• Passa alla navigazione primaria
  • Passa al contenuto principale
  • Passa alla barra laterale primaria
  • Passa al piè di pagina
  • Il Comitato Fiorentino per il Risorgimento
  • Redazione
  • Contatti
  • Photogallery
  • Link
  • Privacy Policy

Risorgimento Firenze

Il sito del Comitato Fiorentino per il Risorgimento.

  • Home
  • Focus
  • Tribuna
  • I luoghi
  • Mostre
  • Rassegna stampa
  • Pubblicazioni
  • Editoriale

Rassegna stampa

Lo scontro sul destino di Trieste

09/02/2022 da Sergio Casprini

Raoul Pupo racconta il dramma vissuto dalla città giuliana nel 1945 Le responsabilità del fascismo, il disegno annessionista della Jugoslavia

Antonio Carioti Corriere della Sera 9 febbraio 2022

Il Giorno del Ricordo, istituito per commemorare le vittime delle foibe e il dramma dell’esodo istrianodalmata, è una ricorrenza su cui grava l’ipoteca delle passioni di parte.

Anche la scelta del 10 febbraio si presta a qualche obiezione: non per la vicinanza al Giorno della Memoria riguardante la Shoah, a cui quest’altra celebrazione non ha mai fatto ombra, ma perché la data coincide con la firma del trattato di pace nel 1947. Se è vero che quell’atto segnò la perdita dei territori orientali dai quali gli italiani fuggirono in massa, è altresì innegabile che riportò il nostro Paese nell’ambito della comunità internazionale dopo la vergogna delle aggressioni fasciste.

Non è questo tuttavia il punto decisivo, ma il fatto che su quegli eventi terribilmente complessi abbondano le semplificazioni ideologiche. La destra postmissina, per non parlare di quella apertamente neofascista, coltiva una versione dei fatti avulsa dai precedenti e dal contesto storico, come se gli italiani al confine orientale fossero stati solo vittime e non anche, in precedenza, oppressori e aggressori. Ma c’è anche una sinistra che continua a giustificare l’azione violenta degli jugoslavi, considerata solo una rappresaglia per i torti subiti, e bolla il Giorno del Ricordo quale espressione di un aberrante «revisionismo di Stato» (così il critico d’arte Tomaso Montanari), del quale si sarebbero resi colpevoli perfino i presidenti Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella.

In realtà proprio a Mattarella va dato atto di aver operato con accortezza per valorizzare ciò che ci unisce alle repubbliche ex jugoslave grazie al progetto europeista, al di là delle memorie divise, in particolare con il duplice omaggio reso alle vittime italiane delle foibe e a quelle slave della repressione fascista, insieme al presidente sloveno Borut Pahor, il 13 luglio 2020. Era il centenario di un evento tragico, l’incendio appiccato dai seguaci di Mussolini al Narodni Dom (Casa del popolo slava) nel 1920. E non poteva essere commemorato meglio.

L’insegnamento che ne discende è non rassegnarsi alla logica perversa che fa del Giorno del Ricordo l’occasione per riproporre antiche contrapposizioni o addirittura per imporre, come cerca di fare la destra più aggressiva, una versione canonica e indiscutibile degli eventi in chiave nazionalista e vittimista. Semmai bisogna fare il contrario: continuare la ricerca per indagare la tragedia nelle sue diverse sfaccettature, tenendo conto di tutti i punti di vista. Cogliere l’occasione offerta dal Giorno del Ricordo per diffondere sempre di più la conoscenza dei fatti.

Queste sono le ragioni che hanno indotto il «Corriere della Sera» a mandare in edicola, previo aggiornamento da parte dell’autore, uno dei frutti migliori prodotti dalla storiografia italiana sul problema dei conflitti al nostro confine orientale: Trieste ’45 di Raoul Pupo.

Un’analisi attenta e completa della crisi che la città giuliana si trovò a vivere dopo la sconfitta del nazifascismo, quando le truppe del leader comunista Josip Broz, detto Tito, presero il sopravvento e cercarono di imporre l’annessione alla Jugoslavia. La repressione fu molto dura e non colpì certo solo soggetti legati agli ex occupanti tedeschi. Furono gli stessi esponenti del Comitato di liberazione nazionale (Cln) triestino, dal quale si erano staccati i comunisti, che dovettero tornare in clandestinità. Ed ebbero circa 160 caduti per mano jugoslava.

Pupo rievoca con grande efficacia quei giorni drammatici, durante i quali la capacità d’influenza del governo italiano era ridotta ai minimi termini per via della condizione di Paese aggressore e sconfitto in cui ci aveva relegato la politica scellerata di Mussolini. Per fortuna la preoccupazione anglo-americana per l’espansione del movimento comunista internazionale in Londra e Washington a contrastare il disegno di Belgrado con la necessaria fermezza.

Alla fine Iosif Stalin, che preferiva evitare guai in quella fase delicata, intimò a Tito di rassegnarsi con un eloquente telegramma: «Entro 48 ore dovete ritirare le vostre truppe da Trieste, perché non ho intenzione di iniziare la terza guerra mondiale a causa della questione triestina». All’epoca — siamo nel giugno 1945 — gli jugoslavi erano ancora ligi alle direttive del Cremlino, ma in quella vicenda possiamo individuare i germi della successiva rottura tra Mosca e Belgrado. Il Partito comunista italiano, che sulla crisi giuliana era in estremo imbarazzo per via dell’appoggio sovietico alle rivendicazioni jugoslave, poté tirare un sospiro di sollievo.

Trieste era salva e nel 1954, dopo alterne vicende, sarebbe tornata all’Italia. Ma i giorni dell’occupazione jugoslava erano stati molto duri e la Venezia Giulia sarebbe passata quasi tutta sotto Belgrado, con il conseguente esodo degli istriano-dalmati dalle loro terre e lo spopolamento di interi centri abitati. Il punto fondamentale sottolineato da Pupo, tuttora eluso da coloro che contestano il Giorno del Ricordo, è «il ruolo fondante della violenza di massa nella costruzione e nel consolidamento del regime jugoslavo». Non siamo di fronte a una semplice ritorsione, ma all’attuazione di un progetto politico annessionista e totalitario.

Sorto da una guerra di liberazione asprissima e vittoriosa, il nuovo potere jugoslavo ne aveva introiettato la carica di brutalità e la riversò nell’abbattimento di ogni ostacolo che gli si opponesse. E la grande maggioranza della popolazione italiana in Venezia Giulia, per i suoi legami con un altro Paese (per giunta collocato nella sfera d’influenza occidentale), costituiva uno di questi ostacoli.

Chiarito tutto ciò, il libro di Pupo ci aiuta a comprendere la necessità «di muoversi senza chiusure mentali all’interno dei diversi contesti nei quali si sono di volta in volta inserite le vicende di un territorio fortemente plurale». Il Giorno del Ricordo ha senso se lo si celebra senza scadimenti nazionalisti, nello spirito di riconciliazione su cui è stato costruito il processo d’integrazione europea. Non è facile, perché certe ferite lasciano il segno. Ma ci si può riuscire, come dimostra il lavoro di Pupo.

