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Risorgimento Firenze

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Rassegna stampa

ERNESTA, LA PATRIOTA LAUREATA CHE SPOSÒ CESARE BATTISTI

06/05/2021 da Sergio Casprini

LETTERE al Corriere della Sera 6 maggio 2021

 

Caro Aldo, sarei felice e grato se volessi ricordare Ernesta Bittanti Battisti di cui ricorre il 150° anniversario della nascita (5 maggio 1871). Marco Battisti, nipote di Ernesta Bittanti Battisti

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Caro Marco, è importante ricordare Ernesta Bittanti Battisti, perché fu una grande italiana e una vera patriota. «Siora Battisti, mi non capiso perché Ela la se mete sempre con quei che le ciapa»: questa era la frase in dialetto trentino che la domestica Faustina le ripeteva spesso, non capendo per quale motivo, anziché fare la vedova dell’eroe, si mettesse sempre «con quelli che le prendono». Ernesta era nata a Brescia e aveva passato la giovinezza tra la sua città, Cremona e Cagliari, dove la famiglia si era spostata al seguito del padre, professore di matematica. A Cagliari è la prima ragazza iscritta al liceo statale, nel 1882. Nel 1890 studia lettere e filosofia a Firenze. Casa Bittanti diviene ben presto un cenacolo di giovani intellettuali, tra cui ci sono Gaetano Salvemini e un giovane trentino, che si batte per riportare la sua città all’Italia: Cesare Battisti.

Nel 1896 Ernesta è tra le prime italiane a laurearsi. Insegna letteratura, ma nel 1898 viene radiata da tutte le scuole del Regno per le sue idee socialiste. Nel 1899 sposa Battisti in una cerimonia civile a Firenze, poi si trasferisce a Trento e con lui fonda un giornale socialista, Il Popolo. Si batte per l’abolizione della pena di morte, ancora in vigore nell’Impero asburgico, e per il divorzio. Nel 1901 nasce il primogenito Luigi, detto Gigino; poi vengono Camillo e Livia. La notte di Capodanno del dicembre 1908 Ernesta va a Messina per portare aiuti ai terremotati. Il marito è deputato socialista a Vienna. Nell’agosto del 1914 le scrive una cartolina con un messaggio sotto il francobollo: «La guerra è sicura».

Volontario, catturato in montagna, il 12 luglio 1916 Cesare Battisti viene impiccato nel Castello del Buonconsiglio di Trento. Quel giorno Ernesta è a Padova, dove in un crescendo di angoscia e presentimenti la raggiungono notizie confuse, che danno Cesare prima caduto sul fronte, poi prigioniero. Apprende con certezza dell’esecuzione solo cinque giorni dopo, il 17 luglio. Le fotografie degli ultimi momenti di Battisti e degli austriaci che ridono attorno al cadavere indigneranno mezza Europa.

Ernesta non avrà altri mariti. Cesare era insostituibile. Anche per questo lei si batterà per tutta la vita contro l’uso strumentale che si tenterà di fare della sua memoria. Antifascista, dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti si reca polemicamente alla fossa del Buonconsiglio, per velare di nero in segno di lutto il cippo che segna il luogo dell’esecuzione di Battisti. Aldo Cazzullo

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Il TRICOLORE: STORIA E ORGOGLIO DI UNA NAZIONE

21/04/2021 da Sergio Casprini

 

Simbolo risorgimentale riscoperto da Ciampi, ha sventolato anche nelle file dei partigiani e nei mesi di lockdown

Dino Messina Corriere della Sera 21 aprile 2021

Nato repubblicano, adottato dalla monarchia, rifiutato dall’internazionalismo comunista per poi spuntare dietro una bandiera rossa, combattuto dalla Lega secessionista, ridotto a drappo da sventolare nelle competizioni sportive, il Tricolore è tornato a essere il simbolo di tutti gli italiani.

Grande merito va dato alla rivalutazione impressa da Carlo Azeglio Ciampi e ancor prima della legge che nel 1996 fissava al 7 gennaio la Festa del Tricolore. Ma per moto spontaneo la nostra bandiera è tornata protagonista in un momento di smarrimento collettivo in cui la vita di ciascuno di noi era messa in pericolo e tutti abbiamo sentito la necessità di raccoglierci attorno a un simbolo che rappresentasse l’intera collettività: i colori verde, bianco e rosso sono tornati così sui balconi delle nostre città non per festeggiare una vittoria ai campionati mondiali di calcio ma come simbolo di appartenenza e solidarietà, di comune sentire.

Il 7 gennaio 1797 a Reggio Emilia, su proposta del deputato Giuseppe Compagnoni, la Repubblica Cispadana adottò il tricolore come proprio simbolo. Le tre strisce erano disposte orizzontalmente e non verticalmente: dall’alto il rosso, in mezzo il bianco e in basso il verde. Al centro una faretra simboleggiava l’unione delle popolazioni di Ferrara, Bologna, Modena e Reggio, mentre le lettere R e C erano le iniziali di Repubblica Cispadana.

Per la verità le prime coccarde tricolori erano comparse a Bologna nel 1794 durante una rivolta organizzata dagli studenti Luigi Zambroni e Giovanni Battista De Rolandis, che persero la vita e vennero poi omaggiati da Napoleone Bonaparte. Fu questi in verità a introdurre il tricolore in Italia con l’ingresso a Milano nel maggio 1796. Gli oltre tremila volontari della Legione Lombarda adottarono per le loro coorti il vessillo tricolore sul modello francese del 1790, con il verde al posto del blu perché verdi erano le uniformi della guardia civica. Il bianco e il rosso erano i due colori dello stemma comunale (una croce rossa in campo bianco).

Il tricolore accompagnò tutta l’epopea risorgimentale: fu adottato dalla Giovine Italia di Giuseppe Mazzini, fu la bandiera della Repubblica romana con al centro l’iscrizione Dio e Popolo.

Con felice intuizione fu adottato anche da Carlo Alberto, re di Sardegna, quando capì che nella lotta antiaustriaca era il miglior simbolo di unità nazionale. Quando Giuseppe Garibaldi tornò dal Sudamerica a bordo della nave Speranza, non avendo un vessillo tricolore a bordo, ne fece appendere all’albero maestro uno costruito artigianalmente con pezzi delle uniformi verdi, camicie rosse e brandelli di lenzuola. E quando partì da Quarto a capo dei Mille sui piroscafi Piemonte e Lombardo sventolava il tricolore. Il verde, bianco e rosso era un mix davvero vincente se Francesco II di Borbone, ormai a corto di argomenti, promise che lo avrebbe adottato quale simbolo di una rinnovata monarchia costituzionale. Abbiamo visto che la superficie della banda centrale venne più volte utilizzata come un foglio bianco su cui dichiarare un orientamento o un’appartenenza. Così se il veneziano Daniele Manin volle al centro della bandiera il Leone di San Marco e Carlo Pisacane un archipendolo come emblema di equilibrio sociale, Leopoldo II di Toscana accettò di adottare il tricolore purché includesse lo scudo dei Lorena.

