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Risorgimento Firenze

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Rassegna stampa

Guerre ed eserciti nell’età contemporanea

28/08/2022 da Sergio Casprini

 L’Italia e le forze militari

Pubblicato dal Mulino un volume a cura di Nicola Labanca

Globalfirepower (Gfp), un sito di informazioni militari alquanto misterioso sulle proprie fonti ma considerato attendibile dagli addetti ai lavori, dal 2006 pubblica ogni anno un indice che valuta le potenziali capacità belliche di un Paese in un conflitto combattuto con armi convenzionali.

Nel 2022 l’Italia risulta all’undicesimo posto su 142 nazioni esaminate, con un indice pari a 0,1801, dopo Francia (0,1283) e Gran Bretagna (0,1382) ma prima di Germania (0,2322) e Spagna (0,2901): la perfezione assoluta (non raggiunta da alcuno) sarebbe un indice pari a 0,0000. Sempre secondo Gfp, l’Italia ha, con 297 mila uomini, il secondo esercito più grande dell’Unione Europea dopo la Francia (415 mila). Sono notizie abbastanza sorprendenti, considerando la distratta indifferenza con cui l’opinione pubblica italiana (non) si occupa di questioni militari. Anche nella campagna elettorale in corso, il tema «difesa» appare del tutto assente dal dibattito politico, nonostante nel cuore dell’Europa sia in corso un conflitto dalle prospettive e conseguenze incerte.

Forse però ci si sorprenderebbe di meno sapendo che le classi dirigenti italiane, dalla nascita dello Stato unitario nel 1861 in poi, «hanno sempre voluto grosse formazioni militari»: dai governi dell’Italia liberale a quello fascista fino ai giorni nostri, dopo la fine della guerra fredda, l’amore per i grandi battaglioni (come li chiamava Napoleone) non è mai cambiato, tanto da poter «essere considerato un carattere originario della storia militare nazionale… un pegno da pagare perché in Europa l’Italia fosse considerata una grande potenza».

È quanto scrive lo storico Nicola Labanca nel saggio introduttivo di Guerre ed eserciti nell’età contemporanea, un libro appena uscito per Il Mulino che va a completare la quadrilogia della casa editrice bolognese dedicata al «rapporto complesso, intricato, luttuoso, sempre diverso, durato appunto secoli, fra italiani, guerre e forze armate». Un quarto volume, dunque, dopo quelli su soldati e conflitti nel periodo antico e nelle età medievale e moderna.

L’opera è divisa in due macro-capitoli, dedicati ai «tempi» e alle «forme» dell’impegno militare italiano dal XIX secolo in poi. I «tempi» sono: Le guerre dell’unificazione (Enrico Francia); L’età liberale (Marco Rovinello); La Grande guerra (Marco Di Giovanni); Il fascismo (Emanuele Sica); Nella guerra fredda e oltre (Nicola Labanca, curatore sia del volume che della quadrilogia). Le «forme» raccontano: Militari come forze di polizia e di ordine pubblico (Hubert Heyriès); La Marina e le guerre per mare (Fabio De Ninno); L’Aeronautica e la guerra tra le nuvole (Riccardo Cappelli); I servizi segreti e le guerre dell’Intelligence (Gastone Breccia); Operazioni internazionali e trasformazione militare (Fatima Farina).

Si tratta quindi di un lavoro collettivo i cui autori, scrive ancora Labanca, sono «tutti operanti nelle Università o da esse da poco formati (…) più giovani di altri (…) ritenendo che sia giunto il momento che una nuova generazione di studiosi e studiose esprima la propria visione».

Un’opera, viene da aggiungere dopo una rapida presa di contatto, qua e là anche felicemente iconoclasta quando va a smontare, su una base documentale, credenze errate passate in modo acritico nella narrazione condivisa. Per esempio, quello di un contributo «eccezionale» svolto dalle Forze armate nel «fare la nazione» mischiando tra loro ceti e classi, mentre in realtà durante gli oltre 150 anni di storia unitaria «in tempo di pace e in tempo di guerra una buona parte della classe dirigente italiana ha semplicemente evitato il reclutamento militare obbligatorio». Oppure il fatto di considerare irrilevanti i risultati ottenuti dalla sparuta aeronautica militare della repubblica di Salò: furono tali nel quadro complessivo del grande conflitto ma non in senso assoluto visto che, a uno sguardo retrospettivo, si presentano «mediamente migliori rispetto a quelli della Regia Aeronautica» (Cappelli), con 239 velivoli avversari abbattuti e 115 perduti in 4.100 ore di volo.

È chiaro che un’opera singola che affronta temi e periodi così ampi e complessi in alcuni casi non può che limitarsi a proporre indirizzi di ricerca: per questo, oltre alla bibliografia generale, ogni capitolo ha una sua lista specifica di testi cui fare riferimento per gli approfondimenti. Un esempio? Indagare su quelle che Fatima Farina nel suo saggio definisce le «contraddizioni irrisolte» della presenza femminile nelle forze armate, che contrariamente alle attese vede una «bassa attrattività presso le donne italiane» e quindi «una minore probabilità di incidere sulla realtà nel senso di una contaminazione di genere».

Paolo Rastelli  Corriere della Sera 28 agosto 2022

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Addio alla campionessa delle nevi. Sfidò il fascismo indossando gli sci

03/08/2022 da Sergio Casprini

 

Celina Seghi, la donna dei record, ci ha lasciato a 102 anni. La chiamavano topolino, per il fisico minuto, ma ben presto diventò la Regina delle Nevi per le incredibili vittorie. Ieri l’hanno ricordata in tanti. E tra questi anche una leggenda dello sci mondiale, Gustav Thoeni. «Con Celina ci siamo incontrati diverse volte, veniva a vedere le mie gare — ha ricordato commosso —. Una volta ad una gara di Coppa Europa all’Abetone fece l’apripista. Aveva già 80 anni».

Era nata all’Abetone, Celina, il comune montano più amato dagli sciatori toscani, aveva vinto 25 titoli italiani, un bronzo ai mondiali di Aspen del 1950 e altri trofei internazionali e a 81 anni suonati si era «divertita a fare un voletto», come raccontò ai giornalisti, con un parapendio sfiorando le vette più alte dell’Appennino tosco-emiliano. Perché la signora Seghi, sposata con un chirurgo, non era solo una campionessa assoluta, ma una donna straordinaria. Che aveva collezionato record anche nella vita, sfidando l’immaginabile, precorrendo i tempi.

