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Risorgimento Firenze

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Tribuna

LA POLITICA E L’IDEA DI PATRIA

15/12/2021 da Sergio Casprini

Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera 14 dicembre 2021

È un interesse primario della democrazia italiana che vi sia una Destra libera da qualunque interdetto ideologico e quindi pienamente legittimata a governare, e da tempo Giorgia Meloni, con la sua vivida intelligenza politica e la sua personale simpatia (che in politica conta, eccome!) si sta dimostrando capace di fare molti passi importanti su tale strada. Proprio per questo è utile cercare di chiarirsi le idee sull’uso sempre più insistito del termine «patriottismo» che la stessa presidente di Fratelli d’Italia va facendo da qualche settimana e da ultimo anche in relazione alla figura del prossimo presidente della Repubblica che essa reclama che sia un «patriota».

Patria e patriottismo, infatti, sono cose troppo importanti perché sull’una e l’altro permanga qualche equivoco.

Una cosa allora va detta prima di ogni altra, specialmente nel caso di un regime democratico come il nostro: il patriottismo non può essere un monopolio di nessuno. Il patriottismo non è un’opzione politica, talché si finisca inevitabilmente per concludere che sarebbe patriota chi la pensa come noi e invece non lo sarebbe chi ha opinioni diverse o magari opposte. Ciò vale anche nel caso di questioni d’importanza capitale. Nel 1947 Croce e Salvemini, i quali erano convinti che non si dovesse firmare il Trattato di pace imposto dai vincitori all’Italia, da essi giudicato un diktat umiliante e ingiusto, non erano certo meno patrioti di De Gasperi o di Nenni che invece credevano fosse più conveniente all’interesse del Paese firmare quel Trattato.

Che cosa sia più congruo all’interesse nazionale in una data circostanza — e quindi in questo senso più patriottico — è materia di giudizio politico, in cui entrano in misura decisiva i nostri valori, la nostra visione del mondo, al limite le nostre simpatie e antipatie. E dunque bisogna stare molto attenti a spiccare condanne di «antipatriottismo». Anche in casi di errori politici conclamati. Il patto di Londra, ad esempio, con il quale l’Italia entrò nella prima guerra mondiale (chiedo scusa per questi riferimenti storici ma la storia è una galleria di casi concreti che servono bene a spiegarsi), il patto di Londra, dicevo, per le sue clausole e la sua complessiva scarsa lungimiranza doveva rivelarsi per l’Italia, a guerra finita, un campionario di errori catastrofici. Ma a nessuno verrebbe mai in mente per questo di accusare Sidney Sonnino, il ministro degli esteri che nell’aprile del 1915 firmò quel patto, di non essere un «patriota». In un certo senso, anzi, lo era fin troppo.

Se c’è nel vocabolario politico un termine inclusivo è il termine «patria». Una dimensione, quella della patria, che, ha scritto Piero Calamandrei, indica, qualcosa di «comune e di solidale che è più dentro» in ciascuno di noi. Cioè qualcosa che va al di là delle opinioni politiche, per più versi qualcosa di prepolitico, in forza del quale sentiamo di avere un legame, un patrimonio condiviso (a cominciare da quello fondamentale della lingua) anche con chi nutre idee politiche diverse, pure assai diverse, dalle nostre. Proprio per questo solamente la nazione democratica può essere in realtà una vera patria. Perché solo in un regime democratico è garantita a tutti la massima latitudine delle opinioni, la più ampia libertà di pensiero, e quindi il vincolo patriottico può avere la massima estensione, includere virtualmente ognuno. Laddove viceversa è la dittatura di una fazione che, anche se si ammanta di valori nazionali, se proclama di rappresentare gli interessi massimi del Paese, in realtà, mettendo al bando coloro che non ne condividono i principi, non solo rende il patriottismo impossibile, ma produce un effetto ancora più devastante: di fatto mette all’ordine del giorno la guerra civile

Giorgia Meloni ha deciso da tempo di mollare gli ormeggi che in qualche modo continuavano a tenere legato Fratelli d’Italia al passato della vecchia Alleanza Nazionale e di cercare una nuova rotta in grado di condurre il suo partito al centro di nuovi equilibri politici. Cercando quindi anche nuove parole capaci di sottolineare questo nuovo corso: penso ad esempio al termine «conservatore» con cui ha preso ad autodefinirsi. A mio giudizio ha fatto e sta facendo bene. Ma le parole sono pietre. Vanno usate con cautela: se le si adopera con eccessiva disinvoltura, pur senza alcuna cattiva intenzione, possono far male. Agli altri ma soprattutto a noi stessi.

Antonio Muzzi Allegoria dell’Italia Unita 1888

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4 NOVEMBRE 2021

03/11/2021 da Sergio Casprini

Per il 4 NOVEMBRE 2021, la Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate, nel  centenario della tumulazione del Milite ignoto all’Altare della Patria, proponiamo una bella pagina di storia, pubblicata nell’inserto culturale del Foglio Quotidiano di sabato 1 novembre, in cui si ricostruisce la nascita del mito del Milite Ignoto, come simbolo dell’Unità nazionale.

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La Grande guerra, l’elaborazione collettiva del lutto e la costruzione di un’identità nazionale:

Storia dell’invenzione commemorativa per antonomasia

Il Milite Ignoto passa per Monselice il 30 ottobre 1921

È stato al centro di un compianto condiviso, l’elaborazione di un lutto di massa, come di massa era stata la morte. Sacrificio della vita consegnato come risarcimento e memento alla memoria collettiva. Morte e resurrezione nel simbolo, uno per tutti, che nell’anonimato certifica la presenza e il valore di tutti. Comunque lo si guardi, e al netto della retorica nazionalista e militaresca che l’ha attraversato in un secolo di storia, il Milite ignoto fa ormai parte della mitologia della nazione. E come mito, fondativo quanto meno della rinascita dal trauma della Grande guerra, è sopravvissuto alla monarchia e al fascismo, a un’altra guerra sciagurata e alla leva obbligatoria, alla contestazione, a un attentato e a qualche anno di oblio. La guardia d’onore è sempre lì al suo fianco, giorno e notte, oggi due lancieri di Montebello, domani forse due fucilieri di Marina.

Le Frecce tricolori passeranno presto di nuovo sopra le loro teste, una nuova corona d’alloro sarà posta accanto alla tomba, risuoneranno le note dell’Inno di Mameli, della Canzone del Piave e del Silenzio. In questi giorni è tornata a formarsi una discreta fila di persone ai piedi della scalinata che conduce all’Altare della patria, in attesa di oltrepassare i cancelli e di avvicinarsi al monumento. S’indovina turisti, per lo più. Niente a che vedere con la folla di quei giorni di novembre di cento anni fa. L’idea di trasportare da un campo di battaglia alla capitale un soldato senza identità e di seppellirlo nel tempio più importante della nazione era già stata attuata nel 1920 in Francia e Inghilterra. L’11 novembre, nel secondo anniversario dell’armistizio sul fronte occidentale, con un’imponente cerimonia il Milite ignoto francese era stato inumato a Parigi sotto l’Arc de Triomphe, costruito da Napoleone come tributo al suo esercito e già monumento alle glorie militari e all’orgoglio nazionale francese, mentre a Londra la bara del Soldato senza nome britannico era stata collocata nell’Abbazia di Westminster, dove sono sepolti monarchi, poeti e grandi d’Inghilterra.

Giulio Douhet

In Italia, nel luglio di quell’anno era stato un colonnello d’artiglieria, Giulio Douhet, sostenuto da padre Agostino Gemelli, a proporre l’idea di onorare tutti i caduti nella salma di un soldato sconosciuto: un “corpo mistico”, lo ha definito Laura Wittman, italianista della Stanford University, che incarnava il sacrificio di tutti i caduti e che rappresentava pure idealmente per i vivi il figlio, il marito, il fratello, il padre che aveva perduto la vita e il corpo al fronte. Passò più di un anno prima che il disegno di legge fosse promulgato e che il governo – presidente del Consiglio per la prima volta un socialista riformista, Ivanoe Bonomi, ministro della Guerra un civile, Luigi Gasparotto – lo mettesse in opera. Toccò a Gasparotto, che poteva muoversi sulla scorta delle comuni esperienze delle altre due potenze vincitrici, definire le modalità dell’operazione: un rituale che garantisse l’anonimato della salma prescelta (e la commissione istituita per questo compito fu vincolata a un rigido protocollo di segretezza) e la massima risonanza del tributo.

