massacri di massa? Durante ogni guerra i sopravvissuti si sono ritrovati a dovere fare i conti con queste domande fondamentali. In epoca moderna, però, proprio l’enorme numero di uccisi dalle armi sempre più letali, frutto delle nuove tecnologie belliche figlie della rivoluzione industriale, costrinse i responsabili degli Stati coinvolti a fornire risposte il più possibile esaustive e valide per il massimo numero di persone in lutto.

Il Milite ignoto. Storia e mito

Fu così che, poco dopo la fine della Prima guerra mondiale, venne concepito il mito del Milite ignoto. Un grande monumento contenente la salma raccolta sui campi di battaglia di un soldato di cui era stato impossibile accertare l’identità. A Roma il 4 novembre 1921 si tenne «la più grande celebrazione patriottica dell’Italia unita, un “mare di popolo”, in religioso silenzio, si radunò in Piazza Venezia per seppellire le spoglie non identificabili di uno dei 650.000 soldati italiani morti», scrive Laura Wittman, docente all’Università di Stanford, che, prendendo spunto dall’epopea del Milite ignoto, propone in effetti un ricco contributo allo studio della fenomenologia della morte non solo un secolo fa, ma ai nostri tempi (Il Milite ignoto. Storia e mito, Hoepli, pp.280, € 20).

Il 17 novembre 2003 oltre 300 mila persone tornarono a radunarsi a Piazza Venezia per rendere omaggio ai diciannove italiani caduti a Nassiriya. Una «prova del fascino sempre attuale della Tomba del Milite ignoto»», che, nota l’autrice, riproponeva sia il tema della «risposta catartica» per il trauma dei soldati uccisi che quello mai sopito della strumentalizzazione politica del lutto. Individui, allo stesso tempo cittadini e componenti delle masse, si ritrovarono a riflettere su di un simbolo che rappresentava contemporaneamente il corpo umano e quello della nazione.

Targa in memoria dei caduti italiani a Nassiriya al Senato

 

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CUORE, PINOCCHIO E ARTUSI DECLINO DELL’UNITÀ LETTERARIA

29/10/2021 da Sergio Casprini

La tomba di Pellegrino Artusi alle Porte Sante Firenze

LETTERE al Corriere della Sera 29 ottobre 2021

Caro Aldo, ho una domanda da farle: perché, secondo lei, i tre libri dell’identità italiana sono «Cuore», «Pinocchio» e l’Artusi?   GIANNI GIOLO

Caro Gianni, ottima idea inserire Pellegrino Artusi tra i padri della patria letteraria, e non solo. «La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene» è un libro fondamentale: fece ai fornelli quello che Cavour aveva fatto in politica, riunificò la gastronomia italiana. Come ha fatto notare Carlo Cracco, mentre i francesi hanno una cucina nazionale, noi abbiamo tante cucine regionali. Occorreva un testo sacro che riunisse le principali ricette; anche se l’origine romagnola di Artusi lo connota inevitabilmente. Dopo aver avuto in casa la banda del brigante Passatore, Pellegrino aveva lasciato la sua piccola patria ed era andato a vivere a Firenze, dove morì e dov’è sepolto nel cimitero di San Miniato, in cui riposa anche Carlo Lorenzini detto Collodi, il papà di Pinocchio. Anche oggi i libri di ricette vanno molto. Ma ancora più successo hanno i libri di diete. Li sfoglio sempre, e li trovo tutti uguali. Certo, alcuni esperti consigliano i piccoli pasti frequenti, altri il digiuno intermittente. Ma tutti sostengono — giustamente per carità — che bisogna mangiare molta frutta e verdura, meglio se biologica, pasta solo integrale, carni bianche piuttosto che rosse, pesce azzurro piuttosto che crostacei. Le carote crude fanno meglio della sugna fritta, i broccoli sono da preferire alla coratella, i semi di chia alle animelle, le centrifughe di ananas al whisky torbato.

Quanto a Pinocchio — uno dei pochi libri italiani tradotto davvero in tutto il mondo —, ormai lo leggono in pochi. Cuore di De Amicis non lo legge più nessuno. Il Risorgimento non è di moda, i buoni sentimenti neppure. Ed è un peccato.  ALDO CAZZULLO

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SEDUZIONE PATRIOTTICA

11/10/2021 da Sergio Casprini

 

LA CONTESSA DI CASTIGLIONE CONTRIBUÌ CON IL SUO FASCINO ALL’UNITÀ D’ITALIA

Paolo Mieli  Corriere della Sera 11 ottobre 2021

Virginia Oldoini, contessa di Castiglione, nata a Firenze nel 1837, morì a Parigi allo scader dell’Ottocento, il 29 novembre del 1899, colpita da apoplessia cerebrale. Aveva 62 anni. Da tempo viveva appartata e progettava una mostra di proprie fotografie che doveva inaugurarsi, pochi mesi dopo, in occasione dell’Esposizione universale, con il titolo La più bella donna del secolo. Una sorta di riscatto dal suo decadimento fisico e sociale. Di cui lei, però, «sembrava compiacersi», scrive Benedetta Craveri in La contessa, in uscita il 14 ottobre da Adelphi. Negli ultimi anni, prosegue Craveri, Virginia aveva preso l’abitudine di passare molte ore in una saletta riservata del ristorante al pianterreno della sua abitazione in rue Cambon, chiacchierando con i camerieri e «bevendo troppo champagne». Alla notizia della sua morte, un giovane diplomatico italiano di grande avvenire, Carlo Scorza, si era precipitato nell’appartamento della nobildonna per appropriarsi di ogni carta che avesse trovato e distruggerla all’istante. A corte s’era diffuso il timore che avesse lasciato traccia del ruolo da lei giocato in una delicatissima fase del nostro Risorgimento, alla fine degli anni Cinquanta.

Napoleone III di Francia ritratto da Franz Xaver Winterhalter nel 1855

Qualche tempo prima, nella Francia passata nel 1870 dal Secondo Impero alla Terza Repubblica, i giornali avevano dato notizia di un furto alla legazione italiana nel corso del quale pareva fossero scomparsi documenti lasciati in deposito dalla contessa di Castiglione, tra cui «incartamenti riservati» dell’imperatore Napoleone III. Niente di vero. Però i giornali insistevano con le insinuazioni. E Vittorio Emanuele II si era assai preoccupato. In tempi successivi, il quotidiano «Le Gaulois» — nell’informare i propri lettori che la contessa si era trasferita da Place Vendôme alla più modesta rue Cambon — aveva pubblicato un articolo in cui si parlava quasi esplicitamente della «Castiglione» (dal cognome del marito, Francesco Verasis conte di Castiglione) come di «una delle tante dame del Decameron imperiale». Il giornale faceva riferimento, non senza qualche punta di volgarità, alla relazione avuta da Virginia con Napoleone III e ironizzava pesantemente sul fatto che ora avesse perso ogni bellezza, colpita dall’«onta» della vecchiaia. La contessa aveva risposto con parole che dicevano molto del suo stato d’animo (e anche del suo orgoglio): «Com’è possibile», domandava all’editore del «Gaulois», «che, in questa terra famosa per la cortesia e il buon gusto, un uomo come il signor Arthur Meyer lasci pubblicare un pezzo in cui, con il pretesto del mio trasferimento di abitazione, si sbeffeggino crudelmente la mia vecchiaia e la mia bruttezza?». E ancora: «Se sono vecchia e brutta non è colpa mia e fino ad oggi ho creduto che se non la bruttezza almeno la vecchiaia meritasse il rispetto delle persone perbene».