Negli anni 30, quando durante il regime fascista le ragazze studiavano «lavori donneschi», l’emancipazione femminile era un concetto sconosciuto e lo sport femminile aveva una funzione pedagogica legata al sesso di appartenenza, Celina aveva inforcato gli sci dimostrando ai maschi che anche una signorina poteva fare grandi cose. Gli allenamenti erano gli stessi degli uomini: durissimi, spesso pericolosi, senza ausilio di skilift o altre diavolerie tecniche. «Si scia e poi si sale in vetta cantando», rispondeva con ironia a chi le chiedeva dove la trovava tutta quella forza con quel fisico da educanda. Ma aveva anche un grande cuore, la super campionessa. Una mattina vide un bambino chiedere l’elemosina. «Perché non sei a scuola bimbo?», gli chiese. E lui le rispose che non aveva soldi per comparsi libri, cartella e quaderni. Celina non aspettò un minuto in più: andò in una cartoleria, comprò tutto ciò che serviva al bambino e glielo regalò con la promessa che avrebbe iniziato a frequentare la scuola. Tanti anni dopo, incontrò un avvocato. Era quel bambino che, grazie a lei, si era laureato.

Erano tempi formidabili ma non facili e non lo furono neanche quelli dell’immediato dopo guerra. Mentre signori benpensanti si fermavano a guardare stupiti le prime donne alla guida di un’auto, Celina sfrecciava sulle piste da sci di mezzo mondo e vinceva quasi sempre: 37 le medaglie appese al collo, l’ultima nel 1954 a 34 anni, due anni prima del ritiro dall’agonismo per diventare maestra di sci.

Quando decise di ritirarsi crollò un mito, quello della valanga azzurra dell’Abetone e della super-coppia (sportiva). Perché negli stessi anni e negli stessi luoghi brillavano altre stelle: quella di Zeno Colò e del caposcuola Vittorio Chierroni. Se le ricordava sempre quegli atleti e amici. Si allenava con loro nei boschi dell’Abetone e siccome era «il topolino delle nevi», mentre gli altri due erano dei «bellimbusti» riusciva a fare lo slalom tra alberi e cespugli lasciandoli indietro. «Li canzonavo e loro non ci rimanevano tanto bene ad essere battuti da una ragazzina», raccontava spesso la formidabile Seghi. Ma poi, subito dopo, aggiungeva che senza quegli amici e senza allenatori molto severi («mi mandavano a letto presto senza brindisi anche dopo aver vinto una medaglia») non sarebbe diventata una grande campionessa. E probabilmente neppure una donna forte, spavalda, generosa e incredibilmente moderna.

Marco Gasperetti Corriere della Sera 28 luglio 2022

 

 

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1915. Rivolta contro i padri

22/07/2022 da Sergio Casprini

Carlo Carrà Manifestazione interventista  (Festa patriottica-dipinto parolibero), 1914

 

L’intervento italiano nella Grande guerra fu anche una resa dei conti generazionale

Vent’anni fa si stimava che la letteratura sulle cause della Prima guerra mondiale superasse i 25 mila volumi, un oceano di parole che prendeva l’abbrivio dai documenti pubblicati, dopo la fine del conflitto, da tutti i Paesi coinvolti. L’immensa massa di carteggi e atti ufficiali aveva uno scopo principale: respingere o attribuire la responsabilità agli Imperi centrali di aver scatenato l’inferno nel Vecchio Continente per cercare di alleviare o giustificare le dure condizioni, soprattutto economiche, imposte agli sconfitti dal trattato di Versailles. Sia le carte bollate sia le memorie dei principali protagonisti, naturalmente, erano colme di reticenze e orientate a stabilire una verità politica piuttosto che i fatti reali.

Quel che accadde dopo non ha aiutato a fare ordine. L’Europa è ricaduta, come aveva previsto John Maynard Keynes, nell’orrore della Seconda guerra mondiale, che ha coinvolto gli stessi protagonisti della Prima. Terminato il conflitto, il mondo si è ideologicamente spaccato in due, cosa che non ha aiutato a formulare giudizi al di sopra delle parti. In Italia, in particolare, a partire dagli anni Sessanta, tutta la retorica della guerra vittoriosa si è trasformata in un atto di accusa contro generali incapaci e sadici che hanno mandato al massacro un popolo che voleva solo starsene tranquillo a casa.

La verità probabilmente sta nel mezzo. È quello che emerge da L’Italia della Prima guerra mondiale in 50 ritratti di Paolo Mieli e Francesco Cundari (Centauria editore), con le illustrazioni di Ivan Canu (efficaci più di mille parole), e l’idea di scegliere alcuni personaggi, non sempre tra i più noti, nasce dalla premessa fatta nell’introduzione: è assurdo pensare che ci fosse una regia sotterranea che portò al grande massacro; più o meno tutti, volontariamente o involontariamente, persino chi contrastò la guerra, contribuirono alla tragedia. Se, come scrisse il grande storico Johan Huizinga, «la povera Europa si avviava verso la Prima guerra mondiale come un’automobile sgangherata in mano di un conducente ubriaco per una strada tutta buche e cunette», è anche vero che, rievocando quei giorni, un osservatore sensibile come Stefan Zweig scrisse: «Non si temevano ricadute barbariche come le guerre tra popoli europei… I nostri padri erano tenacemente compenetrati dalla fede nella irresistibile forza conciliatrice della tolleranza». Calza a pennello la definizione che, dopo il libro scritto da Christopher Clark (pubblicato da Laterza), ha preso piede ogni qual volta si parli di coloro che contribuirono a scatenare il conflitto, vale a dire: I sonnambuli.

Mieli e Cundari, prima di scegliere i personaggi da far entrare in scena in questa efficace rappresentazione teatrale della tragedia, chiariscono la particolare situazione italiana. Se sonnambuli sono stati anche gli italiani, furono sonnambuli consapevoli. Roma ha avuto tutto il tempo di ponderare una decisione molto controversa perché si trattava di sfilarsi da un’alleanza per aderire a un’altra. Ligia alla mentalità politica con la quale i Savoia avevano «costruito» l’Italia, sperava di entrare dalla parte giusta al momento giusto pagando un prezzo modesto per ottenere ciò che voleva ai confini orientali. Il più attento di tutti (miglior interprete della casata sul trono), Giovanni Giolitti, rigorosamente contrario all’intervento, vedendo come si mettevano le cose pensò che la guerra si potesse infine dichiarare, lasciando però prima collassare l’Austria, vale a dire andandoci a prendere Trento e Trieste rischiando ben poco (non la pensava così anche Mussolini quando diede la pugnalata alla schiena della Francia?).

Ma la situazione italiana aveva una componente generazionale che altre nazioni non avevano. Era un malessere che veniva da lontano, una resa dei conti tra padri e figli. Già a Unità d’Italia compiuta si era manifestato tra i giovani che avevano visto gli ideali risorgimentali sfumare in un assalto al potere e alle ricchezze, ma si era limitato a manifestazioni artistiche e letterarie. Venuta al mondo una nuova generazione, fu automatico rifarsi ai nonni per smentire i padri. Ci cascarono intellettuali di grande spessore come Renato Serra, con il suo Esame di coscienza di un letterato, Scipio Slataper, Emilio Lussu e un antinazionalista come Gaetano Salvemini (personaggi inseriti nel libro). Da quella sbornia quasi adolescenziale venne sedotto persino Piero Gobetti, convinto che la classe dirigente italiana avesse il dovere di portare a termine il Risorgimento.