Il punto di partenza era l’esumazione di undici corpi senza nome, da cercare nelle undici zone di combattimento più significative del fronte italo-austriaco: dal San Michele al Pasubio, dal Grappa al Montello a Gorizia e Monfalcone. Tra le undici bare, sarebbe stata scelta quella destinata alle esequie solenni e alla sepoltura a Roma al Vittoriano, il grande monumento in onore di Vittorio Emanuele II, il sovrano fondatore dello stato, che dieci anni dopo l’inaugurazione era già il simbolo dell’identità nazionale. Ma prima bisognava strappare alla terra quegli undici corpi, bisognava tornare tra i morti. La catastrofe della Grande guerra, che squassò assetti fisici e mentali, spalancò un baratro di discontinuità col passato anche nell’idea e ancor più nell’esperienza della morte. Morte di massa, nel numero e nella frequenza. Morte mai così prossima, nell’eventualità della propria e nell’orrenda concretezza di quella altrui, come nelle trincee. Nell’ossessiva invadenza dei cadaveri, scrive Antonio Gibelli nell’Officina della guerra, la morte è “spogliata di ogni rito e di ogni riservatezza, esposta nella sua materialità e nella sua oscenità di spettacolo pubblico. Lo spettacolo di decomposizione si offre ai combattenti in tutta la sua mostruosità, varietà e durata”. Ed è morte privata di lutto e compianto, sono cadaveri a cui è impossibile dare una sepoltura, corpi annientati da una pallottola e poi straziati, anche sotto un palmo di terra, da una granata, irriconoscibili.

 

La guerra inghiotte le sue vittime cancellandone immediatamente l’identità. “Tu eri morto così da poco – scrive Paolo Monelli nelle Scarpe al sole – ed eri già nulla, massa grigia destinata a puzzare rannicchiata contro la roccia. I viventi frettolosi non sanno più nulla di te”. Corpi sfigurati o con la piastrina di riconoscimento deteriorata o del tutto assente, corpi “dispersi”, corpi senza nome. Il sacrario di Redipuglia conserva oggi le spoglie di quasi 40 mila caduti noti e di oltre 60 mila ignoti. Delle oltre 600 mila vittime del conflitto, 200 mila sono rimaste prive di identità. L’anonimato in cui può relegare la morte sul campo di battaglia diventa un’ulteriore angoscia che domina sia i soldati al fronte, sia le famiglie lontane. “Tutti ci davamo l’indirizzo uno con l’altro [e] dicevamo, se muoio io tu scrivi ai miei cari la mia sorte, se muori tu scrivo io”, annota nel suo diario Mimo Genga, un giovane muratore pesarese in trincea, ricordando i momenti che precedevano un assalto. E lo spettro dell’annientamento, della morte che riduce il corpo senza nome a cosa aleggia anche in una sua terra di nessuno, senza distinzioni tra amico e nemico: “Finché non so il suo nome potrò forse ancora dimenticare, il tempo cancellerà la sua immagine”, pensa il soldato di Remarque in Niente di nuovo sul fronte occidentale. “Ma il suo nome è un chiodo che si pianterà in me e non si potrà strappare mai più… Perciò apro il libretto e leggo lentamente: Gérard Duval, tipografo. Con la matita del morto trascrivo l’indirizzo su una busta, e con improvvisa fretta ripongo tutto il resto nella sua giubba. Io dunque ho ucciso il tipografo Gérard Duval, penso smarrito…”.

Cimitero di guerra di Lizzana

Nei cimiteri di guerra del fronte italiano, nel 1921, sono sepolti anche soldati austro-ungarici. Se ne contano più di ottomila a Lizzana, vicino a Rovereto, nel cimitero che ha raccolto le salme provenienti da circa 200 cimiteri più piccoli della regione trentina, piccoli cimiteri allestiti accanto alle trincee in cui venivano inumati alla buona, e quando era possibile, i caduti. A Lizzana all’epoca sono tumulate quasi 12 mila salme, più della metà di soldati senza possibilità di essere identificati, se non dalla divisa come italiani. È qui che, presumibilmente, la commissione incaricata dal governo fa esumare e ricomporre in una cassa la prima delle undici salme di soldati senza nome. Seguiranno nei giorni successivi le altre. Il 28 ottobre le undici bare, tutte uguali, sono affiancate l’una all’altra nella basilica di Aquileia. Per chi debba indicare, con un secondo grado di casualità, con gli occhi bendati da un’anonima cassa di legno, quale sia la salma destinata a Roma, non è stato scelto un militare ferito in guerra, come in Francia, o un alto ufficiale, come in Inghilterra. È stata scelta una donna, una madre.  Solo un terzo dei caduti della Grande guerra erano uomini sposati. Il 12 per cento, è stato calcolato, aveva meno di vent’anni. Il lutto per i caduti è massimamente lutto di genitori, che devono affrontare in una società non preparata il più grave dei traumi: la perdita di un figlio. E quel trauma, acuito dall’assenza del corpo del dolore, fu evidente in alcuni casi presi in esame dalla commissione incaricata di scegliere una figura particolarmente rappresentativa come “madre spirituale” del Milite ignoto. Lorenzo Cadeddu, un ufficiale dell’Esercito che si è dedicato alla ricerca storica, nella Leggenda del soldato sconosciuto la racconta così: “Si pensò a una mamma livornese che si recò a piedi da Livorno a Udine alla ricerca del figlio disperso. Venne considerato il caso di una mamma di Lavarone che, saputo dov’era tumulato il figlio, si recò in quel cimitero scavando da sola e con le mani la terra che ne ricopriva i resti; quindi, trovate le ossa, dopo averle legate con un nastro tricolore, se le pose in grembo e le portò in paese seppellendole vicino a quelle del marito. Infine, venne considerato il caso di una mamma che ebbe la forza di assistere a oltre 150 esumazioni pur di trovare i resti del figlio…”. Non bastava, o forse era troppo. Il rito nazional-popolare richiedeva una donna del popolo, l’architettura simbolica dell’evento un tassello biografico che la legasse in qualche modo alla biografia della nazione.

Maria Bergamas

Maria Maddalena Blasizza, figlia di un fabbro e di una lavandaia, era nata a Gradisca d’Isonzo nel 1867 e viveva a Trieste (allora Impero austro-ungarico), dove si era trasferita in gioventù. Il marito era un Antonio Bergamas, postino. Il figlio maschio, Antonio anche lui, formalmente suddito dell’Impero asburgico ma “educato nella fede di Mazzini” – avrebbero scritto dopo la sua morte in un opuscolo commemorativo – si era arruolato nell’esercito italiano con il nome di guerra di Antonio Bontempelli. Era caduto colpito da una raffica di mitraglia nel giugno del ‘16 durante un assalto che aveva voluto guidare lui stesso poiché come irredento, aveva sostenuto, spettava a lui l’onore di giungere per primo sui reticolati nemici. Aveva meno di 25 anni. Il suo corpo era stato inumato nel piccolo cimitero vicino alla trincea, devastato in seguito da un bombardamento che aveva reso irriconoscibili le salme. C’era dunque il soldato disperso, che “amò tenacemente l’Italia e morì per Essa”, c’era Trieste irredenta, c’era la madre figlia del popolo. C’era tutto. 

