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Risorgimento Firenze

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Focus

DA PAPINI A PIRANDELLO. ROMA “CITTÀ INFETTA”

20/08/2022 da Sergio Casprini

Cosa è Roma per noi italiani? Non intendo dire per il resto del mondo, per tutti i turisti che ne visitano – ammirati – i monumenti incomparabili, ma cos’è per noi che l’abbiamo come capitale? La città è da tempo allo sbando: dai cinghiali che la invadono alle metropolitane che funzionano a singhiozzo, dalle montagne di spazzatura al manto stradale così disastrato da aver causato più di un morto; ma proprio per questo colpisce l’assoluta sua assenza nel nostro discorso pubblico, come se nessuno avesse nulla da dire sull’argomento, come se parlassimo di una città di un altro paese. Una possibile spiegazione potrebbe essere che – essendo stata governata Roma da sindaci di ogni colore – il disastro in cui versa da tempo non può essere utilizzato nella polemica politica spicciola e dunque dell’argomento non si parla. Ma in realtà c’è dell’altro, e non da oggi: un’ostilità sotterranea, una diffidenza antica che affondano le radici nella cultura del paese, nella sua memoria profonda. 

 

Giosuè Carducci

L’immagine di Roma era stata ben presente ai protagonisti del Risorgimento e si trattava in realtà, come è noto, di un’immagine assolutamente positiva. Nel 1849 Giuseppe Mazzini entrava nella città “trepido e quasi adorando”, convinto che dal Campidoglio, liberato dal giogo papale, si sarebbe dovuta proclamare l’universale liberazione dei popoli. Il mito di Roma avrebbe attraversato i decenni successivi, fino e oltre la conquista della città nel 1870, assumendo caratteri diversi. Per Carducci, che svolse un ruolo essenziale nell’alimentare quel mito presso generazioni di italiani, Roma rappresentava l’Italia ideale da contrapporre a “Bisanzio”, cioè alla prosaica e deludente realtà dell’Italia reale. Per Mussolini, vari decenni dopo, i tonitruanti richiami all’antica Roma imperiale sintetizzavano l’obiettivo di una nuova potenza italiana e i valori di forza e gerarchia che erano centrali nell’ideologia fascista.

Carlo Dossi

Ma parallelamente si erano diffuse da tempo nel paese anche immagini negative dell’urbe, che per qualcuno non era adatta a essere la capitale di un paese moderno, gravata com’era da un così ingombrante passato, dalle vestigia di una antica grandezza. L’arrivo degli uomini e delle strutture del nuovo stato non attenuava questo carattere di città non-moderna, come mostrava la stessa rappresentazione del ministeriale ozioso divenuta presto archetipica e sopravvissuta fino a oggi. Ecco quel che scriveva nel 1872 Carlo Dossi, allora dipendente del ministero degli Esteri: “Sono le 12.30. Gli impiegati cominciano a comparire tartarughescamente, ma nessuno si decide a far qualche cosa. M’accorgo che nei ministeri l’ozio è eretto ad impiego”. La popolazione della capitale, affermò quarant’anni dopo Giovanni Papini nel celebre e contestatissimo “Discorso di Roma” del 1913, “non aveva nessuna voglia d’ingegnarsi né di lavorare, abituata come era a vivere di benefici ecclesiastici e di minestre di frati”. Il discorso di Papini, che era allora nella sua breve fase futurista, voleva esplicitamente épater le bourgeois (e il pubblico infatti reagì lanciando frutta e ortaggi contro l’oratore). Ma nella sostanza quell’idea di Roma come città parassitaria, che viveva sulle spalle del resto del paese, era e sarebbe rimasta diffusissima.

Anche perché, in quegli stessi anni, avviandosi decisamente l’industrializzazione della penisola, si affermava pure la convinzione che il motore dello sviluppo economico italiano andasse trovato nel Settentrione e non certo in una città come Roma, in cui l’unica industria era quella dei forestieri. L’immagine di una città prigioniera del passato e refrattaria alla modernità veniva rafforzata dalla contrapposizione con Milano, che a molti appariva come una capitale alternativa. Una città, quest’ultima, che era effettivamente all’avanguardia dello sviluppo industriale e commerciale del paese e a stretto contatto con l’Europa più progredita. 

C’era poi chi notava che l’Italia era un paese di città (delle “cento città”, secondo la celebre definizione di Carlo Cattaneo), la cui vera identità era legata alla dimensione provinciale, prima che nazionale. Un paese perciò che mai avrebbe potuto avere nella capitale il suo centro pulsante, com’era invece Parigi per la Francia. Tanto più che prima dell’unità d’Italia, alcune di quelle città erano state a loro volta delle capitali: da Torino a Firenze, da Venezia a Napoli.

Luigi Pirandello

Ma soprattutto, tra le varie immagini negative di Roma la più potente fu quella della città come capitale della corruzione. Nata a fine 800, a partire dalla “febbre edilizia” di quegli anni e di scandali come quello della Banca romana, l’idea che la capitale, in quanto sede della politica nazionale, fosse anche luogo di collusione tra mondo della politica e mondo degli affari, dunque il centro dell’affarismo e della corruzione, ebbe subito una diffusione enorme. La letteratura ci avrebbe subito messo del suo, dipingendo Roma come “una città infetta” (D’annunzio), colpita da una “torbida fetida alluvione di melma” (Pirandello). Di tutte le rappresentazioni negative dell’urbe questa era destinata a essere la più longeva, che non sarebbe stata scalfita alla fin fine nemmeno dalle inchieste milanesi di Tangentopoli. Ma allora, se letta alla luce di certe antiche rappresentazioni negative, di certi sedimenti profondi della nostra cultura, l’assenza di qualunque riferimento alla capitale nel nostro discorso pubblico (e nella campagna elettorale), per quanto censurabile, diviene meno incomprensibile.

Giovanni Belardelli Il Foglio Quotidiano 20 agosto 2022

 

 

 

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UNA FAMIGLIA QUALUNQUE A FIRENZE NEL SECOLO SCORSO

26/07/2022 da Sergio Casprini

Ponte alla Vittoria e Oltrarno nei primi anni del 900

Nel 1918 ogni mattina prima delle 6 mio nonno Leone, falegname stipettaio, usciva dalla sua casa in Oltrarno, in via della Fonderia, vicino al Ponte alla Vittoria, e si incamminava verso le colline sopra il Galluzzo, diretto alla villa che il Principe Abamelek aveva messo a disposizione dello Stato italiano.