 

26 ottobre 1954 l’Italia ritorna a Trieste.

 

Archiviato in:Rassegna stampa

TUTTI CONTRO IL RISORGIMENTO INVECE DI ESSERNE ORGOGLIOSI

05/02/2022 da Sergio Casprini

Gerolamo Induno L’imbarco a Genova del generale Garibaldi 1860

LETTERE al Corriere della Sera 4 febbraio 2022

Caro Aldo, a proposito di Risorgimento/anti Risorgimento, io, da settentrionale, pur non ritenendo che il periodo borbonico sia stato l’età dell’oro, credo che qualche ragione valida i neoborbonici l’abbiano, ma non è questo il punto. Faccio notare che in passato, soprattutto negli anni 80, il tema anti Risorgimentale è stato cavalcato strumentalmente dalla sinistra. Emilio Mariani, Milano

Caro Emilio, Il Risorgimento è una pagina meravigliosa della nostra storia. Giovani di ogni parte d’Italia e di ogni ceto sociale — gli studenti toscani disfatti a Curtatone e Montanara, i patrioti calabresi giustiziati a Gerace, i martiri di Belfiore… — offrivano la vita per liberarsi dai tiranni e riscattare l’indipendenza della patria. Oggi il loro nome e la loro vicenda sono del tutto dimenticati: una vergogna che dovrebbe indignare profondamente chi ama l’Italia. Questo non ci esime dal dovere di capire come sia potuto accadere.

Il Risorgimento è figlio di una cultura politica che oggi non esiste più, se non all’interno di infime minoranze: quella liberale. Il fascismo tentò di appropriarsene: la conclusione è nota. Le famiglie politiche che hanno dominato il secondo dopoguerra, quella cattolica e quella comunista, avevano il Risorgimento in gran dispitto. Poi la Lega ha tentato almeno a parole di spezzare l’unità italiana, contribuendo a far nascere una sorta di leghismo del Sud, che prima o poi genererà un partito ma ha già generato un filone culturale molto attivo in libreria e in Rete. È vero che dopo il Risorgimento ci fu nel Mezzogiorno una guerra civile, con le atrocità che sempre contraddistinguono le guerre civili: ma non fu un conflitto tra il Sud e il Nord, bensì tra difensori (il meglio della borghesia meridionale) e avversari dell’unificazione, compresi briganti in senso tecnico e nostalgici del potere temporale del clero. Come in ogni guerra civile, insomma, c’era una parte giusta e una parte sbagliata. Ma non credo che ai neoborbonici interessi molto questa distinzione. La loro logica è opposta e quindi speculare a quella della vecchia Lega padana: la colpa dei nostri mali non è nostra, bensì di altri italiani; sia dunque maledetto il Risorgimento. Diceva Charles de Gaulle dell’Italia: «Non è un Paese povero, è un povero Paese».  Aldo Cazzullo

 Oreste Calzolari Garibaldi e Vittorio Emanuele II a Teano 1906 Fiesole

 

Archiviato in:Rassegna stampa

Niente cancel culture, sarà l’incuria ad abbattere le statue del Gianicolo

30/12/2021 da Sergio Casprini

 

Adriano Sofri

Il Foglio Quotidiano 29 dicembre 2021

 

Caro sindaco Roberto Gualtieri, desidero unire la mia voce alle molte altre che chiedono di metter fine all’incresciosa situazione del Gianicolo e dei suoi più famosi monumenti, le statue equestri di Giuseppe e Anita Garibaldi. Il Garibaldi a cavallo, 25 metri su una base di 15, scolpito da Emilio Gallori e inaugurato il 20 settembre 1895. Il 7 settembre del 2018 fu colpito da un fulmine, evento di timore e tremore, e da allora è folgorato, le lastre scolpite del suo basamento riverse al suolo, le transenne attorno miste a spazzatura e ferraglia che mortificano gli sguardi dei pellegrini e costringono gli automobilisti a una gimkana incazzata. C’è scritto “Lavori in corso”, ma non è vero. Appena più in là, hanno ceduto la cavalcatura di Anita e l’intero suolo, sicché da anni il cavallo temerariamente impennato poggia su un trespolo di tubi Innocenti, e anche qui le auto… E si tratta, com’è noto, di una via di intensa comunicazione.

Oltre che dell’itinerario per l’ospedale pediatrico del Bambin Gesù; a non ricordare Sant’Onofrio e quercia e tomba di Torquato Tasso, sulla quale Giacomo Leopardi venne e “ci piansi: il primo e l’unico piacere che ho provato a Roma”. Le mie compagne e compagni di liceo – il Virgilio, dalle cui finestre si guardava in faccia Garibaldi e viceversa – continuano, con la guida di Tonino Cutuli e Massimo Capoccetti, a visitare e presidiare il Gianicolo e le sue tappe: l’hanno appena rifatto, mascherine e distanze. E pochi luoghi hanno una custodia civica della loro memoria come il Gianicolo e Monteverde: l’associazione Amilcare Cipriani e il Comitato Gianicolo, oggi unificati ( comitatogianicolo. it), conducono una fervida attività di studio, informazione e commemorazione, in cui sono coinvolte, coi cittadini di Monteverde, innumerevoli scolaresche.

All’Associazione amici di Righetto si deve, nel 2005, il monumento a Righetto, il dodicenne orfano trasteverino che in quel 1849 come tanti coetanei e tante popolane spegneva a mano le micce delle bombe dei francesi, e ci esplose sopra con la cagnetta Sgrullarella.

Non penso certo che lei non sia informato di tutto ciò e molto altro: lei vive addirittura a Monteverde Vecchio, cammina a Villa Pamphilj, ed è a suo modo uno storico, e il suo assessore alla cultura lo è a sua volta, e c’è un assessore alla Memoria. E immagino che lei condivida la convinzione che fra le accezioni migliori dello scivoloso nome di patriottismo ( la migliore, direi) stanno la Repubblica romana del 1849 e i suoi luoghi, la Porta e il convento di San Pancrazio, Villa Corsini, Villa Doria Pamphilj, Villa Aurelia, il Vascello, Villa Spada, Villa Sciarra, e il Mausoleo Ossario ( chiuso)… Nel 2004, per l’inaugurazione dell’itinerario garibaldino, Carlo Azeglio Ciampi lo spiegava così: “Il legame che stringe l’Italia e il suo Risorgimento all’Europa, il carattere universale dei diritti dei popoli, sono ricordati dal monumento all’eroe dei due mondi che sovrasta il Gianicolo, lì dove si svolse l’estrema difesa della Repubblica. Sulle pendici del colle sono accolte ora anche le spoglie di Goffredo Mameli e le ‘ Urne dei forti’ accorsi a difendere Roma italiana”. Gli scolari in visita al parco del Gianicolo scoprono con una certa stupefazione che il Mameli dell’inno era uno morto là, combattendo, a 21 anni.