Pier Luigi Vercesi  Corriere della Sera 20 luglio

Piero Gobetti

 

 

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OTTO VITE ITALIANE

15/06/2022 da Sergio Casprini

L’esecuzione dei fratelli Bandiera in una litografia realizzata nel 1864 da Gabriele Castagnola 

RISORGIMENTO VIVENTE 

Un saggio di Ernesto Galli della Loggia, edito da Marsilio, afferma l’esigenza di misurarci con i forti pensieri e le azioni conseguenti di una generazione che fu pronta a sacrificarsi per conseguire l’unità e l’indipendenza della patria

Autore      Ernesto Galli della Loggia

Editore     Marsilio

Anno         2022

Pag.           240

Prezzo       € 18,00 

 

I più pensano oggi al Risorgimento più o meno come ad un «evento remoto imbalsamato a dovere dai manuali scolastici», messo «sotto la naftalina del patriottismo più convenzionale». Quasi nessuno immagina che sia stata un’epoca di passioni autentiche, di persone disponibili a mettere a repentaglio la propria vita per degli ideali. E, se qualcuno lo vede in questo modo, ha poi difficoltà a spiegarsi cosa rese possibile la diffusione di passioni così intense. Perché? Se lo è domandato Ernesto Galli della Loggia imbattendosi in personaggi come Attilio ed Emilio Bandiera, le prime delle Otto vite italiane (le altre sono quelle di don Enrico Tazzoli con i martiri di Belfiore, Luigi Palma di Cesnola, Anna Kuliscioff, Andrea Caffi, Pietro Quaroni, Edda Ciano, Filomena Nitti) di cui si occupa in un libro interessante e appassionato dato alle stampe oggi da Marsilio.

Anna Kuliscioff a Firenze nel 1908.
 Foto di Mario Nunes Vais

Tornando al Risorgimento è lecito chiedersi che senso ebbero le vite dei due fratelli veneziani andati incontro alla morte per inseguire il «folle» progetto di scatenare la rivolta nazionale a partire dal cuore della Calabria? Che cosa può comunicarci la storia di don Tazzoli, finito sulla forca a quarant’anni per «aver desiderato la libertà e l’indipendenza del proprio Paese»? Queste vicende — scrive lo storico — potrebbero suggerire che dietro i giorni di «quest’Italia evanescente e incerta, sospesa sull’abisso di un declino che ha tutta l’aria di non essere passeggero», dietro i giorni «della nostra stessa esistenza, pure lei troppe volte evanescente e incerta», dietro «la sensazione di vuoto civile e umano che ci circonda», nel passato, c’è stato — e in qualche modo c’è ancora — «un pieno». Un «inaspettato e sconosciuto pieno di storia». Con lo spessore di «alti e forti pensieri» e di «azioni conseguenti» che «interpellano e forse potrebbero consolare la nostra solitudine». In effetti, se ci volgiamo al Risorgimento siamo costretti a «guardare a un tempo in cui qualcuno ha creduto che valesse la pena mettere insieme questa Penisola per darci la possibilità di decidere autonomamente di noi stessi». E che poi «valesse la pena difenderne le ragioni». Al punto «da rischiare la vita, o la carriera, o comunque un’esistenza tranquilla».

Baldassarre Verrazzi Episodio delle 5 giornate di Milano 1851

Attilio (1810-1844) ed Emilio Bandiera (18191844) erano figli del veneziano Francesco (1785-1847), già ufficiale della Marina del Regno italico (napoleonico), il quale si era battuto contro gli inglesi, al comando della cannoniera «Incorruttibile». Finita la stagione napoleonica e scontato qualche tempo in un carcere (degli inglesi) nel 1826, poco più che quarantenne, Francesco Bandiera era stato ammesso nell’imperial-regia marina austriaca. Dopo cinque anni, nel 1831 ebbe il suo momento di gloria allorché catturò nell’Adriatico un veliero, «Isotta», che trasportava verso Corfù un centinaio di patrioti. Fuggiaschi in rotta dopo un’insurrezione fallita in Emilia e ad Ancona, territori della Chiesa. Per quell’impresa Francesco Bandiera fu nominato contrammiraglio e insignito del titolo di barone dell’impero. La stima nei suoi confronti fece sì che alla corte di Vienna fu presa la decisione di assegnare alle sue dipendenze l’arciduca Federico Ferdinando, terzogenito del feldmaresciallo Carlo d’Asburgo distintosi anche lui nelle guerre napoleoniche (combattendo, ovviamente, contro Napoleone). Il figlio di Carlo, Federico Ferdinando, fu fin da giovanissimo assai stimato da Metternich che — dopo averlo fatto crescere «alla scuola» di Bandiera — lo avrebbe nominato, ad appena 23 anni, comandante in capo della marina austriaca. 

Gettato alle spalle il passato dell’«Incorruttibile», Francesco si era dunque perfettamente integrato nel nuovo regime austriaco che lo teneva in altissima considerazione. Già intravedeva per i figli un futuro simile al suo. A tal fine li aveva mandati a studiare all’Imperiale Collegio di Marina. Tutto sembrava indirizzarsi secondo i desideri del contrammiraglio: uscito dal collegio, Attilio, ufficiale di marina, aveva sposato Marietta Graziani, figlia del capitano di vascello Leone, confermando con quell’unione l’immagine di un’ottima «famiglia di marina» inserita ai livelli più alti della società militare austriaca.

Ma qualcosa non andò per il verso auspicato da Francesco Bandiera. Secondo Galli della Loggia già nel Collegio Attilio iniziò a nutrire sentimenti antiaustriaci. Il caso volle poi che fosse presente nel momento in cui il padre catturò il veliero dei patrioti. Non possiamo sapere, scrive Galli della Loggia, quante volte in seguito «egli abbia ripensato al momento in cui aveva sentito il padre dare gli ordini per la cattura del povero trabiccolo di quegli italiani insorti e sconfitti». Né ci è dato conoscere quante volte negli anni successivi «abbia rivisto il padre rallegrarsi per la sfilza di riconoscimenti piovutigli sul capo in conseguenza di quella cattura». Ma, alla luce di quel che accadde qualche anno dopo, è ipotizzabile che Attilio abbia covato già allora un sordo rancore nei confronti di quell’«impresa» paterna. È un fatto che nell’aprile del 1836, quando la nave su cui era imbarcato attraccò al porto di New York, Attilio si rivolse per lettera a Piero Maroncelli, esule in America. Maroncelli era un mito del Risorgimento dopo gli anni trascorsi con Silvio Pellico allo Spielberg dove (scoperto un tumore al ginocchio) gli era stata amputata una gamba. Graziato per via delle sofferenze patite, Maroncelli era emigrato a New York su un vascello della marina austriaca comandato — ironia della sorte — proprio da Francesco Bandiera. La lettera di Attilio (che si firmò «vostro servo e ammiratore») equivalse dunque ad un cambio di campo. Un consapevole passaggio dalla parte del «nemico». Al nuovo campo si unirono il fratello di Attilio, Emilio, e un altro ufficiale della marina austriaca, Domenico Moro. I tre diedero vita ad una società segreta, «Esperia», alla quale avrebbero presto aderito un centinaio di altri patrioti. Nello statuto dell’«Esperia» si raccomandava di non fare, se non «con sommo riguardo», «affiliazioni tra la plebe» dal momento che essa è «quasi sempre per natura imprudente e per bisogno corrotta». Per la ricerca di adepti, meglio rivolgersi «ai ricchi, ai forti ed ai dotti negligendo i poveri, i deboli, gli ignoranti». E ancora: «meglio i celibi che gli ammogliati, i giovani che i vecchi».