Maria Bergamas la si può vedere ancora oggi avanzare lentamente, mater dolorosa vestita tutta di nero, davanti alle bare allineate ai lati dell’altare maggiore della basilica di Aquileia. Gloria. Apoteosi del soldato ignoto è il contributo del cinema alla creazione del mito del Milite ignoto, perché la traslazione con il viaggio del feretro per l’Italia e la grande cerimonia a Roma riprese dalla Federazione cinematografica italiana e dall’Unione fototecnici cinematografici furono anche il più grande evento mediatico a cui l’Italia avesse mai partecipato. Il film, restaurato in occasione del centenario dalla Cineteca del Friuli, ha una piccola falla proprio nel momento del “riconoscimento” della bara da parte di Maria Bergamas: la vediamo avvicinarsi alla decima cassa, accompagnati da una didascalia a schermo intero – “Nel trepido palpitare dei cuori… la madre mormorò: eccolo” – e poi è subito inginocchiata e commossa con le mani appoggiate alla bara. Ci racconta qualcosa di più (anche l’enfasi di un secolo fa) il diario di un testimone: “… Trattenendo il respiro giunse di fronte alla penultima bara davanti alla quale, oscillando sul corpo che più non la reggeva e lanciando un acuto grido che si ripercosse nel tempio, chiamando il figliolo, si piegò, cadde prostrata e ansimante in ginocchio abbracciando quel feretro”.

Finita la cerimonia, sul sagrato della basilica la banda della brigata Sassari suonò per la prima volta in via ufficiale la Canzone del Piave. La mattina del 29 il feretro, caricato su un treno speciale e ancorato in una carrozza aperta a un affusto di cannone, cominciò il suo lento viaggio lungo l’Italia. Udine, Treviso, Mestre, Venezia, Bologna, Firenze… Due ali di folla in ginocchio lo accoglievano nelle piccole e grandi stazioni e lungo i binari. La comunità dell’applauso era di là da venire. Imposto il silenzio, vietati i discorsi, era accettata, ma una sola volta, la Canzone del Piave. La quarta notte il treno era alla stazione di Portonaccio (l’attuale Tiburtina). La mattina del Giorno dei morti, dopo l’arrivo del convoglio alla stazione Termini, il primo corteo e il tributo religioso nella basilica di Santa Maria degli Angeli, aperta alla devozione dei romani. Alle nove del 4 novembre, terzo anniversario della vittoria, dalla basilica si avviò verso piazza Venezia il corteo imponente, con militari di ogni arma, decorati, bandiere e gonfaloni. Subito dietro al feretro, venti madri e venti vedove di guerra. E tutt’intorno, lungo il percorso e alle finestre dei palazzi, una folla come a Roma non s’era mai visto. Il rito dell’inumazione fu breve, le cronache sottolineano la solennità del momento e la commozione generale. Alle 10.36 si chiuse la pietra tombale. L’umile salma ai piedi della grande statua equestre del “padre della patria” si preparava a diventare il nuovo fulcro simbolico del monumento e dunque dell’unità nazionale.

Il culto dei morti e della memoria era già cominciato ancor prima della fine della guerra e in quegli anni a cavallo del ’20 si manifestò nella iperbolica diffusione dei monumenti ai caduti, un’altra risposta commisurata alla vastità delle perdite. Monumenti con nomi senza corpo, questa volta, perché i nomi restituiscono almeno quell’identità che la morte sul campo di battaglia ha annientato. In Italia poi fu tutto un fiorire di opuscoli e pubblicazioni commemorative curate da congiunti o amici del caduto. Nel 1922, il sottosegretario alla Pubblica istruzione del governo fascista, Dario Lupi, ebbe l’idea di consegnare alle scuole le chiavi della memoria, istituendo viali e parchi della Rimembranza, dove ogni albero fosse legato al nome di un soldato morto al fronte. La natura come monumento vivente. Il progetto ebbe una discreta fortuna sul momento, il secondo dopoguerra ne cancellò quasi totalmente le tracce, anche perché il fascismo si era appropriato quasi subito di quella memoria legandola all’altro mito, la vittoria mutilata, e pure integrandola con la memoria dei suoi caduti, quelli della rivoluzione fascista.

Parco della Rimembranza Firenze

Il Milite ignoto resta comunque l’invenzione commemorativa per antonomasia della Grande guerra. Capace di integrare il cordoglio privato con quello collettivo. Perché l’anonimato attesta l’eroismo di tutti e permette così di elaborare il lutto di tutti. Come sottolinea Oliver Janz, uno storico tedesco che ha seguito con particolare attenzione il dopoguerra italiano, nel suo anonimato il Milite ignoto estende il diritto alla sopravvivenza nella memoria collettiva – una forma secolarizzata dell’idea cristiana della vita eterna – a qualunque soldato abbia sacrificato la vita per la nazione.

E i caduti vivono nel ricordo ma anche nel futuro storico della nazione per cui sono morti.

ROBERTO RAJA   Il Foglio Quotidiano 1 novembre 2021

 

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TRA EINAUDI E LENIN: le ragioni di una “RIVOLUZIONE LIBERALE”

18/08/2021 da Sergio Casprini

Matteo Marchesini* Il Foglio Quotidiano18 agosto 2021

Molte correnti e suggestioni culturali si combinano nel pensiero di Piero Gobetti (1901- 1926). C’è in Gobetti un ideologo progressista; c’è un critico d’arte conservatore, che risente dell’antiavanguardismo anni 20; e c’è anche un giornalista che sintetizza la storia d’Italia al modo di ideologi disinvolti come Oriani e Missiroli. C’è, ancora, il lettore di Sorel, che vede nella lotta di classe una reazione vitalistica all’inerte parlamentarismo liberale; e c’è il lettore di Mosca e Pareto, che individua nelle élite più dinamiche la guida necessaria di ogni società. Nel sostanziare queste concezioni, lo soccorrono poi sia il liberismo di Einaudi che la fascinazione per Lenin, oltre a una smania di tradurre il pensiero in azione che viene dritta dalla filosofia di Gentile. Ma nell’opera gobettiana più matura prevale l’influenza di due diversi modelli liberali: quello di Croce e quello di Salvemini. Di Croce, Gobetti riprende l’aspirazione a un pensiero organico e idealistico, ma rifiuta la visione irenica e antiagonistica della vita civile. Viceversa, dal progressista Salvemini ricava molte idee su socialismo, antiprotezionismo e riforme democratiche, ma si oppone al suo atteggiamento positivista appunto in nome di “idealità” non riducibili all’analisi dei singoli problemi.

Attraverso la meditazione di questi autori, e attraverso le prime prove politico- editoriali, Gobetti arriva presto a una sintesi spericolata e originalissima: quella che si ritrova sulla sua rivista “La Rivoluzione Liberale”, e soprattutto nei pezzi che vanno a formare il libro omonimo del ’ 24. Con un’intransigenza che lo apparenta a Gramsci, ma con in più uno stile concitato che riflette la sua debordante energia giovanile, l’autore ricapitola qui in forma vertiginosamente scorciata i problemi secolari attorno a cui si muove la storia italiana; e subito trasforma questa ricapitolazione tendenziosa in uno strumento di pedagogia politica per l’attualità.

 Non c’è grande tema che sfugga alla sua attenzione, dal Risorgimento alla scuola, dagli affari esteri alla Chiesa.

Particolarmente riusciti risultano i brani sugli schieramenti politici del dopoguerra (nazionalisti, popolari, fascisti, socialisti, comunisti) e i ritratti di alcuni singoli leader ( Sturzo, Salvemini, Mussolini e lo stesso Gramsci, la cui fisionomia è descritta come un equivalente fisico del pensiero). Cruciali, poi, sono i passaggi nei quali Gobetti parla delle avanguardie proletarie – cioè degli operai organizzati che aveva davanti a Torino – come delle nuove e più autentiche élite. Seppure in una prospettiva diversa da quella di Gramsci e dei marxisti, anche lui considera questi operai i veri eredi della migliore tradizione borghese. Solo che per Gobetti non devono realizzare il comunismo, ma la vera rivoluzione liberale che è fallita durante il Risorgimento.

