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OTTO VITE ITALIANE

15/06/2022
L’esecuzione dei fratelli Bandiera in una litografia realizzata nel 1864 da Gabriele Castagnola 

RISORGIMENTO VIVENTE 

Un saggio di Ernesto Galli della Loggia, edito da Marsilio, afferma l’esigenza di misurarci con i forti pensieri e le azioni conseguenti di una generazione che fu pronta a sacrificarsi per conseguire l’unità e l’indipendenza della patria

Autore      Ernesto Galli della Loggia

Editore     Marsilio

Anno         2022

Pag.           240

Prezzo       € 18,00 

 

I più pensano oggi al Risorgimento più o meno come ad un «evento remoto imbalsamato a dovere dai manuali scolastici», messo «sotto la naftalina del patriottismo più convenzionale». Quasi nessuno immagina che sia stata un’epoca di passioni autentiche, di persone disponibili a mettere a repentaglio la propria vita per degli ideali. E, se qualcuno lo vede in questo modo, ha poi difficoltà a spiegarsi cosa rese possibile la diffusione di passioni così intense. Perché? Se lo è domandato Ernesto Galli della Loggia imbattendosi in personaggi come Attilio ed Emilio Bandiera, le prime delle Otto vite italiane (le altre sono quelle di don Enrico Tazzoli con i martiri di Belfiore, Luigi Palma di Cesnola, Anna Kuliscioff, Andrea Caffi, Pietro Quaroni, Edda Ciano, Filomena Nitti) di cui si occupa in un libro interessante e appassionato dato alle stampe oggi da Marsilio.

Anna Kuliscioff a Firenze nel 1908.
 Foto di Mario Nunes Vais

Tornando al Risorgimento è lecito chiedersi che senso ebbero le vite dei due fratelli veneziani andati incontro alla morte per inseguire il «folle» progetto di scatenare la rivolta nazionale a partire dal cuore della Calabria? Che cosa può comunicarci la storia di don Tazzoli, finito sulla forca a quarant’anni per «aver desiderato la libertà e l’indipendenza del proprio Paese»? Queste vicende — scrive lo storico — potrebbero suggerire che dietro i giorni di «quest’Italia evanescente e incerta, sospesa sull’abisso di un declino che ha tutta l’aria di non essere passeggero», dietro i giorni «della nostra stessa esistenza, pure lei troppe volte evanescente e incerta», dietro «la sensazione di vuoto civile e umano che ci circonda», nel passato, c’è stato — e in qualche modo c’è ancora — «un pieno». Un «inaspettato e sconosciuto pieno di storia». Con lo spessore di «alti e forti pensieri» e di «azioni conseguenti» che «interpellano e forse potrebbero consolare la nostra solitudine». In effetti, se ci volgiamo al Risorgimento siamo costretti a «guardare a un tempo in cui qualcuno ha creduto che valesse la pena mettere insieme questa Penisola per darci la possibilità di decidere autonomamente di noi stessi». E che poi «valesse la pena difenderne le ragioni». Al punto «da rischiare la vita, o la carriera, o comunque un’esistenza tranquilla».

Baldassarre Verrazzi Episodio delle 5 giornate di Milano 1851

Attilio (1810-1844) ed Emilio Bandiera (18191844) erano figli del veneziano Francesco (1785-1847), già ufficiale della Marina del Regno italico (napoleonico), il quale si era battuto contro gli inglesi, al comando della cannoniera «Incorruttibile». Finita la stagione napoleonica e scontato qualche tempo in un carcere (degli inglesi) nel 1826, poco più che quarantenne, Francesco Bandiera era stato ammesso nell’imperial-regia marina austriaca. Dopo cinque anni, nel 1831 ebbe il suo momento di gloria allorché catturò nell’Adriatico un veliero, «Isotta», che trasportava verso Corfù un centinaio di patrioti. Fuggiaschi in rotta dopo un’insurrezione fallita in Emilia e ad Ancona, territori della Chiesa. Per quell’impresa Francesco Bandiera fu nominato contrammiraglio e insignito del titolo di barone dell’impero. La stima nei suoi confronti fece sì che alla corte di Vienna fu presa la decisione di assegnare alle sue dipendenze l’arciduca Federico Ferdinando, terzogenito del feldmaresciallo Carlo d’Asburgo distintosi anche lui nelle guerre napoleoniche (combattendo, ovviamente, contro Napoleone). Il figlio di Carlo, Federico Ferdinando, fu fin da giovanissimo assai stimato da Metternich che — dopo averlo fatto crescere «alla scuola» di Bandiera — lo avrebbe nominato, ad appena 23 anni, comandante in capo della marina austriaca. 

Gettato alle spalle il passato dell’«Incorruttibile», Francesco si era dunque perfettamente integrato nel nuovo regime austriaco che lo teneva in altissima considerazione. Già intravedeva per i figli un futuro simile al suo. A tal fine li aveva mandati a studiare all’Imperiale Collegio di Marina. Tutto sembrava indirizzarsi secondo i desideri del contrammiraglio: uscito dal collegio, Attilio, ufficiale di marina, aveva sposato Marietta Graziani, figlia del capitano di vascello Leone, confermando con quell’unione l’immagine di un’ottima «famiglia di marina» inserita ai livelli più alti della società militare austriaca.