Il verde, bianco e rosso non mancò mai nelle grandi esplorazioni geografiche cui partecipavano gli italiani e naturalmente in tutte le guerre nazionali: quelle coloniali, il primo e il secondo conflitto mondiale. Pur carico di simboli propri il fascismo accettò il tricolore con al centro lo stemma sabaudo sormontato dalla corona, che venne sostituito durante la Repubblica sociale da un’aquila nera poggiante su fascio dorato. Il rifiuto della retorica fascista contribuì ad allontanare gli italiani dai simboli patriottici, compresa la bandiera. Ma bisogna ricordare che durante la Resistenza il Tricolore fu il simbolo tra l’altro del Corpo Volontari della Libertà, che coordinava l’azione militare di tutte le formazioni, oltre che di tanti gruppi come quello di Giustizia e Libertà.

Il Tricolore è quindi a pieno titolo il principale simbolo del 25 aprile.

Il 19 giugno 1946 un decreto presidenziale stabilì la foggia della bandiera italiana confermata nell’articolo 12 della Costituzione: «La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano verde bianco e rosso a bande verticali e di eguali dimensioni». Durante i lavori della Costituente, il 7 gennaio 1947 ricorrevano i 150 anni della bandiera cispadana: alla cerimonia di Reggio Emilia fu presente Enrico De Nicola, capo provvisorio dello Stato. Il discorso ufficiale venne affidato allo storico Luigi Salvatorelli, fiero avversario della monarchia sabauda. Cinquant’anni prima la celebrazione del centenario aveva visto protagonista Giosuè Carducci. Nel cinquantennio della Repubblica, con i partiti protagonisti assoluti della vita pubblica, si diceva che il bianco della bandiera rappresentava la Dc, il rosso il Pci e i socialisti, il verde i repubblicani e i laici. In realtà il nostro simbolo nazionale fu a lungo trascurato, nonostante l’impegno di leader come Giovanni Spadolini e Bettino Craxi.

A imprimere una svolta fu Carlo Azeglio Ciampi, che volle stabilire un galateo del Tricolore e nel 2004 ottenne anche l’approvazione di un provvedimento che fissava un’unica tonalità per i colori della nostra bandiera.

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QUANDO LE MANI DEI PATRIOTI CERCAVANO LA CARABINA

03/04/2021 da Sergio Casprini

 LETTERE al Corriere della Sera 2 aprile 2021  

 

Caro Aldo, il settecentesimo anniversario della morte di Dante Alighieri ha portato in auge molteplici aspetti della sua opera. Tra essi è emerso il carattere che considera la Divina Commedia come un libro sacro del popolo italiano e anticipa la nazione italiana come entità spirituale. Lo sottolineava lei nella risposta a un lettore e lo ribadiva Giuseppe Mazzini nel saggio «Dell’amor patrio di Dante» (1837), in cui lo elevò a precursore della nazione italiana, quasi a conferma delle sue posizioni politiche. Il poeta fiorentino è indicato come un profeta, che denuncia vizi e corruzione dei suoi compatrioti per spronarli a un sincero patriottismo basato su un’equa giustizia sociale e un’azione politica più efficace. Nunzio Dell’Erba

Caro Nunzio, oggi è il Venerdì Santo, il giorno in cui Dante inizia il suo viaggio nell’Aldilà. Sul tema della visione dantesca dell’Italia, e più ancora dell’uso politico che di Dante hanno fatto generazioni di scrittori e di patrioti, è uscito un saggio molto interessante, «Il Sommo italiano. Dante e l’identità della nazione», pubblicato da Carocci e scritto da Fulvio Conti, il preside della Scuola di Scienze politiche a Firenze. Vi si cita tra l’altro il testo cui lei, gentile professor Dell’Erba, fa riferimento. A ventidue anni, Giuseppe Mazzini scrisse un articolo di fuoco, intitolato «Dell’amor patrio di Dante» e rimasto a lungo inedito: «In tutti i suoi scritti traluce sempre sotto forme diverse l’amore immenso ch’ei portava alla patria… Egli mirò a congiungere in un sol corpo l’Italia piena di divisioni, e sottrarla al servaggio». Poi l’invocazione: «O Italiani! Studiate Dante… non vi fidate ai grammatici e agli interpreti essi sono come la gente che dissecca cadaveri; voi vedete le ossa, i muscoli, le vene che formavano il corpo; ma dov’è la scintilla che l’animò?». Per Mazzini, la Divina Commedia andava letta e interpretata di persona da ogni patriota, come la Bibbia secondo Lutero: «O Italiani! Non obliate giammai che il primo passo a produrre uomini grandi sta nello onorare i già spenti». Ovviamente, l’idea che Dante aveva dell’Italia non era la stessa di Mazzini e del nostro Risorgimento. Silvio Pellico scrive una tragedia, «Francesca da Rimini». Ma è bello rileggere oggi quel che annotava Carducci: «Ahi serva Italia! Cotesto emistichio faceva rizzare i capelli ai nostri padri, e le mani cercavano la carabina e incontravano le catene dei tiranni. Grazie all’Alfieri, al Foscolo, al Mazzini».          Aldo Cazzullo

 

Luigi Norfini – Silvio Pellico 1861

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È giusto celebrare Napoleone a 200 anni della morte?

19/03/2021 da Sergio Casprini

Stefano Montefiori  Corriere della Sera 19 marzo 2021

Un presidente della Repubblica francese non può non commemorare Napoleone Bonaparte. Non avrebbe potuto esimersi Nicolas Sarkozy, ritratto a cavallo e con il cappello bicorno nel celebre fotomontaggio dell’Economist prima delle vittoriose elezioni del 2007, né può tirarsi indietro adesso Emmanuel Macron, del quale è stato spesso denunciato o apprezzato, a seconda dei punti di vista, il lato bonapartista, quella tendenza ad accentrare i poteri, a rivolgersi ai francesi senza intermediari, a porsi come uomo del destino in Europa. E infatti Macron ha annunciato che il prossimo 5 maggio la Francia commemorerà il bicentenario della morte dell’Imperatore.

Ma non sono tempi facili per i personaggi storici e per chi deve affrontarne il ricordo. Il portavoce del governo Gabriel Attal ha messo le mani avanti: Napoleone sarà guardato «con gli occhi spalancati» cioè tenendo conto anche dei «momenti più difficili» e delle «scelte che appaiono oggi contestabili».