Sulle classi proletarie, il giovane ideologo proietta la speranza di una fulminea trasformazione sociale: confida che le loro lotte contribuiscano in maniera decisiva a colmare i ritardi storici della nazione, e a produrre in extremis quella modernizzazione che in Italia è ancora allo stato embrionale. Perciò il liberalismo, ideologia di solito associata alla moderazione, diventa per lui un fatto “rivoluzionario”. Designa, cioè, un’accelerazione di quelle dinamiche sociali avanzate che Gobetti oppone alla speculare estremizzazione dell’inerzia italiana, determinata a suo avviso dal regime fascista: un regime in cui il ventenne direttore della “Rivoluzione”, a differenza di Croce, non vede affatto un corpo estraneo o un mero incidente di percorso, bensì “l’autobiografia della nazione”.

Il fascismo rappresenta per Gobetti sia l’eterna “infanzia”, sia la decrepitezza di un’Italia invecchiata senza diventare adulta. E’ un’Italia che “crede alla collaborazione delle classi e rinuncia per pigrizia alla lotta politica”, lasciandosi soffocare dai ceti più parassitari, né autenticamente proletari né responsabilmente borghesi. La sua arretratezza deriva dalla perenne tendenza a bloccare, imbrigliare o comunque esorcizzare quel libero scontro tra le classi attraverso il quale soltanto possono emergere élite forti e capaci di riformare la società. Secondo Gobetti, nonostante il suo piglio rivoluzionario il fascismo non ha fatto altro che portare alla perfezione una tale tendenza. Il suo statalismo, che concepisce la società come un organismo unico diviso in tante corporazioni “medievali”, offre la massima protezione possibile ai privilegi di gruppi che non vogliono affrontare il rischio d’impresa, e li copre sotto la patina retorica di un interesse generale tutto di facciata. E’ in questo senso che il regime mussoliniano costituisce la più attendibile “autobiografia della nazione”, e potremmo dire la ricapitolazione della sua storia clinica. Ai suoi esordi, nell’immediato dopoguerra, la violenza fascista sembrava prefigurare un reale e perfino fecondo scontro di idee e di interessi. Ma dopo appena due o tre anni, Mussolini ha raccolto intorno a sé l’immobile blocco sociale delle classi medie già sedotte da Giolitti. Anche su questo piano, il capo del fascismo ha semplicemente perfezionato il consenso, portandolo con ogni mezzo verso una sinistra “unanimità”. Tutto ciò, secondo Gobetti, attesta “l’inesistenza di minoranze eroiche, la fine provvisoria delle eresie”. Meglio che i tiranni facciano il loro dovere fino in fondo – meglio la persecuzione aperta e sanguinosa, dice provocatoriamente con una frase che fa rabbrividire chi conosce il suo destino. Forse solo così, dice, ci si potrà risvegliare dal torpore con una nuova energia e una intelligenza più limpida.

Questo atteggiamento fa capire bene le radici etiche e perfino psicologiche dell’autore di Rivoluzione liberale.

La sua concezione della lotta di classe non è mai slegata da concetti come “forza morale” e “spirito di sacrificio”. Convivono in lui due tipi opposti di intellettuale. Da un lato c’è l’illuminista attento ai dettagli, erede di quella tradizione che passa per il ’ 700 dei Verri, per l’800 di Cattaneo e per il ’ 900 di Salvemini, e che è rimasta sempre ai margini della scena italiana; ma dall’altro lato, questa tradizione s’innesta sul carattere di uno spiritualista appartenente all’assai più influente famiglia dei letterati che nutrono generose illusioni politiche. E’ la famiglia del corregionale Alfieri, su cui Gobetti scrisse la tesi di laurea: cioè del poeta per eccellenza antitirannico, ma animato da una visione politica tutta astratta, aristocratica e classicista. E non è certo un caso che allo studio dell’astigiano si siano dedicati anche altri giovani cresciuti sotto la tirannia del fascismo, come ad esempio Fubini, Debenedetti e Sapegno, coetanei di Gobetti e a lui vicini, sebbene più letterati e meno politici. “La vita è tragica”, ripete alfierianamente questo spavaldo martire dell’antifascismo, che molto prima di Croce e Salvemini ha capito dove conduce la strada spianata da Mussolini. E con un esempio significativamente classico ammonisce che “è difficile pensare Cesare senza Pompeo, Roma forte senza guerra civile”. Il lottatore Gobetti è un intellettuale insieme pratico e idealista, o se si vuole un idealista della pratica. Ed è da questa identità doppia, fondata su una sconcertante dote intuitiva, che nasce l’originalità dei suoi saggi: dove liberismo e leninismo, etica protestante della responsabilità individuale ed entusiasmo per le classi povere in ascesa si mescolano in un disegno precario ma eccezionalmente suggestivo.

Oggi questa miscela non può essere per noi un modello; ma l’Italia che Gobetti ha descritto somiglia ancora alla nostra.

 

Marchesini, Matteo. – Scrittore italiano (n. Castelfranco Emilia 1979). Tra il 1999 e il 2003 ha gestito una piccola libreria e dal 1998 al 2010 ha collaborato a un annuario di poesia curato insieme a G. Manacorda e P. Febbraro. Del 2013 è il suo primo romanzo Atti mancati, candidato al Premio Strega dello stesso anno, in cui emergono riflessioni sul romanzo come genere che può nascere solo da una scrittura in grado di affrontare la realtà, mentre è del 2017 la raccolta di tre romanzi brevi. Tre False coscienze. Parabole degli anni Zero. Attualmente collabora tra l’altro con Radio Radicale, Il Foglio e Il Sole 24 Ore.

Piero Gobetti

 

 

 

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GARIBALDI, STATUA E STORIA DIMENTICATE

20/07/2021 da Sergio Casprini

 

Giovanni Belardelli Corriere della Sera 20 luglio 2021

Il 6 settembre faranno tre anni da quando il monumento equestre a Garibaldi, a Roma sul Gianicolo, venne colpito da un fulmine.

Da allora, benché solo modestamente danneggiato in un bassorilievo del basamento, il monumento è rimasto transennato senza che venisse intrapreso alcun lavoro di restauro. Si tratta di una vicenda davvero minima, a fronte dei mille e mille lavori italiani interrotti o mai iniziati, mal condotti o mai terminati. Eppure l’inerzia di chi avrebbe dovuto provvedere assume in questo caso un significato particolare, in considerazione della incomparabile rilevanza simbolica di quella figura.

Nessun altro protagonista dell’unificazione italiana ha infatti goduto della popolarità di Garibaldi, al quale per di più ci si è richiamati tanto a sinistra (si pensi alle Brigate Garibaldi, le formazioni partigiane organizzate dal Pci) che a destra (Mussolini, celebrando i cinquant’anni dalla morte del capo dei Mille, dichiarò le camicie nere niente meno che eredi delle camicie rosse). Proprio per questo le transenne attorno a quel monumento sono indice di qualcosa di più che la semplice incuria delle autorità comunali. Segnalano quanta vacua retorica ci sia spesso nel nostro modo di ricordare il passato. Potesse parlare, quella imponente statua di bronzo manifesterebbe probabilmente il suo sconcerto per essere rimasta ingabbiata proprio mentre si celebravano i 160 anni dall’unità d’Italia, un evento nel quale Garibaldi qualche ruolo lo aveva ben avuto. Ma la condizione di semiabbandono in cui si trova il monumento mostra anche quanto sia cambiato, in tutte le democrazie euroatlantiche, il modo di rapportarsi al passato. Da qualche decennio veniamo infatti richiamati all’obbligo di ricordare soprattutto i crimini della nostra storia. Nulla da obiettare, ovviamente. Sennonché l’epoca della religione della memoria, come è stata definita, sembra incapace di rammentarsi anche dei propri eroi.

Ammesso che sia ancora lecito usare questa parola ai tempi della cancel culture.