Nel 1842 Attilio — tramite Moro — prende contatto con Giuseppe Mazzini prospettandogli un ammutinamento e la cattura della nave su cui è imbarcato. Mazzini ne è entusiasta. Basta solo «dare l’avvio» — spiega all’amica londinese Jane Carlyle — e tutto il resto sarebbe venuto quasi naturalmente. La Carlyle gli obietta: «Credi davvero di poter rovesciare con una sola nave da guerra l’intero impero austriaco e per di più in una situazione generale di pace in Europa?» Mazzini le risponde, appunto: «Perché no? Basta solo dare l’avvio». Nell’estate del 1843 i fratelli Bandiera elaborano il piano per la cattura di quattro vascelli, uno dei quali comandato dal loro padre che sarebbe stato da loro tratto in arresto. Emilio, nel frattempo, era stato promosso aiutante di campo dell’ammiraglio Amilcare Paulucci delle Roncole, comandante in capo della marina imperiale (i cui figli erano anch’essi affiliati all’«Esperia»). La rete cospirativa aveva fatto un gran numero di proseliti ma un delatore al quale Mazzini aveva affidato alcune lettere per i fratelli Bandiera («con una leggerezza per lui non inconsueta», scrive Galli della Loggia) con una semplice spiata riuscì a far crollare l’intera impalcatura.

Colpiscono — in effetti — l’ardimento ma anche l’improvvisazione che caratterizzarono la rete cospirativa mazziniana. Jane Carlyle — in una lettera al marito — si domanda: «Che razza di cospiratore è uno che, per esempio, delle sue operazioni segrete rivela a me proprio tutto, fino ai minimi particolari, perfino i posti dove dovranno scoppiare le insurrezioni e i nomi della gente che le organizza?». Galli della Loggia non sorvola su questo aspetto dilettantistico e ingenuo della vicenda. Anzi, lo mette nel dovuto risalto. Quasi a sottolineare la passione idealistica di Mazzini e dei fratelli Bandiera.

Nel febbraio del 1844, Attilio Bandiera, sentendosi scoperto, abbandona la propria nave diventando automaticamente un disertore. lPoco tempo dopo lo raggiunge il fratello mettendo nei guai una serie di amici, tra cui l’ammiraglio Paulucci al quale viene tolto il comando. Emilio prende commiato dal padre con queste parole: «Signore, una carriera opposta percorremmo… La vostra era quella che rifulgeva del prestigio della potenza, la mia quella dell’Italia, d’una patria caduta, desolata, avvilita… e soldato austriaco per caso, cospirai, a vent’anni cospirai». Anche Domenico Moro salta il fosso e si unisce ai Bandiera.

Siamo nell’aprile del 1844 e i cospiratori ordiscono un piano che prevede di raggruppare uomini in Corsica e sbarcare poi in Maremma, nei pressi di Tarquinia. Di qui — scrive Attilio Bandiera al mazziniano Nicola Fabrizi chiedendogli finanziamenti — i rivoltosi avrebbero raggiunto Viterbo per stabilirsi sul monte Soriano «montagna aspra abbasta per potervisi difendere e contornata da frequenti villaggi atti a procurarci la sussistenza». Da quel «nido sicuro» avrebbero potuto dominare le strade che vanno a Roma, «tentare qualche colpo su Civitavecchia le cui fortificazioni verso l’Est e il Sud sono debolissime», «meglio ancora su Civitacastellana» dopo le quali avrebbero fatto «qualche irruzione in Roma stessa». A Roma? Sì, per catturare «qualche rilevante prigioniero» (Pio IX?). A Fabrizi l’impresa appare sconclusionata e rifiuta di concedere i fondi.

Ma i fratelli Bandiera non si perdono d’animo e decidono di dirigersi verso la Calabria dove hanno sentito dire di patrioti pronti a insorgere nei pressi di Cosenza. Approdati alla foce del Neto vengono a sapere che a Cosenza non c’è nessuno che sia disposto a muoversi. Decidono di marciare ugualmente sulla città guidati da un noto bandito del luogo, Giovanni Meluso. Nel frattempo, un loro compagno, Pietro Boccheciampe, li va a denunciare alla gendarmeria di Crotone. Nei pressi di San Giovanni in Fiore incontrano finalmente una folla in parte armata. Che però grida «A morte! Eccoli!» e inneggia al re Borbone. Vengono catturati e portati in tribunale.

Al processo Attilio Bandiera adotta una strana linea di difesa. Sostiene di aver appreso a Corfù che in Calabria era in atto una finta rivolta segretamente promossa da Ferdinando II per avere un pretesto che gli consentisse di concedere la Costituzione. I magistrati non credono alle loro orecchie, vengono ascoltati solo i testimoni dell’accusa e si procede alle condanne: nove imputati (su diciassette) vengono mandati a morte e fucilati. Tra questi ultimi, i fratelli Bandiera.

La loro storia non finisce qui. I loro corpi verranno sottratti, da un gruppo di liberali cosentini, alla fossa comune. Nel 1848 i «rivoluzionari» proveranno a portarli in cattedrale. Subito dopo, in tempo di reazione borbonica, re Ferdinando aveva ordinato di gettarli nel Crati. Ma per la seconda volta i loro compagni di fede li avevano messi in salvo. Nell’estate del 1860 il generale Nino Bixio quando fu sul luogo dispose che fosse loro data degna sepoltura. Infine, nel 1867 le urne con i loro resti furono riportate a Venezia dove si formò una lunga fila di imbarcazioni che li accompagnò sul Canal Grande.

Noi — riflette adesso Galli della Loggia — ci siamo ridotti a frequentare quelle storie, anzi la storia dell’intero Risorgimento, «soprattutto come una sorta di deposito di munizioni per le nostre dispute politico-ideologiche». Ciò che «è frutto del carattere divisivo che, fin da principio ha avuto la vicenda dell’Italia unita». Il modo stesso della riunificazione della Penisola in un solo Stato ha rappresentato — «caso unico tra i paesi d’Europa che contano qualcosa» — un motivo di «divisioni feroci quanto durature, le quali si può dire che, attraverso varie tappe e in varie forme siano durate più di un secolo». Divisioni più che tra popolo ed élite, all’interno della stessa élite, con i vari settori di questa inclini a scontrarsi tra loro «per abitudine precoce alla pratica di una spietata, reciproca delegittimazione».

