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Risorgimento Firenze

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Primo piano

Un monumento per Lando Conti

11/02/2021 da Sergio Casprini

 

Il ricordo del sindaco ucciso dalle Brigate Rossi 35 anni fa

Corriere Fiorentino 11 febbraio 202

Nel pomeriggio del 10 febbraio 1986, al Ponte alla Badia — dove una targa ricorda il tragico evento — Lando Conti, ex sindaco di Firenze, mentre in auto, solo, stava andando in consiglio comunale, fu assassinato dalle Brigate Rosse.

Trentacinque anni dopo a Firenze è stato scoperto il monumento a lui dedicato, nella piazza che porta il suo nome e che si trova davanti al Palagiustizia. L’iniziativa è stata voluta dal Comune e alla cerimonia hanno partecipato il figlio di Lando Conti, Lorenzo, e il nipote, Neri. «Il monumento rappresenta una testimonianza della volontà della città di ricordare il politico e l’amministratore vittima della violenza del terrorismo — ha detto l’assessore alla memoria di Palazzo Vecchio, Alessandro Martini — Lando Conti non è stato solo sindaco di Firenze, ma un uomo delle istituzioni e un cittadino esemplare, una figura di cui dobbiamo e vogliamo trasmettere la memoria». «Un anno fa venne intitolata questa piazza e ora, in occasione del 35esimo anniversario, vi collochiamo questo monumento — ha aggiunto l’assessore — siamo grati all’associazione (Il Comitato per la celebrazione del ventesimo anniversario della scomparsa di Lando Conti, presieduto da Alessandro Niccolai)  e alla famiglia che hanno donato questa opera. Come amministrazione continueremo nell’impegno di ricordare Conti non sono come un protagonista del passato, ma anche come figura importante per capire il presente e pensare il futuro». Ieri mattina l’assessore ha presenziato anche alle altre iniziative in memoria di Lando Conti, la deposizione di una corona presso il luogo dell’attentato e al cimitero di Trespiano dove è sepolto. E a Trespiano si è recato anche il presidente della Regione, Eugenio Giani, per un omaggio alla tomba dell’ex sindaco. «Oggi un pensiero a Lando Conti, sindaco di Firenze ucciso dalle Brigate Rosse nel 1986 mentre si recava in Consiglio comunale. Oggi come ieri condanniamo la violenza e la sopraffazione», ha scritto Giani in un post su Facebook. 

 

 

 

 

 

 

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Il Natale nella Firenze dell’800

24/12/2020 da Sergio Casprini

Veduta di via Tornabuoni, XIX secolo (Fondo Larderel, Gabinetto Vieusseux)

Donatella Lippi Corriere Fiorentino 24 dicembre 2020

Scriveva Niccolò Tommaseo nel 1830: «I Toscani chiaman pasqua anco la festa del Natale, e per distinguerla dalla pasqua di Risurrezione, dicesi poi pasqua di Natale, o di ceppo…».

E, in effetti, la prima delle tre parole del Natale fiorentino è proprio «ceppo», in origine un grosso pezzo di legno, cavo e con una o più piccole fessure per le offerte, usato come cassetta delle elemosine nelle chiese o negli ospedali. Contro uno di questi ceppi, Petruccio, protagonista della Novella 134 di Francesco Sacchetti, si accanisce con una scure, tanto che «’l ceppo si spezzò, e con tutti li denari e con lo Crocifisso ne viene in terra». L’Oratorio di San Niccolò del Ceppo in via de’ Pandolfini, a Firenze, l’Ospedale del Ceppo a Pistoia, il Ceppo dei poveri di Francesco di Marco Datini a Prato… Ma il ceppo era anche il grande tronco d’albero che ardeva sugli alari del camino, nelle case del contado, per Natale, sul quale il capofamiglia libava le gocce di vino, con un gesto antico e pagano, traendo gli auspici dalle scintille, che sprizzavano dal legno.

La seconda parola è «Cruscarella», ingenuo gioco usato nel contado, nascondendo delle monetine in un mucchietto di crusca, dove si sarebbero affannate le mani dei bimbi, alla ricerca del piccolo tesoro. La terza parola è «Cicalata», una semplice filastrocca, ricca di tenere aspettative: «Ave Maria del Ceppo, Angelo benedetto! L’Angelo mi rispose Ceppo mio bello, portami tante cose!».