Quel gran Garibaldi – “Alto, a cavallo, mentre il sol dilegua / dietro i templi dell’urbe, alla Coorte / Garibaldi parlò: Nessuna tregua! / Lascio Roma, che cede oggi al più forte / … / V’offro fame, battaglie, agguati, morte…” ( Giovanni Marradi, Rapsodie garibaldine) – è ridotto dunque al rango di un barbone equestre. Anita è messa peggio. Sento che anche il Belvedere, e il muro sul quale è inciso il testo dei 69 articoli della Costituzione della Repubblica romana, non sono in forma. Lei, gentile sindaco, avrà letto che Carlo Verdone si era sentito offrire la candidatura a sindaco, corredata da valutazioni che lo davano oltre il 70 per cento di gradimento – del tutto verosimili – e si era guardato dall’accettare, affezionato a quello che sa fare meglio, cinema e ora anche scrittura. Dunque bisognerebbe dedicargli una speciale attenzione, quando racconta: “Dovevo girare una scena della serie ‘ Vita da Carlo’ al Gianicolo. Chiesi alla Raggi l’autorizzazione e mi rispose che c’erano tre sovrintendenze da consultare. Possibile? Il fulmine che ha colpito la statua di Garibaldi l’ha colpita sei anni fa. Perché dobbiamo sempre fare questa brutta figura coi turisti?”. Ho orecchiato la voce secondo cui l’inerzia sulla rovina delle due statue ( e non parlo del resto della statuaria gianicolense, compresi i busti, né della statuaria naturale composta degli alberi e del resto della vegetazione) si debba a dissensi fra le soprintendenze: ridicola eventualità, che andrebbe ignorata se non irrisa, e direi che il ferrarese e risorgimentista ministro della Cultura darebbe man forte.

Non voglio pensare che l’incuria con cui si infierisce sulle statue gianicolensi sia un modo di fatto per emulare la cultura della cancellazione. Non mancherebbero gli appigli. Il monumento- tomba di Anita a cavallo fu inaugurato nel 1932 dalla famiglia reale e da Mussolini. Erano appena stati traslati i resti di lei, morta ventottenne, da Nizza a Staglieno e infine al Gianicolo, dopo lunghi negoziati. Si dice che Mussolini avesse personalmente ordinato il complemento materno alla figura della guerriera, che con la destra levata impugna un pistolone e con la sinistra tiene briglia e neonato Menotti: ma la postura era già in un bozzetto del 1907 di Carlo Fontana. In realtà lo scultore, Mario Rutelli, era alle prese con il progetto della statua fin dal 1906. Imputabile di aggiustamento maschilista è anche che Anita cavalchi all’amazzone, mentre era stata davvero una forte cavallerizza nel suo Brasile e pare che da lei Garibaldi avesse imparato a stare in sella. Obiezioni infatti sono già venute da persone di teatro e d’arte ( così in una performance della peruviana Daniela Ortiz nello scorso settembre): ma critica storica e artistica ai monumenti e inerzia che li manda in malora dovrebbero restar separate. Così pensa Francesco Rutelli, che è di famiglia: “Il mio bisnonno ha fatto il monumento ad Anita Garibaldi, al Gianicolo, e Mussolini impose che Anita – che raffigura mia nonna Graziella, perché non c’è un’iconografia di lei – fosse rappresentata cavallerizza e combattente, ma anche madre e che allattasse il figlio”.

Nel 2011, per il 150° dell’unità d’Italia, c’era stato un restauro del Garibaldi e delle altre sculture del Gianicolo: Anita, il Faro (“degli italiani d’argentina”, 1911), Mamiani, Ciceruacchio spostato dal lungotevere, e gli 83 busti marmorei ( uno solo femminile: Colomba Antonietti, 1826- 1849, che del resto per combattere aveva tagliato i capelli e si era vestita da bersagliere, la uccise una cannonata) che qualche fervido imbecille aveva decapitato un anno prima, e le stele e le lapidi. ( L’anno scorso il comune di Ravenna stanziò 71 mila euro per ripulire e sistemare le sue statue di Garibaldi e Anita, tirandosi addosso la sua parte di polemiche). Leggo che nell’ottobre 2020 è stato approvato definitivamente dalla Soprintendenza di stato il progetto di restauro del monumento a Garibaldi: “L’importo da stanziare nel bilancio di previsione 2021 è di 460.804 euro. L’intervento prevede il consolidamento e ripristino della parte superiore del basamento con ricomposizione delle parti cadute, il restauro delle superfici bronzee e lapidee, e un sistema di protezione dalle scariche atmosferiche costituito da una gabbia di Faraday lungo il basamento”. L’ottobre 2020 era un anno e due mesi fa.

Ecco, gentile sindaco. Prenda a cuore l’affare, pro domo sua, del resto. Ne guadagnerà Roma, e anche lei. E se no, lei ci rimetterà di più.

 

Archiviato in:Rassegna stampa

Cancel culture in Italia

17/12/2021 da Sergio Casprini

La Vitt0ria alata scrive le gesta di Traiano. Colonna Traiana, Roma

 

Cancel culture tendenza Italia: una pura e semplice ignoranza del passato

Giovanni Belardelli  Il Foglio Quotidiano 16  dicembre 2021

In un testo famoso di ottant’anni fa, Apologia della storia, Marc Bloch scriveva: “I greci e i latini, nostri primi maestri, erano popoli scrittori di storia. Il cristianesimo è una religione di storici. […] è nella durata, dunque nella storia, che si svolge il gran dramma del Peccato e della Redenzione”. Ma oggi per la storia non sono più i tempi dell’apologia, semmai quelli della cancellazione: la cultura classica sarebbe solo il prodotto del suprematismo e razzismo bianco, si afferma in certe prestigiose università americane, mentre il Natale – annuncio della redenzione per i cristiani ma in fondo anche per l’ebreo laico Bloch – rischia di diventare una parola da non pronunciare, almeno dalle parti di Bruxelles ( peraltro negli Stati Uniti sono anni ormai che non ci si fanno più gli auguri di Natale ma i “season greetings”). In Italia, comunque, prevale un’altra forma di cancellazione della storia: la pura e semplice ignoranza del passato. Lasciamo da parte il solito campionario di svarioni degli studenti e guardiamo a certe affermazioni provenienti dal ceto politico.

Ad esempio alla dichiarazione di Giuseppe Conte, allora presidente del Consiglio, che due anni fa ricordava incredibilmente l’ 8 settembre 1943 come l’inizio di “un periodo di crescita chiamato miracolo economico”; un’affermazione che a qualunque studente varrebbe la bocciatura all’esame di storia contemporanea. Si pensi anche al ministro Luigi Di Maio che, pochi mesi dopo, si professava ammiratore della “tradizione millenaria” della democrazia francese ( e non in una dichiarazione a braccio, bensì in una lettera inviata a Le Monde, che qualcuno avrà pure scritto e magari riletto). E ancora, potremmo ricordare il sottosegretario leghista (all’istruzione!) Rossano Sasso che, per celebrare i 700 anni dalla morte di Dante, ha utilizzato una frase pronunciata non dal Dante vero ma da quello disegnato in un vecchio album di Topolino. Un altro leghista, Claudio Durigon, è stato mesi fa al centro di polemiche per la proposta di intitolare ad Arnaldo Mussolini un parco di Latina: proposta assurda, certo, che però andava probabilmente attribuita anche al fatto di ignorare che il fratello del duce aveva avuto un ruolo rilevante come collaboratore, spesso nell’ombra, di Benito. Può essere che nel caso di grillini e leghisti una scarsa conoscenza del passato vada data un po’ per scontata. Di diversa natura è invece l’ignoranza della storia che possiamo trovare a sinistra.