La storia dei fratelli Bandiera, conclude Galli della Loggia, dovrebbe invece strapparci «al mutismo di questo tempo senza parole e senza idee». E invitarci «a pensare a ciò a cui da molti anni non pensiamo più»: alle «forme e alle ragioni di una convivenza che continua a non avere nulla di scontato». La storia di queste «vite lontane» non può certo servirci a comprendere il presente. Semmai «può servire a risospingerci verso il futuro». In che senso? Quello di «uscire dal torpore senza fine, dall’inerzia immemore in cui siamo immersi». A immaginare anche noi — «come, in condizioni pur così meno facili, immaginarono quei nostri antenati di cui ormai a stento ricordiamo i nomi» — che cosa potremmo essere.

Paolo Mieli   Corriere della sera 14 giugno 2022

Canneto sull’Oglio. Monumento a don Enrico Tazzoli, uno dei martiri di Belfiore

 

 

 

 

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Imprese e passioni del giovane Cavour prima della politica

09/05/2022 da Sergio Casprini

Cavour giovane in un ritratto di Julien Léopold Boilly (1796-1874). 

Cavour giovane. Cavour viaggiatore. Cavour agricoltore. Cavour imprenditore. Cavour amante. Non era facile scrivere qualcosa di nuovo su Camillo Benso conte di Cavour dopo la monumentale opera di Rosario Romeo, Cavour e il suo tempo, ma Franca Porciani, senza celare l’amore per Camillo, il Piemonte e l’Italia e con «un italiano pressoché perfetto», come sottolinea Nerio Nesi nella prefazione, ci è riuscita con un libro che si consiglia per avvicinarsi alla conoscenza dell’uomo che fece l’Italia: Cavour prima di Cavour. La giovinezza fra studi, amori e agricoltura (Rubbettino).

Cavour (1810-1861) morì pochi mesi dopo aver compiuto quell’impresa nazionale alla quale in Europa nessuno o quasi credeva: l’Italia unita. La malaria gli fu fatale. Eppure, in mezzo secolo fece tante e tali cose che ancora oggi, a considerarle, si rimane a bocca aperta. Certo, di lui si ricorda inevitabilmente l’opera politica che lo fa a tutti gli effetti l’uomo politico più importante della storia patria. La particolarità del testo di Franca Porciani, però, consiste nel lasciare agli storici gli anni che vanno dal 1848 al 1861 per concentrarsi sul giovane Cavour. E le sorprese non mancano. Non solo e non tanto per le notizie — soprattutto le passioni amorose del libertino Cavour che s’infiammò non poco per donne sposate che per lui persero la testa e, nel caso del suicidio di Nina Giustiniani, anche la vita — quanto per la vitalità innovatrice di quella giovinezza senza la quale non si intenderebbe l’intelligenza politica del Cavour adulto, dalla fondazione del quotidiano «Il Risorgimento» alla presidenza del Consiglio, dal connubio alla partecipazione alla guerra di Crimea. Il pregio del lavoro di Porciani è proprio qui: prende per mano il lettore e lo conduce, come in una passeggiata, prima nella formazione di Camillo e poi sui luoghi delle proprietà terriere — a Grinzane, vicino ad Alba, e a Leri nel vercellese — che la lungimiranza del giovane Cavour trasformarono in moderne aziende: a Grinzane si producevano vini come il barolo, il bordolese e il moscato che facevano concorrenza ai vini francesi; mentre a Leri, ammodernando mezzi e metodi di produzione, si coltivava riso, grano e mais in una tenuta agricola modello. Quello che fece «in piccolo» nelle proprietà, lo pensò in grande per l’Italia. Il destino lo tolse non solo all’Italia ma all’Europa intera troppo presto. Giancristiano Desiderio  Corriere della Sera 9 maggio 2022

 Castello Cavour a Grinzane

Franca Porciani,  Cavour prima di Cavour. La giovinezza fra studi, amori e agricoltura. Prefazione di Nerio Nesi, Rubbettino (pagine 134,€ 13)

Franca Porciani, giornalista e scrittrice, è laureata in Medicina e specializzata in Geriatria e Gerontologia. Diventa giornalista professionista nel 1987 e pochi anni dopo viene assunta al «Corriere della Sera». Vi rimane per più di vent’anni

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L’identità ucraina e il consolidarsi dell’idea di patria

03/04/2022 da Sergio Casprini

 

Nei rari casi in cui la cronaca internazionale assume una dimensione storica come in questi giorni, il pericolo è di essere sommersi da instant books: la superficialità è onestamente implicita nella loro ammissione d’immediatezza. Anche quelli fatti bene, nell’aiutare a capire vivono quanto il tempo di un buon articolo di giornale.

Non è il problema del saggio di Giorgio Cella, che insegna all’Università Cattolica di Milano. Il suo Storia e geopolitica della crisi ucraina è un tassello importante per capire ciò che sta accadendo davanti ai nostri occhi: una guerra europea nel XXI secolo. È il tassello della Storia, quello fondamentale per arrivare alla comprensione dei fatti politici di oggi: la genesi oltre un millennio fa, la vicenda del luogo-nazione nei secoli fino ai giorni nostri. Andando oltre le immagini quotidiane del conflitto, studiare la Storia non garantisce a un giovane un posto di lavoro, ma aiuta a capire il presente nel quale vive fino, a volte, a intuire il futuro.

Nella prefazione Massimo de Leonardis cita Napoleone: l’ Histoire d’un pays est dans sa geographie. Molte altre cose la determinano ma conta molto nel caso dell’Ucraina, terra di confine tra Est e Ovest, cattolicesimo e ortodossia, imperi che avanzano e arretrano: mongoli, tartari e khanati da Est; svedesi, teutonici, polacchi, gli Asburgo, i nazisti e, ovviamente, gli zar, i segretari generali del Pcus e ora Vladimir Putin.

Non sono queste le condizioni per consolidare un armonioso senso di patria. Ciò che nasce attorno all’anno mille non è una nazione ucraina ma la Rus’ di Kiev, cioè le radici della Russia cristiana. Cella stabilisce che «nella costruzione dell’identità nazionale ucraina» è fondamentale l’Unione di Lublino del 1569: «La manifestazione di una determinata nazione, di un determinato gruppo d’individui caratterizzati da specifici elementi in comune…e soprattutto di un destino comune». Ma anche in questo caso l’Unione fu fatta con polacchi e lituani. Circa un secolo più tardi l’etmano Bohdan Chmel’nyc’kyj avrebbe lasciato la sfera polacca per entrare in quella di Mosca dalla quale l’Ucraina non sarebbe più uscita.  Dal punto di vista storico, questo percorso dovrebbe confermare la convinzione di Putin: lo Stato ucraino non esiste. Tuttavia ciò che lo determina non è il tempo ma quando una comunità decide di farsi nazione sovrana. Fino all’inizio del secolo scorso in Palestina non esisteva un nazionalismo arabo-palestinese: lo fece nascere il nazionalismo sionista degli immigrati ebrei europei. Così è stato per l’Ucraina: a partire dal crollo dell’Urss all’inizio degli anni 90, l’idea di una patria ucraina si consolidò sempre più. Le elezioni truccate di Putin, il tentativo di sopprimere la rivoluzione di Maidan nel 2014, l’annessione di Crimea, il Donbass e Lugansk. Infine l’aggressione.