Il ceppo, in città, infatti, dove i caminetti andavano scomparendo dalle abitazioni, era un supporto piramidale, con alcune mensole, su cui si ponevano dolci e piccoli doni: sul ripiano più basso, la culla del Bambin Gesù. Prima che Paolo Geymonat, pastore della chiesa valdese, introducesse l’uso dell’abete addobbato, intorno al 1870, era, infatti, la Capannuccia simbolo esclusivo del Natale, da quelle con le figure animate di Bernardo Buontalenti, detto, appunto, Bernardo delle Girandole, al presepio di Carlo Lorenzini, in arte Collodi, «largo e sfogato quanto una scatola da cappelli, coperto modestamente di prezzemolo o di borraccina, con dentro due pastori di gesso sbocconcellati e i soliti tre Magi vestiti da coristi, e un bue e un asinello color di caffè e latte sdrajati per terra, in atto di soffiare nella pappa, e fra loro un bambinello, anche quello di gesso, coi capelli biondi come la farinata gialla e con due gote rosee come due macchie di vino, e su nell’alto del presepio, con gran loglio tutto tinto d’ inchiostro, perché somigliasse all’azzurro del firmamento, e una lunga stella d’olio nel mezzo, illuminata di dietro, perché facesse la parte di cometa e servisse di guida ai prelodati coristi!».

Telemaco Signorini Ponte Vecchio 1880

Al rito della messa in Duomo, nella notte di Ceppo, faceva seguito una sosta al forno del Melini, in Ponte Vecchio, famoso per essere stato effigiato da Telemaco Signorini, grande estimatore della Stiacciatunta, oggi «Schiacciata alla Fiorentina» che, «dall’uccisione del primo porco a Novembre, fino all’ultimo giorno del Carnevale, forniva agl’indigeni questo gradito cibo, finché lo scocco della campana di mezzanotte del dì delle Ceneri faceva sì che il pane di ramerino prendesse il suo posto».

Poi, nel giorno di Ceppo, l’imponente corteo dei Cavalieri di Santo Stefano, «vestiti in cappamagna, ed armati come quando sulle galere combattevano contro i turchi» — racconta Giuseppe Conti (1899) — riempiva il centro coi riverberi delle corazze, il nitore delle brache di velluto dei soldati, la ricchezza delle gualdrappe dei mentre un’altra processione si formava dopo la messa, quella dei carcerati «ritenuti per le spese», riscattati dai Buonomini di San Bonaventura. Non spade lucenti in mano, ma ramoscelli d’olivo. 

 Invece i giovani più ardimentosi si cimentavano nel tuffo in Arno per poi gustare i cocomeri, che durante l’estate erano stati unti d’olio e posti sotto la sabbia per poterli conservare.

 1890 Bagno “Cavalleggeri”

 I berriquocoli, sfratti e marzapanetti impreziosivano le mense, ben prima del Panettone Marietta di Pellegrino Artusi, giunto insieme ai cappelletti all’uso di Romagna e crostini di fegatini, preludio a cappone, lepre e faraone…

Ma allora, come oggi, le luci del Natale illuminavano realtà discordi. Camminando per le strade di Firenze, racconta Yorik (1877), avvocato e scrittore, ci si poteva imbattere, infatti, in due «Natali» ben diversi: «…uno che è un fior di gentiluomo. Veste elegantemente, parla con disinvoltura, s’infila i guanti, e ha il portafoglio pieno di biglietti di banca al posto delle carte da visita». È questo il Natale facoltoso, che frequenta le sale di Doney, che fa acquisti nel centro ricco della città, al Bazar Europeo, tra le cineserie dei magazzini di Janetti, in piazza Antinori, ne’ saloni di madama Lamarre, in via dei Banchi, o da madama Ferrand, in via Rondinelli, spingendosi fino a via della Mattonaia, nella gioielleria Marchesini, tra i riverberi dei monili e delle pietre preziose. E poi, l’altro Natale, «stanco, trafelato, lagrimoso e mal vestito… sotto il tetto degli sventurati, presso il focolare spento dove la pentola non bolle più da tante settimane, nelle soffitte dove il freddo penetra dalle impannate, dove la miseria suda colla pioggia delle pareti mal ferme… e si trascina penosamente verso il Monte di Pietà, per le scale degli Asili infantili, fra le corsie degli spedali, muto, afflitto, ora rassegnato ora impaziente, mormorando una preghiera, o lanciando una imprecazione».

Vittorio Corcos  Ritratto di Yorick 1889

Oggi, sono cambiati i contesti, ma l’uno e l’altro Natale riflettono ancora, e quest’anno, forse, in maniera ancor più vistosa, i lati più bui e stridenti del nostro mondo. E se Yorik conclude rassegnato «…la novella non finisce mai, ché ogni anno si ricomincia da capo, e i due Natali ritornano nelle medesime condizioni», vorremmo scegliere la fine del Canto di Natale di Charles Dickens, quando il vecchio Ebenezer Scrooge «divenne così buon amico, così buon padrone, così buon uomo, come se ne davano un tempo nella buona vecchia città, o in qualunque altra vecchia città, o paesello, o borgata nel buon mondo di una volta… E di lui fu sempre detto che non c’era uomo al mondo che sapesse così bene festeggiare il Natale. Così lo stesso si dica di noi, di tutti noi e di ciascuno!».