Perché queste ricorrenti attenzioni a Virginia Oldoini? I giornali in realtà si erano sempre occupati di lei. Il primo a notarla — nel 1852, quando aveva appena quindici anni — era stato il bisettimanale «L’Arte» che in una cronaca mondana la presentò come «una delle più portentose bellezze fiorentine del giorno… dotata di una venustà poco terrestre». Effettivamente Virginia era dotata di un’avvenenza davvero fuori del comune, dote che impensierì i suoi genitori sin dai tempi della sua adolescenza. Né il buon matrimonio, a 17 anni non ancora compiuti, né la nascita, poco dopo, di un figlio, avevano cambiato la situazione: restava una giovane decisa, forse anche per rifarsi di una certa anaffettività dei genitori, a far valere il suo fascino. Con spregiudicatezza. Iniziò giovanissima ad accumulare flirt. Senza preoccuparsi più che tanto dei pettegolezzi provocati da questa sua intensa attività sentimentale. Di regola, scrive Benedetta Craveri, «si concedeva agli uomini solo se potevano esserle utili ed era pronta a punirli per averla costretta a concedersi».

Nel gennaio 1854 — come si diceva — sposò Francesco Verasis, venticinquenne, vedovo. Un anno dopo nacque suo figlio, Giorgio. Tre mesi dopo ebbe un primo amante, Ambrogio Doria, il migliore amico del marito. Con lui, scrive Craveri, «inaugurò un rudimentale codice cifrato con cui avrebbe annotato nel diario i diversi gradi di intimità concessi ai suoi spasimanti, dove “b” stava probabilmente per baci, “bx” per abbracci e carezze intime, “f” per atto sessuale completo».

Cavour e l’ambasciatore a Parigi Costantino Nigra

Trascorse pochissimo tempo e gli alti vertici del costituendo Stato italiano (che ben la conoscevano) decisero di usarla come esca per una importante manovra diplomatica. Quando, diciannovenne, si presentò a Parigi con la missione — affidatole da Cavour del quale per matrimonio era diventata parente — di entrare nelle grazie di Napoleone III, i quotidiani francesi la elessero immediatamente a personaggio di primissimo piano. Fin dal giorno del suo debutto nell’alta società, il 9 gennaio 1856. In quel momento — ai tempi della guerra di Crimea — per il Regno sabaudo era fondamentale stringere un’alleanza indissolubile con la Francia in funzione antiaustriaca. Con l’incoraggiamento di Vittorio Emanuele II (con il quale la contessa già nel 1855 aveva avuto un incontro amoroso fugace, ma destinato a ripetersi nel tempo) nonché, si disse, una sorta di tacito consenso del marito, Virginia Oldoini — intelligente, spregiudicata, con una qualche vocazione al mestiere di attrice — fu individuata come la persona adatta a saldare quell’asse. E lei si prestò. Con entusiasmo. Cavour parlò esplicitamente del suo piano in una lettera al ministro degli Esteri Luigi Cibrario: «Vi avverto che ho arruolato nelle file della diplomazia la bellissima contessa di Castiglione, invitandola a conqueter ed a sedurre, ove d’uopo, l’Imperatore». Aggiungeva poi, l’allora presidente del Consiglio, che la dama si era già messa all’opera. Il compito di sovraintendere a che tutto filasse per il verso giusto era affidato a un giovane diplomatico, Costantino Nigra. E tutto andò come era stato pianificato. Napoleone III «conquistò» il cuore della bella contessa e questo rese più agevoli i rapporti della Francia con il Regno sabaudo.

Unico difetto dell’operazione fu quello di essere eccessivamente esplicita. Nei ricevimenti non si parlava d’altro. Fin troppo. In una lettera nella quale si faceva il resoconto di una di queste serate l’ambasciatore inglese Lord Cowley osservava: «La condotta di sua maestà con la Castiglione ha scandalizzato tutti». E, proseguiva il diplomatico, ciò «metteva in grave imbarazzo» la moglie dell’imperatore, Eugenia de Montijo, figlia di un grande aristocratico spagnolo. Nei carteggi esaminati da Benedetta Craveri spuntano critiche all’italiana: «manca di fascino» (principessa di Metternich), «vanitosa, egoista, fredda, dura» (François Guizot). L’imperatrice Eugenia — abile tessitrice di rapporti — per contrattaccare incoraggiò un’altra dama italiana, Maria Anna Zanobi di Ricci (moglie del conte polacco Alessandro Colonna-Walewski), a farsi avanti per entrare nelle grazie di Napoleone III. Con successo: questa relazione allontanò l’imperatore dalla Castiglione. Allontanamento che fu propiziato anche da considerazioni d’ordine politico. Soprattutto dopo l’attentato di Felice Orsini (14 gennaio 1858) che causò la morte di 12 persone e il ferimento di altre 156. In realtà né la Castiglione, né Cavour e neanche Giuseppe Mazzini avevano avuto responsabilità nella strage provocata da Orsini. Ma gli effetti di quell’episodio di sangue e l’imminenza della guerra del 1859 suggerirono all’imperatore di diradare gli incontri con la contessa di Castiglione.

Lei non si diede per vinta. Andò a Londra, tornò in Italia e poi di nuovo a Parigi sempre intenzionata a riprendersi un ruolo da protagonista. Ma non ci fu niente da fare: a missione compiuta, venne «abbandonata al suo destino, separata da un marito da lei umiliato e ridotto sul lastrico e assediata da schiere di amanti». Dallo straordinario ritratto che ne fa Benedetta Craveri (dopo aver consultato una mole impressionante di documenti) emerge un personaggio davvero considerevole. Assai diversa dall’immagine di bella e ingenua ragazza consegnata da una cinica diplomazia tra le braccia dell’imperatore dei francesi. Virginia fu in realtà anche un’attivista politica consapevole e dotata di un certo acume. All’inizio degli anni Sessanta, la contessa tornò a Parigi dove ristabilì un rapporto di complicità con Nigra. Ma a ruoli ribaltati. Adesso, scrive Craveri, «era Nigra a godere della benevolenza di Napoleone III e del favore dell’imperatrice». Stavolta l’alleanza tra i due si estese alla sfera intima, ma entrambi «praticavano l’amore come un gioco e non ne facevano mistero». Era raro, osserva Craveri, che Virginia incontrasse «giocatori all’altezza» ma quel diplomatico «aveva le carte in regola per tenerle testa». Provocando però in lei una sottile gelosia per il ruolo che Nigra aveva saputo guadagnarsi a corte. Secondo il principe Bernhard von Bülow, «con i suoi modi squisiti e le garbate poesie» il diplomatico «aveva saputo conquistare il cuore di Eugenia».