Nessuna cieca santificazione, quindi. Ma se le proteste contro razzismo e colonialismo nei mesi scorsi hanno portato alla distruzione della statua di Victor Schoelcher, artefice nel 1848 dell’abolizione definitiva della schiavitù ma bianco e quindi paternalista, figurarsi cosa toccherà a Napoleone, che nel 1802 ripristinò la schiavitù dopo l’abolizione a opera della Convenzione, otto anni prima. E infatti la Francia ha trovato nell’anniversario napoleonico una nuova occasione per dividersi. «Commemorare, ma non celebrare», raccomanda Hubert Védrine, consigliere diplomatico di François Mitterrand e poi ministro degli Esteri socialista durante la presidenza Chirac. «È giusto ricordare Napoleone perché le sue gesta sono esistite, ma non si deve celebrarlo perché si celebra ciò di cui si è fieri, con le nostre mentalità attuali». Molti però sono fieri di Napoleone ancora oggi, come per esempio il deputato dei Républicains (destra) Julien Aubert: «Il 15 agosto 1969 il presidente Georges Pompidou andò ad Ajaccio per celebrare il bicentenario della nascita di Napoleone, la prima di una serie di commemorazioni in tutto il Paese. La Francia del 1969 non aveva alcun problema a rivendicare l’eredità napoleonica perché si riconosceva nell’ambizione di una Francia potente in Europa, con un messaggio da rivolgere al mondo».

Ma Napoleone non fu solo il campione dell’universalismo francese, il fondatore del codice civile e del sistema educativo moderno. Le sensibilità dal 1969 a oggi sono cambiate, tanto che l’anniversario suscita perplessità anche all’interno del governo: Elisabeth Moreno, ministra per la Parità uomo-donna, ricorda che «Napoleone è stato uno dei più grandi misogini della storia», ma lei si assocerà, a malincuore, alle decisioni del governo. La memoria di Napoleone suscita interesse anche negli Stati Uniti, dove negli ultimi mesi i media liberal sono stati molto severi con un governo francese sospettato di eccessivi cedimenti a islamofobia, razzismo e misoginia. Con un durissimo editoriale sul New York Times, la storica Marlene L. Daut dell’università della Virginia invita le istituzioni francesi a «prestare più attenzione alla storia schiavista del loro Paese piuttosto che rendere onore a un’icona del suprematismo bianco».

Forse ha ragione Teresa Cremisi, grande editrice italiana a Parigi, quando sul Journal du Dimanche evoca una mancanza di distanza, un’incapacità generale di evitare anacronismi ridicoli. È un problema che riguarda non solo Napoleone ma tutti i personaggi storici. «Le controversie sulle commemorazioni assomigliano a liti di condominio. È un po’ come se la Storia fosse scesa in pantofole nel cortile del palazzo, ci si rivolge ai grandi uomini come a vicini di pianerottolo, designati per i loro difetti. È il momento di celebrare Voltaire? Figurarsi, un islamofobo e antisemita. Rousseau? Impossibile, abbandonò i figli. Richelieu? Un traditore nato. Baudelaire? Un drogato misogino e depresso. C’è da domandarsi se almeno Santa Teresa di Lisieux potrebbe sfuggire al cattivo umore dei nostri contemporanei».

Jacques-Louis David L’incoronazione di Napoleone 

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Scacco ai neoborbonici

10/03/2021 da Sergio Casprini

Dino Messina sfata le fake news e rivendica l’anima meridionale del Risorgimento

Giancristiano Desiderio Corriere della Sera 4 marzo 2021d

Una volta nelle scuole italiane c’era la sana abitudine di adottare dei testi di letteratura che gli studenti leggevano con gli insegnanti. Un esempio classico: il celebre Breviario di estetica di Benedetto Croce, che nacque come un ciclo di lezioni per un’università del Texas, venne inserito dalla Laterza in una collana scolastica e adottato dai licei. Purtroppo, oggi questo costume non c’è più, ma andrebbe ripreso. Tra i libri che si potrebbero adottare c’è senz’altro l’ultimo di Dino Messina: Italiani per forza. Le leggende contro l’Unità d’Italia che è ora di sfatare (Solferino). Il pregio del testo, infatti, non è solo quello di tener fede al titolo, ma anche quello di offrire alle giovani generazioni un racconto ragionato e documentato della storia patria capace di riappacificare gli italiani con quel loro benedetto passato che sembra destinato a non passare mai.

Dino Messina non ha bisogno di essere presentato ai lettori del «Corriere della Sera», sia perché è una firma del quotidiano. sia perché è autore di apprezzati saggi storici, tra i quali è giusto ricordare, per un’affinità elettiva con quest’ultimo, Italiani due volte. Dalle foibe all’esodo: una ferita aperta nella storia italiana (Solferino, 2019).
Se Messina ha lavorato intorno alle storie su come nacque l’Italia, insomma, sul Risorgimento e, per converso, su quel filone pubblicistico più che storiografico del sentimento antirisorgimentale denominato «movimento neoborbonico», è perché è un lucano di Viggiano in Alta Val d’Agri, Basilicata, e sa bene che le stesse idee risorgimentali hanno un’origine meridionale. Tuttavia, Messina è tanto lontano dalla costruzione di un nuovo mito del Risorgimento quanto critico con il revisionismo senza documenti e al limite della manipolazione.
Il libro inizia con il «nonno Raspail», che nella campagna lucana mostrava al nipotino un masso spaccato nella cui fenditura si nascondeva il brigante di Viggiano compagno del crudele Angelantonio Masini, che con Ninco Nanco e Carmine Crocco fu uno dei protagonisti del brigantaggio postunitario: «Banditi entrati nella grande storia degli anni Sessanta dell’Ottocento, come raccontavano le biografie esibite nella libreria del soggiorno di casa». Ma al racconto di «nonno Raspail» rispondeva il «padre Dionisio», che al figlio Dino ricordava con orgoglio la storia del comitato insurrezionale di Corleto Perticara, che il 16 agosto 1860 con i suoi patrioti, professionisti e artigiani, insorse due giorni prima dell’arrivo di Garibaldi.
A quale delle due versioni credere? È vero che per oltre tre anni le bande di Crocco diedero filo da torcere all’esercito italiano, ma è altrettanto vero che nella battaglia campale del Volturno c’erano ben tremila lucani a combattere al fianco di Garibaldi contro le truppe borboniche del generale Giosuè Ritucci. E, allora, ecco che il libro «nasce da una motivazione personale», ma anche «dall’esigenza di un giornalista che si è occupato a lungo di storia di fare chiarezza sul dibattito pubblico che dagli anni Novanta del Novecento ruota attorno al periodo dell’unificazione nazionale». Il risultato è un testo esemplare di inchiesta storiografica, che sulla scorta di studi seri, incontri, documenti e visite dei luoghi ci dà una lettura critica del Risorgimento e dei miti e delle leggende costruite ad arte per dividere l’Italia unita dai «piemontesi» e pensata dai «napoletani».
Sulla base degli studi di Alessandro Barbero, Juri Bossuto e Luca Costanzo, viene totalmente sconfessata la leggenda nera di Fenestrelle che i neoborbonici, ma anche giornalisti come Pino Aprile e Lorenzo Del Boca, definiscono né più né meno che un «lager» o un «campo di concentramento» in cui persero la vita decine di migliaia di soldati dell’ex esercito borbonico, mentre i documenti precisi ed esibiti dagli storici citati riportano il numero delle vittime a «40 in cinque anni» dimostrando che «queste cifre, più che un genocidio etnico, spesso nascondono diverse vittime dovute a delitti di camorra, che da tempo si era infiltrata nell’esercito borbonico».