Dickens Canto di Natale

 

 

 

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Cento anni dopo

08/12/2020 da Sergio Casprini

Ritratto di Ciampi, (Livorno, 9 dicembre 1920/ Roma, 16 settembre 2016)

 

 Paolo Armaroli Corriere Fiorentino 8 dicembre 2020

Livornese sì, Carlo Azeglio Ciampi, ma un livornese sui generis. Se i suoi concittadini sono impulsivi, lui era flemmatico come un suddito di Sua Maestà britannica. Se i suoi concittadini hanno un accento piuttosto marcato, lui aveva un’inflessione dialettale appena percettibile. Se i suoi concittadini sono degli attaccabrighe, lui era capace di far convivere cani e gatti come neppure il mitico Gianni Letta. Ma guai a toccargli l’amata Livorno, la sua Itaca. Dove tornava per ricaricare le batterie, la leopardiana quiete dopo le tempeste romane. Un amore non ricambiato, si direbbe. Se è vero che il consiglio comunale, ai tempi dell’amministrazione grillina, disse di no alla proposta di intitolargli la rotonda dell’Ardenza perché — udite udite — «uomo delle banche». Una cosa che avrà provocato l’orticaria al presidente dell’Abi Antonio Patuelli. Vedi caso, sottosegretario alla Difesa nel suo governo e, al pari di Ciampi, devoto alle sacre memorie risorgimentali. Ma poi la nuova amministrazione comunale di centrosinistra ha riparato il torto.

L’otto settembre 1943

Uomo dalla mille vite

Per dirla con Alfred Hitchcock, Ciampi è stato un uomo che ha vissuto un’infinità di vite. Sottotenente in Albania durante la guerra, considerò l’8 settembre 1943 non già la morte della Patria, a giudizio di Satta e Galli della Loggia, ma la premessa della sua rinascita perché anticipazione della Costituzione liberaldemocratica affermatasi dopo il 18 aprile 1948. Non aderisce alla Repubblica sociale, attraversa le linee, arriva a Bari e si arruola nel ricostituito esercito. Dopo le lauree in Lettere e Giurisprudenza è stato per poco tempo professore di Italiano e Latino in un liceo di Livorno. Vincitore di concorso alla Banca d’Italia — al quale partecipa per le insistenze dell’esuberante moglie, Franca Pilla, che, più giovane di lui di appena dieci giorni, il 19 dicembre compirà cent’anni — ne diventerà come Luigi Einaudi Governatore. E per ben quattordici anni: dall’8 ottobre 1979 al 28 aprile 1993. Fin d’allora, sull’Europa la pensava come Ugo La Malfa: se non ci aggrappiamo ad essa con le unghie e con i denti, scivoleremo ineluttabilmente in Africa. Lascia la carica di Governatore perché nominato il giorno dopo presidente del Consiglio da Oscar Luigi Scalfaro: primo inquilino di Palazzo Chigi non parlamentare. Come non parlamentare sarà Giuseppe Conte. E senza tessere di partito in un’Italia dove di tessere ne occorrono a volte due per tirare a campare. Nell’immediato dopoguerra si iscrive al Partito d’Azione, che presto si suicidò anche per i troppi galli nel pollaio. In tale incarico può avvalersi di personalità di prim’ordine come Antonio Maccanico, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, e Andrea Manzella, segretario generale. Un gabinetto, il suo, sostenuto da un’ampia ed eterogenea maggioranza parlamentare. Un’esistenza tormentata caratterizzata però dal risanamento economico. La fine del suo governo è alquanto singolare sotto il profilo costituzionale. Per la prima volta nella storia della Repubblica, e in seguito non ci saranno altri casi del genere, un capo dello Stato scioglierà le Camere, per così dire, motu proprio. Per l’appunto colui che fino a quando era stato vicepresidente e poi presidente della Camera aveva collocato il Parlamento al di sopra degli altri organi costituzionali, diventa — ironia del destino — il più interventista degli inquilini del Quirinale. Scalfaro mette fine alla legislatura per svariati motivi. Perché nel frattempo la vecchia legge elettorale proporzionale è stata relegata in soffitta dal Mattarellum. Perché il Parlamento in carica era — per dirla tutta — il Parlamento degli inquisiti. Perché Achille Occhetto aveva allestito la sua gioiosa macchina da guerra, arcisicuro di battere l’uomo nuovo Silvio Berlusconi. E la prospettiva non dispiaceva affatto all’uomo del Colle. Ma c’era un’anomalia che salta agli occhi. Difatti il governo era felicemente in carica e pertanto non ci sarebbe stato il presupposto per la controfirma di Ciampi al decreto di scioglimento. Che tuttavia fu possibile in quanto Ciampi dichiarò — pro bono pacis — che il suo mandato era esaurito. Una pietosa bugia in omaggio alla ragion politica.