Il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, nell’intervista posta a chiusa di un suo libro, ha sostenuto che senza l’unione Sovietica “non sarebbero state possibili le lotte dei partiti democratici e di sinistra”. Un’affermazione senza reale fondamento, che però indica come, nel caso dei politici appartenenti alle varie sigle in qualche modo collegate alla storia del Pci, non si tratti di una pura e semplice ignoranza della storia. La frase di Zingaretti appena citata rimanda infatti l’eco di una peculiare lettura del passato che è stata ben presente tra militanti e dirigenti comunisti per alcuni decenni dopo il 1945. Una lettura che non ignorava affatto la storia ma ne dava – ad uso, come allora si diceva, delle masse – una versione fortemente ideologica e tagliata sulle necessità politiche del partito. Questo grazie alla consapevolezza dei suoi vertici, anzitutto di Togliatti, di quanto una certa visione del passato – che si trattasse del fascismo, del Risorgimento o della Rivoluzione d’ottobre – fosse rilevante per le battaglie del presente. A sinistra, di quella consapevolezza è rimasto ben poco, se non appunto residui, frammenti scollegati di vecchie letture ideologiche della storia delle quali non si ha nemmeno più la percezione. Solo questo, credo, può spiegare l’incredibile incipit di un articolo scritto pochi mesi fa da Marco Minniti: l’ex ministro dell’inter no, benché sia probabilmente uno dei più filooccidentali tra gli esponenti del Pd, non aveva trovato di meglio in quella sede ( la Repubblica, 1° settembre) che citare Lenin, quasi avesse dimenticato che si stava richiamando al fondatore del comunismo internazionale nonché a uno dei più formidabili nemici della democrazia.

Ma di certi svarioni dei politici in tema di storia – che abbiano una origine ideologica o siano frutto semplicemente di poca dimestichezza con la materia – in genere poco ci si cura.

Il fatto è che quella scarsa conoscenza del passato è ormai ampiamente diffusa nella società, a tutti i livelli e per molte ragioni. Da decenni opera in questa direzione la scuola che, nonostante l’impegno di molti insegnanti, ha visto la storia, quale che fosse il ministro in carica, sempre più marginalizzata in primo luogo attraverso la riduzione del tempo dedicato al suo insegnamento.

Al riguardo, certo non ha giovato che a fare il ministro si siano chiamate in genere persone provenienti dalla “cultura del fare” o appartenenti a discipline tecnico- scientifiche. Inoltre, ha agito e agisce nella stessa direzione di un’emarginazione della storia, e con la forza di uno schiacciasassi culturale, la Rete, che in apparenza ci mette a disposizione tutte le conoscenze del passato (e non solo), ma nella sostanza ci immerge in un eterno presente, nel quale svanisce la percezione stessa della storia, sostituita da una nebulosa in cui vagano alla rinfusa eventi d’ogni genere e d’ogni epoca. Come sanno quanti insegnano nelle scuole o all’università, è diventato spesso impossibile far capire ai nativi digitali che non è irrilevante collocare un evento, un autore, una scoperta in un secolo o in un altro. Non possiamo dunque stupirci, purtroppo, se dei politici costantemente impegnati a monitorare sui social tendenze e umori dei loro concittadini, così da poter essere semplice “specchio” del paese, ignorino o mal conoscano la storia, confondendo anch’essi i fatti e gli anni, i secoli e i millenni.

Jan Steen Insegnante di scuola 1668

 

 

 

 

 

Archiviato in:Rassegna stampa

Milite ignoto: un simbolo che resta vivo

10/12/2021 da Sergio Casprini

Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera 10 dicembre 2021

 

Come addomesticare la morte, soprattutto quale senso dare ai massacri di massa? Durante ogni guerra i sopravvissuti si sono ritrovati a dovere fare i conti con queste domande fondamentali. In epoca moderna, però, proprio l’enorme numero di uccisi dalle armi sempre più letali, frutto delle nuove tecnologie belliche figlie della rivoluzione industriale, costrinse i responsabili degli Stati coinvolti a fornire risposte il più possibile esaustive e valide per il massimo numero di persone in lutto.

Il Milite ignoto. Storia e mito

Fu così che, poco dopo la fine della Prima guerra mondiale, venne concepito il mito del Milite ignoto. Un grande monumento contenente la salma raccolta sui campi di battaglia di un soldato di cui era stato impossibile accertare l’identità. A Roma il 4 novembre 1921 si tenne «la più grande celebrazione patriottica dell’Italia unita, un “mare di popolo”, in religioso silenzio, si radunò in Piazza Venezia per seppellire le spoglie non identificabili di uno dei 650.000 soldati italiani morti», scrive Laura Wittman, docente all’Università di Stanford, che, prendendo spunto dall’epopea del Milite ignoto, propone in effetti un ricco contributo allo studio della fenomenologia della morte non solo un secolo fa, ma ai nostri tempi (Il Milite ignoto. Storia e mito, Hoepli, pp.280, € 20).

Il 17 novembre 2003 oltre 300 mila persone tornarono a radunarsi a Piazza Venezia per rendere omaggio ai diciannove italiani caduti a Nassiriya. Una «prova del fascino sempre attuale della Tomba del Milite ignoto»», che, nota l’autrice, riproponeva sia il tema della «risposta catartica» per il trauma dei soldati uccisi che quello mai sopito della strumentalizzazione politica del lutto. Individui, allo stesso tempo cittadini e componenti delle masse, si ritrovarono a riflettere su di un simbolo che rappresentava contemporaneamente il corpo umano e quello della nazione.

Targa in memoria dei caduti italiani a Nassiriya al Senato

 

Archiviato in:Rassegna stampa

CUORE, PINOCCHIO E ARTUSI DECLINO DELL’UNITÀ LETTERARIA

29/10/2021 da Sergio Casprini

La tomba di Pellegrino Artusi alle Porte Sante Firenze

LETTERE al Corriere della Sera 29 ottobre 2021

Caro Aldo, ho una domanda da farle: perché, secondo lei, i tre libri dell’identità italiana sono «Cuore», «Pinocchio» e l’Artusi?   GIANNI GIOLO

Caro Gianni, ottima idea inserire Pellegrino Artusi tra i padri della patria letteraria, e non solo. «La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene» è un libro fondamentale: fece ai fornelli quello che Cavour aveva fatto in politica, riunificò la gastronomia italiana. Come ha fatto notare Carlo Cracco, mentre i francesi hanno una cucina nazionale, noi abbiamo tante cucine regionali. Occorreva un testo sacro che riunisse le principali ricette; anche se l’origine romagnola di Artusi lo connota inevitabilmente. Dopo aver avuto in casa la banda del brigante Passatore, Pellegrino aveva lasciato la sua piccola patria ed era andato a vivere a Firenze, dove morì e dov’è sepolto nel cimitero di San Miniato, in cui riposa anche Carlo Lorenzini detto Collodi, il papà di Pinocchio. Anche oggi i libri di ricette vanno molto. Ma ancora più successo hanno i libri di diete. Li sfoglio sempre, e li trovo tutti uguali. Certo, alcuni esperti consigliano i piccoli pasti frequenti, altri il digiuno intermittente. Ma tutti sostengono — giustamente per carità — che bisogna mangiare molta frutta e verdura, meglio se biologica, pasta solo integrale, carni bianche piuttosto che rosse, pesce azzurro piuttosto che crostacei. Le carote crude fanno meglio della sugna fritta, i broccoli sono da preferire alla coratella, i semi di chia alle animelle, le centrifughe di ananas al whisky torbato.