Pietro Senno Garibaldi a Caprera 1860/1870

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25 APRILE. FESTA DELLA LIBERAZIONE

24/04/2021 da Sergio Casprini

           MONUMENTO ALL’ULTIMA SEDE DI RADIO CORA                                                                 

Piazza D’Azeglio Firenze

Il 7 giugno 1944

convenuti nella casa di fronte

a concordarvi l’ultima battaglia

della nostra liberazione

ENRICO BOCCI avvocato

ITALO PICCAGLI capitano

Servizi della Regia Aereonautica 

LUIGI MORANDI studente

solo armati di costanza fede sapere

sorpresi con i compagni dai nazifascisti

dopo resistenza torture inumane coraggio

dettero la vita

per gli ideali fino all’ultimo vivi

di giustizia e di libertà

 

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17 MARZO: Giornata dell’Unità nazionale, della Costituzione, dell’Inno e della Bandiera.

17/03/2021 da Sergio Casprini

17  MARZO 2021

Come nel 2020 non possiamo celebrare il 17 MARZO, solennità civile che celebra l’unità nazionale, con manifestazioni aperte alla cittadinanza, ma non possiamo dimenticare che dal 17 marzo 1861 per le future generazioni di abitanti della penisola italica si apriva un futuro carico di speranze. L’unità non fu un percorso facile, ma ci ha lasciato un patrimonio di valori e di culture politiche e sociali che in questi 160 anni hanno continuato a guidare scelte e decisioni soprattutto nei momenti più bui della nostra storia. Certo, non è stato un cammino facile, in questi 160 anni sono stati commessi errori, ma non si può non pensare che gli stati e staterelli preunitari nel contesto europeo presentavano una situazione di arretratezza anche nelle aree più felici della penisola. Il sogno dell’unità portava con sé la speranza che la nuova Italia si sarebbe avviata verso un futuro degno del suo glorioso passato, con la fiducia nel progresso culturale e sociale, ma la realtà si presentò molto problematica. In questo momento senza dubbio alcuni dei problemi che si palesarono subito dopo l’unità sono riemersi, ma altro è il modo di affrontarli: una compagine statale complessa è indubbiamente in grado di affrontare situazioni di carattere mondiale molto meglio, come altri stati in Europa e nel mondo hanno costantemente dimostrato. Una domanda si insinua nell’opinione pubblica: fatta l’Italia, sono stati fatti gli Italiani? Anche se le apparenze mostrano divisioni, pregiudizi e stereotipi, nei momenti più gravi della loro storia gli Italiani hanno dimostrato di essere popolo. Possiamo sperare che continueranno a dimostrarlo.
Alessandra Campagnano  Comitato Fiorentino per il Risorgimento

17 marzo 2012

Manifestazione del Comitato Fiorentino per il Risorgimento 

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IL NOSTRO DEBOLE SENSO CIVICO E LA LEZIONE DEL VOLONTARIATO

13/03/2021 da Sergio Casprini

Giovanni Belardelli Corriere della Sera 13 marzo 2021

Perché alcuni italiani indossano la mascherina e rispettano le norme antiCovid mentre altri sembrano curarsene poco, anzi in qualche caso non rifuggono nemmeno da azioni pericolose per gli altri come organizzare feste e cene di nascosto?

Dietro interrogativi del genere c’è la questione dei limiti antichi di cui soffre il nostro senso civico; limiti accentuatisi negli ultimi decenni anche in conseguenza di una modernizzazione che ci ha indotto a essere molto attenti ai diritti e assai meno ai doveri. Invita a riflettere di nuovo sul tema un piccolo testo pubblicato nel 1795 in Francia, la Dichiarazione dei diritti e dei doveri dell’uomo e del cittadino, ora stampato da Liberilibri, a cura di Maurizio Griffo. Distrutti i vecchi legami che tenevano assieme la società di antico regime, cosa può tenere assieme una collettività che i soli diritti individuali, si temeva, avrebbero fatto precipitare nell’anarchia?

Affrontando anni dopo lo stesso problema, Giuseppe Mazzini delineava il progetto di una comunità democratica fondata appunto sul dovere. Da allora, si può dire che non vi sia stata generazione nel nostro Paese che non abbia richiamato tale necessità. Lo fece anche Aldo Moro nel 1976 con parole di rara drammaticità: l’Italia «non si salverà […] se non nascerà un nuovo senso del dovere». Ma, ecco il punto cruciale, cos’è che lo può rafforzare se e quando è debole? Un tempo erano la religione o il sentimento nazionale ad alimentare e sostenere i principi di etica pubblica. Oggi però, in una società decisamente secolarizzata e con lo Stato nazionale indebolito, quella strada è più difficile da percorrere. A ben vedere, gli stessi deprecati partiti della Prima Repubblica rappresentavano pur sempre, per chi li votava e ancor più per chi vi apparteneva, dei veicoli di un’obbligazione generale che (non sempre ma spesso) alimentava il sentimento civico. Ma quei partiti non ci sono più e sui nuovi è meglio sorvolare. Per fortuna in ampi settori della società italiana (uno per tutti: il volontariato) il senso del dovere — la consapevolezza per così dire automatica che certe cose vanno fatte e altre no — ancora sopravvive, eccome.

Ma a volte quegli italiani e a quelle italiane che rispettano norme e leggi hanno la sensazione di non ricevere un adeguato riconoscimento da parte dei poteri pubblici. Forse su questo terreno qualcosa si potrebbe fare.

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IL GIORNO DEL RICORDO

08/02/2021 da Sergio Casprini

 

Le Foibe e li suo uso politico: due punti di vista

1

E ALLORA LE FOIBE?

 Il libro pubblicato da Laterza  di Eric Gobetti ( E allora le Foibe ?pp116, 13 EURO) nasce dall’esigenza di fermare il meccanismo che in questi anni si è messo in moto, impedire che il Giorno del Ricordo diventi una data memoriale fascista.

Togliere ai propagandisti politici il monopolio delle celebrazioni”. Ma non solo: “Chi sfrutta una tragedia di questa portata per vantaggi personali o politici non agisce certo per amore della verità e manca di rispetto prima di tutto alle vittime”. Non usa mezzi termini Eric Gobetti nella sua prefazione ad un libro che farà discutere e che intervenendo sul dramma delle foibe, ripone al centro della questione l’uso pubblico della storia per fini politici.

Il testo dello storico Gobetti, già autore di testi sulla presenza italiana in Jugoslavia durante la Seconda Guerra Mondiale, ha quindi alcuni pregi puntuali: fornisce dati e fonti fin qui accertati dalla quasi totalità degli studiosi, prova a ricostruire genesi e a contestualizzare eventi nel panorama europeo del 900, stila una robusta bibliografia ragionata che può essere utile a chi voglia approfondire. Ma il pregio di ‘E allora le foibe”, non si limita a questo: analizza e spesso separa le vicende belliche da quelle dell’Esodo giuliano non dando per scontato ogni tipo di connessione ‘ideologica’, riporta la tragedia degli istriani nel più ampio alveo dei confini orientali, dei totalitarismi e dei nazionalismi novecenteschi, e, non da ultimo, li inserisce nel contesto generale della Guerra Fredda. Farà forse rumore il capitolo intitolato ‘La nostra shoa’, che si pone l’obbiettivo di rispondere alla domanda se effettivamente nelle zone di confine ci sia stato qualcosa di paragonabile alla grande tragedia novecentesca perché se “secondo tale ricostruzione simbolica le foibe sarebbero la ‘nostra Shoa’ e chi ne sminuisce la portata viene di conseguenza accusato di ‘negazionismo’, Gobetti su questo non ha dubbi quando afferma che “fermo restando che ogni violenza gratuita è condannabile, da un punto di vista storico il paragone non ha alcun senso. Non tanto per l’ordine di grandezza, ma soprattutto per le motivazioni degli aggressori e per la tipologia delle vittime. Le uccisioni commesse sul confine orientale e nell’autunno del1943 e nella primavera del 1945 non possono essere in alcun modo considerata un tentativo di genocidio e le vittime non sono individuate in quanto appartenenti ad uno specifico popolo”. 