Alla morte del marito, Virginia, trentenne, si comportò in modo inaudito con il giovanissimo figlio, impedendogli in ogni modo di emanciparsi. Costantino Nigra si disse scandalizzato da questa condotta della sua complice, amante e amica. Il ragazzo, Giorgio, provò a ribellarsi, ad impadronirsi di documenti compromettenti per ricattare la madre così da ottenere ciò che gli era dovuto. Ma fu tutto inutile. Solo quando raggiunse la maggiore età, il ragazzo riuscì a ottenere i mezzi per studiare, sposarsi (con una cugina), intraprendere la carriera diplomatica. Ma la felicità — ammesso che la si possa definire così — durò poco: il 14 novembre 1879, all’età di ventiquattro anni Giorgio morì. A Madrid, ucciso dal vaiolo.

Virginia adesso puntò a rendere stabile il legame, riallacciato, con Vittorio Emanuele II, anch’egli vedovo. Il sovrano la incontrò qualche volta nonostante avesse da tempo un rapporto para matrimoniale con Rosa Vercellana (che gli aveva dato due figli). La contessa riteneva di poter scalzare facilmente quella «contadina zotica invecchiata anzitempo». Errore. Il re — che, secondo le Note azzurre di Carlo Dossi, amava le avventure e aveva a budget «circa un milione e mezzo l’anno nella rubrica donne» — nell’estate del 1867 ritenne sufficiente aiutarla in alcune speculazioni e farle recapitare una propria foto con dedica alla «carissima Nicchia». Due anni dopo, pensando di essere in punto di morte, Vittorio Emanuele II si unì in matrimonio morganatico con la Vercellana. Ma nel 1870, al momento della presa di Roma, si servì ancora una volta della Castiglione (per via dell’amicizia tra la contessa e il cardinale Giacomo Antonelli, segretario di Stato del Pontefice) così da attivare un canale di mediazione con Pio IX.

Qualche tempo dopo, a seguito della sconfitta dell’esercito di Napoleone III a Sedan, appena nacque la Terza Repubblica, la contessa si rivolse per iscritto al nuovo capo del governo Adolphe Thiers — da lei conosciuto ai tempi del Secondo Impero — per sottoporre alla sua «benevolenza personale» due suoi amanti: il conte Lao Bentivoglio (un ex di quindici anni prima) e il barone Arthur-Léon Imbert de Saint-Amand. Affiora in lei, nel corso di questi anni successivi al 1870, una qualche punta di mitomania: «Sono stata la mente e l’anima della Storia Italiana, Prussiana e Francese, lasciando a Thiers la gloria apparante, e senza mai raccontarlo a nessuno», scriveva di sé all’istruttore del figlio. Dopodiché, sempre a Parigi, prese a brigare con gli Orléans — in particolare Robert duca di Chartres — perché approfittassero del clima di incertezza e restaurassero con un colpo di mano la monarchia. A rinforzare questo ruolo di partigiana della restaurazione monarchica in Francia, fu il rapporto che la legò al giornalista Paul Granier de Cassagnac, il quale conduceva dalle colonne del quotidiano «Le Pays» una violenta campagna antirepubblicana. Per poi aggiungere al suo carnet di amanti un altro giornalista, Xavier Eyma, che però era anche esperto di finanza e poteva aiutarla a fare guadagni in borsa.

Ma con la loro scomparsa Cavour, Napoleone III e Vittorio Emanuele II avevano portato con sé il palcoscenico sul quale aveva potuto recitare da attrice. Grande attrice. Di più: da protagonista.

Luis Pierson Countess Castiglione   1860 MOMA

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Quando l’Italia annunciò al mondo di essere nata

13/08/2021 da Sergio Casprini

Gian Antonio Stella Corriere della Sera 11 agosto 2021

Da che parte stesse Giuseppe Garibaldi era piuttosto noto: «Ho cominciato la mia “carriera” di corsaro in Brasile liberando alcuni schiavi neri. Nella Guerra civile americana ero quindi schierato con il Nord».

Al punto che Abraham Lincoln gli propose di comandare un’armata nordista, offerta declinata solo perché l’Eroe dei due mondi (in onore del quale nacque la Garibaldi’s Guard) immaginava di poter essere al più presto ancora utile all’Italia. Meno nota, se non agli specialisti, era il tema: da che parte stavano, nella guerra civile, Vittorio Emanuele II e più ancora il «cervello» dell’Unità d’Italia, Camillo Benso di Cavour? Risponde, tirando giustamente fuori questo e altri documenti dalle riservate stanze, il ministero degli Esteri, che ha deciso di spalancare gli archivi per aprire un dialogo diretto con tutti gli italiani. E di farlo con uno degli strumenti più veloci: un podcast. Anzi, sei puntate di podcast per partire, dal 13 agosto, con approfondimenti vari sulla nostra storia dal 1861. La serie porta il titolo «Quando le armi tacciono. La diplomazia al servizio della (ri)costruzione» e comincia con «1861. Nasce l’Italia. Conservazione o rivoluzione?» dedicato ai delicati contatti con le diplomazie mondiali che dovevano dare l’agognato riconoscimento (non scontato) al nuovo Stato. Esordio: la lettera inviata da Cavour, il giorno stesso dell’Unità, al ministro plenipotenziario a Londra (osso duro) Taparelli d’Azeglio: «Signor Marchese, da oggi l’Italia afferma di fronte al mondo intero la sua esistenza…».

Più interessante ancora della lettera assai cordiale («Mio grande e buon amico…») di Abraham Lincoln a Vittorio Emanuele II per nominare George P. Marsh suo rappresentante in Italia, è forse la lettera mandata da Cavour, il 22 maggio 1861, al cavaliere Joseph Bertinatti, ministro residente del Re d’Italia in America. Saputo della guerra civile scoppiata da un mese tra nordisti e sudisti, il capo del governo e ministro degli Esteri raccomanda prudenza: «Il Governo del re deve rimanere completamente estraneo a tutto ciò che riguarda la situazione interna dei Paesi con cui intrattiene rapporti» e «osservare attentamente e con imparzialità ciò che succede». Ma questa imparzialità «non deve impedirci di manifestare le nostre simpatie per il trionfo degli Stati settentrionali, perché la causa che sostengono non è solo la causa della legalità costituzionale, bensì la causa dell’umanità. L’Europa cristiana e civile non può desiderare il successo del partito che porta sulla sua bandiera il mantenimento e lo sviluppo della schiavitù». Sedici giorni dopo, quello che Giuseppe Verdi chiamerà «il padre della patria», morirà. Quanto ci mancherà si vedrà ben presto.