Decimo Presidente

Dopo aver guidato dicasteri economici sotto i governi Prodi e D’Alema, il 13 maggio 1999 al primo scrutinio, come era riuscito solo a Francesco Cossiga, Ciampi è eletto decimo presidente della Repubblica con 707 voti su 990 presenti e votanti rispetto ai 1.010 componenti del collegio presidenziale. Designato dall’allora presidente del Consiglio Massimo D’Alema, ebbe i suffragi sia del centrosinistra sia del centrodestra. Tra quei 707 voti c’era anche il mio. E non solo per disciplina di partito. Ciampi abitava a Roma in via Anapo. Una strada tranquilla tra Corso Trieste e Villa Ada, dove fu arrestato Mussolini. Di fronte alla scuola Mazzini, dove ho frequentato la prima elementare per soli tre mesi per poi trasferirmi a Firenze, e al Parco Nemorense, dove salivo su un carretto trainato dagli asinelli. Un amarcord che mi è caro. Nella seduta del Parlamento del 18 maggio 1999 Ciampi, dopo il giuramento, pronuncia il suo messaggio d’insediamento. Una sorta di anticipo del suo settennato. Sottolinea, a beneficio dell’attuale presidente del Consiglio, il vitale confronto tra maggioranza e opposizione. Ed ecco il destino degli italiani; le fortune d’Italia, dei suoi giovani e delle generazioni che verranno; le memorie nazionali e patriottiche; il senso profondo della Patria; le radici della nostra italianità; il senso dell’unità nazionale.

La Piccola Patria

Per Ciampi il borgo natio è la piccola Patria, quella che i tedeschi chiamano Heimat; l’Italia è la Patria, la Vaterland; l’Europa è la grande Patria, la Grossvaterland. Ma in Europa bisogna starci, ammoniva Indro Montanelli, come italiani e non come apolidi, senza radici, ignari del passato e indifferenti al futuro. Niente più che contemporanei, secondo Ugo Ojetti. Con buona pace di Bertold Brecht, Ciampi riteneva che noi italiani abbiamo un disperato bisogno di eroi, di valori. Per compensare, per dirla con lo storico Dino Cofrancesco, la fossa delle Marianne rappresentata dai tanti sciamannati in libera circolazione nel Belpaese. Ecco l’importanza dei simboli: del Tricolore, del quale si ammantò Carlo Alberto nel 1848 a dispetto dello Statuto; della Lingua italiana, questa illustre sconosciuta; dell’Inno di Mameli, adottato in via provvisoria nell’immediato dopoguerra e solo da poco inno nazionale a tutti gli effetti.

Questa l’eredità di Ciampi, secondo presidente della Repubblica toscano dopo Giovanni Gronchi, domani a cent’anni tondi dalla nascita.

 

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La nostra lingua, simbolo di unità e identità nazionale

02/12/2020 da Sergio Casprini

La proposta della professoressa  Rosa NicolettaTomasone è finalizzata al riconoscimento della lingua italiana quale elemento e simbolo di unità e identità nazionale

Lettera al Corriere della Sera 2 dicembre 2020

In qualità di presidente del Centro Culturale Internazionale «L. Einaudi» a San Severo, e vicepresidente dell’Itinerario Culturale europeo “Le Vie di Carlo V”, per i 700 anni dalla morte di Dante 2021, propongo all’attenzione delle massime istituzioni il riconoscimento della lingua italiana quale elemento e simbolo di unità e identità nazionale, perché possa essere onorata unitamente alla Bandiera e all’Inno Nazionale.

 La lingua italiana è rimasta nei secoli, da Dante ai nostri giorni, comprensibile e viva, ed è da considerare un bene comune da custodire e tramandare alle giovani generazioni, perché anche dal punto di vista linguistico la nostra identità affonda le sue radici in un patrimonio di beni materiali e immateriali che tutti nel mondo ci riconoscono. Questa richiesta è stata avanzata dal ministro Dario Franceschini che così disse «Dante è l’unità del Paese» e da Dante a Machiavelli al Manzoni al De Sanctis tutti sono accomunati dalla consapevolezza che «La lingua italiana è il fattore portante dell’identità nazionale». Già il 21 febbraio 2011 si è svolto al Quirinale, Presidente Giorgio Napolitano, l’incontro «La lingua italiana fattore portante dell’identità nazionale», promosso con la collaborazione dell’Accademia dei Lincei, dell’Accademia della Crusca, dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana e della Società Dante Alighieri

Il Centro Einaudi si fa promotore di questa proposta, perché nell’anno delle Celebrazioni dantesche in Italia e nel mondo, la nostra lingua, studiata in tanti Paesi stranieri, possa godere del prestigio che merita.