Quanto poi all’altra «leggenda nera», del paese sannita Pontelandolfo, incendiato insieme con il vicino comune di Casalduni dai soldati del generale Cialdini il 14 agosto 1861 come «rappresaglia» per la strage dei 41 militari uccisi dai briganti e dalla popolazione, si dimostra con i documenti, senza i quali non si può scrivere la storia, che i morti non furono 400 o 1.400, come sostenuto con «fantasia» da Pino Aprile, ma 13 e tra questi ci furono uccisioni per vendette private tra gli stessi pontelandolfesi.
Tuttavia, l’importanza del libro di Messina non risiede nelle cifre. È altrove. Da un lato nel ricondurre il fenomeno neoborbonico alla sua doppia dimensione della politica e del mondo «virtuale» del web e dei social, e dall’altro nel mostrare che nel Mezzogiorno l’idea e l’esigenza dell’Italia unita erano molto più diffuse di quanto attualmente non s’immagini.
La versione del «padre Dionisio» alla fine ha avuto alla meglio su quella di «nonno Raspail».

Ingresso di Garibaldi a Napoli il 7 settembre 1860

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FUCINI, voce del popolo

19/02/2021 da Sergio Casprini

Renato Fucini  Antonio  Ciseri 1878 

Il 25 febbraio di cento anni fa moriva il poeta e scrittore de «Le veglie di Neri» .
Raccontò una Toscana contadina e familiare in uno scenario di realismo anche feroce
 

Mario Bernardi Guardi Corriere Fiorentino19 febbraio 2021

Il 10 dicembre 1869, a Pisa, l’Arno si scatenò. Una piena quale non si era mai vista dal 1777. Strade invase dall’acqua, parapetti crollati, vittime. Le operazioni di soccorso furono dirette dal generale Nino Bixio, che stabilì la sua sede nel locale più amato dalla goliardia: il Caffè dell’Ussero, affacciato sui Lungarni. Tra gli studenti che davano una mano per fronteggiare i danni, ce n’era uno, il ventiseienne Renato Fucini che, nell’occasione, scrisse il suo primo sonetto in vernacolo. Però, quella poesia non la conservò e infatti non figura tra i Cento sonetti di Neri Tanfucio (anagramma di Renato Fucini), pubblicati in prima edizione nel 1872 e andati immediatamente a ruba.

Un autore tutto da rileggere, Fucini, e i cent’anni dalla morte (25 febbraio 1921), sono una bella occasione per sottrarlo al giudizio di tanti critici con la puzza sotto il naso, che tendono a svalutarne i sonetti in vernacolo pisano contrapponendogli quelli in romanesco di Giuseppe Gioacchino Belli.

 E considerano i suoi racconti (la raccolta più celebre è Le veglie di Neri) come bozzetti, vivaci e coloriti, sì, ma poca cosa dal punto di vista della cultura «alta», dove parole come «poetica» e «ideologia» la fanno da padrone. E invece Fucini sarebbe privo di respiro letterario e, ideologicamente, più o meno, un borghese benpensante che trincia sentenze paternaliste.

Non è così. Dietro e dentro l’opera di Fucini ci sono vita e idee con tanto di imprimatur paterno. Il babbo, David, medico, è un fervente mazziniano anticlericale che ce l’ha a morte con moderati e reazionari, si fa conoscere come giacobino, perde il posto, si porta dietro moglie e figlio da Monterotondo Marittimo — dove Renato nasce l’8 aprile del 1843 — a Campiglia, a Livorno, a Dianella, a Empoli e infine a Vinci dove ottiene una condotta. Renato respira umori e malumori paterni, è uno scolaro che vuol dire le sue ragioni e guai se un prof lo prende a cinghiate (allora in uso). Tanto che una volta si difende inalberando un panchetto.

Nessuno poi si azzardi a parlar male di Garibaldi: ci prova un gruppetto di reazionari una sera, in un’osteria, e lui li assale con una paletta del braciere. A Pisa dal 1859, se la gode. Università, Caffè dell’Ussero, goliardia, bevute, canti per le strade, il viziaccio del gioco (in una «Veglia», evocherà un episodio della scioperata vita all’ombra della Torre, quando resta senza la «mesata» per una scommessa, il babbo gliela ridà, ma affibbiandogli un sermoncino di quelli che non si scordano).

 Poi, però, bisogna mettere la testa a posto. E Renato nel 1863 si laurea in Agraria, nel 1865 incomincia a lavorare in uno studio tecnico della Firenze Capitale, nel 1867 sposa Emma Roster, che gli darà due figlie: Ida e Rita. Negli anni successivi sarà anche professore di «belle lettere» a Pistoia (cattedra ottenuta per «titoli»: i suoi libri) e successivamente girerà per la Toscana come ispettore scolastico.

Vasto il giro delle conoscenze. A Firenze, al Caffè Michelangiolo, ha fatto amicizia con i Macchiaioli, da Fattori a Signorini, e al Caffè dei Risorti (era di fronte a Palazzo Medici Riccardi) con Collodi e De Amicis. Tra un impiego e l’altro, si è fatto conoscere anche a Napoli, dove, su segnalazione dello storico Pasquale Villari, tra l’aprile e il maggio del 1877, ha scritto un interessante reportage sulle condizioni economico-sociali della città (Napoli a occhio nudo), ricevendo i complimenti da meridionalisti come Giustino Fortunato e Silvio Spaventa.