 La determinazione degli ucraini e la mediocrità dell’esercito russo rendono ora ineluttabile uno Stato ucraino indipendente e libero.

Ugo Tramballi Sole 24 Ore domenica 3 aprile 2022

*************

Storia e geopolitica  della crisi ucraina. Dalla Rus’ di Kiev a oggi
Giorgio Cella

Carocci, pagg. 352, € 36

Il volume, in un costante rimando tra dinamiche storiche e attualità geopolitica, si rivela uno strumento prezioso per l’analisi dei complessi fenomeni che hanno condotto, nei secoli, all’odierno conflitto in Ucraina, ad oggi la più importante crisi politico-militare su suolo europeo del XXI secolo. Una lunga traiettoria che dai tempi di Erodoto giunge sino ad Euromajdan, dove l’attenta ricostruzione storica si interseca con efficaci chiavi interpretative. L’autore fa inoltre emergere un mosaico culturale di grande interesse, spaziando in modo erudito lungo i secoli, gli eventi e i popoli di questo crocevia di religioni, imperi e identità: dalla Rus’ di Kiev ai cosacchi ucraini, dalle contese tra russi, polacchi e turchi sino all’era postsovietica e al processo di allargamento ad est della NATO. Un testo che costituisce un unicum negli studi di storia delle relazioni internazionali, cruciale per addentrarsi non solo nelle vicende dell’Ucraina e della sua crisi con Mosca, ma anche per una più generale comprensione degli avvenimenti di quella periferia centro-orientale d’Europa che, come Giorgio Cella sottolinea, è stata nel corso della storia del Vecchio Continente troppe volte gravemente trascurata.

 

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Esodo a nord-est

20/03/2022 da Sergio Casprini

La fuga da Pola nel 1947.

Una storia di dolore e violenza più attuale che mai

Roberto Persico Il Foglio Quotidiano 19 marzo 2022

Il 1° febbraio 1947 la motonave “Toscana” salpa da Pola verso Venezia, con a bordo 917 profughi. Per quasi due mesi il piroscafo fa la spola fra la città istriana e la laguna, trasportando in tutto 11.787 sfollati. Secondo i dati ufficiali, nello stesso periodo altre 15.340 persone hanno lasciato Pola usando battelli di linea o la ferrovia e l’unica strada che la uniscono a Trieste. In tutto dunque sono 27.256 gli abitanti di Pola che nei primi mesi del ’47 hanno abbandonato la loro città prima che fosse annessa alla Jugoslavia di Tito.

Detto così, “ l’esodo da Pola” sembra una cosa semplice. Ma dietro c’è un mondo. C’è la storia di una città fortezza nata nel 1856 come nuova sede della marina militare asburgica, passata in mezzo secolo da poco più di mille a oltre cinquantamila abitanti, miscuglio di austriaci, italiani, sloveni, croati. Ci sono le tensioni seguite all’annessione all’Italia nel 1919, con l’italianizzazione forzata e la facile identificazione italiani-fascisti, e poi le drammatiche vicende che hanno accompagnato la Seconda guerra mondiale, la lotta dei partigiani jugoslavi, la dura repressione fascista, i massacri delle foibe.

 C’è l’incertezza dell’immediato Dopoguerra, la città affidata all’amministrazione alleata mentre a Parigi si tratta sul suo destino, i comunisti slavi che cominciano a farla da padroni mentre gli italiani si organizzano in comitati per “Pola italiana” che mandano a Roma appelli poco ascoltati.

Poi, man mano a Parigi diventa chiaro che Pola diventerà jugoslava, il numero delle persone che lasciano la città comincia a crescere. Molti vorrebbero evitare lo sfollamento: gli jugoslavi, che non vorrebbero ritrovarsi con una città fantasma e cercano di frenare l’esodo con violenze su chi parte e promesse per chi resterà; le autorità alleate, che diffidano degli italiani e temono il caos; e anche il governo italiano, sulle prime, vorrebbe evitare una fuga di massa, implicita accusa alle proprie scelte e problema in più da gestire. Ma la realtà è più forte della propaganda: quando si aprono le liste dei partenti, il 90 per cento degli italiani si iscrive.

A questo punto, organizzare l’evacuazione è tutt’altro che semplice. Bisogna programmare la raccolta e la spedizione delle masserizie e perfino del bestiame, trovare i mezzi di trasporto e i centri di smistamento per le persone, identificare le destinazioni finali dei profughi, perché i punti di raccolta non diventino una sorta di campo di concentramento; e per tutto questo occorrono personale e denaro, che da Roma arrivano col contagocce e poca chiarezza.

Il merito di aver pianificato l’esodo, di aver evitato che una vicenda drammatica si trasformasse in un inferno – scrive in Pola città perduta (Ares) Roberto Spazzali, da trent’anni ricercatore dell’istituto regionale per la cultura istriano-fiumano-dalmata di Trieste – va soprattutto a due uomini, il prefetto di Venezia e il viceprefetto incaricato di pianificare l’esodo: “Mario Micali e Giuseppe Meneghini saranno due figure centrali per tutto ciò che riguarderà assistenza ed esodo, decisive per il lavoro svolto senza un momento di pausa, senza contrasti con gli uffici ministeriali e gli enti preposti alle complesse operazioni. Due figure progressivamente dimenticate nella memoria dell’esodo giuliano-dalmata, perché non cercarono benemerenze, riconoscimenti pubblici, vantaggi personali, e una volta esauriti gli impegni dell’incarico rientrarono nei ranghi dell’amministrazione senza nemmeno godere di una carriera particolarmente in vista”.

In un tempo che vive altre emergenze e altri modi di affrontarle, rievocare questa storia non sarà forse inutile.

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UCRAINA, QUELLI CHE NON SCELGONO: «NÉ CON PUTIN, NÉ CON LA NATO»

05/03/2022 da Sergio Casprini

Da Landini a Donatella Di Cesare e Rifondazione, chi ripete: «Non si risponde alla guerra con la guerra». Le posizioni neutraliste mettono sullo stesso piano aggredito e aggressore. 

Antonio Polito  Corriere della Sera 5 marzo 2022

In ogni talk show ce n’è uno. Quello che dice: più gli ucraini combattono e più dura la guerra. Siccome alla fine vincerà comunque Putin, prima Putin vince e prima ci sarà la pace. Elementare, Watson. Dunque, per il bene degli ucraini, non aiutiamoli a resistere, né con le sanzioni né con l’invio di armi. Questa inversione dell’onere della pace, per cui dovremmo essere noi, Occidente, a «cessare» una guerra avviata da Putin, evitando di farlo arrabbiare e fingendo di non sentire — ovviamente per il loro bene — gli ucraini che ci chiedono aiuto, può avere effetti paradossali.