Quanto a Pinocchio — uno dei pochi libri italiani tradotto davvero in tutto il mondo —, ormai lo leggono in pochi. Cuore di De Amicis non lo legge più nessuno. Il Risorgimento non è di moda, i buoni sentimenti neppure. Ed è un peccato.  ALDO CAZZULLO

Archiviato in:Rassegna stampa

SEDUZIONE PATRIOTTICA

11/10/2021 da Sergio Casprini

 

LA CONTESSA DI CASTIGLIONE CONTRIBUÌ CON IL SUO FASCINO ALL’UNITÀ D’ITALIA

Paolo Mieli  Corriere della Sera 11 ottobre 2021

Virginia Oldoini, contessa di Castiglione, nata a Firenze nel 1837, morì a Parigi allo scader dell’Ottocento, il 29 novembre del 1899, colpita da apoplessia cerebrale. Aveva 62 anni. Da tempo viveva appartata e progettava una mostra di proprie fotografie che doveva inaugurarsi, pochi mesi dopo, in occasione dell’Esposizione universale, con il titolo La più bella donna del secolo. Una sorta di riscatto dal suo decadimento fisico e sociale. Di cui lei, però, «sembrava compiacersi», scrive Benedetta Craveri in La contessa, in uscita il 14 ottobre da Adelphi. Negli ultimi anni, prosegue Craveri, Virginia aveva preso l’abitudine di passare molte ore in una saletta riservata del ristorante al pianterreno della sua abitazione in rue Cambon, chiacchierando con i camerieri e «bevendo troppo champagne». Alla notizia della sua morte, un giovane diplomatico italiano di grande avvenire, Carlo Scorza, si era precipitato nell’appartamento della nobildonna per appropriarsi di ogni carta che avesse trovato e distruggerla all’istante. A corte s’era diffuso il timore che avesse lasciato traccia del ruolo da lei giocato in una delicatissima fase del nostro Risorgimento, alla fine degli anni Cinquanta.

Napoleone III di Francia ritratto da Franz Xaver Winterhalter nel 1855

Qualche tempo prima, nella Francia passata nel 1870 dal Secondo Impero alla Terza Repubblica, i giornali avevano dato notizia di un furto alla legazione italiana nel corso del quale pareva fossero scomparsi documenti lasciati in deposito dalla contessa di Castiglione, tra cui «incartamenti riservati» dell’imperatore Napoleone III. Niente di vero. Però i giornali insistevano con le insinuazioni. E Vittorio Emanuele II si era assai preoccupato. In tempi successivi, il quotidiano «Le Gaulois» — nell’informare i propri lettori che la contessa si era trasferita da Place Vendôme alla più modesta rue Cambon — aveva pubblicato un articolo in cui si parlava quasi esplicitamente della «Castiglione» (dal cognome del marito, Francesco Verasis conte di Castiglione) come di «una delle tante dame del Decameron imperiale». Il giornale faceva riferimento, non senza qualche punta di volgarità, alla relazione avuta da Virginia con Napoleone III e ironizzava pesantemente sul fatto che ora avesse perso ogni bellezza, colpita dall’«onta» della vecchiaia. La contessa aveva risposto con parole che dicevano molto del suo stato d’animo (e anche del suo orgoglio): «Com’è possibile», domandava all’editore del «Gaulois», «che, in questa terra famosa per la cortesia e il buon gusto, un uomo come il signor Arthur Meyer lasci pubblicare un pezzo in cui, con il pretesto del mio trasferimento di abitazione, si sbeffeggino crudelmente la mia vecchiaia e la mia bruttezza?». E ancora: «Se sono vecchia e brutta non è colpa mia e fino ad oggi ho creduto che se non la bruttezza almeno la vecchiaia meritasse il rispetto delle persone perbene».

Perché queste ricorrenti attenzioni a Virginia Oldoini? I giornali in realtà si erano sempre occupati di lei. Il primo a notarla — nel 1852, quando aveva appena quindici anni — era stato il bisettimanale «L’Arte» che in una cronaca mondana la presentò come «una delle più portentose bellezze fiorentine del giorno… dotata di una venustà poco terrestre». Effettivamente Virginia era dotata di un’avvenenza davvero fuori del comune, dote che impensierì i suoi genitori sin dai tempi della sua adolescenza. Né il buon matrimonio, a 17 anni non ancora compiuti, né la nascita, poco dopo, di un figlio, avevano cambiato la situazione: restava una giovane decisa, forse anche per rifarsi di una certa anaffettività dei genitori, a far valere il suo fascino. Con spregiudicatezza. Iniziò giovanissima ad accumulare flirt. Senza preoccuparsi più che tanto dei pettegolezzi provocati da questa sua intensa attività sentimentale. Di regola, scrive Benedetta Craveri, «si concedeva agli uomini solo se potevano esserle utili ed era pronta a punirli per averla costretta a concedersi».

Nel gennaio 1854 — come si diceva — sposò Francesco Verasis, venticinquenne, vedovo. Un anno dopo nacque suo figlio, Giorgio. Tre mesi dopo ebbe un primo amante, Ambrogio Doria, il migliore amico del marito. Con lui, scrive Craveri, «inaugurò un rudimentale codice cifrato con cui avrebbe annotato nel diario i diversi gradi di intimità concessi ai suoi spasimanti, dove “b” stava probabilmente per baci, “bx” per abbracci e carezze intime, “f” per atto sessuale completo».