Lì venivano portati dall’ospedale militare i soldati che avevano subito amputazioni agli arti. Mio nonno e gli altri falegnami specializzati prendevano accuratamente le misure, proprio come fanno i sarti, ma invece che un cappotto o una giacca dovevano rifare dita, mani e piedi a persone che non le avevano più. Le falangi dovevano avere i loro snodi e poter essere piegate, un polso doveva ruotare quando serviva, il lavoro, perfetto dati i materiali di allora, doveva permettere alla persona, una volta applicata la protesi, di impugnare fermamente o reggere un oggetto con la mano di legno, e di lavorarci con l’altra. Oppure di stare in piedi su piedi di legno, anch’essi snodabili.  Si lavorava mantenendo un ritmo elevato ma regolare, che permettesse agli artigiani di rendersi conto bene di ciò che facevano perché ogni protesi era diversa e doveva servire per la vita. Molti soldati, a parte le mutilazioni, apparivano emaciati e in cattive condizioni generali. Un giorno mio nonno si sentì male. Un grande senso di tristezza e di oppressione. Non vedeva i colori, tutto sembrava grigio. Era spossato, aveva la febbre alta e respirava a fatica. Aveva preso la Spagnola. In casa sua la prese anche la bambina più grande, Aurora, di 5 anni, mentre furono risparmiate la nonna Dina e la Leonetta, di 2 anni. Poi Aurora guarì, e guarì anche il nonno, e tornò a lavorare, ma per diverso tempo quel senso di tristezza gli rimase. Ritornò a vedere i colori piano piano e tornò tutto come prima.

Sono passati un po’ più di cent’anni da allora, mio babbo non era ancora nato, delle zie più grandi una già sgambettava per il mondo, l’altra si mordeva i piedi con un certo entusiasmo, ma ancora non camminava. Le altre due zie sarebbero spuntate poi, dopo la nascita di mio padre. Videro la luce in un mondo diverso da quello su cui si erano affacciate le sorelle maggiori, e tutti i sabati sarebbero state vestite da Piccole Italiane, calzini bianchi, gonna nera, camicetta bianca con lo stemma quadrato verde-bianco-nero-rosso (deduco che questi fossero i colori) dalla parte del cuore, e un baschetto in testa, col braccino destro sollevato nel saluto romano, tutte serie, come racconta la piccola foto in bianco-nero che ho trovato dopo la morte della Pippa.  So che ai nonni dover mandare le bambine alle cerimonie di regime non piaceva per niente. E poi l’uniforme costava: era una spesa obbligata che, per famiglie che tiravano la cinghia, pregiudicava irrimediabilmente l’acquisto di cose davvero indispensabili, come altra legna per la stufa, un po’ di cibo in più, un paio di scarpe.

Riguardo al fascismo, l’atteggiamento giovanile delle componenti della nidiata familiare rimase strettamente collegato con l’anno di nascita: Aurora, nata nel 1913, e Leonetta, nata nel 1917, conservarono fin da piccine una certa distanza, una impermeabilità riservata. Semmai, in via della Fonderia, nel quartiere di San Frediano, andavano alla parrocchia del Pignone e frequentavano alcuni religiosi, di buona caratura morale, che si mantenevano molto freddi verso il regime. Le ripetute violenze delle squadracce, la notte di sangue del 1922, la paura diffusa nel quartiere, tra i vicini e gli amici, avevano lasciato come un deposito nella testa delle due sorelle maggiori, che le aveva protette e vaccinate anche quando il fascismo, indossato il doppiopetto, assunse l’immagine benevola e rassicurante di Mussolini padre ideale di tutti i bimbi d’Italia.

Mio babbo, nato nel 1920, da ragazzino era anche lui un po’ nella scia delle sorelle più grandi e di Leone, il padre falegname, che aveva sempre uno o due amici sovversivi che venivano a trovarlo in bottega, per chiacchierare, sfogarsi e fare qualche battuta in libertà. Così, a mio babbo ragazzino, del Duce e del Re gli importava il giusto. Aggiungerei che anche il Papa non doveva garbargli troppo, anche se poi andava con gli amici a suonare le campane al Pignone, e salivano non visti sul tetto del campanile, ma quello era per avventura. Però lo affascinavano il transatlantico Rex, che sarà affondato nel 1944, e tutte le meraviglie della nostra Marina, militare e civile. A dodici anni era fermamente convinto che in Italia si facessero le navi più belle del mondo. Così si infilò nei Balilla Marinaretti, indossò la divisa blu della Marina Militare italiana e il sabato andava a remare sull’Arno. Gli pareva una cosa più allegra e romantica che il sabato doversi mascherare col fez, la camicia nera e i pantaloni corti grigioverdi, come la maggior parte dei suoi compagni di scuola. Veniamo alle sorelle più giovani, Giuseppina (le dettero questo nome per via di Garibaldi, ma poi in casa l’hanno sempre chiamata Pippa) aveva i capelli rossi, era agile, snodata, burlona, spepera, menefreghista e, anche se con la nonna Dina c’era poco da scherzare, riusciva più degli altri a fare come le pareva. Ragazzina ideale per figurare nei saggi ginnici, una volta in quarta elementare, doveva essere il ’32, vinse anche un concorso su tema assegnato, roba tipo ‘i doveri dei bambini italiani’ o ‘il compito dell’Italia nel mondo. La fotografarono mentre il ras Alessandro Pavolini consegnava proprio a lei l’attestato di merito, e il fatto che quella fotografia fosse stata prudentemente distrutta, nei giorni della Liberazione, fu sempre vissuto con cruccio e rabbia da parte della Pippa: ‘macché problemi e problemi, avevo 9 anni, il mio tema era stato il migliore e la foto era un documento storico. Oltretutto era mia. Perché distruggerla? Non c’era da aver paura, la guerra ormai ci aveva aperto gli occhi, a tutti, e avevamo rifiutato il fascismo…’ e via dicendo.

Maria Grazia era l’ultima, morta un anno fa a 96 anni e mezzo dopo che, disciplinatamente in ordine di età, le altre sorelle e il fratello se ne erano andati  al termine di vite lunghe, spesso sofferte, a momenti serene, vissute con coerenza, testardaggine e ironia, ognuno a suo modo. Aveva 15 anni quando scoppiò la guerra, le sorelle più grandi lavoravano, Aurora appena sposata era rimasta vedova con due bambine piccolissime, Nando lavorava e studiava, la nonna Dina tornava stanca dal suo lavoro di bidella, il nonno Leone lavorava senza riuscire a farsi pagare. La Pippa stava a scuola di ricamo da due sorelle ricamatrici fiorentine, straordinariamente brave, e in casa non dava grandi aiuti. Così tutto il peso della casa, lavare, stirare, cucinare, riassettare, cambiare le bambine, ricadeva sulla Grazia, che si sentiva prigioniera e derubata della vita. Dopo le elementari era andato avanti negli studi soltanto Nando, per l’opera di convincimento sulla nonna di alcuni suoi insegnanti, per le borse di studio, perché maschio. Invece le sorelle, terminata la scuola dell’obbligo, vennero avviate al lavoro. Nessuna di loro era svogliata o stupida, anzi! Ma in famiglia soldi non c’erano, e bisognava scegliere.