Augusto Rivalta Statua di Cavour 1870 Banca d’Italia Firenze

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Un film su Maria, la MADRE D’ITALIA: È la storia del Paese

08/08/2021 da Sergio Casprini

Paolo Conti  Corriere della Sera 8 agosto 2021

«Ho cercato di immaginare questa donna, mi sono avvicinata a lei con immenso rispetto per la sua vicenda. Ovvero per la storia di una protagonista, suo malgrado, della storia italiana. Le chiesero di diventare la Madre d’Italia e lei accettò, incarnando quel ruolo con la più grande pietas possibile per una donna, anche se avrebbe preferito milioni di volte essere solo e soltanto la madre di suo figlio ancora vivo…».

Sonia Bergamasco

Sonia Bergamasco ha finito di girare ad Aquileia, con Cesare Bocci e Alessio Vassallo, il docu-film La scelta di Maria, per il centenario della tumulazione all’Altare della Patria, diretto da Francesco Miccichè che andrà in onda su Rai 3 il 4 novembre 2021: si alterneranno fiction, filmati del tempo e narrazioni grafiche. Sonia Bergamasco interpreta Maria Bergamas scelta nel 1921 come madre-simbolo per indicare la bara del soldato senza nome, caduto nella I Guerra Mondiale, per farne il Milite Ignoto d’Italia. Maria era la madre di Antonio, unico figlio maschio, nato in terra ancora austriaca, disertore per combattere per l’Italia: il suo corpo non venne mai ritrovato. Maria Bergamas, il 28 ottobre 1921, abbracciò piangendo la decima delle undici bare senza nome nella cattedrale di Aquileia.

Maria Bergamas

Dice Sonia Bergamasco: «Io non sono friulana come Maria Bergamas ma quando ho letto la storia sul copione ho desiderato interpretarla. L’empatia profonda verso Maria Bergamas è scattata subito dopo la prima lettura. È una donna estremamente segnata dalla vita, come le innumerevoli donne che in quel conflitto atroce persero padri, mariti, figli, fidanzati. Abbiamo girato dove tutto è accaduto, cioè ad Aquileia. Le persone, i luoghi mi hanno aiutata a sentire la storia come qualcosa che mi riguarda da vicino». Meccanismi emotivi forti, assicura Bergamasco: “Ho sentito la sincera partecipazione delle persone del luogo scelte come figuranti, cioè come comparse. Sentivo che la temperatura emotiva era altissima”. Ha provato ad immedesimarsi nel dolore di quella donna? «Ho cercato soltanto di immaginarlo, quel dolore, di avvicinarmi con rispetto a Maria Bergamas. Una immedesimazione mi avrebbe fatto pensare a qualcosa di intollerabile, quasi di osceno: qui c’è di mezzo qualcosa di indicibile, intollerabile, la perdita di un figlio. E lei agì con quella pietas di cui parlavo, un valore che non dovremmo mai dimenticare in questi nostri difficili tempi». Dice la produttrice Gloria Giorgianni di Anele: «Volevo celebrare questo importante anniversario per far conoscere a tutti, soprattutto alle nuove generazioni, la storia che ha portato all’istituzione del Milite Ignoto. Abbiamo scelto il punto di vista femminile della donna che fu scelta per rappresentare la Madre d’Italia».

1921 Sacello del Milite Ignoto Vittoriano Roma

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L’irredentista in camicia nera che pretendeva la Dalmazia

19/07/2021 da Sergio Casprini

Il diario del diplomatico Attilio Tamaro pubblicato da Rubbettino a cura di Gianni Scipione Rossi

 

Giovanni Belardelli Corriere della Sera 19 luglio 2021

Chi conosce il nome di Attilio Tamaro ( Trieste,  1884 – Roma, 1956), lo ricorderà probabilmente come l’autore di due storie del fascismo (della Repubblica sociale e del ventennio) che ebbero una certa diffusione tra gli anni Quaranta e Cinquanta e negli ambienti della destra più o meno nostalgica. Si trattava di opere, pubblicate inizialmente a dispense illustrate, molto informate sul piano della ricostruzione fattuale e che qua e là prendevano le distanze da aspetti anche rilevanti del regime (come le leggi razziali). Ma Tamaro, giornalista e diplomatico di professione, fu anche un osservatore attento della vita italiana del suo tempo, annotando fatti, incontri, informazioni più o meno riservate in un diario che tenne dal 1911, quando non era ancora trentenne, fino ai primi anni della Repubblica.

Attilio Tamaro Il diario di un italiano 1911 – 1949, Rubbettino, 1066 pagg., 49 euro

Nel diario Tamaro registrava con maniacale precisione fatti ed episodi appresi direttamente o attraverso la vasta rete delle sue conoscenze (impressionante, al riguardo, l’indice dei nomi di oltre sessanta pagine preparato dal curatore, che vi ha elencato tutte le persone citate, di ciascuna indicando la qualifica), sicché il volume si presenta come una fonte di rilievo per lo studio di quattro decenni di storia italiana. Ciò non toglie che certe parti — ad esempio, il resoconto di un viaggio a Mosca nel 1934, le pagine sulla città di Roma occupata dai tedeschi e poi liberata dagli Alleati — si facciano apprezzare anche per l’immediatezza di alcune descrizioni e per la qualità della scrittura.

L’irredentismo fu il filo conduttore della vita di Tamaro, sempre legatissimo alla sua città natale alla quale dedicò anche vari lavori storiografici. Il suo fu però un irredentismo che aveva tratti di vero e proprio fanatismo, mutuati dal proprio avversario, cioè dall’altrettanto radicale e fanatico nazionalismo sloveno e croato.

Date queste premesse, il risultato della Prima guerra mondiale deluse il giovane triestino, che avrebbe voluto che non solo Trieste e l’Istria, ma l’intera Dalmazia venissero assegnate all’Italia nella prospettiva di un Adriatico che secondo lui avrebbe dovuto essere interamente italiano. Il suo era un patriottismo tutt’altro che mazziniano, insomma, che si legava a un’esaltazione dell’idea nazionale in chiave imperialista e militarista.

Fu dunque del tutto naturale la sua adesione al fascismo, che Tamaro apprezzava soprattutto come il mezzo, lo strumento pratico, per rendere più grande — in termini di potenza e di confini (europei africani) — l’Italia. Da questo punto di vista il diario può anche essere letto come una specie di biografia collettiva di un settore importante del Paese, di quella parte d’Italia che diede il suo consenso al movimento e al regime di Benito Mussolini a partire da posizioni e sentimenti nazionalisti (e monarchici).