Libertà e guerra

L’altra sera, per esempio, una valente filosofa, Donatella Di Cesare, cercava di convincere in tv una esterrefatta profuga ucraina, con i familiari sotto le bombe, che «non si conquista la libertà attraverso la guerra» e che «la pace è anche pensare di poter avere torto». Ma gli ucraini la libertà ce l’avevano già, e pure la pace. E tornerebbero volentieri al 23 febbraio, a prima dell’invasione. La guerra non l’hanno cominciata loro. E anche se, adesso che sono stati invasi, combattono per la libertà, negargli questo diritto ci costringerebbe a riscrivere tutti i libri di storia delle nostre scuole, e condannare Mazzini e Garibaldi e le tre guerre di indipendenza, e pure il poeta Byron che andò a battersi e morire per la libertà della Grecia, e strappare centinaia di pagine sulla autodeterminazione dei popoli. 

Lord George Byron con il costume albanese Thomas Phillis,1835.

Un esempio dalla storia

La frase chiave di questo argomento dice: «La pace è più importante di tutto, anche della libertà». È più o meno ciò che pensava la folla plaudente che accompagnò nel 1938 Neville Chamberlain, premier britannico, alla partenza per la conferenza di Monaco; dove, per salvare la pace, cedette a Hitler la regione cecoslovacca dei Sudeti, che venne annessa al Reich (le minoranze linguistiche sono sempre state un potente afrodisiaco dei tiranni). Si sa come finì: con la guerra mondiale un anno dopo. Winston Churchill, che era un grande giornalista e farebbe un figurone nei talk show dei nostri giorni, spiegò icasticamente che cosa era successo ai governanti inglesi: «Potevano scegliere tra la guerra e il disonore. Hanno scelto il disonore, avranno la guerra». Perché non c’è pace basata sul sopruso.

Aggredito e aggressore

Ma quel che più preoccupa è che il tentativo di invertire l’onere della pace non si limita ai talk show. Se ne sente per esempio l’eco anche nel movimento che oggi scende in piazza a Roma con la Cgil. L’altra sera abbiamo ascoltato Maurizio Landini a Tg2Post sostenere, con la sua abituale foga, che «noi dobbiamo cessare questa guerra», ed «evitare la Terza guerra mondiale che dice Biden», e che perciò invece di mandare le armi, perché «non si risponde alla guerra con la guerra», «bisogna che scenda in campo l’Onu». Intendiamoci: ottima idea, e lodevoli intenti. Ma chi è che impedisce all’Onu di scendere in campo, se non la Russia che ha posto il veto in Consiglio di sicurezza sul cessate il fuoco? E giustamente, dal suo punto di vista, visto che è il Paese aggressore. Il difetto di queste posizioni «neutraliste», che hanno portato la Cisl a non aderire alla manifestazione, sta proprio nel mettere sullo stesso piano aggredito e aggressore.

 Vecchi slogan

La riedizione di un vecchio e famigerato slogan degli anni di piombo, «né con lo Stato né con le Br», conclude il documento con cui Rifondazione comunista ha aderito al corteo di oggi: «Né con Putin né con la Nato». Vi si condanna sì, in due parole, «l’invasione russa dell’Ucraina». E però anche «l’espansionismo della Nato che ha deliberatamente prodotto un’escalation irresponsabile alimentando il nazionalismo ucraino e l’attacco contro le repubbliche del Donbass». Ora, si possono avere tante e legittime opinioni su che cosa sia successo in quella parte dell’Europa fino al 23 febbraio: ma non si può negare che oggi in Ucraina ci siano i carri armati e i missili russi, non la Nato. E se si è contro la guerra, è contro chi la fa che bisogna manifestare. 

La resistenza ucraina

Questo fronte contesta spesso al governo e al Parlamento italiano, e all’Europa tutta, di non avere una strategia: a che serve — chiedono — aiutare la resistenza ucraina? Si possono dare due risposte. La prima: a impedire o ritardare la vittoria dell’aggressore, o a mutilarla nel caso che la ottenga sul campo con migliaia di vittime innocenti, facendogli pagare un tale prezzo politico, economico e morale, da chiedersi se ne sia valsa la pena. La seconda: per evitare che lo rifaccia, lui o il suo successore. Perché dopo la Georgia siamo stati zitti, dopo la Crimea quasi zitti, e se tacciamo anche ora, dopo l’Ucraina — statene certi, cari pacifisti — la guerra toccherà anche alla Moldavia, e di nuovo alla Georgia, e magari anche ai Paesi Baltici.
Aiutiamo dunque chi resiste perché è giusto. Ma anche perché amiamo la pace. Amiamo la pace

 Torino 26 febbraio

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LE TRAME DELL’IMPERATRICE EUGENIA CONTRO LA CONTESSA DI CASTIGLIONE

22/02/2022 da Sergio Casprini

Cristina Trivulzio Belgiojoso ritratta da Henry Lehman

LETTERE al Corriere della Sera 22 febbraio 2022

Caro Aldo, ho letto con interesse la lettera a lei inviata da Piero Bini. Condivido in pieno le sue osservazioni sulla personalità di Cristina di Belgioioso, sul suo grandissimo contributo al Risorgimento italiano e sull’opportunità di dare a lei un risalto particolare nell’Italia di oggi. Vorrei aggiungere che il ruolo da lei svolto nella sua avventurosa vita, sempre inseguendo l’ideale dell’unità d’Italia, è anche di grande attualità nel campo dell’emancipazione femminile. Risulta che Cavour non la volle sostenere perché non amava le donne intellettuali… (meglio la Castiglione che intratteneva a letto le sue conoscenze!).              Anna Della Croce Diplomatica in pensione

Cara Anna, grazie per le sue parole preziose su Cristina Trivulzio di Belgioioso, che giustamente diceva: «Se fossi stata un uomo, avrei un monumento in ogni città d’Italia». Ma non sottovaluti il contributo dato all’unificazione da Virginia Verasis, contessa di Castiglione. Cavour, suo lontano cugino, la gettò nelle braccia di Napoleone III; ma è tempo di toglierla dal letto dell’imperatore per restituirla alla sua statura di personaggio storico. È l’operazione che compie nel suo ultimo libro — «La contessa», pubblicato da Adelphi — la francesista Benedetta Craveri, già biografa di Maria Antonietta. Virginia non fu soltanto una donna bellissima, antesignana dell’amore libero, della moda, financo della fotografia. Fu una persona appassionata e competente di politica. Sognava un’Italia unita che, grazie alla sorellanza latina con la Francia, potesse recuperare un ruolo di potenza culturale del continente. E, al di là del narcisismo mai nascosto, si prodigò per stringere quell’alleanza tra Torino e Parigi che avrebbe portato alla vittoria della seconda guerra di indipendenza e, per una felice eterogenesi dei fini, alla nascita di uno Stato unitario (in un primo tempo gli accordi tra Cavour e Napoleone III prevedevano la nascita di un Regno del Nord, che doveva unire Piemonte, Lombardia e Veneto). La grande rivale della contessa di Castiglione fu l’imperatrice Eugenia, spagnola fredda che odiava l’Italia, e arrivò a organizzare un finto attentato al marito sotto la casa di Virginia, in avenue Montaigne, per far ricadere su di lei la colpa. Aldo Cazzullo

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Lo scontro sul destino di Trieste

09/02/2022 da Sergio Casprini

Raoul Pupo racconta il dramma vissuto dalla città giuliana nel 1945 Le responsabilità del fascismo, il disegno annessionista della Jugoslavia

Antonio Carioti Corriere della Sera 9 febbraio 2022

Il Giorno del Ricordo, istituito per commemorare le vittime delle foibe e il dramma dell’esodo istrianodalmata, è una ricorrenza su cui grava l’ipoteca delle passioni di parte.