Cavour e l’ambasciatore a Parigi Costantino Nigra

Trascorse pochissimo tempo e gli alti vertici del costituendo Stato italiano (che ben la conoscevano) decisero di usarla come esca per una importante manovra diplomatica. Quando, diciannovenne, si presentò a Parigi con la missione — affidatole da Cavour del quale per matrimonio era diventata parente — di entrare nelle grazie di Napoleone III, i quotidiani francesi la elessero immediatamente a personaggio di primissimo piano. Fin dal giorno del suo debutto nell’alta società, il 9 gennaio 1856. In quel momento — ai tempi della guerra di Crimea — per il Regno sabaudo era fondamentale stringere un’alleanza indissolubile con la Francia in funzione antiaustriaca. Con l’incoraggiamento di Vittorio Emanuele II (con il quale la contessa già nel 1855 aveva avuto un incontro amoroso fugace, ma destinato a ripetersi nel tempo) nonché, si disse, una sorta di tacito consenso del marito, Virginia Oldoini — intelligente, spregiudicata, con una qualche vocazione al mestiere di attrice — fu individuata come la persona adatta a saldare quell’asse. E lei si prestò. Con entusiasmo. Cavour parlò esplicitamente del suo piano in una lettera al ministro degli Esteri Luigi Cibrario: «Vi avverto che ho arruolato nelle file della diplomazia la bellissima contessa di Castiglione, invitandola a conqueter ed a sedurre, ove d’uopo, l’Imperatore». Aggiungeva poi, l’allora presidente del Consiglio, che la dama si era già messa all’opera. Il compito di sovraintendere a che tutto filasse per il verso giusto era affidato a un giovane diplomatico, Costantino Nigra. E tutto andò come era stato pianificato. Napoleone III «conquistò» il cuore della bella contessa e questo rese più agevoli i rapporti della Francia con il Regno sabaudo.

Unico difetto dell’operazione fu quello di essere eccessivamente esplicita. Nei ricevimenti non si parlava d’altro. Fin troppo. In una lettera nella quale si faceva il resoconto di una di queste serate l’ambasciatore inglese Lord Cowley osservava: «La condotta di sua maestà con la Castiglione ha scandalizzato tutti». E, proseguiva il diplomatico, ciò «metteva in grave imbarazzo» la moglie dell’imperatore, Eugenia de Montijo, figlia di un grande aristocratico spagnolo. Nei carteggi esaminati da Benedetta Craveri spuntano critiche all’italiana: «manca di fascino» (principessa di Metternich), «vanitosa, egoista, fredda, dura» (François Guizot). L’imperatrice Eugenia — abile tessitrice di rapporti — per contrattaccare incoraggiò un’altra dama italiana, Maria Anna Zanobi di Ricci (moglie del conte polacco Alessandro Colonna-Walewski), a farsi avanti per entrare nelle grazie di Napoleone III. Con successo: questa relazione allontanò l’imperatore dalla Castiglione. Allontanamento che fu propiziato anche da considerazioni d’ordine politico. Soprattutto dopo l’attentato di Felice Orsini (14 gennaio 1858) che causò la morte di 12 persone e il ferimento di altre 156. In realtà né la Castiglione, né Cavour e neanche Giuseppe Mazzini avevano avuto responsabilità nella strage provocata da Orsini. Ma gli effetti di quell’episodio di sangue e l’imminenza della guerra del 1859 suggerirono all’imperatore di diradare gli incontri con la contessa di Castiglione.

Lei non si diede per vinta. Andò a Londra, tornò in Italia e poi di nuovo a Parigi sempre intenzionata a riprendersi un ruolo da protagonista. Ma non ci fu niente da fare: a missione compiuta, venne «abbandonata al suo destino, separata da un marito da lei umiliato e ridotto sul lastrico e assediata da schiere di amanti». Dallo straordinario ritratto che ne fa Benedetta Craveri (dopo aver consultato una mole impressionante di documenti) emerge un personaggio davvero considerevole. Assai diversa dall’immagine di bella e ingenua ragazza consegnata da una cinica diplomazia tra le braccia dell’imperatore dei francesi. Virginia fu in realtà anche un’attivista politica consapevole e dotata di un certo acume. All’inizio degli anni Sessanta, la contessa tornò a Parigi dove ristabilì un rapporto di complicità con Nigra. Ma a ruoli ribaltati. Adesso, scrive Craveri, «era Nigra a godere della benevolenza di Napoleone III e del favore dell’imperatrice». Stavolta l’alleanza tra i due si estese alla sfera intima, ma entrambi «praticavano l’amore come un gioco e non ne facevano mistero». Era raro, osserva Craveri, che Virginia incontrasse «giocatori all’altezza» ma quel diplomatico «aveva le carte in regola per tenerle testa». Provocando però in lei una sottile gelosia per il ruolo che Nigra aveva saputo guadagnarsi a corte. Secondo il principe Bernhard von Bülow, «con i suoi modi squisiti e le garbate poesie» il diplomatico «aveva saputo conquistare il cuore di Eugenia».

Alla morte del marito, Virginia, trentenne, si comportò in modo inaudito con il giovanissimo figlio, impedendogli in ogni modo di emanciparsi. Costantino Nigra si disse scandalizzato da questa condotta della sua complice, amante e amica. Il ragazzo, Giorgio, provò a ribellarsi, ad impadronirsi di documenti compromettenti per ricattare la madre così da ottenere ciò che gli era dovuto. Ma fu tutto inutile. Solo quando raggiunse la maggiore età, il ragazzo riuscì a ottenere i mezzi per studiare, sposarsi (con una cugina), intraprendere la carriera diplomatica. Ma la felicità — ammesso che la si possa definire così — durò poco: il 14 novembre 1879, all’età di ventiquattro anni Giorgio morì. A Madrid, ucciso dal vaiolo.

Virginia adesso puntò a rendere stabile il legame, riallacciato, con Vittorio Emanuele II, anch’egli vedovo. Il sovrano la incontrò qualche volta nonostante avesse da tempo un rapporto para matrimoniale con Rosa Vercellana (che gli aveva dato due figli). La contessa riteneva di poter scalzare facilmente quella «contadina zotica invecchiata anzitempo». Errore. Il re — che, secondo le Note azzurre di Carlo Dossi, amava le avventure e aveva a budget «circa un milione e mezzo l’anno nella rubrica donne» — nell’estate del 1867 ritenne sufficiente aiutarla in alcune speculazioni e farle recapitare una propria foto con dedica alla «carissima Nicchia». Due anni dopo, pensando di essere in punto di morte, Vittorio Emanuele II si unì in matrimonio morganatico con la Vercellana. Ma nel 1870, al momento della presa di Roma, si servì ancora una volta della Castiglione (per via dell’amicizia tra la contessa e il cardinale Giacomo Antonelli, segretario di Stato del Pontefice) così da attivare un canale di mediazione con Pio IX.

Qualche tempo dopo, a seguito della sconfitta dell’esercito di Napoleone III a Sedan, appena nacque la Terza Repubblica, la contessa si rivolse per iscritto al nuovo capo del governo Adolphe Thiers — da lei conosciuto ai tempi del Secondo Impero — per sottoporre alla sua «benevolenza personale» due suoi amanti: il conte Lao Bentivoglio (un ex di quindici anni prima) e il barone Arthur-Léon Imbert de Saint-Amand. Affiora in lei, nel corso di questi anni successivi al 1870, una qualche punta di mitomania: «Sono stata la mente e l’anima della Storia Italiana, Prussiana e Francese, lasciando a Thiers la gloria apparante, e senza mai raccontarlo a nessuno», scriveva di sé all’istruttore del figlio. Dopodiché, sempre a Parigi, prese a brigare con gli Orléans — in particolare Robert duca di Chartres — perché approfittassero del clima di incertezza e restaurassero con un colpo di mano la monarchia. A rinforzare questo ruolo di partigiana della restaurazione monarchica in Francia, fu il rapporto che la legò al giornalista Paul Granier de Cassagnac, il quale conduceva dalle colonne del quotidiano «Le Pays» una violenta campagna antirepubblicana. Per poi aggiungere al suo carnet di amanti un altro giornalista, Xavier Eyma, che però era anche esperto di finanza e poteva aiutarla a fare guadagni in borsa.