Ma parliamo adesso dei Sonetti e delle Veglie che stanno al centro delle Opere (riproposte dalle Lettere, nel 2011, a cura di Davide Puccini). Vestendo i panni del suo «alter ego» Neri (diminutivo di Ranieri, santo patrono di Pisa), Fucini esprime ogni tipo di potenzialità, dal comico al patetico. E chi l’accusa di essere spesso becero e altrettanto spesso sdolcinato, non capisce che la sua poesia si nutre di vero, bello o brutto che sia, e che in lui il popolo-popolaccio di Pisa si rivela com’è: capace di arrabbiarsi con Dio per tutti i malanni che ci manda, di mandare al diavolo il governo e le sue istituzioni colpevoli di incompetenza o di corruzione, di celebrare i pisani come i migliori del mondo e di prendersela con quel «lecchino» di Dante che infuria sulla Città per la faccenda del Conte Ugolino, di raccontare le tombole, le feste da ballo, le miserie senza nome, i preti intriganti o furbacchioni, i mangiapane a ufo di tutte le risme, i giudici che non sanno giudicare, i bimbi disobbedienti, le vecchie beghine, i mariti urloni, le mogli petulanti… L’umano, troppo umano, di sempre.

Questo «ghignetto» etrusco che non sposa «cause» torna nella prosa delle Veglie, pubblicate nel 1882: quattordici racconti di vita toscana con scene di vita familiare, scampagnate, mangiate, ricordi, ingenuità o cattiverie contadine, litigi per una bischerata, destini disgraziati di poveracci alla ventura (Vanno in Maremma, Il matto delle Giuncaie). Si sorride, ci si commuove, si ride amaro. In uno scenario di realismo anche feroce, ma con un retrogusto di ideali smarriti.

Eredità del su’ babbo e della su’ mamma ricordati con tenerezza nella «Dèdia» dei Sonetti.

 

 

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Foibe, farla finita con l’oblio. Riconquistiamo la memoria

10/02/2021 da Sergio Casprini

Una terribile tragedia passata per troppi anni sotto silenzio

 

Goffredo Buccini Corriere della Sera 10 febbraio 2021

Quanto a pulizia etnica, il serbo Vaso Cubrilovic sapeva il fatto suo: sette anni prima aveva messo a punto un manualetto per togliersi di torno gli albanesi.

Nel 1944 questo fanatico panslavista, che appena diciassettenne aveva partecipato all’attentato di Sarajevo e sarebbe poi diventato ministro del maresciallo Tito, scrisse un secondo memorandum, in parte dedicato a noi: «Col diritto dei vincitori siamo giustificati nel richiedere agli italiani di riprendersi le loro minoranze. Il regime fascista trattò molto male il nostro popolo (…). Quando riconquisteremo quei territori dell’Istria e Dalmazia, li dovremo rioccupare anche etnicamente allontanando tutti gli italiani che vi si sono insediati dopo il 1° dicembre 1918». Il «metodo Vaso» puntava ad «allontanare gli etno-diversi» tramite «la forza brutale di un potere statale organizzato (…). Non rimane che una sola via, la deportazione di massa». Facile, da simili teorie, scivolare in massacro: perché tale fu, quello patito dagli italiani nelle terre diventate jugoslave, anche se una radicata narrazione negazionista ha teso nei decenni a farne una noticina a pie’ di pagina.

Oggi si celebra il Giorno del Ricordo e, come sempre, ci arriviamo divisi.

Carla Cace, giovane presidente dell’Associazione nazionale dalmata, ha ricordato che, nonostante gli sforzi di Sergio Mattarella nel fare accettare finalmente il termine di pulizia etnica, «in molti programmi scolastici il tema è ancora trattato marginalmente o per niente, la stampa se ne occupa di rado e alcune recenti pubblicazioni, anche di illustri case editrici, sembrano sostenere posizioni palesemente al limite del riduzionismo e del giustificazionismo».

Il riferimento pare chiaro. In gennaio è uscito per Laterza, a firma di un giovane storico «militante», Eric Gobetti, un testo dal titolo deliberatamente provocatorio: E allora le foibe? La frase, in sé urticante, vorrebbe in realtà motteggiare un mantra assai abusato dalla destra radicale nelle polemiche sulle leggi razziali e le nefandezze del nazifascismo per sostenere che nel Novecento tanto destra che sinistra affondano radici in un orrore più o meno equivalente: e questa è, certo, una tesi impraticabile, perché l’Olocausto resta un unicum non solo per le dimensioni (sarebbe avvicinabile semmai al massacro stalinista dei kulaki), ma per il sistema teoretico d’origine (in proposito, oltre agli studi di Johann Chapoutot, è illuminante il volume di Robert Jay Lifton, I medici nazisti, su come alla persona umana si sostituì il Volk, quale individuo collettivo da proteggere da germi e parassiti — malati, dementi e poi zingari e soprattutto ebrei).

Ogni equiparazione è ingiusta non solo per le vittime della Shoah ma anche per quelle delle foibe: genocidi e massacri non si scambiano come figurine.

Ciò posto, il pamphlet di Gobetti, pur dichiarandosi sulle foibe lontano dal negazionismo, inciampa, in effetti, nel riduzionismo se non nel giustificazionismo, nei toni e nell’impianto. Sostiene che non vi fu nulla di etnico, ma molto di politico e di antifascista nell’operazione che i comunisti titini fecero contro gli italiani (e certo gli slavi avevano subìto vent’anni di durezza e ferocia dal regime fascista, ma questo non assolve). Lima il conto delle vittime (stime abbastanza condivise parlano di otto-diecimila morti e trecentomila profughi dal settembre 1943 alla metà degli anni Cinquanta). Non dedica neppure un accenno alle ricette allora circolanti sugli «etno-diversi». Attribuisce a «sfortunata casualità» o «oscuri interessi politici» la strage dei nostri connazionali sulla spiaggia polesana di Vergarolla, senza citare mai l’ipotesi prevalente anche presso gli inglesi (che ci fosse la mano dei servizi titini). Riduce a una «protesta dei ferrovieri comunisti» uno degli episodi più vergognosi: il 17 febbraio 1947 decine di famiglie polesane stremate sbarcarono ad Ancona dalla nave «Toscana» per raggiungere La Spezia in treno; lo chiamarono «il treno dei fascisti», a Bologna lo accolsero a sassate sventolando bandiere rosse e i ferrovieri Cgil minacciarono di bloccare lo scalo strategico mentre si gettava sui binari il latte destinato ai bambini; i polesani furono costretti a proseguire fino a Parma per riuscire a rifocillarsi. Il diavolo della storia sta insomma nei dettagli e nelle omissioni persino più che nei numeri. E la storia è naturalmente assai più larga di un pamphlet.