Anche la scelta del 10 febbraio si presta a qualche obiezione: non per la vicinanza al Giorno della Memoria riguardante la Shoah, a cui quest’altra celebrazione non ha mai fatto ombra, ma perché la data coincide con la firma del trattato di pace nel 1947. Se è vero che quell’atto segnò la perdita dei territori orientali dai quali gli italiani fuggirono in massa, è altresì innegabile che riportò il nostro Paese nell’ambito della comunità internazionale dopo la vergogna delle aggressioni fasciste.

Non è questo tuttavia il punto decisivo, ma il fatto che su quegli eventi terribilmente complessi abbondano le semplificazioni ideologiche. La destra postmissina, per non parlare di quella apertamente neofascista, coltiva una versione dei fatti avulsa dai precedenti e dal contesto storico, come se gli italiani al confine orientale fossero stati solo vittime e non anche, in precedenza, oppressori e aggressori. Ma c’è anche una sinistra che continua a giustificare l’azione violenta degli jugoslavi, considerata solo una rappresaglia per i torti subiti, e bolla il Giorno del Ricordo quale espressione di un aberrante «revisionismo di Stato» (così il critico d’arte Tomaso Montanari), del quale si sarebbero resi colpevoli perfino i presidenti Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella.

In realtà proprio a Mattarella va dato atto di aver operato con accortezza per valorizzare ciò che ci unisce alle repubbliche ex jugoslave grazie al progetto europeista, al di là delle memorie divise, in particolare con il duplice omaggio reso alle vittime italiane delle foibe e a quelle slave della repressione fascista, insieme al presidente sloveno Borut Pahor, il 13 luglio 2020. Era il centenario di un evento tragico, l’incendio appiccato dai seguaci di Mussolini al Narodni Dom (Casa del popolo slava) nel 1920. E non poteva essere commemorato meglio.

L’insegnamento che ne discende è non rassegnarsi alla logica perversa che fa del Giorno del Ricordo l’occasione per riproporre antiche contrapposizioni o addirittura per imporre, come cerca di fare la destra più aggressiva, una versione canonica e indiscutibile degli eventi in chiave nazionalista e vittimista. Semmai bisogna fare il contrario: continuare la ricerca per indagare la tragedia nelle sue diverse sfaccettature, tenendo conto di tutti i punti di vista. Cogliere l’occasione offerta dal Giorno del Ricordo per diffondere sempre di più la conoscenza dei fatti.

Queste sono le ragioni che hanno indotto il «Corriere della Sera» a mandare in edicola, previo aggiornamento da parte dell’autore, uno dei frutti migliori prodotti dalla storiografia italiana sul problema dei conflitti al nostro confine orientale: Trieste ’45 di Raoul Pupo.

Un’analisi attenta e completa della crisi che la città giuliana si trovò a vivere dopo la sconfitta del nazifascismo, quando le truppe del leader comunista Josip Broz, detto Tito, presero il sopravvento e cercarono di imporre l’annessione alla Jugoslavia. La repressione fu molto dura e non colpì certo solo soggetti legati agli ex occupanti tedeschi. Furono gli stessi esponenti del Comitato di liberazione nazionale (Cln) triestino, dal quale si erano staccati i comunisti, che dovettero tornare in clandestinità. Ed ebbero circa 160 caduti per mano jugoslava.

Pupo rievoca con grande efficacia quei giorni drammatici, durante i quali la capacità d’influenza del governo italiano era ridotta ai minimi termini per via della condizione di Paese aggressore e sconfitto in cui ci aveva relegato la politica scellerata di Mussolini. Per fortuna la preoccupazione anglo-americana per l’espansione del movimento comunista internazionale in Londra e Washington a contrastare il disegno di Belgrado con la necessaria fermezza.

Alla fine Iosif Stalin, che preferiva evitare guai in quella fase delicata, intimò a Tito di rassegnarsi con un eloquente telegramma: «Entro 48 ore dovete ritirare le vostre truppe da Trieste, perché non ho intenzione di iniziare la terza guerra mondiale a causa della questione triestina». All’epoca — siamo nel giugno 1945 — gli jugoslavi erano ancora ligi alle direttive del Cremlino, ma in quella vicenda possiamo individuare i germi della successiva rottura tra Mosca e Belgrado. Il Partito comunista italiano, che sulla crisi giuliana era in estremo imbarazzo per via dell’appoggio sovietico alle rivendicazioni jugoslave, poté tirare un sospiro di sollievo.

Trieste era salva e nel 1954, dopo alterne vicende, sarebbe tornata all’Italia. Ma i giorni dell’occupazione jugoslava erano stati molto duri e la Venezia Giulia sarebbe passata quasi tutta sotto Belgrado, con il conseguente esodo degli istriano-dalmati dalle loro terre e lo spopolamento di interi centri abitati. Il punto fondamentale sottolineato da Pupo, tuttora eluso da coloro che contestano il Giorno del Ricordo, è «il ruolo fondante della violenza di massa nella costruzione e nel consolidamento del regime jugoslavo». Non siamo di fronte a una semplice ritorsione, ma all’attuazione di un progetto politico annessionista e totalitario.

Sorto da una guerra di liberazione asprissima e vittoriosa, il nuovo potere jugoslavo ne aveva introiettato la carica di brutalità e la riversò nell’abbattimento di ogni ostacolo che gli si opponesse. E la grande maggioranza della popolazione italiana in Venezia Giulia, per i suoi legami con un altro Paese (per giunta collocato nella sfera d’influenza occidentale), costituiva uno di questi ostacoli.

Chiarito tutto ciò, il libro di Pupo ci aiuta a comprendere la necessità «di muoversi senza chiusure mentali all’interno dei diversi contesti nei quali si sono di volta in volta inserite le vicende di un territorio fortemente plurale». Il Giorno del Ricordo ha senso se lo si celebra senza scadimenti nazionalisti, nello spirito di riconciliazione su cui è stato costruito il processo d’integrazione europea. Non è facile, perché certe ferite lasciano il segno. Ma ci si può riuscire, come dimostra il lavoro di Pupo.

 

26 ottobre 1954 l’Italia ritorna a Trieste.

 

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