Rosa Nicoletta Tomasone

 

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Cinema Odeon Firenze

19/11/2020 da Sergio Casprini

Palazzo dello Strozzino Piazza Strozzi Firenze

 Il palazzo dello Strozzino si è determinato nel corso del tempo a partire dal nucleo più antico e storicamente rilevante riconducibile all’opera di Michelozzo di Bartolomeo e di Giuliano da Maiano. Il perimetro di questo antico edificio fu stravolto con il piano di risanamento dell’antico centro approvato nel 1888: poco dopo si procedette all’abbattimento di una fetta dell’immobile per l’allargamento di via degli Anselmi e di una porzione sul retro per la creazione ex novo di un nuovo tratto di via de’ Sassetti. Si procedette quindi all’abbattimento dei volumi prospettanti sul chiasso di piazza Marmora e verso Porta Rossa in modo da realizzare l’attuale piazza de’ Davanzati. 

 

Attorno al 1914 venne messo a punto dall’architetto Adolfo Coppedè un progetto di radicale ridistribuzione degli spazi interni e di trasformazione del palazzo in teatro, e forse avviati i lavori, subito comunque interrotti a causa della prima guerra mondiale. Negli anni venti del Novecento, acquistato dal Sindacato Immobiliare Toscano (1919) e in sintonia con quanto già avviato, il palazzo fu riadattato a teatro dall’architetto Marcello Piacentini con la collaborazione dell’architetto Ghino Venturi (cinema teatro Savoia, poi Odeon). L’intervento, attuato tra il 1920 e il 1922, portò alle realizzazione delle ulteriori facciate (fatto ovviamente salvo il fronte su piazza Strozzi) in stile quattrocentesco e alla realizzazione della sala di proiezione in luogo dell’antico cortile, del quale furono riutilizzate le antiche colonne.

Per quanto riguarda il fronte su via degli Anselmi che qui interessa, questo si caratterizza per una la voluta aderenza al disegno del fronte antico, pur non disdegnando inserti decorativi di pretto gusto Déco. Al terreno si succedono sei ampi archi, dei quali tre coronati da tettoie in ferro e vetro che seguono l’andamento curvo delle cornici in stile in bugne di pietra e sul quale è la scritta Cinema Teatro Odeon. In alto corona la fabbrica un loggiato a colonnine tamponato e quindi un’ampia gronda alla fiorentina.

All’interno del cinema è segnalare la cura dei dettagli (frutto del lavoro di artisti e artigiani tra i più significativi del periodo, tra i quali citiamo Umberto Bartoli e Antonio Maraini per le sculture lignee, Giuseppe Gronchi per le figurazioni in stucco e Ezio Zalaffi per i ferri battuti) e, nella sala, il velario cupoliforme centrale a vetri colorati opalescenti, illuminato artificialmente, opera di Francesco Mossmeyer, notevole anche per la soluzione tecnica che ne permette l’apertura tramite un congegno elettrico.

Sull’angolo tra via degli Anselmi e via de’ Sassetti è una notevole lanterna sormontata dal giglio di Firenze e sorretta da sei figure di efebi nudi in gesso dipinto a imitazione del bronzo, opera datata al 1929 dello scultore Bernardo Morescalchi (restaurata nel 1991 da Gioia Germani). Su piazza Davanzati (sempre frutto dell’aggiunta di Piacentini al primitivo impianto), è una fontana in forma di antica vasca nella risecatura

Fonte

REPERTORIO DELLE ARCHITETTURE CIVILI DI FIRENZE

Scheda a cura di Claudio Paolini

 

 

 

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No all’intolleranza, sì al confronto democratico delle idee e delle opinioni

14/11/2020 da Sergio Casprini

 

Fabio Bertini, già Coordinatore nazionale delle Associazioni Risorgimentali, ha informato sui social che la sera del 13 novembre 2020, la presentazione del libro CroceRossa e cultura è stata impedita da una incursione di individui strepitanti che, con sfilza di bestemmie, musiche assordanti, invettive, sproloqui, hanno impedito che si potesse svolgere il programma. I relatori, brave e oneste persone che avevano preparato gli interventi, sono stati defraudati del loro tempo, gli autori della possibilità di sentire commentata la loro fatica, gli spettatori della possibilità di sentire, vedere e discutere via chat. Non sottovalutiamo. È già stato fatto una volta cent’anni fa. Siamo in presenza di uno squadrismo informatico che merita assolutamente di essere contrastato ha poi commentato.

Può darsi che sia squadrismo digitale, come potrebbe essere quel bullismo cibernetico e quell’odio che sui social negli ultimi anni si è propagato dalle scuole alle pagine di Facebook, ma anche se fosse solo la mancanza di educazione e di senso civico, sono spregevoli azioni che intossicano il dibattito pubblico ed il confronto democratico di idee e di opinioni nella società ed in particolare tra i giovani italiani.

Recentemente il presidente Mattarella aveva rivolto un invito alle istituzioni ed ai cittadini italiani per una maggiore coesione sociale in nome di un’unità nazionale più salda per poter fronteggiare un insidioso nemico come il Covid che sta minacciando la salute e l’economia del nostro Paese. Era un nobile appello, purtroppo inascoltato da parte di una minoranza di intolleranti, che hanno impedito il 13 novembre lo svolgersi di un sereno dibattito on line.