Il 10 giugno 1940 Maria Grazia meditava sul grigiore dei suoi 15 anni e sui sogni infranti quando sentì la notizia: ‘Combattenti di terra, di mare, dell’aria… l’ora  segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria… l’ora delle decisioni irrevocabili… la dichiarazione di guerra è stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia! Scendiamo in campo…’ e pensò immediatamente: bene che c’è la guerra, qualcosa si muoverà, alla fine cambierà qualcosa, in questo grande squallore… che razza di imbecille che ero, io, Maria Grazia,in seguito si disse, quando nella guerra ci cascammo in pieno: non mangiavamo, le cannonate ci portavano via pezzi di casa e io tornavo dal lavoro, nella città vuota, con i passi dei soldati tedeschi che mi seguivano… Ma queste cose le sappiamo sempre col senno del poi! A 15 anni per un momento credetti che la guerra potesse essere un’opportunità, e come me lo credettero molti adulti che pure avevano passato la Grande Guerra, e dovevano sapere come stavano le cose. Però mio babbo, mia mamma, le mie sorelle maggiori e mio fratello videro fin da subito il nostro ingresso in guerra come una tragedia. Probabilmente anche la Pippa, chissà.

Ho raccontato un pezzettino della storia di una famiglia come tante, normali vite di donne e uomini non illustri che non avrebbero interessato la penna di Plutarco, che proponeva degli exempla. E la storia acquista un senso partendo dalla gente comune, dai fatti, dalle esperienze, dalle contraddizioni, dagli ideali e dalle speranze della gente. Ascoltiamo un po’ di più le testimonianze delle persone comuni, mettiamole a confronto, da quarant’anni ormai donne e uomini raccontano pochissimo della propria vita passata, delle proprie scelte ed esperienze. Facciamo che non sia così. Ci aiuterà ad essere migliori, come storici e come esseri umani. 

Livio Ghelli

 

 

 

 

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SIAMO FIGLI DELLA LIBERTA’

07/07/2022 da Sergio Casprini

  “Fare un Quarantotto” è un modo di dire che indica il crearsi di confusione e scompiglio. Deriva dai moti che sconvolsero l’Europa nell’anno 1848 e coinvolsero anche la nostra penisola, con l’inizio delle battaglie decisive del Risorgimento Italiano. Videro protagonisti tanti uomini e donne che si riunirono sotto un ideale di libertà. Fu la nostra prima guerra d’indipendenza. La meno fortunata, forse. Senz’altro la più eroica. Tale da innescare quel processo infine sfociato nella nascita di uno Stato italiano unitario e sovrano.

Il Comitato Valdarnese per la Promozione dei Valori Risorgimentali, la sezione editoriale del Varchi Comics e Big Ben Studio si sono uniti per realizzare questa splendida antologia a fumetti, che s’intitola Siamo figli della libertà. Tutte storie vere, eroicamente e tragicamente vissute, ricostruite minuziosamente sulla base di ricerche d’archivio e consultazione di numerosi documenti dell’epoca. Una testimonianza di come, anche dal Valdarno Superiore, soldati e volontari imbracciarono le armi durante l’epopea risorgimentale per liberare l’Italia, darle unità e indipendenza nazionale. Si tratta di un unicum nel suo genere. Un modo nuovo per divulgare la nostra storia anche presso le generazioni più giovani, studenti e non solo, bisognose oggi più che mai di recuperare la conoscenza del passato, delle vicende che hanno forgiato quella madrepatria che non possono continuare ad abitare nell’inconsapevolezza e nell’indifferenza. Pena il venir meno di qualsiasi governo. Questo potrà anche imporsi, ma non godrà di fiducia, se di fronte ha una comunità disgregata e disciolta nei mille rivoli dei particolarismi locali e individuali. Senza identità condivisa, nessun futuro nazionale può essere costruito. Mancano le basi, ampie e solide.

Danilo Breschi ha firmato l’introduzione al fumetto (Siamo figli della libertà, a cura di Francesco Benucci e Gianluca Monicolini, Phasar Edizioni, Firenze 2022, pp. 112, € 14,00. Disegni di Gianluca “Borg” Borgogni, Alessando De Col, Samuele Frattasio, Davide Landi, Caterina Mendolicchio, Elisabetta Simonti, Francesco “Frenks” Tassi. Sceneggiature di Francesco Benucci, Alessandro Bighellini, Alessandro De Col, Gianluca Monicolini, Corinna Pieri, Lorenzo Rotesi, Francesco “Frenks” Tassi). Per gentile concessione dell’Autore ne riproduciamo qui di seguito il testo

 

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“Loro credevano e per la libertà combatterono”: storie di umili eroi della libertà, esempi di vera amicizia 

  

 Danilo Breschi

 L’epica, questa sconosciuta. Anzi, rimossa. Una visione epica degli eventi storici è, a suo modo, una visione religiosa del mondo. Religiosa nel senso che mostra sia quanto l’essere umano possa farsi grande sia quanto questa sua grandezza sia autentica e feconda se e solo se la sua azione entra in sintonia con qualcosa di ancor più grande, che è al contempo istanza prima ed ultima. Si tratta delle forze che muovono la storia in senso edificante, costruttivo e migliorativo. Cos’è migliore? Cos’era tale per i giovani uomini e le giovani donne che, dal Valdarno superiore così come da ogni parte della penisola, talora rientrando da esili politici che li avevano costretti all’estero, si fecero militi volontari per l’unità e l’indipendenza dell’Italia?

Essere migliori significava per loro diventare più uniti e finalmente indipendenti, ossia liberi. Quel di più poteva darlo solo l’edificazione di uno Stato nazionale. Molti di quei volontari pensarono pure che la futura comunità politica nazionale dovesse avere forma repubblicana, affinché quell’unità e quella libertà trovassero concretezza e stabilità garantite per tutti da una costituzione.

Repubblica Romana.  Attacco del 30 aprile  (Museo Centrale del Risorgimento, Roma)

Nell’epopea risorgimentale, che non terminò nel 1861, una tappa luminosa fu la breve ma intensa esperienza della Repubblica romana del 1849. La Costituzione che ne scaturì fu un modello che ispirò persino le democrazie del secolo successivo. Fu la primavera della cittadinanza italiana ed europea.

Grazie alla passione per la storia e al talento per il disegno è nato un sodalizio di valdarnesi fiorentini e aretini, di nascita o acquisizione, che riporta alla luce dieci storie di alcuni e alcune, fra i molti e le molte, che contribuirono ad un’Italia una e indipendente. Militi volontari che è tempo di far transitare dallo status di ignoti a quello di noti, anzi famosi. Esempi di cui i giovani e le giovani di oggi, a quasi due secoli di distanza, possono andar fieri come italiani, come italiane. Ribadisco questo duplice riferimento di genere non per ossequio ad una stucchevole e talora ipocrita political correctness. Ribadisco perché proprio le vicende storiche messe magnificamente in scena dalle tavole illustrate di questo libro ci dicono di quante donne, giovani o meno, aristocratiche o popolane, s’impegnarono attivamente per la causa dell’Italia una e indipendente. Un impegno d’arme, di lingua, di sangue e di cuore. Combatterono di penna e persino di spada, o moschetto.