Nel diario si trova continua testimonianza di questo fascismo che si voleva non ideologico e potrebbe anche sembrare relativamente moderato, perché non apprezzava le pose staraciane e le velleità totalitarie del regime. In realtà anche questo fascismo apparentemente «realista» e «pragmatico» era impregnato di forti elementi ideologici, benché diversi da quelli del fascismo più sovversivo e antiborghese che animava altre correnti del regime. Aveva al centro, infatti, un’ideologia apertamente antidemocratica (già nel 1920 Tamaro scrisse un saggio sulla Necessità della dittatura) che considerava la libertà un pericolo per la nazione e vedeva nelle regole della democrazia rappresentativa l’inaccettabile prevalenza della «forza bruta del numero».

È del resto molto indicativo che ancora nel marzo del 1943 Tamaro, nonostante registrasse da tempo nel suo diario i difetti del regime (anzitutto in termini di corruzione e impreparazione militare rispetto alla prova bellica in corso), non arrivasse a comprendere come la radice ultima di quei difetti stesse nelle premesse antidemocratiche del fascismo, che lui aveva condiviso e ancora condivideva fino al punto di dichiararsi contrario a un’emarginazione di Mussolini.

Non ultima tra le ragioni di interesse di questo diario è quella di mostrare i motivi che, dopo il 1945, avrebbero reso a lungo difficile o impossibile a molti italiani staccarsi dall’esperienza e dal ricordo del regime fascista.

 

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Cristina Trivulzio Belgiojoso, la principessa che sfidò l’Austria.

04/07/2021 da Sergio Casprini

Marina Migliavacca    IO DONNA Corriere della Sera 3luglio 2021

Chissà cosa avrebbe detto Manzoni se avesse saputo che proprio a quella donna Milano avrebbe dedicato una statua in bronzo come la sua in San Fedele (o più bella della sua? Che lo scultore Barzaghi ci perdoni...). E pensare che l’autore dei Promessi sposi non la poteva proprio soffrire quella benedetta dama che verrà immortalata in piazza Belgiojoso in posa dinamica, mentre si alza come per accogliere nel suo salotto chi la verrà a trovare.

Quanto a lui, ai suoi tempi, non la accolse affatto nel suo, di salotto, la signora. Quando nel 1840, tornata finalmente a Milano dopo i lunghi anni trascorsi a Parigi, la reduce di tante battaglie volle andare a trovare la madre dello scrittore, Giulia Beccaria, anziana e molto malata, lui si oppose fieramente: nemmeno a parlarne, quella svergognata non avrebbe messo piede in casa Manzoni. Così Giulia morirà l’anno dopo senza aver potuto riabbracciare l’amica. Ma chi era questa donna che Milano oggi celebra e che cosa aveva fatto per meritarsi l’ostracismo bigotto di don Lisander?

Era una principessa, nata a Milano nel palazzo di famiglia in piazza Sant’alessandro il 28 giugno 1808 sotto il segno del Cancro e battezzata nella chiesa omonima come (prendiamo fiato) Maria Cristina Beatrice Teresa Barbara Leopolda Clotilde Melchiora Camilla Giulia Margherita Laura Trivulzio di Belgiojoso. Noblesse oblige. Suo padre era Gerolamo Trivulzio, rampollo del miglior patriziato milanese, sua madre Vittoria dei marchesi Gherardini. Papà Gerolamo muore giovanissimo e mamma Vittoria, rimasta vedova a 22 anni, appena tolto il lutto si risposa con Alessandro Visconti d’Aragona. Cristina avrà tre sorellastre e un fratellastro e si affezionerà al patrigno. Ma Visconti, socio in affari di Federico Confalonieri per la navigazione a vapore sul Po e sui laghi, rimane coinvolto con lui nella cospirazione carbonara del 1821 e finisce allo Spielberg con Pellico e compagni. Ci rimane meno di due anni, però bastano perché lui ne esca fisicamente e psicologicamente devastato. Per Cristina è come perdere un’altra volta un padre. Mamma Vittoria si consola in fretta con un vivace nobiluomo del Sud e Cristina comincia a capire presto come va il mondo. Così quando a sedici anni le prospettano di sposare un tristissimo e bruttarello cugino primo, lei è già in grado di puntare i piedi. Prenderà come marito il principe Emilio di Belgiojoso, biondo, bello, giovane e inaffidabile. Cristina è ricca, oltre che bella di una strana bellezza per il suo tempo, un po’ dark. Magrissima, pallidissima, collo lungo, mani affusolate, occhi neri intensi, verrà definita dai suoi amici intellettuali romantici un’apparizione, un vago spettro, una inquietante splendida vampira.

Emilio, il suo prince charmant, è attirato parecchio dalla dote: è uno di quelli ai quali i soldi non bastano mai, un vizioso dissipatore, malato di sifilide. Cristina se la prende, infatti, e quel malanno si aggiunge a quelli di cui già soffre, compresa una lieve forma di epilessia. Quando il principe, che non ha mai smesso di frequentare altre donne, arriva a proporle disinvolto di dividere il talamo con la sua ultima fiamma, Cristina, pur essendo di idee aperte, decide che quel che è troppo è troppo. Prendono strade diverse, abbastanza amichevolmente, e da quel momento lei si comporta come una donna libera. Ha cento interessi: la cultura, la musica, i salotti, la politica. È stata avvicinata ai patrioti dalla sua maestra di disegno Ernesta Bisi ed è amica di Bianca Milesi, una delle sovversive carbonare più famose di quel periodo.

Frequenta gente che mette in sospetto la polizia asburgica, ma si salva perché è molto sveglia, ha un gran nome e la sua famiglia ha appoggi potenti. Dopo anni di spostamenti tra Genova, Roma, Napoli, Firenze, Ginevra e Lugano e di prese di posizione rivoluzionarie, quando il temuto capo della polizia austriaca Torresani le ordina di rientrare in città preferisce fuggire rocambolescamente in Francia, senza più un soldo da un giorno all’altro, perché gli austriaci confiscano il suo immenso patrimonio. «Potevo dipingere, cantare, suonare il pianoforte, ma non avrei saputo far l’orlo a un fazzoletto, cuocere un uovo sodo o ordinarmi un pasto» scriverà sincera nei suoi Ricordi nell’esilio.

Lungi dallo scoraggiarsi, la principessa si rimbocca le maniche e se la cava ricamando, cucendo, reinventandosi: mentre i suoi potenti amici e sua madre brigano per ridarle tranquillità economica, lei diventa amica di Heinrich Heine, di Franz Liszt, di Alfred de Musset, del marchese di La Fayette, di Vincenzo Bellini, di Honoré de Balzac. Non appena torna in possesso dei suoi soldi, finanzia fogli patriottici e tentativi insurrezionali e aiuta i fuoriusciti italiani; soprattutto, fa conoscere la causa unitaria al bel mondo parigino, scrive articoli e libelli. E dato che non si vive di solo ideale, a trent’anni, nel 1838, mette al mondo una bambina che chiama Maria, forse avuta da François Mignet, un intellettuale, storico, scrittore e politico, o forse da Teodoro Doehler, bellissimo musicista più giovane di lei.