Infatti questi episodi di intolleranza stanno avvelenando il clima politico e sociale e stanno invece a dimostrare che la volontà del popolo italiano, almeno di una parte, di assumersi una responsabilità collettiva di fronte all’emergenza sanitaria stenta ad affermarsi pienamente; ed ancor più grave è l’offesa di questi cyberbulli non tanto nei confronti dei relatori di un convegno di storia italiana nell’ambito della presentazione di un libro sulla Croce Rossa Italiana, quanto proprio nei confronti di un’organizzazione quale la Croce Rossa Italiana , nata nei campi di battaglia del Risorgimento,  formata  per lo più da giovani donne, che ieri in tempo di guerra, oggi in tempi di pace hanno dato il loro impegno e spesso la vita, ieri per la salvezza  dei soldati sui fronti di guerra, oggi dei civili sui fronti degli ospedali antiCovid. Sergio Casprini

Parco della Rimembranza  a San Miniato Firenze

In memoria dei Caduti della Croce Rossa Italiana

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Le Terme di Rapolano

09/11/2020 da Sergio Casprini

Rapolano Terme è un comune toscano della provincia di Siena

È una località termale che dispone di due stabilimenti: le Terme San Giovanni, immerse nella collina senese, e le Terme Antica Querciolaia, vicine al centro abitato. Le sorgenti termali di Rapolano erano certamente già note per le loro proprietà terapeutiche agli antichi Romani, grandi estimatori dei benefici delle terme. La loro passione per questi luoghi è testimoniata da un passo dello storico latino Plinio il Vecchio nella sua Storia Naturale in cui viene citata una località termale identificata con l’attuale Rapolano Terme.

Grande è comunque la fioritura di questo centro termale a partire dal ‘300, quando gli autori che si occupano dei bagni termali lo citano costantemente tra le località termali più notevoli del senese.
Le virtù terapeutiche di Rapolano sono confermate nel tempo dal passaggio di personaggi illustri, venuti qui a scopi curativi: fra tutti, merita ricordare come Giuseppe Garibaldi utilizzò le terme di Rapolano per ristorare la celebre ferita sofferta in Aspromonte.

L’11 agosto del 1867, l’Eroe dei due Mondi giunse a Siena accolto con grande calore e fu ospitato da Pietro Leopoldo Buoninsegni nella sua villa di Poggio Santa Cecilia nei pressi di Rapolano. Garibaldi arrivò a Rapolano il 13 agosto del 1867 per curare i postumi della ferita riportata nella battaglia di Aspromonte. Durante la sua permanenza a Poggio Santa Cecilia, ogni mattina, si recava ai bagni dell’AnticaQuerciolaia di Rapolano dove le cure gli avevano giovato molto. Era stato così bene che in una lettera diretta all’amico Dr. Barni scrisse: “I bagni di Rapolano mi hanno tolto un resto d’incomodo al piede sinistro, e l’effetto ne fu istantaneo; ciocché mi dà buona opinione di questi bagni, che penso di continuare per alcuni giorni. Se siccome ottenni la cessazione dei dolori potessi acquistare un po’ più d’elasticità, io mi troverei forte come prima. Vostro Giuseppe Garibaldi”.

Sopra la porta d’ingresso dello stabilimento termale fu posta una lapide per ricordare il soggiorno di questo ospite illustre ed oggi, in ricordo di questo passaggio, le Terme Antica Querciolaia hanno collocato una statua di Garibaldi nella parte storica delle Terme.

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Versi metafisici

27/10/2020 da Sergio Casprini

Due omaggi anepigrafi per nozze

Autore     Niccolò Tommaseo

A cura di Jacopo Berti

Editore     Le Càriti

Anno        2020

Pag.          130

Prezzo      €18,00

“Quei versi metafisici e di concetto a molti difficile…”, ebbe a dire Gino Capponi in riferimento ai due rari opuscoli anepigrafi che Tommaseo allestì come doni di nozze nel 1851 e nel 1857. E Antonio Rosmini elogiò similmente i «bellissimi versi … e meravigliosi per le immagini di cui avete saputo rivestire quello che parea non ne potesse ricevere alcuna». Con quelle rime ardite, in tensione tra i fenomeni del mondo fisico (la luce, la terra, il mare, i colori, gli atomi, il cosmo…) e le vertigini della trascendenza (tutte le cose create sono scale viventi che «ascendono le eterne altezze» del divino), Tommaseo tornava all’esercizio poetico dopo più di un decennio di silenzio. I componimenti inclusi nei due opuscoli sarebbero poi rifluiti, con variazioni, nelle definitive Poesie del 1872; adesso sono qui riproposti per la prima volta nella loro veste originale, con apparato di varianti. (Jacopo Berti)

Jacopo Berti è docente di lettere presso il Liceo «Niccolò Machiavelli» di Firenze. Laureato con lode in lettere moderne presso l’Università degli studi Firenze e vincitore del Premio Palazzeschi 1995. Ha tenuto corsi di perfezionamento a carattere metodologico-didattico presso l’Università per Stranieri di Siena. Ha insegnato in università straniere in Italia e negli Stati Uniti come docente di Lingua, Letteratura, Storia europea e Cultura italiana. Si è occupato del pensiero di Niccolò Tommaseo e ha collaborato con le riviste «Studi Italiani», «Antologia Vieusseux», «Nuovo Rinascimento».