Ma qualcosa non andò per il verso auspicato da Francesco Bandiera. Secondo Galli della Loggia già nel Collegio Attilio iniziò a nutrire sentimenti antiaustriaci. Il caso volle poi che fosse presente nel momento in cui il padre catturò il veliero dei patrioti. Non possiamo sapere, scrive Galli della Loggia, quante volte in seguito «egli abbia ripensato al momento in cui aveva sentito il padre dare gli ordini per la cattura del povero trabiccolo di quegli italiani insorti e sconfitti». Né ci è dato conoscere quante volte negli anni successivi «abbia rivisto il padre rallegrarsi per la sfilza di riconoscimenti piovutigli sul capo in conseguenza di quella cattura». Ma, alla luce di quel che accadde qualche anno dopo, è ipotizzabile che Attilio abbia covato già allora un sordo rancore nei confronti di quell’«impresa» paterna. È un fatto che nell’aprile del 1836, quando la nave su cui era imbarcato attraccò al porto di New York, Attilio si rivolse per lettera a Piero Maroncelli, esule in America. Maroncelli era un mito del Risorgimento dopo gli anni trascorsi con Silvio Pellico allo Spielberg dove (scoperto un tumore al ginocchio) gli era stata amputata una gamba. Graziato per via delle sofferenze patite, Maroncelli era emigrato a New York su un vascello della marina austriaca comandato — ironia della sorte — proprio da Francesco Bandiera. La lettera di Attilio (che si firmò «vostro servo e ammiratore») equivalse dunque ad un cambio di campo. Un consapevole passaggio dalla parte del «nemico». Al nuovo campo si unirono il fratello di Attilio, Emilio, e un altro ufficiale della marina austriaca, Domenico Moro. I tre diedero vita ad una società segreta, «Esperia», alla quale avrebbero presto aderito un centinaio di altri patrioti. Nello statuto dell’«Esperia» si raccomandava di non fare, se non «con sommo riguardo», «affiliazioni tra la plebe» dal momento che essa è «quasi sempre per natura imprudente e per bisogno corrotta». Per la ricerca di adepti, meglio rivolgersi «ai ricchi, ai forti ed ai dotti negligendo i poveri, i deboli, gli ignoranti». E ancora: «meglio i celibi che gli ammogliati, i giovani che i vecchi».

Nel 1842 Attilio — tramite Moro — prende contatto con Giuseppe Mazzini prospettandogli un ammutinamento e la cattura della nave su cui è imbarcato. Mazzini ne è entusiasta. Basta solo «dare l’avvio» — spiega all’amica londinese Jane Carlyle — e tutto il resto sarebbe venuto quasi naturalmente. La Carlyle gli obietta: «Credi davvero di poter rovesciare con una sola nave da guerra l’intero impero austriaco e per di più in una situazione generale di pace in Europa?» Mazzini le risponde, appunto: «Perché no? Basta solo dare l’avvio». Nell’estate del 1843 i fratelli Bandiera elaborano il piano per la cattura di quattro vascelli, uno dei quali comandato dal loro padre che sarebbe stato da loro tratto in arresto. Emilio, nel frattempo, era stato promosso aiutante di campo dell’ammiraglio Amilcare Paulucci delle Roncole, comandante in capo della marina imperiale (i cui figli erano anch’essi affiliati all’«Esperia»). La rete cospirativa aveva fatto un gran numero di proseliti ma un delatore al quale Mazzini aveva affidato alcune lettere per i fratelli Bandiera («con una leggerezza per lui non inconsueta», scrive Galli della Loggia) con una semplice spiata riuscì a far crollare l’intera impalcatura.

Colpiscono — in effetti — l’ardimento ma anche l’improvvisazione che caratterizzarono la rete cospirativa mazziniana. Jane Carlyle — in una lettera al marito — si domanda: «Che razza di cospiratore è uno che, per esempio, delle sue operazioni segrete rivela a me proprio tutto, fino ai minimi particolari, perfino i posti dove dovranno scoppiare le insurrezioni e i nomi della gente che le organizza?». Galli della Loggia non sorvola su questo aspetto dilettantistico e ingenuo della vicenda. Anzi, lo mette nel dovuto risalto. Quasi a sottolineare la passione idealistica di Mazzini e dei fratelli Bandiera.

Nel febbraio del 1844, Attilio Bandiera, sentendosi scoperto, abbandona la propria nave diventando automaticamente un disertore. lPoco tempo dopo lo raggiunge il fratello mettendo nei guai una serie di amici, tra cui l’ammiraglio Paulucci al quale viene tolto il comando. Emilio prende commiato dal padre con queste parole: «Signore, una carriera opposta percorremmo… La vostra era quella che rifulgeva del prestigio della potenza, la mia quella dell’Italia, d’una patria caduta, desolata, avvilita… e soldato austriaco per caso, cospirai, a vent’anni cospirai». Anche Domenico Moro salta il fosso e si unisce ai Bandiera.