L’archivio di un altro studioso, Enrico Miletto, gronda di racconti dei nostri connazionali vittime di quella pulizia etnica, («Tito ci ha detto guai se parlate l’italiano e noi parlavamo apposta italiano e a 15 anni mi hanno messo anche per quello in prigione alla vigilia di Natale, che con Tito era proibito festeggiarlo», ricorda Walter, scappato con papà e fratelli nel 1947). A racconti simili ha attinto il bel libro di Dino Messina, Italiani due volte, che sostiene — a ragione — come commemorare questa vicenda non dovrebbe essere più né di destra né di sinistra in un Paese appena dotato di coscienza di sé.

 Fu pulizia etnica. Colpì i fascisti ma anche tanti antifascisti, borghesi, «capitalisti», depredati e gettati nell’Adriatico e nelle foibe.

 E sulla sua cifra «politica» si fonda la cappa di silenzio che per decenni ne ha coperto la storia. Nell’Italia ferocemente divisa del dopoguerra, le masse di nostri compatrioti in fuga da Tito erano una spina nel fianco del Pci: forse il comunismo non era un tale paradiso, se tanti ne scappavano… «L’Unità» del 30 novembre 1946 era netta, al limite del disprezzo: «Ancora si parla di “profughi”: altre le persone, altri i termini del dramma. Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città. Non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall’alito di libertà che precedeva o coincideva con l’avanzata degli eserciti liberatori». Insomma, i nostri profughi, spesso trattati come bestie all’arrivo, nelle caserme e nelle strutture improvvisate dove li accogliemmo, dovevano essere fascisti, cos’altro? Questa vulgata ha intriso a lungo la cultura nazionale.

Ma il tempo è passato. Vaso Cubrilovic è morto, onorato in patria, dopo aver servito da consigliere un altro assassino, Slobodan Milosevic. In Italia, anche grazie alle prese di posizione di autorevoli ex dirigenti comunisti come Giorgio Napolitano, Luciano Violante e Piero Fassino, molto è cambiato. Non tutto, non ancora.

 Sarebbe giusto e sano, più di settant’anni dopo, accogliere infine la storia di questi italiani come nostra. Con la decenza di non usarla a scopo di fazione. Ma col rispetto che merita, in un Paese che essi videro come patria, per nascita e per scelta: e dunque, davvero, Patria due volte. 

 

 

 

 

 

 

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INVESTIRE SULL’ITALIANO PER RILANCIARE IL PAESE

16/01/2021 da Sergio Casprini

Nel Recovery non c’è alcun sostegno alla nostra lingua, una delle prime studiate al mondo. Un’ottima leva di sviluppo, fondamentale per la ripresa

Andrea Riccardi Corriere della Sera 15 gennaio 2021

 Nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), colloquialmente chiamato Recovery, dove sta il sostegno alla lingua italiana?

Eppure si tratta di un’ottima leva di sviluppo, estroversione del Paese e occupazione, se solo si tiene conto che l’italiano è una delle prime lingue studiate al mondo, nonostante i solo sessanta milioni di cittadini italiani. L’attrazione della nostra lingua dipende dal fatto che è una chiave per entrare in un universo culturale immenso e molto apprezzato: il patrimonio italiano di arte e cultura. Questo patrimonio è una parte importante della cultura occidentale, verso cui c’è un interesse globale. Apprendere l’italiano è un’avventura che appassiona milioni di persone: questo è un fatto. Si pensi ai cultori di storia antica o dell’arte o dell’opera, agli entusiasti del Rinascimento e così via, senza dimenticare quelli che guardano a Roma come centro del cattolicesimo. D’altra parte il testimonial più eccellente della nostra lingua è l’argentino papa Francesco.

Le cifre parlano chiaro: a oggi vi sono all’estero più di due milioni di persone che studiano italiano. Con i suoi 400 centri nel mondo, la Società Dante Alighieri è uno dei principali strumenti attraverso cui avviene tale insegnamento, assieme alle scuole italiane all’estero, agli enti gestori e agli istituti di cultura. Si tratta di un mondo che può fare ancora meglio, se solo lo si fornisce dei sostegni adeguati. In attesa della ripresa del turismo, insegnare la lingua prepara il futuro e tiene vivo l’interesse per tutto quello che è italiano. «Vendere» la lingua equivale a investire in cultura in senso ampio: chi oggi apprende l’italiano a distanza sarà pronto a visitare l’Italia appena sarà possibile, ma anche a comprare il made in Italy. La lingua apre l’accesso al «mondo italiano». Prodotti italiani e lingua italiana camminano insieme. La lingua dà sapore al prodotto e lo collega a una tradizione.

L’arte, la cultura, il turismo, la storia, la musica, la moda, il design, la cucina crescono con la lingua.

E l’italiano cresce con queste realtà nazionali. L’esempio dei partner europei è eloquente: inglesi, francesi, spagnoli e portoghesi hanno fatto dell’apprendimento delle loro lingue una vera industria culturale. Non si capisce perché tale settore sia stato dimenticato dal PNRR, considerando anche l’apporto in termini di occupazione immediata che offre. È indispensabile che il Recovery riconsideri la lingua finanziando la creazione di un grande sistema d’insegnamento dell’italiano online all’estero, supportando quanto la Dante Alighieri già si appresta a fare con la piattaforma di e-learning ad alta qualità, fruibile a vari livelli, adattata alle regioni del mondo e alla loro base linguistico-culturale. Ne abbiamo urgente bisogno anche perché ciò significherebbe offrire occupazione non soltanto agli insegnanti di lingua ma anche di altre materie culturali, come letteratura o storia dell’arte.

Prima del Covid-19 l’intera filiera della cultura in Italia valeva circa 92 miliardi cioè il 6% del Pil. Con l’indotto si arrivava fino a oltre 250 miliardi, cioè il 16% del Pil. Eppure l’appoggio dato all’insegnamento della lingua era minimo: qualche milione di euro che impallidivano di fronte alle centinaia di milioni annui britannici, francesi o tedeschi addirittura alle decine di milioni dei portoghesi. Con il Recovery si può cambiare marcia. Il crollo del settore culturale, dovuto alla pandemia, è molto pesante per l’economia: una perdita di un milione e mezzo di posti di lavoro. Dobbiamo intervenire al più presto. Uno dei mezzi più rapidi è proprio l’insegnamento della lingua a distanza che può essere messo in campo in poco tempo.

Distanziamento sociale, nuove norme sulla mobilità, divieti di assembramento e impossibilità di viaggiare impediranno ancora per mesi — forse di più — al turismo di ripartire appieno, così come agli studenti stranieri di venire in Italia per accedere alle università e alle scuole di alta formazione culturale (restauro, archeologia ecc.). Rafforzare in tempi brevi l’insegnamento della lingua online è un modo per colmare un vuoto e prepararsi a rafforzare domani tutto il settore della cultura.