Di un po’ di eroi, quel tanto che basta, c’è sempre bisogno. E comunque in certi periodi della storia di un popolo è necessità indubbia, salutare. Eroe inteso come colui che si fa coraggio, si eleva al rango di coraggioso. E qui ci sovviene e conforta la lezione degli antichi. Nella sua Etica al figlio Nicomaco Aristotele ci insegna che «i coraggiosi agiscono per amore del bello, e l’impulsività coopera con loro; le bestie, invece, agiscono per il dolore, per il fatto di essere state colpite o spaventate».

Copia romana in  Palazzo Altemps a Roma del busto di Aristotele di Lisippo 

 E i Greci sapevano che il bello in senso proprio è anche il vero e il bene. Coincidono. Un’estetica non disgiunta dall’etica e dalla verità (storica) troverete perfettamente tradotta nelle tavole illustrate e sceneggiate con passione e talento.

Resterete avvinti dalle storie di questi umili eroi della libertà, esempi anche di cosa significhi essere veri amici. C.S. Lewis descrisse l’amicizia come quel legame affettivo che nasce quando una persona dice ad un’altra: “Cosa? Anche tu? Credevo di essere l’unico”. È scoprire la condivisione, in questo caso di un’idea alta e nobile perché rende la vita cosa degna, e dunque non più cosa, ma fuoco ardente. Fuoco che è logos. Sin dalle origini, pensate ad Eraclito, si è umani a pieno titolo se svegli e non dormienti. Solo chi è sveglio può intendere la verità, la struttura del mondo. Solo da svegli è meno difficile distinguere il bene dal male, ciò che rispetta e accresce la struttura intima e ultima del mondo da ciò che la ferisce e distrugge. Rendersi degni e diffondere tra il popolo il desiderio di dignità vuol dire combattere l’umiliazione, disdegnarla per sé e per gli altri. Questo il compito, tanto scomodo quanto esaltante, che vollero accollarsi i protagonisti delle storie qui poeticamente illustrate.

So bene quanta sete di combattenti per il bene della libertà e della giustizia scorra nelle vene dei giovani italiani ed europei di oggi. Se dormono, o così pare, è solo perché, sin da piccoli, sono stati imboccati con dosi massicce di cinismo e nichilismo. Non c’è più nulla per cui svegliarsi e drizzarsi, perché nulla vale una tale pena. Meglio dunque dormire. Così è stato tramesso dagli adulti di ieri e di oggi, a parole o con gesti, e molte omissioni. Poi, una sera, ti sorprendi a vedere frotte di ragazzini a far la coda al botteghino per l’ultimo film della saga degli Avengers o di Hunger Games (dove, peraltro, l’eroe è una ragazza che impugna le armi in nome della libertà). E allora cosa c’è di meglio, genitori e insegnanti, cosa di più coerente con il vostro ruolo e la vostra missione, se non prendere questo libro e regalare le sue immagini e storie di giovani eroi ai vostri figli e ai vostri studenti

 

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UN VERO ALPINO DIFENDE LE RAGAZZE, NON LE MOLESTA

14/05/2022 da Sergio Casprini

LETTERE al Corriere della Sera 13 maggio

Caro Aldo, non credo che tante donne si siano inventate molestie da parte degli alpini, e siccome siamo un Paese «garantista» aspettiamo la solita inchiesta. Se le accuse risulteranno vere, allora potremo dire che esse sono l’ulteriore manifestazione del degrado in cui versa l’Italia, anche nei suoi lati una volta nobili.  Anna Maria Bruscolini

Cara Anna Maria, di solito nelle discussioni pubbliche italiane prevalgono sempre i sentimenti e gli orientamenti privati: per la mamma dell’alpino, l’alpino è innocente, per la mamma della ragazza molestata, l’alpino è colpevole; la sinistra chiede la massima severità, i giornali di destra titolano «la sinistra molesta gli alpini». Vogliamo provare a uscire dallo schema? Il lavoro mi ha portato diverse volte tra gli alpini, nelle caserme in Piemonte e nelle missioni all’estero. Ho incontrato soldati di grande spessore professionale e morale: gente che parlava le lingue straniere, che aveva non solo la storica disponibilità al sacrificio ma soprattutto un addestramento specifico. I primi ad avere tutto l’interesse affinché sia fatta piena luce su quanto è accaduto a Rimini sono proprio loro. Non è inutile ricordare che la responsabilità è sempre individuale, mai di un corpo militare o di un’istituzione nel suo complesso. Qui però parliamo di molestie di gruppo, quindi particolarmente odiose e gravi. Anche se in un primo tempo sembrava che ci fossero poche denunce non per questo le cose sono meno gravi; tanto più che adesso le segnalazioni fioccano. Vuole la mia sensazione, gentile signora Bruscolini? Non c’è un degrado del Paese; anzi, ci sono segni di riscossa. Queste cose sono sempre accadute; la differenza è che ora le donne non subiscono in silenzio; hanno capito che non sono loro a doversi vergognare; e quindi giustamente parlano, raccontano, denunciano. E i racconti che abbiamo sentito — l’ha scritto bene Massimo Gramellini — non sono corteggiamenti; sono molestie. In sintesi: i veri alpini non sono così; un vero alpino difende le ragazze, non le molesta; chi ha sbagliato dovrà pagare; non criminalizziamo in blocco una comunità di persone, un tassello dell’identità italiana. Aldo Cazzullo

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Alla storia dedichiamo sempre meno ore di studio e ce ne vantiamo pure  

03/05/2022 da Sergio Casprini

 

Il governo spagnolo ha approvato di recente nuove direttive sull’educazione, secondo le quali la storia non dovrà più essere insegnata cronologicamente. “Momenti come la conquista dell’America o la Rivoluzione francese – ha riferito il Mundo – non vengono menzionati e i contenuti sono raggruppati per blocchi tematici.