Siamo nell’aprile del 1844 e i cospiratori ordiscono un piano che prevede di raggruppare uomini in Corsica e sbarcare poi in Maremma, nei pressi di Tarquinia. Di qui — scrive Attilio Bandiera al mazziniano Nicola Fabrizi chiedendogli finanziamenti — i rivoltosi avrebbero raggiunto Viterbo per stabilirsi sul monte Soriano «montagna aspra abbasta per potervisi difendere e contornata da frequenti villaggi atti a procurarci la sussistenza». Da quel «nido sicuro» avrebbero potuto dominare le strade che vanno a Roma, «tentare qualche colpo su Civitavecchia le cui fortificazioni verso l’Est e il Sud sono debolissime», «meglio ancora su Civitacastellana» dopo le quali avrebbero fatto «qualche irruzione in Roma stessa». A Roma? Sì, per catturare «qualche rilevante prigioniero» (Pio IX?). A Fabrizi l’impresa appare sconclusionata e rifiuta di concedere i fondi.

Ma i fratelli Bandiera non si perdono d’animo e decidono di dirigersi verso la Calabria dove hanno sentito dire di patrioti pronti a insorgere nei pressi di Cosenza. Approdati alla foce del Neto vengono a sapere che a Cosenza non c’è nessuno che sia disposto a muoversi. Decidono di marciare ugualmente sulla città guidati da un noto bandito del luogo, Giovanni Meluso. Nel frattempo, un loro compagno, Pietro Boccheciampe, li va a denunciare alla gendarmeria di Crotone. Nei pressi di San Giovanni in Fiore incontrano finalmente una folla in parte armata. Che però grida «A morte! Eccoli!» e inneggia al re Borbone. Vengono catturati e portati in tribunale.

Al processo Attilio Bandiera adotta una strana linea di difesa. Sostiene di aver appreso a Corfù che in Calabria era in atto una finta rivolta segretamente promossa da Ferdinando II per avere un pretesto che gli consentisse di concedere la Costituzione. I magistrati non credono alle loro orecchie, vengono ascoltati solo i testimoni dell’accusa e si procede alle condanne: nove imputati (su diciassette) vengono mandati a morte e fucilati. Tra questi ultimi, i fratelli Bandiera.

La loro storia non finisce qui. I loro corpi verranno sottratti, da un gruppo di liberali cosentini, alla fossa comune. Nel 1848 i «rivoluzionari» proveranno a portarli in cattedrale. Subito dopo, in tempo di reazione borbonica, re Ferdinando aveva ordinato di gettarli nel Crati. Ma per la seconda volta i loro compagni di fede li avevano messi in salvo. Nell’estate del 1860 il generale Nino Bixio quando fu sul luogo dispose che fosse loro data degna sepoltura. Infine, nel 1867 le urne con i loro resti furono riportate a Venezia dove si formò una lunga fila di imbarcazioni che li accompagnò sul Canal Grande.

Noi — riflette adesso Galli della Loggia — ci siamo ridotti a frequentare quelle storie, anzi la storia dell’intero Risorgimento, «soprattutto come una sorta di deposito di munizioni per le nostre dispute politico-ideologiche». Ciò che «è frutto del carattere divisivo che, fin da principio ha avuto la vicenda dell’Italia unita». Il modo stesso della riunificazione della Penisola in un solo Stato ha rappresentato — «caso unico tra i paesi d’Europa che contano qualcosa» — un motivo di «divisioni feroci quanto durature, le quali si può dire che, attraverso varie tappe e in varie forme siano durate più di un secolo». Divisioni più che tra popolo ed élite, all’interno della stessa élite, con i vari settori di questa inclini a scontrarsi tra loro «per abitudine precoce alla pratica di una spietata, reciproca delegittimazione».

La storia dei fratelli Bandiera, conclude Galli della Loggia, dovrebbe invece strapparci «al mutismo di questo tempo senza parole e senza idee». E invitarci «a pensare a ciò a cui da molti anni non pensiamo più»: alle «forme e alle ragioni di una convivenza che continua a non avere nulla di scontato». La storia di queste «vite lontane» non può certo servirci a comprendere il presente. Semmai «può servire a risospingerci verso il futuro». In che senso? Quello di «uscire dal torpore senza fine, dall’inerzia immemore in cui siamo immersi». A immaginare anche noi — «come, in condizioni pur così meno facili, immaginarono quei nostri antenati di cui ormai a stento ricordiamo i nomi» — che cosa potremmo essere.

Paolo Mieli   Corriere della sera 14 giugno 2022

Canneto sull’Oglio. Monumento a don Enrico Tazzoli, uno dei martiri di Belfiore

 

 

 

 

Pubblicato in: Rassegna stampa
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