2 

«Io, esule di Zara: assurdo che ci sia ancora chi nega le foibe»

LETTERA al Corriere della Sera 7 febbraio 2021

Walter Matulich, esule di Zara

«Giorno del Ricordo» alle porte. Solennità civile dal 2004 che, con grande disappunto di giustificazionisti-riduzionisti e negazionisti, si continua a celebrare. Lo storico militante Eric Gobetti («E allora le foibe?»), da ultimo, e il vegliardo scrittore triestino sloveno Boris Pahor, da un pezzo, ne auspicano la cancellazione. Solo l’antifascismo fuori di maniera, segnatamente quello promulgato da filo-jugoslavisti d’un tempo, i cui epigoni sono oggi così ben rappresentati in seno all’Anpi, ha diritto di cittadinanza, può grondare valori fondanti e godere di dignità civica e culturale in Italia. Vien da dubitare che io, esule dalmata, abbia davvero vissuto l’esperienza «democratica» del titoismo comunista; che la mia Scuola Settennale della Minoranza Italiana di Zara venne d’imperio chiusa nell’ottobre del 1953, in odio agli Italiani tour court. Davvero ho languito per anni, con altri fortunati conterranei, nei campi profughi di Marina di Carrara e di Monza, (scuderie della ex Villa Reale) saggiandone le gradevolezze? Davvero i partigiani jugoslavi commisero stragi in Dalmazia (in ispecie a Spalato, Sebenico, Zara), quelle che il defunto prof. Gino Bambara, ex ufficiale della Divisione Murge, partigiano lui stesso dopo l’8 settembre 1943, descrive nei suoi libri (Non solo armistizio, ed. 2003; Jugoslavia settebandiere, ed. 1988)?

Per l’ultracentenario Boris Pahor, le foibe semplicemente non esistono. Lui può invocare Lari e Penati senza tema di essere frainteso; io, figlio della dispersa nazione giuliano-dalmata, se mi picco di emularlo, vengo accusato di irredentismo, cosa dico, del più bieco nazionalismo. 

 

 

 

 

 

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MORTE A FRANZ, VIVA OBERDAN! 

14/01/2021 da Sergio Casprini

Le bombe, le bombe all’Orsini

il pugnale, il pugnale alla mano

a morte l’austriaco sovrano

noi vogliamo la libertà

Morte a Franz, viva Oberdan!

Morte a Franz, viva Oberdan!

Vogliamo formare una lapide

di pietra garibaldina,

a morte l’austriaca gallina,

noi vogliamo la libertà

Morte a Franz, viva Oberdan!

Morte a Franz, viva Oberdan!

Vogliamo spezzar sotto i piedi

l’austriaca odiata catena

a morte gli Asburgo Lorena

noi vogliamo la libertà

Morte a Franz, viva Oberdan!

Morte a Franz, viva Oberdan!

 

Franz è Francesco Giuseppe I, Imperatore d’Austria e Re d’Ungheria; l’austriaca gallina è l’aquila bicipite degli Asburgo, che campeggia sul giallo oro della bandiera austro-ungarica; la bomba all’Orsini, usata da Felice Orsini nell’attentato del 1858 contro Napoleone III, è una bomba che invece di utilizzare una miccia, esplode, lanciandola a mano, appena impatta un ostacolo solido: venne usata in molti attentati irredentisti o anarchici tra Ottocento e Novecento

la bomba all’Orsini

Questa canzone fu composta da un anonimo, irredentista, garibaldino o anarchico (o, chissà, forse tutte queste cose insieme) nel 1885, due anni e mezzo dopo l’esecuzione del giovane Oberdan e tre anni dopo la proclamazione della Triplice Alleanza tra Germania, Austria e Italia.

Per lunghissimo tempo, da noi, chi la cantava pubblicamente sarebbe stato arrestato come facinoroso e processato per attività sovversiva. Le cose cambiarono solo nel 1914, con l’ultimatum dell’Austria alla Serbia, nei mesi di acceso confronto generale che precedettero l’entrata in guerra dell’Italia.

Ma il 20 dicembre 1882, quando il ventiquattrenne Wilhelm Oberdank (questo il nome vero, il padre adottivo di cui portava il cognome era tedesco, la madre era slovena) moriva impiccato nella Caserma Grande di Trieste, la città dove era nato, perché disertore dell’esercito austro-ungarico e per progettato regicidio nei confronti dell’Imperatore Francesco Giuseppe, il governo Depretis si era appena impegnato, aderendo alla Triplice Alleanza, a rinunciare alle rivendicazioni sul Trentino e la Venezia Giulia: le due regioni rimanevano parte integrante dell’Impero Austro-Ungarico, diventato nel maggio 1882 amico e alleato dell’Italia.

Trieste Piazza Grande fine XIX secolo

Era chiaro che anche nel futuro la città imperiale di Trieste, il porto più importante dell’Austria-Ungheria, associata alla Casa d’Asburgo da cinquecento anni, non avrebbe mai potuto esser ceduta all’Italia, come mai verrebbe in futuro concessa alcuna parte del Küstenland, il litorale austriaco che comprendeva anche Gorizia e l’Istria. Forse in un giorno lontano si sarebbe potuta considerare la cessione all’Italia della città di Trento e delle sue montagne, ma era tutto da vedere.

Fu così che in Italia, per evitare situazioni imbarazzanti con i nuovi alleati, la censura governativa intervenne sulla stampa, oscurando la notizia dell’esecuzione di Oberdan e delle manifestazioni di protesta che ne seguirono.

La propaganda degli irredentisti, nell’Italia umbertina e particolarmente sotto i ministeri Depretis, Crispi e Pelloux, fu punita duramente e sistematicamente, come già veniva fatto per gli anarchici e i socialisti. La collaborazione tra la polizia austriaca e quella italiana, per segnalare gli spostamenti di individui politicamente sospetti ed eventualmente arrestarli, era costante e fattiva. Tutto secondo logica, se guardiamo dal punto di vista della diplomazia di stati e governi, tutto inaccettabile, se vediamo con gli occhi di milioni di oppressi.

Michail Aleksandrovič Bakunin 

Questo spiega la convergenza tra uomini e donne differenti per pensiero, formazione ed età, divenuti apostoli di libertà e giustizia, erranti propagandisti di uguaglianza, simili tra loro per la generosità e l’eroismo affabile e seduttivo che li distingueva: l’anarchico Bakunin, evaso dalla Siberia, che clandestinamente va a trovare Garibaldi a Caprera e ne diventa grande amico; lo stesso Garibaldi che a Londra, nel 1854, di ritorno dall’America del Sud, stringe caldi rapporti con un altro esule russo, il populista Aleksandr Herzen; Sirtori, il prete-eroe che nel 1849 a Venezia rimboccò la sottana al primo sparo e per tutto il tempo dell’assedio e della difesa di Marghera si batté col fucile in mano, sotto una grandine di pallottole, come lo descrive lo stesso Herzen che lo conobbe.

Rose Montmasson

Altri volti, di una generazione dopo: Anna Kuliscioff, rivoluzionaria, medico e giornalista, che si batté tutta la vita per il riscatto delle donne e per il socialismo, le garibaldine Rose Montmasson, Tonina Masanello, Jessie White Mario e le altre, combattenti con le armi in pugno, infermiere, organizzatrici, propagandiste, e spesso, dopo l’Unità d’Italia, impegnate nella battaglia per il riconoscimento dei diritti delle donne, della democrazia, dell’istruzione popolare, delle leggi sul lavoro. Migliaia di teste pensanti, di volontà caparbie, di vite intere regalate ad una causa. Importa poco se la causa non è identica per tutti, la generosità e la lealtà sono le stesse, e ci si confronta.

 1901 I funerali di Matteo Renato Imbriani a Napoli

Attorno al 1880 esistevano gli anarchici, che avevano come patria il mondo intero, ma reagivano al grido di rivolta dei popoli -Irlandesi, Polacchi, Macedoni e tutti gli altri- a cui la patria era negata dalle grandi potenze e dal colonialismo, ed auspicavano la fine dei grandi imperi autocratici come Russia, Germania e Impero Asburgico; c’erano i repubblicani, come il fuoruscito triestino, garibaldino, Matteo Renato Imbriani, che usò per primo l’espressione terre irredente e fondò nel 1877, insieme al generale Avezzana, l’Associazione in pro dell’Italia irredenta, col sostegno di Garibaldi, Felice Cavallotti e Carducci.