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Niccolò Tommaseo nacque a Sebenico nel 1802 da una famiglia di commercianti. Dopo aver compiuto gli studi giuridici presso l’Università di Padova, iniziò a collaborare ad alcune imprese giornalistiche venete. Nel 1823 frequentò a Rovereto la casa di Antonio Rosmini, stringendo con lui una duratura amicizia. Si trasferì poi a Milano, dove conobbe Alessandro Manzoni, verso il quale avrebbe nutrito sempre una grande stima. Dal 1827 al 1834 soggiornò a Firenze chiamatovi da Giovan Pietro Vieusseux per collaborare all'”Antologia”, dando un contributo decisivo alla parte letteraria e politica della rivista. Durante la permanenza fiorentina, pubblicò, nel 1830, il Nuovo Dizionario de’ Sinonimi della lingua italiana, destinato a renderlo assai noto. Nel 1833, anche per effetto di una sua recensione che toccava la questione dell’indipendenza greca, l’Antologia venne chiusa dalla censura granducale e Tommaseo decise di abbondare la Toscana per andare esule in Francia e poi in Corsica. Durante questo periodo, diede alle stampe lo scritto politico Dell’Italia (1835), cui il suo primo volume di versi, Confessioni (1836), il racconto storico Il Duca di Atene (1837) e il Commento alla Divina Commedia (1837). Nel 1840 Niccolò Tommaseo si stabilì a Venezia, intensificando il proprio impegno politico e proseguendo una frenetica produzione editoriale; ancora nel 1840 pubblicò il romanzo Fede e bellezza, scritto ad Ajaccio, cui fecero seguito i Canti popolari toscani corsi illirici greci (1841-1842). Arrestato dalla polizia asburgica nel gennaio 1848, fu liberato nel marzo dalla popolazione insorta e investito della carica di ministro della Pubblica Istruzione nel governo provvisorio veneziano, diretto da Daniele Manin. Dopo la caduta della repubblica veneta, Niccolò Tommaseo fu costretto a rifugiarsi a Corfù per trasferirsi poi a Torino dove rimase fino al 1857, dedicandosi alla stesura del Dizionario della lingua italiana, i cui quattro volumi apparvero nel corso del ventennio seguente. Tornò a Firenze nel 1859, conducendo un’esistenza appartata, interamente votata allo studio, e rifiutando anche la nomina a senatore. Qui morì nel 1874.

Fonte: www.dalmazia.it

Lungarno delle Grazie 24 Firenze

 

 

 

 

 

 

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Più poveri senza musica

26/10/2020 da Sergio Casprini

Angelo Inganni, la facciata del Teatro alla Scala, 1852

 

UN APPELLO PER LA CULTURA

Riccardo Muti Corriere della Sera 26 Ottobre 2020.

Egregio presidente Conte,

pur comprendendo la sua difficile responsabilità in questo lungo e tragico periodo per il nostro Paese, con la necessità improrogabile di salvaguardare la salute, bene supremo, dei nostri concittadini, sento il bisogno di rivolgerLe un appello accorato.

Chiudere le sale da concerto e i teatri è decisione grave. L’impoverimento della mente e dello spirito è pericoloso e nuoce anche alla salute del corpo. Definire, come ho ascoltato da alcuni rappresentanti del governo, come «superflua» l’attività teatrale e musicale è espressione di ignoranza, incultura e mancanza di sensibilità. Tale decisione non tiene in considerazione i sacrifici, le sofferenze e le responsabilità di fronte alla società civile di migliaia di Artisti e Lavoratori di tutti i vari settori dello spettacolo, che certamente oggi si sentono offesi nella loro dignità professionale e pieni di apprensione per il futuro della loro vita. Le chiedo, sicuro di interpretare il pensiero non solo degli Artisti ma anche di gran parte del pubblico, di ridare vita alle attività teatrali e musicali per quel bisogno di cibo spirituale senza il quale la società si abbrutisce. I teatri sono governati da persone consapevoli delle norme anti Covid e le misure di sicurezza indicate e raccomandate sono state sempre rispettate. Spero che lei possa accogliere questo appello, mentre, fiducioso, la saluto con viva cordialità.