Ma con la loro scomparsa Cavour, Napoleone III e Vittorio Emanuele II avevano portato con sé il palcoscenico sul quale aveva potuto recitare da attrice. Grande attrice. Di più: da protagonista.

Luis Pierson Countess Castiglione   1860 MOMA

Archiviato in:Rassegna stampa

Quando l’Italia annunciò al mondo di essere nata

13/08/2021 da Sergio Casprini

Gian Antonio Stella Corriere della Sera 11 agosto 2021

Da che parte stesse Giuseppe Garibaldi era piuttosto noto: «Ho cominciato la mia “carriera” di corsaro in Brasile liberando alcuni schiavi neri. Nella Guerra civile americana ero quindi schierato con il Nord».

Al punto che Abraham Lincoln gli propose di comandare un’armata nordista, offerta declinata solo perché l’Eroe dei due mondi (in onore del quale nacque la Garibaldi’s Guard) immaginava di poter essere al più presto ancora utile all’Italia. Meno nota, se non agli specialisti, era il tema: da che parte stavano, nella guerra civile, Vittorio Emanuele II e più ancora il «cervello» dell’Unità d’Italia, Camillo Benso di Cavour? Risponde, tirando giustamente fuori questo e altri documenti dalle riservate stanze, il ministero degli Esteri, che ha deciso di spalancare gli archivi per aprire un dialogo diretto con tutti gli italiani. E di farlo con uno degli strumenti più veloci: un podcast. Anzi, sei puntate di podcast per partire, dal 13 agosto, con approfondimenti vari sulla nostra storia dal 1861. La serie porta il titolo «Quando le armi tacciono. La diplomazia al servizio della (ri)costruzione» e comincia con «1861. Nasce l’Italia. Conservazione o rivoluzione?» dedicato ai delicati contatti con le diplomazie mondiali che dovevano dare l’agognato riconoscimento (non scontato) al nuovo Stato. Esordio: la lettera inviata da Cavour, il giorno stesso dell’Unità, al ministro plenipotenziario a Londra (osso duro) Taparelli d’Azeglio: «Signor Marchese, da oggi l’Italia afferma di fronte al mondo intero la sua esistenza…».

Più interessante ancora della lettera assai cordiale («Mio grande e buon amico…») di Abraham Lincoln a Vittorio Emanuele II per nominare George P. Marsh suo rappresentante in Italia, è forse la lettera mandata da Cavour, il 22 maggio 1861, al cavaliere Joseph Bertinatti, ministro residente del Re d’Italia in America. Saputo della guerra civile scoppiata da un mese tra nordisti e sudisti, il capo del governo e ministro degli Esteri raccomanda prudenza: «Il Governo del re deve rimanere completamente estraneo a tutto ciò che riguarda la situazione interna dei Paesi con cui intrattiene rapporti» e «osservare attentamente e con imparzialità ciò che succede». Ma questa imparzialità «non deve impedirci di manifestare le nostre simpatie per il trionfo degli Stati settentrionali, perché la causa che sostengono non è solo la causa della legalità costituzionale, bensì la causa dell’umanità. L’Europa cristiana e civile non può desiderare il successo del partito che porta sulla sua bandiera il mantenimento e lo sviluppo della schiavitù». Sedici giorni dopo, quello che Giuseppe Verdi chiamerà «il padre della patria», morirà. Quanto ci mancherà si vedrà ben presto.

Augusto Rivalta Statua di Cavour 1870 Banca d’Italia Firenze

Archiviato in:Rassegna stampa

Un film su Maria, la MADRE D’ITALIA: È la storia del Paese

08/08/2021 da Sergio Casprini

Paolo Conti  Corriere della Sera 8 agosto 2021

«Ho cercato di immaginare questa donna, mi sono avvicinata a lei con immenso rispetto per la sua vicenda. Ovvero per la storia di una protagonista, suo malgrado, della storia italiana. Le chiesero di diventare la Madre d’Italia e lei accettò, incarnando quel ruolo con la più grande pietas possibile per una donna, anche se avrebbe preferito milioni di volte essere solo e soltanto la madre di suo figlio ancora vivo…».

Sonia Bergamasco

Sonia Bergamasco ha finito di girare ad Aquileia, con Cesare Bocci e Alessio Vassallo, il docu-film La scelta di Maria, per il centenario della tumulazione all’Altare della Patria, diretto da Francesco Miccichè che andrà in onda su Rai 3 il 4 novembre 2021: si alterneranno fiction, filmati del tempo e narrazioni grafiche. Sonia Bergamasco interpreta Maria Bergamas scelta nel 1921 come madre-simbolo per indicare la bara del soldato senza nome, caduto nella I Guerra Mondiale, per farne il Milite Ignoto d’Italia. Maria era la madre di Antonio, unico figlio maschio, nato in terra ancora austriaca, disertore per combattere per l’Italia: il suo corpo non venne mai ritrovato. Maria Bergamas, il 28 ottobre 1921, abbracciò piangendo la decima delle undici bare senza nome nella cattedrale di Aquileia.

Maria Bergamas

Dice Sonia Bergamasco: «Io non sono friulana come Maria Bergamas ma quando ho letto la storia sul copione ho desiderato interpretarla. L’empatia profonda verso Maria Bergamas è scattata subito dopo la prima lettura. È una donna estremamente segnata dalla vita, come le innumerevoli donne che in quel conflitto atroce persero padri, mariti, figli, fidanzati. Abbiamo girato dove tutto è accaduto, cioè ad Aquileia. Le persone, i luoghi mi hanno aiutata a sentire la storia come qualcosa che mi riguarda da vicino». Meccanismi emotivi forti, assicura Bergamasco: “Ho sentito la sincera partecipazione delle persone del luogo scelte come figuranti, cioè come comparse. Sentivo che la temperatura emotiva era altissima”. Ha provato ad immedesimarsi nel dolore di quella donna? «Ho cercato soltanto di immaginarlo, quel dolore, di avvicinarmi con rispetto a Maria Bergamas. Una immedesimazione mi avrebbe fatto pensare a qualcosa di intollerabile, quasi di osceno: qui c’è di mezzo qualcosa di indicibile, intollerabile, la perdita di un figlio. E lei agì con quella pietas di cui parlavo, un valore che non dovremmo mai dimenticare in questi nostri difficili tempi». Dice la produttrice Gloria Giorgianni di Anele: «Volevo celebrare questo importante anniversario per far conoscere a tutti, soprattutto alle nuove generazioni, la storia che ha portato all’istituzione del Milite Ignoto. Abbiamo scelto il punto di vista femminile della donna che fu scelta per rappresentare la Madre d’Italia».

