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Cento anni dopo

08/12/2020
Ritratto di Ciampi, (Livorno, 9 dicembre 1920/ Roma, 16 settembre 2016)

 

 Paolo Armaroli Corriere Fiorentino 8 dicembre 2020

Livornese sì, Carlo Azeglio Ciampi, ma un livornese sui generis. Se i suoi concittadini sono impulsivi, lui era flemmatico come un suddito di Sua Maestà britannica. Se i suoi concittadini hanno un accento piuttosto marcato, lui aveva un’inflessione dialettale appena percettibile. Se i suoi concittadini sono degli attaccabrighe, lui era capace di far convivere cani e gatti come neppure il mitico Gianni Letta. Ma guai a toccargli l’amata Livorno, la sua Itaca. Dove tornava per ricaricare le batterie, la leopardiana quiete dopo le tempeste romane. Un amore non ricambiato, si direbbe. Se è vero che il consiglio comunale, ai tempi dell’amministrazione grillina, disse di no alla proposta di intitolargli la rotonda dell’Ardenza perché — udite udite — «uomo delle banche». Una cosa che avrà provocato l’orticaria al presidente dell’Abi Antonio Patuelli. Vedi caso, sottosegretario alla Difesa nel suo governo e, al pari di Ciampi, devoto alle sacre memorie risorgimentali. Ma poi la nuova amministrazione comunale di centrosinistra ha riparato il torto.

L’otto settembre 1943

Uomo dalla mille vite

Per dirla con Alfred Hitchcock, Ciampi è stato un uomo che ha vissuto un’infinità di vite. Sottotenente in Albania durante la guerra, considerò l’8 settembre 1943 non già la morte della Patria, a giudizio di Satta e Galli della Loggia, ma la premessa della sua rinascita perché anticipazione della Costituzione liberaldemocratica affermatasi dopo il 18 aprile 1948. Non aderisce alla Repubblica sociale, attraversa le linee, arriva a Bari e si arruola nel ricostituito esercito. Dopo le lauree in Lettere e Giurisprudenza è stato per poco tempo professore di Italiano e Latino in un liceo di Livorno. Vincitore di concorso alla Banca d’Italia — al quale partecipa per le insistenze dell’esuberante moglie, Franca Pilla, che, più giovane di lui di appena dieci giorni, il 19 dicembre compirà cent’anni — ne diventerà come Luigi Einaudi Governatore. E per ben quattordici anni: dall’8 ottobre 1979 al 28 aprile 1993. Fin d’allora, sull’Europa la pensava come Ugo La Malfa: se non ci aggrappiamo ad essa con le unghie e con i denti, scivoleremo ineluttabilmente in Africa. Lascia la carica di Governatore perché nominato il giorno dopo presidente del Consiglio da Oscar Luigi Scalfaro: primo inquilino di Palazzo Chigi non parlamentare. Come non parlamentare sarà Giuseppe Conte. E senza tessere di partito in un’Italia dove di tessere ne occorrono a volte due per tirare a campare. Nell’immediato dopoguerra si iscrive al Partito d’Azione, che presto si suicidò anche per i troppi galli nel pollaio. In tale incarico può avvalersi di personalità di prim’ordine come Antonio Maccanico, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, e Andrea Manzella, segretario generale. Un gabinetto, il suo, sostenuto da un’ampia ed eterogenea maggioranza parlamentare. Un’esistenza tormentata caratterizzata però dal risanamento economico. La fine del suo governo è alquanto singolare sotto il profilo costituzionale. Per la prima volta nella storia della Repubblica, e in seguito non ci saranno altri casi del genere, un capo dello Stato scioglierà le Camere, per così dire, motu proprio. Per l’appunto colui che fino a quando era stato vicepresidente e poi presidente della Camera aveva collocato il Parlamento al di sopra degli altri organi costituzionali, diventa — ironia del destino — il più interventista degli inquilini del Quirinale. Scalfaro mette fine alla legislatura per svariati motivi. Perché nel frattempo la vecchia legge elettorale proporzionale è stata relegata in soffitta dal Mattarellum. Perché il Parlamento in carica era — per dirla tutta — il Parlamento degli inquisiti. Perché Achille Occhetto aveva allestito la sua gioiosa macchina da guerra, arcisicuro di battere l’uomo nuovo Silvio Berlusconi. E la prospettiva non dispiaceva affatto all’uomo del Colle. Ma c’era un’anomalia che salta agli occhi. Difatti il governo era felicemente in carica e pertanto non ci sarebbe stato il presupposto per la controfirma di Ciampi al decreto di scioglimento. Che tuttavia fu possibile in quanto Ciampi dichiarò — pro bono pacis — che il suo mandato era esaurito. Una pietosa bugia in omaggio alla ragion politica.

Decimo Presidente

Dopo aver guidato dicasteri economici sotto i governi Prodi e D’Alema, il 13 maggio 1999 al primo scrutinio, come era riuscito solo a Francesco Cossiga, Ciampi è eletto decimo presidente della Repubblica con 707 voti su 990 presenti e votanti rispetto ai 1.010 componenti del collegio presidenziale. Designato dall’allora presidente del Consiglio Massimo D’Alema, ebbe i suffragi sia del centrosinistra sia del centrodestra. Tra quei 707 voti c’era anche il mio. E non solo per disciplina di partito. Ciampi abitava a Roma in via Anapo. Una strada tranquilla tra Corso Trieste e Villa Ada, dove fu arrestato Mussolini. Di fronte alla scuola Mazzini, dove ho frequentato la prima elementare per soli tre mesi per poi trasferirmi a Firenze, e al Parco Nemorense, dove salivo su un carretto trainato dagli asinelli. Un amarcord che mi è caro. Nella seduta del Parlamento del 18 maggio 1999 Ciampi, dopo il giuramento, pronuncia il suo messaggio d’insediamento. Una sorta di anticipo del suo settennato. Sottolinea, a beneficio dell’attuale presidente del Consiglio, il vitale confronto tra maggioranza e opposizione. Ed ecco il destino degli italiani; le fortune d’Italia, dei suoi giovani e delle generazioni che verranno; le memorie nazionali e patriottiche; il senso profondo della Patria; le radici della nostra italianità; il senso dell’unità nazionale.

La Piccola Patria

Per Ciampi il borgo natio è la piccola Patria, quella che i tedeschi chiamano Heimat; l’Italia è la Patria, la Vaterland; l’Europa è la grande Patria, la Grossvaterland. Ma in Europa bisogna starci, ammoniva Indro Montanelli, come italiani e non come apolidi, senza radici, ignari del passato e indifferenti al futuro. Niente più che contemporanei, secondo Ugo Ojetti. Con buona pace di Bertold Brecht, Ciampi riteneva che noi italiani abbiamo un disperato bisogno di eroi, di valori. Per compensare, per dirla con lo storico Dino Cofrancesco, la fossa delle Marianne rappresentata dai tanti sciamannati in libera circolazione nel Belpaese. Ecco l’importanza dei simboli: del Tricolore, del quale si ammantò Carlo Alberto nel 1848 a dispetto dello Statuto; della Lingua italiana, questa illustre sconosciuta; dell’Inno di Mameli, adottato in via provvisoria nell’immediato dopoguerra e solo da poco inno nazionale a tutti gli effetti.

Questa l’eredità di Ciampi, secondo presidente della Repubblica toscano dopo Giovanni Gronchi, domani a cent’anni tondi dalla nascita.

 

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