Ad esempio, ‘diseguaglianza sociale e lotta per il potere’, ‘emarginazione, segregazione, controllo e sottomissione nella storia dell’umanità’, ‘famiglia, lignaggio e casta’, ‘il ruolo della religione nell’organizzazione sociale’”. Questi blocchi tematici sembrano pensati a misura di una torsione in chiave etica della storia che, dopo averla separata dai fatti disposti secondo una sequenza temporale, rischia di renderla un’altra cosa: una materia edificante, uno spazio deputato alle perorazioni e sollecitazioni contro le diseguaglianze, l’emarginazione, il patriarcato e così via. Ma in realtà, magari senza la radicalità delle misure spagnole, l’emarginazione dell’insegnamento della storia è in atto da tempo in vari paesi europei. In Italia le misure prese negli ultimi decenni hanno soprattutto mirato alla drastica riduzione delle ore di insegnamento, favorendo quella che è stata definita una “dealfabetizzazione storica”. Possiamo solo intuire la portata del fenomeno, vista la mancanza di ricerche in merito che nessun ministro ha avuto evidentemente interesse a promuovere.

In realtà una ricerca che ha cercato di valutare il fenomeno ci sarebbe ma è come se non esistesse. E’ stata pubblicata pochi anni fa da una piccola stamperia editrice nel disinteresse generale: L. Allegra- M. Moretto, Che storia è questa. Gli adulti e il passato (Celid, 2018). Si tratta di un’indagine basata su oltre cento lunghe interviste rivolte a cittadini di varie età e con differenti titoli di studio (ma con una prevalenza di laureati e studenti universitari, data la minore disponibilità a farsi intervistare di chi ha un basso livello di istruzione). Gran parte delle risposte rivela una scarsa o nulla conoscenza della storia, con la diffusa presenza di madornali errori “come associare l’impero romano al Sacro romano impero; confondere i mecenati con i mercenari; collocare Carlo Magno nell’impero romano; mescolare civiltà greca e civiltà romana e magari situarle entrambe nel Duecento (inteso proprio come XIII secolo); per non parlare del coacervo caotico di date”. E’ molto significativo che le risposte siano decisamente peggiori per le fasce di età più giovani, dai 20 ai 39 anni, ciò che sembra indicare come le trasformazioni nell’organizzazione degli studi degli ultimi decenni abbiano peggiorato le possibilità di apprendimento della storia.

Per i laureati in materie umanistiche, gli autori notano un netto peggioramento delle conoscenze storiche in quanti hanno seguito l’ordinamento incentrato a partire dal 2004 sul cosiddetto 3+2 (lauree triennali e magistrali) rispetto alle fasce d’età superiori. Oltre a questo specifico settore di laureati, è per tutti gli intervistati più giovani che la ricerca documenta la presenza di scarsissime conoscenze, che non vanno oltre il ricordo di qualche nome o fatto sospeso nel nulla, come fuori dal tempo. Anzi, le fasce d’età più giovani non mostrano alcun interesse verso il passato, nemmeno verso quello più recente, “come se la distanza da esso si misurasse in centinaia d’anni e non in appena qualche decina”.

Insomma, un quadro terribile che è difficile non collegare alle decisioni assunte negli ultimi anni da chi ha governato il nostro sistema scolastico. Bisogna chiamare in causa non solo, come è ovvio, la già citata riduzione delle ore di storia ma anche la cosiddetta didattica delle competenze (cosiddetta, perché si attende da anni una chiara definizione del suo significato da parte dei suoi stessi proponenti), per la quale come la storia viene insegnata conta assai più di cosa si insegna. In questa prospettiva il sapere non è utile in sé ma conta per la sua dimensione applicativa, con la ovvia conseguenza che la storia finisce per contare poco o nulla. Dal libro di Allegra e Moretto si ricava anche che sono i più giovani a ignorare maggiormente la storia contemporanea, cioè proprio quel Novecento al quale il ministro Berlinguer aveva assegnato uno spazio assolutamente privilegiato. Lo aveva fatto tra gli applausi degli storici contemporaneisti, i quali non avevano compreso che in tal modo, ritenendo i fatti più recenti per ciò stesso come i più importanti, veniva assecondato uno schiacciamento della storia sull’attualità che nega alla radice il senso stesso della conoscenza storica.

Ormai c’è addirittura qualche esperto che, posseduto dal demone dell’attualizzazione, vorrebbe che l’ultimo anno delle superiori non venisse più occupato dalla storia del Novecento, ma fosse dedicato solo alla storia “molto contemporanea”, quella che va dalla metà del XX secolo agli inizi del XXI. E c’è altresì chi avanza l’ipotesi (il direttore della Fondazione Agnelli Andrea Gavosto nel recentissimo La scuola bloccata, Laterza) di distinguere tra materie fondamentali e opzionali: quali debbano essere le seconde non viene esplicitato, ma date le premesse c’è da temere che la storia vi sarebbe inclusa.

L’idea, o almeno l’ipotesi, che le riforme di questi anni abbiano peggiorato la situazione (per la storia, ma temo non solo per essa) e che bisognerebbe anzitutto valutare criticamente quello che si è fatto, come tentava di fare quell’indagine che ho citato, sembra invece non sfiorare nessuno.

Giovanni Belardelli Il Foglio Quotidiano 3 maggio 2022

 

 

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Il 25 APRILE dovrebbe appartenere alla Nazione non a una fazione

24/04/2022 da Sergio Casprini

LETTERE AL CORRIERE DELLA SERA

24 aprile 2022

Caro Aldo, sul Corriere leggo che la Brigata Ebraica, che ha partecipato alla Liberazione, sarà «scortata». Sono davvero molto amareggiato.

Franco Cohen

Caro Franco, la sua amarezza è pienamente giustificata. Attorno al 25 aprile sta accadendo un mezzo disastro. Da una parte, un canto di liberazione come «Bella ciao» viene criminalizzato e considerato un inno politico. Dall’altra, la Resistenza viene rivendicata come «una cosa di sinistra», e collegata ad altre cause che non c’entrano nulla. Si va dalla questione palestinese all’Alta velocità in Val di Susa: tutte vicende su cui è ovviamente legittimo avere un’opinione e coltivare un impegno, ma non in nome dei partigiani e dei resistenti.

In realtà, la Resistenza dovrebbe appartenere alla nazione, non a una fazione. Il nazifascismo fu sconfitto da uomini di destra come Winston Churchill e Charles de Gaulle. Tra i partigiani c’erano uomini di ogni fede politica: comunisti, socialisti, azionisti, liberali, cattolici, monarchici, e tanti ragazzi di vent’anni e anche meno, che non sapevano neppure cosa fosse un partito, ma non volevano obbedire ai bandi Graziani e combattere per il Duce e il Führer. E ci furono molti modi di dire di no ai nazifascisti. Un no che fu pronunciato da uomini e donne, ebrei e carabinieri, militari e suore, contadini e sacerdoti.