Non è possibile né auspicabile distaccare la lingua italiana dalla cultura, considerandola una parte ancillare e secondaria. È un errore corrente che mostra una scarsa comprensione di come l’Italia sia percepita nel mondo. La lingua italiana è legata al Paese, al suo stile e alla sua qualità di vita molto più di quanto si pensi. Non è un caso che i brand nella nostra lingua siano secondi solo a quelli in inglese. Insegnare più italiano significa a termine «vendere» più Italia in tutti i sensi. Il Recovery dovrebbe sostenere la creazione di piattaforme digitali di didattica e offerta culturale a distanza.

Oggi il settore più qualificato e meglio adattato a tale immediata sperimentazione è certamente la lingua.

 

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Martelli, da non dimenticare

13/01/2021 da Sergio Casprini

Zandomeneghi Ritratto di Diego Martelli 1870

 Fu un grande fiorentino europeo, amico dei Macchiaioli e degli Impressionisti.  Il direttore dell’Istituto Matteucci lo racconta e denuncia: la tomba a Trespiano in stato di abbandono

 Giuliano Matteucci* Corriere Fiorentino 13 gennaio 2021

 

Il 20 novembre 1896 Diego Martelli muore nella casa di via del Melarancio a Firenze. L’epigrafe composta dal comitato di amici presieduto da Gustavo Uzielli in memoria della bontà, della franchezza e dell’intelligenza di un uomo spesosi più per gli altri che per sé stesso, recita: «Diego Martelli fiorentino/consacrò alla Patria il braccio/all’Arte la mente/all’Umanità il cuore». Qualità e meriti che oggi, visto lo stato di abbandono in cui versa la tomba al cimitero di Trespiano, sembrerebbero del tutto dimenticati. Sorte immeritata per un «critico vero, il solo critico serio del nostro ‘800 che commemora la morte ‘dell’amico’ Manet, in uno stupendo articolo dove sono notizie preziose non ancora rilevate dalla critica moderna». Il giudizio, tutt’altro che scontato, è formulato da Roberto Longhi, maestro dei maestri della critica del Novecento, nei riguardi di un personaggio al quale il Dictionnaire International dell’Impressionismo (1979) riconosce il ruolo di «introducteur en Italie» della «Nouvelle peinture». L’occasione è offerta a Longhi dalla prefazione all’edizione italiana della Storia dell’Impressionismo di John Rewald (1949), curata da Antonio Boschetto, nella quale la lucida conferenza sul movimento parigino tenuta da Martelli al Circolo Filologico di Livorno nel 1879 segue a ruota i contributi di George Rivière e Théodore Duret.

L’elogio di Longhi

Nel suo «ragguaglio» Longhi sottolinea la lungimiranza dello scrittore nel profetizzare che la pittura di Degas, Pissarro, Berthe Morisot, Monet, sarebbe rimasta «nell’avvenire, insieme a poche altre cose degne di essere salvate, quando il tempo farà una giusta scelta delle nostre produzioni». Instaurando un parallelo tra il gruppo parigino del Café de la Nouvelle Athène e quello del Michelangiolo, come se nei due ritrovi venissero dibattute le stesse idee, conclude con il sulfureo e metaforico «Buonanotte signor Fattori», trascurando, indebitamente, la differenza di radici, teorie e formule frutto di sensibilità e tecniche diverse. Se da un lato Martelli, a seguito dei ripetuti viaggi a Parigi dove si reca per la prima volta ventitreenne nel 1862, s’impone come trait d’union tra la cultura figurativa di Manet e Degas (quest’ultimo gli dedicherà due ritratti) e quella di Borrani, Abbati, Cabianca, Lega, Fattori, Signorini, dall’altro si conferma il mentore dei Macchiaioli, avendone sostenuto più d’ogni altro l’opera e l’evoluzione. Riscontro diretto di questa fede estetica è la raccolta da lui legata al Comune di Firenze, riunita alla Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti, nella quale figurano le due tele di Pissarro inviategli dal pittore francese.

Camille Pissarro, Il taglio della siepe 1878; Firenze, Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti

 Figlio della generazione colta e illuminata che aveva posto le basi per l’unificazione del Paese, era nato in via Teatina 28, nell’ottobre 1839. Sin da quando giovanissimo aveva preso a bazzicare il noto Caffè di via Larga, oggi via Cavour, aggregandosi alla banda degli artisti antiaccademici, si era distinto per lo spirito libero, la generosità e l’onestà, manifestando la necessità di vivere a contatto con il mondo. Pur intimamente orgoglioso della propria fiorentinità, riconosceva a Parigi l’apertura di capitale europea che lo portava a considerarla, anche per le molte amicizie coltivate, una seconda patria: «Chi nasce, putacaso, in via Panicale — sosteneva — riceve il battesimo in San Giovanni e può dire di essere stato all’abbachino dagli Scolopi, ha il diritto di vantarsi, senza tema di smentita, un fiorentino purosangue […]; ma non così avviene a chi, figlio di padre e madre nati e domiciliati a Parigi, nasce e vive nella rue Saint Denis; costui se manca delle qualità volute non sarà mai un parigino, può essere un eccellente francese, può amare Parigi svisceratamente e farsi ammazzare per sbaglio ne’ pressi delle barricate che ogni dieci anni si fanno in quella città, ma non sarà mai un parigino, e vegeterà bourgeois natural vita durante, senza raggiungere questo titolo desiderato».

Affanni e delusioni

Abbati Ritratto di Teresa Fabbrini

In assenza di un’autobiografia, la sua esistenza segnata da affanni e delusioni può essere ripercorsa, oltreché attraverso gli studi di Boschetto, Piero e Francesca Dini e Fulvio Conti, dallo spoglio del fondo della Biblioteca Marucelliana contenente, tra l’altro la fitta corrispondenza con Fattori. Ad emergere è il profondo legame tra due nature che, seppure contrapposte per cultura e temperamento — impulsivo e vulcanico Martelli, meditativo e conciliante Fattori — raggiungono, nella complementarità e sincerità di un rapporto cui solo la morte avrebbe messo fine, un’affinità etica nel non sentirsi condizionati dalle convenzioni. A Martelli veniva rimproverata la scelta di dividere la vita con Teresa Fabbrini, la «Gegia», incontrata, stante i mormorii dell’ambiente artistico, in una casa di piacere, mentre a Fattori, cinquantenne, la cocente passione per Amalia Nollemberg, la cameriera tedesca di casa Gioli -Bartolommei, di trent’anni giovane. Idealista e un po’ sognatore ma con forte senso della Patria, dopo la frequentazione delle lezioni alla facoltà di Medicina a Pisa, si arruola volontario con i Macchiaioli per la campagna del ’59. Un legame, quello con il gruppo toscano, mai interrotto e affiancato dall’attività critica, dalla passione politica — tra il 1889 e il 1890 avrebbe ricoperto a Firenze la carica di Consigliere comunale — e dall’amore per l’arte.