C’erano infine i socialisti, sempre più numerosi, che volevano unire i proletari di tutto il mondo e abbattere le frontiere, nella lotta comune contro il capitalismo e gli sfruttatori. Alle guerre dei padroni, alle stesse guerre per l’indipendenza nazionale, tendevano a dare una risposta pacifista: I PROLETARI NON SPARERANNO CONTRO ALTRI PROLETARI, I PADRONI LE LORO GUERRE LE COMBATTANO DA SOLI!

Tuttavia molti socialisti appoggiarono la lotta dei dinamitardi irlandesi contro l’Impero Britannico, dei separatisti catalani contro la Corona Spagnola, dei ribelli algerini contro l’espansione coloniale francese, del popolo macedone contro l’oppressione turca e degli abitanti della Bosnia-Erzegovina contro il nuovo padrone asburgico: pensavano che la solidarietà con i ribelli sarebbe servita a far collassare un po’ prima le già indebolite fondamenta dell’Impero Russo, Ottomano e Austro-Ungarico liberando milioni di contadini da una situazione medioevale e dischiudendo le compresse energie di popoli finora imbavagliati: Polacchi, Cechi, Serbi, Croati, Bulgari, Greci o Italiani. 

Pensavano che Russia, Turchia ed Austria sarebbero uscite ridimensionate da questo processo, costrette a rinnovare in senso democratico le loro strutture sociali, mentre le più progredite democrazie borghesi come Francia ed Inghilterra, messe in seria difficoltà nella loro espansione coloniale dalle lotte dei popoli, avrebbero dovuto cambiare radicalmente, diventando democrazie vere e aprendo la porta al socialismo. Il volontariato, dall’Ottocento fino alla guerra di Spagna, ebbe questo di straordinario: in tutto il mondo persone diversissime per lingua,  nazionalità, ceto e fede politica,  misero in gioco la vita combattendo per la libertà della propria gente, e quando questo era impossibile, si batterono per la libertà di altri popoli.

Li ritroviamo insieme, espatriati dalla Russia e dagli Stati Uniti, dalla Bulgaria, dall’Italia, dalla Boemia, dal Brasile, da ogni angolo della terra, in Sicilia assieme a Garibaldi, a Digione assediata dai Prussiani, nella Parigi insorta durante la Comune del 1870, nei Balcani, nelle trincee a fianco degli Italiani dopo la tragedia di Caporetto.

Da Dublino a San Pietroburgo, da Monza a Sarajevo irredentisti e anarchici utilizzarono le stesse armi e si confusero gli uni con gli altri nell’applicazione della etica suprema del tirannicidio in nome della libertà e della giustizia: il tiranno lo si uccide pubblicamente col pugnale, con la dinamite, col revolver, e l’attentatore solitamente non si concede vie di fuga ma si fa prendere, per trasformare il proprio processo  e la propria condanna in un pubblico atto d’accusa contro la tirannia e l’oppressione. Il popolo avrebbe raccolto l’esempio.

Così, tra la seconda parte dell’Ottocento e l’attentato di Sarajevo del 1914, non solo in Italia ma in gran parte del mondo, la tensione morale è diffusa e fortissima, in nome del riscatto della propria libera identità di popolo, o per combattere l’ingiustizia sociale e lo sfruttamento. Si esprime con metodi diversi, che vanno dall’apostolato e propaganda, ai tentativi di piccoli gruppi pronti a morire per scatenare l’insurrezione, fino all’attentato solitario ed esemplare contro il tiranno e i suoi collaboratori.

  Impiccagione di Oberdan 20 dicembre 1882 Trieste

La vicenda di Oberdan, attentatore senza attentato, come fu detto (sul luogo dell’ipotetico attentato non ci arrivò mai), che durante il processo pare avesse, provocatoriamente, fatto di tutto per farsi condannare a morte dagli ottusi giudici militari,idealista disperato e solo, è in qualche modo emblematica di questa tensione morale. Oberdan era interessato ad immolarsi, ‘Getterò il mio cadavere fra l’Imperatore e l’Italia!’ prima ancora che ad uccidere Francesco Giuseppe, pensava che la propria morte potesse in qualche modo scuotere una opinione pubblica italiana ormai addormentata, e un governo italiano che, per calcoli di import-export e di politica estera, aveva definitivamente messo da parte la questione delle terre irredente.

I nostri governi di allora fecero di tutto per oscurare la memoria di questo giovane inopportuno e scriteriato. Per motivi opposti, nel 1915, il fantasma di Oberdan fu recuperato, spolverato, rivestito e blandito (i governi sono capaci, quando vogliono, anche di resuscitare i fantasmi se torna utile) e poco dopo accomunato alla memoria degli irredentisti trentini Cesare Battisti, Fabio Filzi, Damiano Chiesa, e dell’istriano Nazario Sauro.

Ugo Ciapini Lapide con busto di Cesare Battisti 1916   Palazzo del Rettorato Firenze

La retorica mussoliniana in un primo tempo utilizzò le icone dei martiri irredentisti, cercando di proporli come precursori dell’idea fascista, poi cominciò a trovarli un po’ imbarazzanti: Oberdan e Battisti avrebbero certo condannato la politica di italianizzazione forzata e violenta, attuata dal fascismo nei confronti delle minoranze slovene e altoatesine in territorio italiano, destinata presto a far sorgere in quelle popolazioni un irredentismo di segno contrario, che avrebbe considerato come oppressore lo stato italiano. Con il Patto d’Acciaio del 1939, l’amicizia con la Germania nazista rendeva del tutto improponibili certi personaggi e certi simboli legati all’irredentismo.

Piazza Oberdan Firenze

Nella mia città, Firenze, il monumento ad Oberdan era stato realizzato immediatamente dopo la Prima guerra mondiale, grazie anche ad una sottoscrizione degli studenti della città. E’una grande testa in bronzo, ritratto del giovane triestino, collocata su una alto parallelepipedo rivestito di pietra serena. La piazza del monumento era un tempo intitolata a Giordano Bruno e successivamente è divenuta piazza Oberdan. E’ un luogo tranquillo, a suo modo signorile.

Dicono che subito dopo la Grande Guerra, tutto attorno alla piazza furono piantati moltissimi lecci, e la sera la gente attaccava e accendeva dei lumini ad ogni albero, per ricordare i caduti. Il luogo, spontaneamente, divenne per gli abitanti una sorta di parco della rimembranza. Dopo la Seconda Guerra quei lecci furono tagliati, oggi abbiamo dei bei tigli. Sotto l’occupazione tedesca la testa di Oberdan fu rimossa dalla sua base, agli occupanti non faceva piacere vedersela davanti agli occhi, così la sistemarono in un deposito. Fu ricollocata al suo posto nel 1945.

Livio Ghelli

 

GUGLIELMO OBERDAN
MORTO SANTAMENTE PER L’ITALIA
TERRORE AMMONIMENTO RIMPROVERO
AI TIRANNI DI FUORI
AI VIGLIACCHI DI DENTRO
XX DICEMBRE MDCCCLXXXII

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Pensatori del Risorgimento a colloquio con Kant

07/12/2020 da Sergio Casprini

In memoria di Ottavio Colecchi via Fanzago ( villa comunale), Pescocostanzo ( Aquila)

 

Il matematico e filosofo abruzzese Ottavio Colecchi, grande e poco noto, introdusse nel Reame di Napoli la filosofia di Kant e fu il primo in Italia ad esporla interamente negli anni ’20 del 1800. Se il Pensiero è Azione, l’opera scientifica di Colecchi e di tanti altri intellettuali meridionali, guidati come lui da una forte passione democratica e civile, minò le basi del regime borbonico preparandone la caduta. Livio Ghelli

Immanuel Kant in una stampa del XVIII secolo

“Due cose hanno soddisfatto la mia mente con nuova e crescente ammirazione e soggezione e hanno occupato persistentemente il mio pensiero: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me”  Epitaffio sulla tomba di Kant a Kaliningrad (già Königsberg)