Non dobbiamo sopravvalutare qualche imbecille che in passato ha vergognosamente fischiato la Brigata Ebraica. Ma non dobbiamo neppure abituarci né a questo, né in generale alla denigrazione della Resistenza e alla sua lettura ideologica. (Quanto al solito argomento, per cui i comunisti non volevano la democrazia ma la dittatura sovietica, è perfetto per le polemiche sul divano, privo di senso quando si trattava di decidere da che parte stare: se con coloro che mandavano gli ebrei ad Auschwitz, o contro). Aldo Cazzullo

 

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1861: una nuova Nazione da costruire

02/04/2022 da Sergio Casprini

Teofilo Patini Vanga e latte 1884

Al compiersi dell’unificazione del paese, nel 1861, il nuovo Regno d’Italia si trovò ad affrontare una serie di problemi, il più grave dei quali era senz’altro la frattura tra la borghesia che si preparava ad amministrare lo Stato e le masse contadine –l’80 per cento della popolazione, deluse nella loro sete di terra e giustizia, ignorate dal nuovo ordine statale che imparavano a conoscere solo attraverso il carabiniere e l’esattore delle tasse.

Lo Stato italiano era rappresentato da un ristretto gruppo di borghesia, soprattutto agraria. Con la legge elettorale del Regno di Sardegna del dicembre 1860, poi utilizzata dal Regno d’Italia fino al 1880, avevano diritto di voto solo i “cittadini benestanti”: meno del 2 per cento della popolazione. L’unificazione burocratica doveva accompagnare l’unificazione politica: si trattava, per la classe dirigente, di ridurre a uno i sistemi legislativi, fiscali, metrici di sette diversi Stati italiani. Si trattava anche di recuperare –attraverso una aumentata pressione fiscale che colpiva soprattutto i non abbienti- le spese sostenute dal Piemonte nelle guerre per l’Unità e le spese ancora da sostenere per l’impianto e il mantenimento di un esercito, di una burocrazia, di edifici pubblici e amministrativi, di una rete stradale e ferroviaria, funzionali alle esigenze del nuovo Stato italiano.

Fiscalismo e coscrizione obbligatoria, assieme ad altri provvedimenti legislativi (come l’abolizione degli usi civici (i diritti di seminare, pascolare, legnare sulle terre appartenenti ai comuni), l’incameramento dei beni ecclesiastici da parte della borghesia (con conseguente espansione del latifondo) sconvolgono l’ordine sociale preesistente nelle campagne, un ordine ancora feudale, per sostituirlo con un altro, feudale e capitalistico insieme. I suoi aspetti più evidenti, soprattutto nel Meridione, sono l’arretratezza estrema dei mezzi di produzione, l’utilizzo estensivo della terra, lo sfruttamento intensivo e feroce di ogni singolo bracciante, e l’investimento dei profitti nelle società speculative e finanziarie del Nord che si costituivano in quegli anni. Nel Meridione una conseguenza dell’abbassamento del tenore di vita nelle campagne, successivo all’Unità, fu l’esplosione del brigantaggio.

In Toscana d’altra parte, dove i sistemi di coltivazione e le condizioni di vita dei contadini apparivano migliori, l’aumento delle imposte, la leva di massa –sconosciuta sotto i Lorena-, la scomparsa dei mercati locali nell’evoluzione verso un mercato unico nazionale, determinarono un malessere diffuso nelle campagne che esploderà a più riprese nei moti del macinato a Firenze, Pontassieve, Arezzo, Lucca del 1869, nel moto eretico- sociale del Lazzaretti e dei contadini del monte Amiata, tra il 1872 e il 1878, ma che si rivela anche nell’abbandono della terra da parte di numerose famiglie, che si spostano in cerca di lavoro a Firenze, negli anni che sarà capitale, in Francia e, dal 1870, anche Oltreoceano, in Argentina, Brasile e Stati Uniti.

Livio Ghelli

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25 Marzo DANTEDI’

25/03/2022 da Sergio Casprini

Dante poeta in guerra

Paolo Di Stefano Corriere della Sera 25 marzo 2022

Sono almeno tre le guerre di Dante. Quella raccontata, quella vissuta, quella pensata e teorizzata. In un passo della Commedia il poeta si fa cronista dell’orrore come fosse un inviato di guerra. Scene splatter di cui avverte il lettore, quasi una segnalazione a tutela dei minori che si trovassero nei paraggi. Siamo all’inizio del canto XXVIII dell’Inferno, e quel che vede Dante dal ponte della nona bolgia non è raccontabile. Non c’è scrittore, dice, che possa descrivere adeguatamente le ferite e il sangue che io ho visto in questo luogo: né il linguaggio né la mente sarebbero in grado di contenere uno scenario tanto orripilante, con più feriti e mutilati di quanti ce ne siano stati in tutti i conflitti dell’Italia meridionale dal tempo dei greci. È il «mondo sozzo» dei seminatori di discordia che, per contrappasso, devono percorrere la bolgia monchi e squarciati finché giungono davanti a un diavolo: a quel punto le piaghe si risanano ma è un attimo, perché il diavolo infligge loro un’altra lacerazione, rilanciando lo strazio all’infinito.

Le contingenze belliche attuali potrebbero utilmente suggerire, nel secondo Dantedì, di recuperare un numero monografico delle «Letture classensi», l’annuario dantesco ravennate, che nel 2020 trattava il rapporto dell’Alighieri uomo e poeta con la guerra. Commentando i versi d’apertura appena citati, Alberto Casadei faceva notare come i seminatori di discordia, antichi e contemporanei (da Maometto a Mosca dei Lamberti, responsabile del conflitto tra guelfi e ghibellini a Firenze), siano in realtà una metonimia dei generatori di guerre. Dunque, se fosse lecito il gioco sempre discutibile (ma divertente) dell’attualizzazione, Putin si troverebbe collocato tra questi tristi figuri, magari in compagnia di altri celebri tiranni del Novecento: responsabili di sbudellamenti, di «minugia» penzolanti tra le gambe, di esplosioni di cuori, polmoni, fegati, milze e intestini. Gente che ha sulla coscienza centinaia di migliaia di uomini aperti «dal mento infin dove si trulla», vittime «dilaccate» e «storpiate», proprio come i leader scismatici che all’Inferno devono pagare, specularmente, le loro colpe: la risma di quelli che «fuor vivi, e però sono fessi così».

Nel film-documentario dantesco si vedono nasi mozzati, orecchie tranciate, gole dilaniate e sanguinolente, mani amputate dai cui moncherini sprizza sangue sulle facce dei malcapitati. Lo spettacolo tocca il suo culmine di violenza con il busto decapitato di Bertran de Born, il poeta provenzale colpevole di aver istigato, con le sue poesie, il re d’Inghilterra Enrico III contro suo padre: è lui che regge in mano per i capelli la propria testa quasi fosse la lanterna che gli permette di guardare davanti a sé mentre cammina così decollato.

Non ci risparmia nulla, l’Alighieri reporter nel massacro infernale. Casadei, nello stesso saggio, richiamava opportunamente un’incisione di Francisco Goya, Grande impresa con morti, della serie intitolata Disastri della guerra, che sembra echeggiare la nona bolgia dantesca, in quanto «l’orrore diventa massimo non solo perché i corpi sono lacerati, ma perché sono collocati secondo una disposizione decisa dall’artista, tale da far emergere con inequivocabile evidenza la volontà che ha spinto a smembrarli».