Luogo del cuore

Abbati La casa di Diego Martelli 1862

Nella fattoria di Castiglioncello ereditata dal padre, «luogo del cuore» condiviso con la compagna, dove molti degli amici pittori, a cominciare da Abbati, saranno di casa, vedono la luce le opere più intense della moderna Scuola Toscana. Impegnato su più fronti, tra cui la riconversione agricola della fattoria, l’ideazione e il finanziamento del Gazzettino delle Arti del Disegno, foglio ufficiale del movimento macchiaiolo diretto nel 1867 con Signorini, rivela i propri limiti in ambito imprenditoriale, sacrificando il patrimonio di famiglia. Oberato dai debiti, nel 1884 è costretto a cedere alla Biblioteca Nazionale di Firenze le carte foscoliane pervenutegli in eredità dalla zia materna Candida Quirina Mocenni Maggiotti, «la donna gentile» del Foscolo. Cinque anni dopo è la volta della proprietà di Castiglioncello, gravata da ipoteche. Sconfitte morali, oltreché materiali, all’origine di quella perenne insicurezza di cui risentirà anche Teresa, compianta come una «martire del lavoro e dell’affezione», legata ad «un matto che rovina in un minuto la paziente tela delle tue economie». Con profondo senso di colpa per non essere riuscito a ricambiare quanto da lei ricevuto, dopo la scomparsa avvenuta il 19 ottobre 1895, confesserà all’amica Matilde Gioli Bartolommei: «Sento di avere voluto un gran bene alla mia povera morta; bene che da principio era una simpatia ed una benevolenza che andava a mano a mano aumentando, a misura che le qualità che amavo e che avevo indovinate si andavano sviluppando. In omaggio alla santa memoria della mamma sua, che perdette da bambina, ella non si ribellò mai alla guerra che [le] fece mia madre, e tanto la comprese che le nostre mani le unì e le benedisse».

Parole che da sole bastano a mantenere alta la forza d’animo e l’intelletto di un grande fiorentino, di cui, oggi, sembra essersi persa la memoria, come del resto dimostra, insieme con il desolante cippo di Trespiano, l’assenza del suo nome nella toponomastica cittadina.

 *Direttore Istituto Matteucci Viareggio

La tomba di Diego Martelli a Trespiano con l’epigrafe di Gustavo Uzielli

 

 

 

 

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GRAPPA 1917, LA SALVEZZA. GRAPPA 2020, LO SNOWBOARD

27/12/2020 da Sergio Casprini

Il Sacrario del Monte Grappa

LETTERE  Corriere della Sera 27 dicembre 2020

Caro Aldo, ho visto sui social la foto di due ragazzini che praticano lo snowboard sulle scalinate del sacrario militare del Monte Grappa. Provo indignazione per questo gesto irrispettoso verso un luogo che ha visto morire migliaia di soldati durante il primo conflitto mondiale. Penso ai ragazzi del ‘99 e al loro sacrificio estremo. Coltiviamo a fatica la memoria, guardiamo poco al futuro, in compenso viviamo un eterno presente dove tutto è concesso e giustificato, per un’errata interpretazione della parola libertà. La leva obbligatoria per educare i giovani? Sì, ma sono convinto che non può bastare. Mancano le famiglie e la scuola è in serie difficoltà. Lei come la pensa? Andrea Prati

Caro Andrea, la cosa migliore che possiamo fare è raccontare a questi ragazzi cosa accadde sul Grappa. Comincia a nevicare tra l’11 e il 12 novembre 1917. Gli austriaci attaccano la notte successiva. Ci sono anche i tedeschi. È la battaglia cruciale. Il Grappa è un castello alto 1.650 metri a picco sulla pianura veneta: se cade, non ci sono ostacoli sino a Bologna o a Torino. I nostri cedono il Monte Santo, il Roncone, il Cismon. Gli alpini di Feltre salgono sul Tomatico riforniti di castagne e rosari dalle mogli: difendono le loro case; invano, la cima è presa, il paese invaso. Eppure il comandante nemico von Bulow annota che il soldato italiano pare irriconoscibile: ora applica in modo spontaneo la difesa elastica; indietreggia per contrattaccare. Il comando supremo è spettatore: sul Grappa non arriva una sola direttiva. I sottufficiali si prendono l’autonomia prima negata. Il maggiore Scarampi senza attendere ordini sposta l’artiglieria e bersaglia i nemici arroccati al Colle dell’Orso; quando i superiori gli chiedono conto delle munizioni sparate risponde: «Pago io». Sull’Isonzo l’avrebbero fucilato; qui i suoi soldati lo acclamano. Tiene la IV Armata e tengono anche i reparti della II — le brigate Gaeta, Re, Massa Carrara, Messina, Trapani — «vilmente arresisi» a Caporetto secondo il primo bollettino ufficiale. Pure il mitico Rommel si scorna: sbaglia strada e finisce in una valle cieca (e qui pare di vedere Sordi e Gassman: «Tié!»). A metà dicembre la grande battaglia d’arresto è vinta.

Oggi nell’ossario austriaco riposano fianco a fianco il tedesco Krauser e lo slavo Kratic, l’ungherese Kubatnyz e il polacco Koudelka. Le guide indicano ai bambini la lapide che ricorda un soldato di nome Peter Pan; ma i piccoli sono più colpiti dal telefono con la rotella del rifugio Bassano (lassù il cellulare non prende). Altri tedeschi arrivarono nel 1944: animati dal ricordo della Resistenza dei padri, i partigiani avevano tentato di asserragliarsi quassù; furono fucilati o impiccati agli alberi di Bassano. Ogni tanto il Grappa restituisce un frammento della Grande Guerra: una baionetta, una giberna, un osso. Nel 2017 sono stati ritrovati quattro corpi e un servizio di porcellane: era la mensa degli ufficiali austriaci, presi di sorpresa dagli arditi. Una lapide dice: «Qui riposano tre alpini. Due dovrebbero essere i nostri nonni Angelo Vassalli e Romeo Gianuzzi. Se sono loro, questa scritta li ricorda. Se non sono loro, rende comunque omaggio agli alpini italiani». Aldo Cazzullo

La DOMENICA del CORRIERE  28 gennaio – 4 febbraio 1917

La guerra dei prodigi. Una “corvèe” degli alpini a tremila metri

 

 

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