Königsberg, letteralmente: Monte del Re, è la città dove visse e morì Immanuel Kant (1724-1804), il più grande rappresentante tedesco dell’Illuminismo, autore di una rivoluzione filosofica che viviamo tuttora. Oggi la città fa parte della Federazione Russa e si chiama Kalinigrad. Era stata fondata di fronte al Mar Baltico nel 1255 dai Cavalieri Teutonici, poi passò al ducato di Prussia, al regno di Prussia, all’impero tedesco, alla repubblica di Weimar e alla Germania nazista. Tra il gennaio e l’aprile del 1945 venne assediata dall’Armata Rossa, resistette accanitamente fino alla battaglia finale combattuta casa per casa. Alla fine 50 mila morti, i sopravvissuti forzatamente trasferiti, la città ribattezzata, annessa all’Unione Sovietica e ripopolata, per volontà di Stalin, con decine di migliaia di cittadini russi e ucraini. Dopo la caduta dell’URSS Kalinigrad (fra le tante cose, dal 2017 la città è gemellata con Catania) è rimasta una exclave russa tra Polonia e Lituania, gli abitanti parlano russo, cucinano piatti russi, e dai giovani la lingua inglese è studiata più del tedesco. Ma c’è anche chi studia l’italiano.

Pescocostanzo invece è un borgo della Maiella, issato su un pianoro a 1400 metri di altezza, ha mille anni di storia e un migliaio di abitanti, belle architetture sia civili che religiose, opera di antiche maestranze esperte nella lavorazione della pietra, del legno e del ferro. Nei secoli ha resistito a terremoti, assalti di briganti, frane e alle rappresaglie naziste. Sulla facciata di una casa si legge questa memoria:

Ottavio Colecchi è poco ricordato, ma fu una delle menti matematiche e filosofiche più straordinarie della fase pre-risorgimentale e del primo risorgimento, apertissimo a quanto di più avanzato, in campo scientifico e filosofico, germogliava sulla scena mondiale, tradusse e commentò splendidamente Kant, fra i primi in Italia discusse appassionatamente l’opera dei grandi esponenti dell’idealismo tedesco, Fichte, Shelling ed Hegel, ma soprattutto fu maestro di almeno due generazioni di giovani meridionali, maestro di libertà e di rigore scientifico e morale. Trasferitosi a Napoli dalla montagna abruzzese, avendo abbandonato l’abito domenicano nel 1809, dopo la Restaurazione fu malvisto dall’autorità borbonica come ex-frate in odore di agnosticismo e di liberalismo; controllato dalla polizia per le sue opinioni liberali, non poteva aspirare ad una cattedra universitaria nel Regno borbonico: insegnò filosofia e matematica all’estero, in Svezia e a San Pietroburgo, dopo il 1815 fu precettore dei figli dello zar per un paio d’anni, al ritorno soggiornò un anno a Königsberg, dove Kant era morto pochi anni prima. L’incontro con la filosofia kantiana fu per Colecchi un’illuminazione: impadronitosi perfettamente del tedesco tradusse in lingua italiana e commentò le opere del grande filosofo. Prima di allora Kant era stato tradotto in Francia, in Italia le opere di Kant erano conosciute molto parzialmente e attraverso esposizioni discutibili. Ottavio Colecchi, col suo lavoro, costruì un solido ponte tra l’Italia e la filosofia europea contemporanea: in Abruzzo, da giovane frate, era riuscito ad evadere dalle carceri della mente dove le gerarchie ecclesiastiche volevano obbligarlo, ed era incorso nei rigori dell’Inquisizione. Proprio per questo non amava le morali rivelate, non credeva che l’obbedienza cieca fosse una virtù, e fu pronto ad accogliere il messaggio di Kant, di emancipazione attraverso la coscienza.

L’etica è ricerca e conquista individuale, deve guidare le azioni di ognuno di noi, rendendoci liberi e responsabili.

Di nuovo a Napoli attorno al 1820, condivise la sorte comune tra i migliori tra gli intellettuali e scienziati napoletani, e durante il regno di Francesco I, e poi di Ferdinando II, tenne corsi di insegnamento privati e quasi clandestini; ma se ciò lo costringeva ad un tenore di vita abbastanza precario, gli permetteva però una libertà didattica impensabile in una pubblica facoltà. A partire dagli anni ’20 collaborò con le riviste che a Napoli, in vivace scambio culturale, trattavano di filosofia, economia, scienza e politica, e regolarmente venivano chiuse d’autorità (Il Progresso, La Temi napoletana, La Minerva, ecc.) assieme a Galluppi, Bianchini, de Augustinis… Tra i molti suoi uditori e allievi c’erano i fratelli Bertrando e Silvio Spaventa, Luigi Settembrini, Francesco De Sanctis e moltissimi altri.

Morì il 25 agosto 1847, pochi mesi prima dei moti del ’48. La polizia borbonica, che lo aveva vigilato in vita, vietò ai giornali di dare la notizia della sua morte, che volò comunque di bocca in bocca. Scolari e amici, tra cui i fratelli Spaventa, trassero occasione dal funerale per una dimostrazione di significato politico.

I Moti del’48 a Napoli

Nel mondo i pensatori che, assieme alla loro indagine filosofica, hanno di pari passo portato avanti ricerche avanzate di matematica e fisica, da Pitagora a Bertrand Russell, passando per Galileo, Cartesio, Pascal, Leibniz ed altri non così noti, come appunto il Colecchi, sono meno numerosi rispetto ai filosofi con una formazione prevalentemente umanistica (in questo caso il termine forse non è del tutto appropriato, mi riferisco a una formazione teologica, storica, giuridica, psicologica, estetica, che usa soprattutto questi strumenti e che si muove su questi binari).

Baruch Spinoza in un ritratto del 1644

Ma applicare il metodo matematico alla filosofia, soprattutto all’etica, penso all’Ethica more geometrico demonstrata di Baruch Spinoza, nella seconda metà del Seicento, fu lavoro geniale e generoso di chi aveva sotto gli occhi le tragedie causate da una visione teologica, assoluta e autoritaria della realtà. Spinoza volle applicare all’etica un metodo matematico per liberarla dalle verità rivelate e dalle morali codificate, che in ambienti religiosi diversissimi, nell’Europa cattolica dominata dall’Inquisizione e nella Ginevra di Calvino, nel Massachusset puritano scatenato nella caccia alle streghe come nella Sinagoga di Amsterdam, agivano in modo sorprendentemente simile, distruggendo spietatamente chi aveva il coraggio di esporre i propri dubbi e voleva capire. Senza la matematica-etica di Spinoza anche l’etica di Kant, l’idealismo tedesco, le lotte dell’ottocento per la libertà e l’indipendenza, la resistenza al nazismo avrebbero seguìto percorsi diversi, in qualche modo meno forti e maturi. Perché certe idee straordinarie filtrano comunque, vengono interiorizzate e rielaborate da milioni di persone che a volte nemmeno conoscono il nome e l’esistenza di chi le ha prodotte, ma che un giorno, in nome di queste idee, sapranno battersi per la libertà, la giustizia e l’uguaglianza. Una rivoluzione non nasce senza una nuova filosofia; senza una riflessione che ponga le basi di un mondo nuovo e di un’etica nuova potranno magari esserci sommosse, movimenti di protesta e rivendicazioni, mai una vera rivoluzione. Eppure gran parte degli attuali storici, oggi purtroppo anche degli storici del Risorgimento, è portata a dare un peso importante, nella loro indagine, a eventi e dati statistici riguardanti la cronaca, l’economia, i rapporti diplomatici, il costume sociale e l’arte, e questo è giusto, ma analizzano ben poco le idee scientifiche e filosofiche alla base dei fatti che, da storici, stanno cercando di ricostruire.

E i pensatori del Risorgimento che tradussero, commentarono e seppero sviluppare un fertile dialogo con la filosofia e la scienza contemporanee non devono assolutamente essere dimenticati. Perché il Pensiero è Azione. Livio Ghelli

 

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