Può anche darsi che Dante questi sventramenti li abbia intravisti sul terreno di battaglia, magari l’11 giugno 1289 a Campaldino, dove è certo che fu coinvolto come feditore guelfo, cioè in qualità di cavaliere della prima schiera, e dove, come scrisse in una lettera andata perduta: «Ebbi temenza molta, e nella fine allegrezza grandissima per li varii casi di quella battaglia». In due terzine, all’inizio del XXII dell’Inferno, è ancora Dante a ricordare di essere stato presente a Campaldino («Io vidi già cavalier muover campo…») e altrove evoca il suo contribuito, due mesi dopo, alla resa del castello di Caprona. Se qualcuno avesse riserve sul Dante «uomo d’azione» e combattente vigoroso, si rivolga ad Alessandro Barbero, che ha studiato il suo ruolo attivo nelle battaglie, ipotizzando che il poeta dovette subìre qualche «scavallamento», come la gran parte dei feditori fiorentini, sottoposti, secondo il cronista Giovanni Villani, alla percossa terribile dei nemici che arrivavano lancia in resta.

Ma a parte il gusto di raccontarla e l’impegno nel viverla in prima persona, c’è per Dante una guerra a lungo pensata ed elaborata soprattutto nella Monarchia dove, come avverte Diego Quaglioni, l’espressione «bellum iustum», guerra giusta, non esiste ma esiste il concetto, motivato dal principio dall’autodifesa e dall’idea di un giudizio divino capace di sistemare gli assetti del mondo scegliendo quale popolo prevarrà su tutti i popoli in competizione.

È una fusione di teologia e diritto: «Pace e guerra — scrive Quaglioni — formano insomma un binomio inscindibile, non solo perché concettualmente esse si richiamano a vicenda, ma soprattutto perché la guerra si giustifica solo come mezzo per giungere alla pace, quando ogni altro rimedio si sia rivelato inutile». Se nel Trecento era una tesi coraggiosa, per noi è da qui che nascono i problemi. Fatto sta che nel progetto di una entità sovranazionale, quell’impero auspicato da Dante a garanzia dell’unità e della pace universale, qualcuno ha visto addirittura il presagio per niente utopistico di una Organizzazione delle Nazioni Unite. La prospettiva piacque molto a un pontefice illuminato come Paolo VI, che ne fece l’elogio nel centenario dantesco del 1965.

Anche lui sapeva che il «mondo sozzo» non è mai tramontato.

 

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FLORENCE NIGHTINGALE E UNA RIVOLUZIONE NATA NELLA GUERRA DI CRIMEA

22/03/2022 da Sergio Casprini

Donatella Lippi Corriere Fiorentino 22 marzo 2022

 

Li abbiamo chiamati eroi nella fase acuta della pandemia, quando li abbiamo visti stremati dalla fatica davanti allo schermo di un computer, chiusi negli scafandri protettivi in corsia, simili ad astronauti nel pianeta del dolore e della disperazione. Ora, siamo tornati alla normalità e sono di nuovo infermiere e infermieri. Hanno apparentemente perso l’aura di ardimento che abbiamo sperimentato nei mesi drammatici dell’emergenza, ma sono sempre loro, gli eredi di Florence Nightingale (18201910), la fondatrice della assistenza infermieristica moderna.

A loro è dedicato il reading organizzato dalla Fondazione Careggi Onlus e dall’Azienda Ospedaliero Universitaria Careggi il 30 marzo 2022, presso l’Auditorium del CTO (Via Alderotti, Firenze), dove La Compagnia delle Seggiole sarà interprete di una Conversazione (in)credibile con Florence Nightingale su mio testo. Dopo aver dato voce a Sarey Gamp, protagonista del Mr. Chuzzlewit di Charles Dickens, prototipo della «guardamalati» ubriacona e laida, il dialogo vede impegnati Florence Nightingale e un attempato signore.

La scena si svolge nella seconda metà dell’Ottocento, quando, Florence, dopo aver acquisito esperienza e fama, dopo aver pubblicato le sue opere, che costituiscono una pietra miliare nella storia dell’assistenza, e dopo aver fondato la sua Scuola per Infermiere, si racconta in un dialogo vivace d energico, ricostruito utilizzando le sue opere originali, adattate come risposte alle possibili osservazioni di un vecchio lord, che incarna il modello ottocentesco di un atteggiamento paternalista e autoritario. In questa conversazione, Florence rivendica la dignità e l’autonomia delle sue competenze e della diagnosi infermieristica, in un rapporto di mutua collaborazione col medico, al fine di garantire al paziente le cure più adeguate ed efficaci. Il dialogo propone spunti di particolare ilarità, soprattutto se contestualizzato nella società britannica dell’Età Vittoriana, quando le donne, inibite nelle loro ambizioni, cercavano di conquistare non solo il diritto di voto, ma ruolo e rispetto sociale, là dove queste aspirazioni erano etichettate con la diagnosi di «isteria», come racconta il divertente film di Tanya Wexler, Hysteria.

Ma c’è un altro motivo per cui vale la pena oggi riflettere su Florence Nightingale, oltre che per dire «grazie» a infermiere e infermieri, oltre che per riconoscere il valore formativo del teatro, oltre che per rinsaldare l’orgoglio e il senso di appartenenza di tutte quelle studentesse e quegli studenti, che frequentano il Corso di Laurea in Infermieristica. Fu proprio nello stesso teatro di guerra, che oggi suscita orrore e solidarietà in tutto il mondo, che Florence Nightingale, nel 1853, gettò le basi della sua riforma.

Reparto ospedaliero a Scutari 1856

Era da poco scoppiata la Guerra di Crimea, che vedeva fronteggiarsi l’Impero Russo e l’alleanza composta da Impero ottomano, Francia, Gran Bretagna e Regno di Sardegna. La stampa inglese denunciava la situazione drammatica dei soldati di Sua Maestà: fu allora che Sidney Herbert, ministro della guerra, inviò Florence e 38 infermiere volontarie da lei addestrate a Scutari (oggi quartiere di Istanbul), a 300 miglia da Balaklava, quartier generale della spedizione britannica in Crimea, presso Sebastopoli. All’ospedale militare di Scutari, Florence dovette affrontare un vero e proprio dramma sanitario, tanto che, nei grafici a cuneo (coxcomb) che realizzò per visualizzare la situazione, emergeva chiaramente come i soldati morissero non a seguito di eventi bellici, ma per le conseguenze della mancanza di medicine, per la trascuratezza dell’igiene, le infezioni, l’inadeguatezza degli ambienti, il sovraffollamento, la ventilazione insufficiente, le carenze del sistema fognario. Qui, Florence attuò la sua coraggiosa rivoluzione e disegnò quella figura di infermiera e di infermiere che conosciamo. La geografia di quei luoghi oggi si accende nel nostro quotidiano, riproponendo un analogo scenario di guerra, dove, oltre a Florence, ma nell’esercito avversario, un’altra donna, la russa Helena Pavlovna, durante la Guerra di Crimea guidava 250 volontarie che avrebbero curato i soldati russi. E c’erano le Suore della Carità francesi, quelle sarde, quelle irlandesi: molte si ammalarono, molte vennero ferite, molte morirono.