1843 Cristina Trivulzio Belgiojoso Henri Lehmann 

Questa è la visitatrice che nel 1840 Manzoni non vuole far entrare in casa, troppo diversa dal modello di donna che gli piace, come la sua obbediente Enrichetta che lui sfinirà di gravidanze fino a farla morire, salvo poi piangerla con lacrime di coccodrillo: Cristina è una brillante regina dei salotti, una patriota, una intellettuale, e non solo. Quando torna a Locate nei feudi di famiglia può dar sfogo alla sua vena filantropica e fonda un asilo per i bambini poveri, lodato da educatori come Ferrante Aporti. E Manzoni si chiederà candidamente chi coltiverà i suoi campi, se adesso anche i figli dei contadini possono andare a scuola. Che roba. Lei prosegue per la sua strada: traduce in francese le opere di Giovan Battista Vico, scrive una Storia della Lombardia sotto pseudonimo non risparmiando critiche a grossi nomi come il Confalonieri e facendo inviperire il patriziato milanese, nonché un Saggio sul Dogma cattolico (anche teologa, la Belgiojoso! Figurarsi la faccia del Manzoni). Fonda riviste che sostengono la sua posizione monarchica e unitaria, conosce Cavour, Cesare Balbo, Tommaseo, appoggia le Cinque Giornate di Milano reclutando e trasportando a sue spese un gruppo di circa 200 volontari da Genova e durante le furiose battaglie della Repubblica Romana ha l’intuizione che viene attribuita a Florence Nightingale: servono infermiere, mestiere che ancora non esiste e che lei inventa, improvvisando. Oltre alle dame e alle signore della borghesia arruola anche prostitute di buona volontà, suscitando di nuovo scandalo, ma salvando vite umane.

Dopo la sconfitta s’imbarca a Civitavecchia con la figlia. I milanesi la detestano, i patrioti anche, per aver messo nero su bianco verità scomode. Delusa da Carlo Alberto, delusa dai francesi che hanno contribuito alla fine della Repubblica Romana, Cristina va in Oriente, compera della terra e applica in Cappadocia quello che ha imparato a Locate in campo agrario, riqualificando le colture. Ma non si limita a coltivare i campi: si occupa anche dei suoi contadini e intanto scrive lucidissimi, spietati reportages su Libano, Siria e Palestina. Dopo un viaggio in Terrasanta, nel luglio del 1853, un certo Albergoni, un profugo bergamasco ladro, ubriacone e violento che lei minaccia di licenziamento, la colpisce ripetutamente con un pugnale. La principessa si salva, ma una ferita al collo le impedirà da allora in poi di raddrizzare bene la testa. Una sorta di contrappasso per chi, come lei, ha sempre saputo farlo anche nei momenti peggiori.

Quando un paio d’anni dopo riesce a tornare in patria grazie al benestare dell’ammorbidita burocrazia austriaca, il suo unico scopo è quello di convincere il marito, roso dalla sifilide all’ultimo stadio, a riconoscere Maria, per farla accettare dal bel mondo. Per quanto lei sia anticonformista, capisce che il marchio dell’illegittimità rovinerebbe la vita alla sua amata unica figliola in quella società ipocrita. Riesce alla fine a spuntarla con l’argomento al quale Emilio e i suoi parenti sono sempre stati sensibili: il denaro, tanto.

Nel 1861 tutto si compie: l’Italia è unita e la sua adorata Maria legittimata agli occhi della morale può sposare il marchese Trotti Bentivoglio. Di lei, che vivrà pacifica e sarà dama di corte della regina d’Italia, si ricorderà solo che era figlia di Cristina, la quale lo stesso anno pubblica un breve saggio sulla condizione della donna, nel suo solito stile sincero e spassionato, dove le canta sia alle femmine che ai maschi: alle prime perché non credono in loro stesse e ai secondi perché fa loro troppo comodo l’idea che le compagne siano da meno. «Vogliano le donne felici ed onorate dei tempi a venire rivolgere tratto tratto il pensiero ai dolori ed alle umiliazioni delle donne che le precedettero nella vita, e ricordare con qualche gratitudine i nomi di quelle che loro apersero e prepararono la via alla non mai prima goduta, forse appena sognata, felicità!» chiude, con un involontario riferimento a sè stessa, eclettica pioniera della parità a fatti più ancora che a parole.

Quando Cristina morirà, nel 1871, scriveranno di lei: «Ingegno virile in un corpo femminile». Forse credevano di farle un complimento, che ingenui. Sono passati 150 anni: a settembre Cristina avrà la sua effigie nella piazza dove sorge il palazzo del marito. Nemmeno il sindaco Sala si era reso conto che a Milano il bronzo e la pietra avevano immortalato re, condottieri, musicisti, scrittori, scienziati, educatori, patrioti, poeti, ma l’unica statua con fattezze femminili restava quella della Madonnina dorata in cima al Duomo. Ancora una volta la principessa libera fa da apripista e il 5 luglio, anniversario della sua scomparsa, la si ricorderà a Locate di Triulzi, dove lei si sentiva a casa, alle 18.30 al cimitero e alle 21 concerto in Piazza della Vittoria. Nell’attesa di salutarla in bronzo in grandezza naturale, con i capelli raccolti sulla nuca e il sorriso un po’ così di chi sa che precorrere i tempi è cosa splendida, ma richiede un coraggio da leone. Anzi, da leonessa.

Ritratto di Cristina Trivulzio di Belgiojoso  Francesco Hayez 1832

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PICCOLI BORGHI, NON C’È SOLTANTO IL TURISMO

18/06/2021 da Sergio Casprini

Identità e Toscana

Zeffiro Ciuffoletti   Corriere Fiorentino15 giugno 2021

Mario Lancisi ha colto nel segno con il suo articolo di domenica scorsa sui borghi toscani più belli piegati agli stereotipi dei turisti.

Tutti ci chiediamo se sarà un processo irreversibile. La risposta sta nella capacità di governare un fenomeno importante, ma assai più complesso di quanto possa sembrare, specialmente quando si esce dai «borghi antichi» più belli e famosi come quelli citati nell’articolo del Corriere Fiorentino e cioè San Gimignano o Pienza.