 

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I MACCHIAIOLI

12/10/2020 da Sergio Casprini

Capolavori dell’Italia che risorge

Palazzo Zabarella, Padova 24 ottobre 2020 – 18 aprile 2021

Oltre cento capolavori a testimoniare il mondo fortemente emotivo dei Macchiaioli, un mondo la cui essenza racconta dei valori dell’uomo, dell’uomo eroico e instancabile, della sua forza e del suo coraggio, della sua voglia di ripartire giorno dopo giorno a dispetto di qualsiasi difficoltà. 

Spiriti indipendenti e rivoluzionari, caldi di fervore patriottico e saldi negli affetti, i Macchiaioli dipingevano ciò che il “vero” offriva ai loro occhi. Non possiamo non menzionare il Caffè Michelangiolo a Firenze, epicentro delle loro idee, delle loro battaglie per l’affermazione di una nuova estetica che mettesse l’uomo, la realtà e la natura al centro.

I Macchiaioli sanno cogliere le emozioni e i valori dell’uomo in ogni singolo momento di vita quotidiana, in ogni sorriso o fatica umana, in ogni paesaggio e natura incontaminata. Pieno di sogni ed emozioni vitali, forte di un’anima potente e vera che da sempre contrasta la morte, anche l’uomo di oggi è un uomo “macchiaiolo”, che sa cogliere la vita in modo pieno, totale e profondamente eroico. Le pescivendole di Signorini, il merciaio di La Spezia, l’erbaiola di Fattori, le signore al sole di Cabianca, le bambine che fanno le signore di Lega, la gente al mercato di via del Fuoco, le madri raggianti e piene di vita di Banti, i bambini colti nel sonno, la donna che legge il giornale di Adriano Cecioni: i protagonisti delle splendide opere in esposizione a Palazzo Zabarella dal 24 ottobre al 18 aprile 2021 siete Voi, gli uomini e le donne di oggi, macchiaioli ieri, macchiaioli oggi; instancabili, pieni di emozioni e pulsioni vitali. Cosa significa macchiaiolo? Macchiaiolo è sinonimo di “vita”; quella vita che è la forza stessa dell’amore che pervade ogni cosa e che contrasta la morte, irradiando ovunque la luce dell’Essere.

I Macchiaioli già nell’800 seppero vedere oltre, il loro sentire profondo e umano è esaltazione di ogni singolo attimo di vita quotidiana. Anticiparono Monet, Van Gogh, Gauguin nel loro modo di rappresentare ed esaltare la relazione umana in tutto il suo reale valore, in tutto il suo “eroismo”.

Una mostra sui macchiaioli, tanto amati e popolari, ma con molti segreti ancora da svelare, con storie e personalità da far scoprire, appare più che mai consona ad una stagione culturale di “ripartenza” per l’intero nostro Paese. Una mostra-evento il cui intento sia quello di riaprire un capitolo importante della nostra storia artistica – quella macchiaiola appunto – e lo arricchisca servendosi di punti di vista inediti e di una ricerca scientifica rigorosa, attraverso fonti spesso trascurate. Ossia quella rappresentata dalla nutrita schiera di collezionisti e di mecenati, una fitta rete intessuta intorno a maestri noti come Silvestro Lega, Giovanni Fattori, Giovanni Boldini, Telemaco Signorini, e altri meno noti, ma non meno significativi, come Adriano Cecioni, Odoardo Borrani, Raffaello Sernesi, Vincenzo Cabianca.

Questa mostra curata da Giuliano Matteucci e Fernando Mazzocca, allestita a Padova a Palazzo Zabarella: “I MACCHIAIOLI. CAPOLAVORI DELL’ITALIA CHE RISORGE” aprirà i battenti il 24 ottobre 2020 e chiuderà il 18 aprile 2021. 

Orari di apertura

Martedì, mercoledì, giovedì: 10.00 – 18.00
Venerdì: 10.00 – 19.00
Sabato: 10.00 – 20.00
Domenica e festivi: 10.00 – 19.00

Chiuso il lunedì

Biglietto

Intero: € 13,00

Ridotto: € 11,00
Valido per over 65; ragazzi dai 18 ai 25 anni; persone disabili o con invalidità; membri del FAI e del “Touring Club Italia” o titolari di “Padova Card”; docenti e personale dell’Università degli Studi di Padova e dell’Accademia di Belle Arti di Venezia.

Ridotto Speciale: € 9,00
Valido per ragazzi dai 6 ai 17 anni; studenti dell’Università degli Studi di Padova e dell’Accademia di Belle Arti di Venezia.

Biglietto Famiglia
Adulti: € 11,00 Ragazzi: € 6,00

Valido per 2 adulti e per ragazzi dai 6 ai 14 anni fino ad un massimo di 5 persone.

Ingresso gratuito
Valido per bambini fino ai 5 anni (non in gruppo scolastico); accompagnatori di visitatori disabili;

Dal Sito di Palazzo Zabarella- Padova

https://www.zabarella.it/mostre/i-macchiaioli-2020

 

 

 

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