Nella lista di donne impegnate in sanità, cadute su questo fronte, oggi  nel 2022 aggiungiamo anche il nome di Valentina Pushich, Ucraina.

Francis William Sargant Monumento a Florence Nightingale , 1913
Chiostro di Santa Croce Firenze

 

 

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Mazzini, all’origine dell’Italia

10/03/2022 da Sergio Casprini

Monumento di Mazzini a Pisa

Moriva 150 anni fa a Pisa dopo aver svolto un ruolo chiave per l’unità italiana.

Luca Lunedì  Corriere Fiorentino 10 marzo 2022

La Domus Mazziniana non è la casa dove è morto Mazzini. Non è un falso storico, è che quella vera, nella quale l’eroe del Risorgimento è morto il 10 marzo 1872 fu rasa al suolo dalle bombe il 31 agosto 1943.

«Era vicina alla stazione ferroviaria — spiega Pietro Finelli, direttore della Domus— che rappresentava un bersaglio strategico: da qui i tedeschi di facevano partire le bombe dirette al porto di Livorno e che da là sarebbero arrivate alle batterie di prima linea. Gli alleati decisero di interrompere quella linea di riferimento e in poco tempo rasero al suolo tutto il quartiere di Porta a Mare». Quella che oggi sorge a pochi metri dal murale di Keith Haring ne è quindi l’erede e ne raccoglie il testimone di baluardo della memoria. Ed è qui che oggi viene inaugurata la mostra filatelica Dare un volto all’idea. L’immagine di Mazzini nella filatelia” e sarà emesso il francobollo commemorativo da parte di Poste Italiane con annullo filatelico «primo giorno».

A presenziare alle celebrazioni sarà anche il presidente della Camera Roberto Fico, il terzo in carica a visitare la Domus dopo Gronchi e Gianfranco Fini, tre come pure i presidenti della Repubblica che sono venuti, negli anni, a scoprire il Mazzini inedito che questa casa racconta: fu Einaudi nel 1952 ad inaugurarla, poi Ciampi nel 2004 e Napolitano nel 2011. «La storia della nostra democrazia è passata da quelle mura ben prima della nascita della Repubblica, la casa che ospitò Mazzini dal 6 febbraio 1872, e che lui abitava sotto il falso nome di Giorgio Brown, era casa Rosselli-Nathan. Il padrone di casa era Pellegrino Rosselli, antenato di Carlo e Nello Rosselli (a Pisa c’è la via Fratelli Roselli), figure di spicco dell’antifascismo mentre la moglie di Pellegrino, Giannetta Nathan, era la sorella di Ernesto, il primo sindaco moderno di Roma e l’unico ancora oggi di origine ebraica».

A portare Mazzini a Pisa fu il clima, o meglio le condizioni favorevoli per un malato di enfisema polmonare che vedeva la sua fine avvicinarsi ma non voleva mollare la presa in un momento così importante della nostra storia repubblicana: «C’era in quel momento uno scontro fortissimo tra due visioni dell’Italia che sarebbe stata — spiega Finelli — ne troviamo traccia nelle lettere che Mazzini scrisse in quei mesi: da una parte la visione di Bakunin e della sua rivoluzione continua, dall’altra Crispi: erano gli anni della Comune di Parigi e dell’Internazionale, Mazzini era ancora un’importante figura di riferimento e ne era consapevole». In quei giorni, il 7 marzo, Mazzini scrive in un articolo per il Roma: Le nazioni sono le operaie dell’umanità, «Una frase che verrà recitata anche durante le celebrazioni — continua Finelli — data la sua grande attualità».

E proprio la modernità di Mazzini è al centro dell’opera di divulgazione portata avanti dalla Domus negli anni: «L’idea di una nazione senza nazionalismi, il dovere civico come impegno dei singoli, la libertà alla base del bene comune — spiega — questi sono gli insegnamenti attuali che troviamo nei suoi scritti, l’idea che la comunità si regge solo se composta da uomini liberi e oggi, vedendo quello che succede a poche migliaia di chilometri dai nostri confini, possiamo apprezzarne ancora di più il significato». Un lavoro di ricerca e documentazione che si rivolge in particolare ai più giovani: «La memoria storica è la base per la costruzione di una cittadinanza consapevole».

La stessa facciata è un’opera letteraria, si tratta infatti di uno stralcio del giuramento della Giovane Italia: «Il testo fu scritto a Marsiglia nel luglio del 1831, un momento fondamentale perché con quel giuramento cambia l’idea di cosa vuol dire essere italiano. Fino alla fine del 1700 essere italiano voleva dire parlare, o meglio scrivere poesie in italiano. L’eredità italiana era un’identità culturale, molto colta: pochissimi italiani parlavano italiano. La conoscenza della lingua italiana è una conoscenza che si è sviluppata nel corso del tempo. Con la Giovine Italia è italiano colui che vuole trasformare l’identità culturale in una identità politica. Gli italiani decisero di stare insieme, non venne imposto loro da guerre. Con queste parole del giuramento della Giovine Italia nasce l’Italia così come la conosciamo noi, e l’unica copia autografa di Mazzini di tale giuramento esistente al mondo è qui conservata. Questo manoscritto è stato donato dagli eredi di Giuseppe Giglioli, amico di lotta del patriota rivoluzionario, alla sua morte». Si svela anche un Mazzini inedito, lontano dall’iconografia da testo scolastico, fronte alta e barba già bianca, ma esce l’uomo accanto alla figura storica: «Sì, Mazzini non è solo “Quel volto che giammai non rise” come lo ha descritto il Carducci, anzi viene fuori una personalità anche gioviale. Qui abbiamo esposta la sua chitarra e sono molte le testimonianze dei suoi contemporanei che ce lo descrivono, nelle serate in compagnia, usarla per suonare e accompagnare la musica con il canto. Ecco, forse questa immagine gli rende maggiore giustizia». La Domus Mazziniana è stata inserita nel 2002 nella rete degli Istituto Storici di interesse nazionale e nel 2009 il comitato dei garanti per le celebrazioni del 150 anniversario dell’Unità d’Italia l’ha individuata tra il «luoghi della memoria» legati a «momenti fondamentali della storia nazionale».

Monumento di Mazzini a Firenze

 

 

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