Il tema cruciale è quello rilevato da Lancisi: il solo turismo non basta. In un bell’articolo pubblicato recentemente sul Notiziario dei Georgofili, Antonio Guidobono Cavalchini ha presentato le problematiche delle aree interne e di montagna in relazione allo spopolamento. Dal 1990 al 2015, prendendo a modello una valle dell’Appennino LigurePiemontese, il 37% della superficie agraria risulta ormai abbandonato. Grosso modo questo è quello che è accaduto nelle aree montane toscane. Il decremento demografico ha prodotto conseguenze pesanti sull’agricoltura e sull’ambiente con paesaggi degradati, boschi abbandonati, terrazzi incolti. Un processo che sembra inarrestabile nonostante le esternazioni di amore per il verde e per la natura. Persino le località montane, dove ancora permane un tessuto produttivo di piccola agricoltura e allevamento e che potrebbero avvantaggiarsi con la vendita dei prodotti locali ai turisti, soffrono per la crescente perdita di consistenza demografica.

La riscoperta dei borghi, di cui si parla per via delle limitazioni imposte dalla pandemia, dovrebbe essere assecondata dalle autorità locali e regionali con la realizzazione di piste ciclabili, sentieri attrezzati, e con attività agroforestali, in grado di offrire prodotti enogastronomici e artigianali. I territori montani semi spopolati, come è noto, non portano voti, ma potrebbero portare salute per tutti e specialmente vantaggi alla rivoluzione ecologica di cui troppo si parla e poco si fa. Si pensi all’importanza del bosco nell’ecosistema. Il sistema forestale, con i suoi 10 milioni di ettari, deve essere salvaguardato e accresciuto per l’equilibrio socio-economico e ambientale. L’Unione dei Comuni ed Enti Montani se ne è accorta, ma sono le regioni e lo stato che devono spendersi per investire sulle aree marginali e di montagna. Bisognerà, quindi, puntare sul turismo, ma prima di tutto sull’attrattività produttiva di queste aree verdi e ricche di storia, garantendo un’adeguata connettività digitale, ma anche di trasporti, la cura del paesaggio, l’offerta di prodotti locali e di cibo buono, di acqua buona, di aria pura. Non solo per le famiglie, ma anche per i giovani e studenti, come hanno fatto in Spagna con Erasmo Rural, attingendo ai fondi europei. Una grande idea che andrebbe studiata.

La Toscana è ricca di parchi e di aree montane. Anzi si può dire che il bosco, in una regione di antichissimo popolamento antropico come la Toscana, costituisce la migliore testimonianza degli equilibri e della varietà ambientali della regione. Si pensi alle foreste casentinesi, a Vallombrosa, alla montagna pistoiese, al Monte Amiata, al Mugello o al Casentino. I boschi della Toscana, circa ottomila ettari, sono fortemente permeati di valori storici e naturalistici e paesaggistici, frutto della natura, ma anche della presenza e del lavoro dell’uomo. Non si tratta, qui, di proteggere e conservare il «bosco primigenio», ma di conservare e valorizzare il paesaggio forestale con una presenza intelligente e consapevole dell’uomo e delle attività produttive. Un paesaggio ricco di antichi insediamenti, con borghi medievali, castelli, pievi, monasteri, che meritano di essere conosciuti non solo con gli occhi, ma anche con la storia, l’arte, la cultura e «dulcis in fundo» con le tradizioni enogastronomiche. Non solo cibo, ma anche vino, che la viticoltura in Toscana si è spinta in alto, privilegiando le colline e persino i crinali montani.

Dei circa mille miliardi della dote del PNRR destinati al piano nazionale dei borghi per valorizzare il patrimonio custodito nei tanti piccoli borghi di montagna, spesso fragili per via dello spopolamento, una parte andrà riservata alla promozione dell’agricoltura e dell’allevamento che costituiscono la base delle tradizioni alimentari. Si pensi che non c’è minestra che non contenga pane, insieme con verdure o legumi, dai fagioli alle lenticchie, dalle fave ai ceci. E poi l’olio di oliva che ritroviamo nelle alte colline e i crinali bassi di montagna. Così le carni di maiale e di pollo allevati all’aperto oppure ai tanti prodotti della lavorazione del latte di pecora o di mucca: formaggi o ricotte che parlano di pascoli verdi e di pratiche produttive antiche. Tutte le forme di artigianato locali si legano all’agricoltura e all’allevamento, così come i saperi locali si legano al sapore dei cibi. Nello stile alimentare povero di montagna, si ritrovano non solo cibi e sapori dimenticati, ma due altri valori fondamentali: la sociabilità e la salute.

Tante piccole cooperative di produzione, tante piccole aziende, spesso con l’azione trainante di donne, sono nate in questi ultimi anni, ma vanno incoraggiate per la sopravvivenza e il rilancio di cultura che la Toscana non può perdere se non vuol perdere la sua stessa identità.

 

 

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ERNESTA, LA PATRIOTA LAUREATA CHE SPOSÒ CESARE BATTISTI

06/05/2021 da Sergio Casprini

LETTERE al Corriere della Sera 6 maggio 2021

 

Caro Aldo, sarei felice e grato se volessi ricordare Ernesta Bittanti Battisti di cui ricorre il 150° anniversario della nascita (5 maggio 1871). Marco Battisti, nipote di Ernesta Bittanti Battisti

*************

Caro Marco, è importante ricordare Ernesta Bittanti Battisti, perché fu una grande italiana e una vera patriota. «Siora Battisti, mi non capiso perché Ela la se mete sempre con quei che le ciapa»: questa era la frase in dialetto trentino che la domestica Faustina le ripeteva spesso, non capendo per quale motivo, anziché fare la vedova dell’eroe, si mettesse sempre «con quelli che le prendono». Ernesta era nata a Brescia e aveva passato la giovinezza tra la sua città, Cremona e Cagliari, dove la famiglia si era spostata al seguito del padre, professore di matematica. A Cagliari è la prima ragazza iscritta al liceo statale, nel 1882. Nel 1890 studia lettere e filosofia a Firenze. Casa Bittanti diviene ben presto un cenacolo di giovani intellettuali, tra cui ci sono Gaetano Salvemini e un giovane trentino, che si batte per riportare la sua città all’Italia: Cesare Battisti.

Nel 1896 Ernesta è tra le prime italiane a laurearsi. Insegna letteratura, ma nel 1898 viene radiata da tutte le scuole del Regno per le sue idee socialiste. Nel 1899 sposa Battisti in una cerimonia civile a Firenze, poi si trasferisce a Trento e con lui fonda un giornale socialista, Il Popolo. Si batte per l’abolizione della pena di morte, ancora in vigore nell’Impero asburgico, e per il divorzio. Nel 1901 nasce il primogenito Luigi, detto Gigino; poi vengono Camillo e Livia. La notte di Capodanno del dicembre 1908 Ernesta va a Messina per portare aiuti ai terremotati. Il marito è deputato socialista a Vienna. Nell’agosto del 1914 le scrive una cartolina con un messaggio sotto il francobollo: «La guerra è sicura».