1921 Sacello del Milite Ignoto Vittoriano Roma

Archiviato in:Rassegna stampa

L’irredentista in camicia nera che pretendeva la Dalmazia

19/07/2021 da Sergio Casprini

Il diario del diplomatico Attilio Tamaro pubblicato da Rubbettino a cura di Gianni Scipione Rossi

 

Giovanni Belardelli Corriere della Sera 19 luglio 2021

Chi conosce il nome di Attilio Tamaro ( Trieste,  1884 – Roma, 1956), lo ricorderà probabilmente come l’autore di due storie del fascismo (della Repubblica sociale e del ventennio) che ebbero una certa diffusione tra gli anni Quaranta e Cinquanta e negli ambienti della destra più o meno nostalgica. Si trattava di opere, pubblicate inizialmente a dispense illustrate, molto informate sul piano della ricostruzione fattuale e che qua e là prendevano le distanze da aspetti anche rilevanti del regime (come le leggi razziali). Ma Tamaro, giornalista e diplomatico di professione, fu anche un osservatore attento della vita italiana del suo tempo, annotando fatti, incontri, informazioni più o meno riservate in un diario che tenne dal 1911, quando non era ancora trentenne, fino ai primi anni della Repubblica.

Attilio Tamaro Il diario di un italiano 1911 – 1949, Rubbettino, 1066 pagg., 49 euro

Nel diario Tamaro registrava con maniacale precisione fatti ed episodi appresi direttamente o attraverso la vasta rete delle sue conoscenze (impressionante, al riguardo, l’indice dei nomi di oltre sessanta pagine preparato dal curatore, che vi ha elencato tutte le persone citate, di ciascuna indicando la qualifica), sicché il volume si presenta come una fonte di rilievo per lo studio di quattro decenni di storia italiana. Ciò non toglie che certe parti — ad esempio, il resoconto di un viaggio a Mosca nel 1934, le pagine sulla città di Roma occupata dai tedeschi e poi liberata dagli Alleati — si facciano apprezzare anche per l’immediatezza di alcune descrizioni e per la qualità della scrittura.

L’irredentismo fu il filo conduttore della vita di Tamaro, sempre legatissimo alla sua città natale alla quale dedicò anche vari lavori storiografici. Il suo fu però un irredentismo che aveva tratti di vero e proprio fanatismo, mutuati dal proprio avversario, cioè dall’altrettanto radicale e fanatico nazionalismo sloveno e croato.

Date queste premesse, il risultato della Prima guerra mondiale deluse il giovane triestino, che avrebbe voluto che non solo Trieste e l’Istria, ma l’intera Dalmazia venissero assegnate all’Italia nella prospettiva di un Adriatico che secondo lui avrebbe dovuto essere interamente italiano. Il suo era un patriottismo tutt’altro che mazziniano, insomma, che si legava a un’esaltazione dell’idea nazionale in chiave imperialista e militarista.

Fu dunque del tutto naturale la sua adesione al fascismo, che Tamaro apprezzava soprattutto come il mezzo, lo strumento pratico, per rendere più grande — in termini di potenza e di confini (europei africani) — l’Italia. Da questo punto di vista il diario può anche essere letto come una specie di biografia collettiva di un settore importante del Paese, di quella parte d’Italia che diede il suo consenso al movimento e al regime di Benito Mussolini a partire da posizioni e sentimenti nazionalisti (e monarchici).

Nel diario si trova continua testimonianza di questo fascismo che si voleva non ideologico e potrebbe anche sembrare relativamente moderato, perché non apprezzava le pose staraciane e le velleità totalitarie del regime. In realtà anche questo fascismo apparentemente «realista» e «pragmatico» era impregnato di forti elementi ideologici, benché diversi da quelli del fascismo più sovversivo e antiborghese che animava altre correnti del regime. Aveva al centro, infatti, un’ideologia apertamente antidemocratica (già nel 1920 Tamaro scrisse un saggio sulla Necessità della dittatura) che considerava la libertà un pericolo per la nazione e vedeva nelle regole della democrazia rappresentativa l’inaccettabile prevalenza della «forza bruta del numero».

È del resto molto indicativo che ancora nel marzo del 1943 Tamaro, nonostante registrasse da tempo nel suo diario i difetti del regime (anzitutto in termini di corruzione e impreparazione militare rispetto alla prova bellica in corso), non arrivasse a comprendere come la radice ultima di quei difetti stesse nelle premesse antidemocratiche del fascismo, che lui aveva condiviso e ancora condivideva fino al punto di dichiararsi contrario a un’emarginazione di Mussolini.

Non ultima tra le ragioni di interesse di questo diario è quella di mostrare i motivi che, dopo il 1945, avrebbero reso a lungo difficile o impossibile a molti italiani staccarsi dall’esperienza e dal ricordo del regime fascista.

 

Archiviato in:Rassegna stampa

  • « Vai alla pagina precedente
  • Vai alla pagina 1
  • Vai alla pagina 2
  • Vai alla pagina 3
  • Vai alla pagina 4
  • Vai alla pagina 5
  • Pagine interim omesse …
  • Vai alla pagina 31
  • Vai alla pagina successiva »

Barra laterale primaria

il Comitato Fiorentino per il Risorgimento
è associato al Coordinamento nazionale Associazioni Risorgimentali FERRUCCIO

L’editoriale del direttore

Giorgio Napolitano, un Presidente patriota

Video

“Alessandro Manzoni tra le urne dei forti”, il video integrale

Prossimi appuntamenti

GIORNATA INTERNAZIONALE PER LA PACE

18/09/2023

XX Settembre 1870-XX Settembre 2023

12/09/2023

Lettere al Direttore

Per dare i nomi alle strade esiste già al comune di Firenze una commissione toponomastica

28/08/2023

Focus

I feriti e i malati di guerra dal soldato di Napoleone al milite ignoto

27/09/2023

Tribuna

MARCINELLE

08/08/2023

Luoghi

Palazzo Serristori  

18/08/2023

Mostre

NOVECENTO a Carrara

21/09/2023

Rassegna stampa

CAVOUR, I TURISTI E IL PROGRESSO DELLE INDUSTRIE

22/07/2023

Pubblicazioni

Italia 1943

08/09/2023

RisorgimentoFirenze.it nella tua mail

E' possibile ricevere un messaggio e-mail ad ogni nuova pubblicazione sul nostro sito.
Basta inserire il proprio indirizzo di posta elettronica nella casella sottostante. Il servizio è gratuito e può essere interrotto in ogni momento.

Unisciti a 89 altri iscritti

Footer

Archivio articoli

Archivio rubriche

Area amministrativa

  • Accedi
  • Feed dei contenuti
  • Feed dei commenti
  • WordPress.org

Blogroll

  • Arte del Poggio
  • Comitato livornese per la promozione dei valori risorgimentali
  • PensaLibero.it, quotidiano on line dei laici e dei liberali della Toscana.
  • Risorgimento Toscana
  • Sito ufficiale delle celebrazioni per il 150° anniversario

Direttore Sergio Casprini | Responsabile della Comunicazione Irene Foraboschi | Webmaster Claudio Tirinnanzi

 

Caricamento commenti...