Volontario, catturato in montagna, il 12 luglio 1916 Cesare Battisti viene impiccato nel Castello del Buonconsiglio di Trento. Quel giorno Ernesta è a Padova, dove in un crescendo di angoscia e presentimenti la raggiungono notizie confuse, che danno Cesare prima caduto sul fronte, poi prigioniero. Apprende con certezza dell’esecuzione solo cinque giorni dopo, il 17 luglio. Le fotografie degli ultimi momenti di Battisti e degli austriaci che ridono attorno al cadavere indigneranno mezza Europa.

Ernesta non avrà altri mariti. Cesare era insostituibile. Anche per questo lei si batterà per tutta la vita contro l’uso strumentale che si tenterà di fare della sua memoria. Antifascista, dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti si reca polemicamente alla fossa del Buonconsiglio, per velare di nero in segno di lutto il cippo che segna il luogo dell’esecuzione di Battisti. Aldo Cazzullo

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Il TRICOLORE: STORIA E ORGOGLIO DI UNA NAZIONE

21/04/2021 da Sergio Casprini

 

Simbolo risorgimentale riscoperto da Ciampi, ha sventolato anche nelle file dei partigiani e nei mesi di lockdown

Dino Messina Corriere della Sera 21 aprile 2021

Nato repubblicano, adottato dalla monarchia, rifiutato dall’internazionalismo comunista per poi spuntare dietro una bandiera rossa, combattuto dalla Lega secessionista, ridotto a drappo da sventolare nelle competizioni sportive, il Tricolore è tornato a essere il simbolo di tutti gli italiani.

Grande merito va dato alla rivalutazione impressa da Carlo Azeglio Ciampi e ancor prima della legge che nel 1996 fissava al 7 gennaio la Festa del Tricolore. Ma per moto spontaneo la nostra bandiera è tornata protagonista in un momento di smarrimento collettivo in cui la vita di ciascuno di noi era messa in pericolo e tutti abbiamo sentito la necessità di raccoglierci attorno a un simbolo che rappresentasse l’intera collettività: i colori verde, bianco e rosso sono tornati così sui balconi delle nostre città non per festeggiare una vittoria ai campionati mondiali di calcio ma come simbolo di appartenenza e solidarietà, di comune sentire.

Il 7 gennaio 1797 a Reggio Emilia, su proposta del deputato Giuseppe Compagnoni, la Repubblica Cispadana adottò il tricolore come proprio simbolo. Le tre strisce erano disposte orizzontalmente e non verticalmente: dall’alto il rosso, in mezzo il bianco e in basso il verde. Al centro una faretra simboleggiava l’unione delle popolazioni di Ferrara, Bologna, Modena e Reggio, mentre le lettere R e C erano le iniziali di Repubblica Cispadana.

Per la verità le prime coccarde tricolori erano comparse a Bologna nel 1794 durante una rivolta organizzata dagli studenti Luigi Zambroni e Giovanni Battista De Rolandis, che persero la vita e vennero poi omaggiati da Napoleone Bonaparte. Fu questi in verità a introdurre il tricolore in Italia con l’ingresso a Milano nel maggio 1796. Gli oltre tremila volontari della Legione Lombarda adottarono per le loro coorti il vessillo tricolore sul modello francese del 1790, con il verde al posto del blu perché verdi erano le uniformi della guardia civica. Il bianco e il rosso erano i due colori dello stemma comunale (una croce rossa in campo bianco).

Il tricolore accompagnò tutta l’epopea risorgimentale: fu adottato dalla Giovine Italia di Giuseppe Mazzini, fu la bandiera della Repubblica romana con al centro l’iscrizione Dio e Popolo.

Con felice intuizione fu adottato anche da Carlo Alberto, re di Sardegna, quando capì che nella lotta antiaustriaca era il miglior simbolo di unità nazionale. Quando Giuseppe Garibaldi tornò dal Sudamerica a bordo della nave Speranza, non avendo un vessillo tricolore a bordo, ne fece appendere all’albero maestro uno costruito artigianalmente con pezzi delle uniformi verdi, camicie rosse e brandelli di lenzuola. E quando partì da Quarto a capo dei Mille sui piroscafi Piemonte e Lombardo sventolava il tricolore. Il verde, bianco e rosso era un mix davvero vincente se Francesco II di Borbone, ormai a corto di argomenti, promise che lo avrebbe adottato quale simbolo di una rinnovata monarchia costituzionale. Abbiamo visto che la superficie della banda centrale venne più volte utilizzata come un foglio bianco su cui dichiarare un orientamento o un’appartenenza. Così se il veneziano Daniele Manin volle al centro della bandiera il Leone di San Marco e Carlo Pisacane un archipendolo come emblema di equilibrio sociale, Leopoldo II di Toscana accettò di adottare il tricolore purché includesse lo scudo dei Lorena.

Il verde, bianco e rosso non mancò mai nelle grandi esplorazioni geografiche cui partecipavano gli italiani e naturalmente in tutte le guerre nazionali: quelle coloniali, il primo e il secondo conflitto mondiale. Pur carico di simboli propri il fascismo accettò il tricolore con al centro lo stemma sabaudo sormontato dalla corona, che venne sostituito durante la Repubblica sociale da un’aquila nera poggiante su fascio dorato. Il rifiuto della retorica fascista contribuì ad allontanare gli italiani dai simboli patriottici, compresa la bandiera. Ma bisogna ricordare che durante la Resistenza il Tricolore fu il simbolo tra l’altro del Corpo Volontari della Libertà, che coordinava l’azione militare di tutte le formazioni, oltre che di tanti gruppi come quello di Giustizia e Libertà.

Il Tricolore è quindi a pieno titolo il principale simbolo del 25 aprile.

Il 19 giugno 1946 un decreto presidenziale stabilì la foggia della bandiera italiana confermata nell’articolo 12 della Costituzione: «La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano verde bianco e rosso a bande verticali e di eguali dimensioni». Durante i lavori della Costituente, il 7 gennaio 1947 ricorrevano i 150 anni della bandiera cispadana: alla cerimonia di Reggio Emilia fu presente Enrico De Nicola, capo provvisorio dello Stato. Il discorso ufficiale venne affidato allo storico Luigi Salvatorelli, fiero avversario della monarchia sabauda. Cinquant’anni prima la celebrazione del centenario aveva visto protagonista Giosuè Carducci. Nel cinquantennio della Repubblica, con i partiti protagonisti assoluti della vita pubblica, si diceva che il bianco della bandiera rappresentava la Dc, il rosso il Pci e i socialisti, il verde i repubblicani e i laici. In realtà il nostro simbolo nazionale fu a lungo trascurato, nonostante l’impegno di leader come Giovanni Spadolini e Bettino Craxi.

A imprimere una svolta fu Carlo Azeglio Ciampi, che volle stabilire un galateo del Tricolore e nel 2004 ottenne anche l’approvazione di un provvedimento che fissava un’unica tonalità per i colori della nostra bandiera.

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