• Passa alla navigazione primaria
  • Passa al contenuto principale
  • Passa alla barra laterale primaria
  • Passa al piè di pagina
  • Il Comitato Fiorentino per il Risorgimento
  • Redazione
  • Contatti
  • Photogallery
  • Link
  • Privacy Policy

Risorgimento Firenze

Il sito del Comitato Fiorentino per il Risorgimento.

  • Home
  • Focus
  • Tribuna
  • I luoghi
  • Mostre
  • Rassegna stampa
  • Pubblicazioni
  • Editoriale

Tribuna

L’antico spirito italiano di cui essere orgogliosi

21/04/2020 da Sergio Casprini

L’idea di Italia era già viva prima dell’800 E anche le classi umili parteciparono in armi a moti come le Cinque giornate di Milano

Aldo Cazzullo Corriere della Sera 21 Aprile 2020

 

Ogni occasione importante ci conferma che noi italiani siamo più legati all’Italia di quanto pensiamo. C’è un’appartenenza espressa nei giorni scorsi nelle forme popolari degli applausi e dei canti dai balconi, che — tranne qualche chiassoso esibizionismo — hanno manifestato uno spirito di resistenza e di comunità.

Esiste un’identità italiana definita dalla musica — anche popolare —, dalle imprese sportive, da una cultura materiale in cui Nord e Sud si sono ormai compenetrati. È un patrimonio che affiora nei momenti cruciali della storia; non ce ne dobbiamo vergognare, anzi, dobbiamo salvaguardarlo come una ricchezza.

Però noi italiani siamo legati alla storia nazionale quando incrocia la storia delle nostre famiglie. Per noi, più che per altri popoli, la patria è davvero la terra dei padri, e delle madri. Questo spiega perché il 25 aprile continua a essere discusso — non tutti i nostri padri stavano dalla stessa parte — e il centenario della Grande guerra non è stato forse ricordato come meritava: i fanti del Piave sono tutti morti.

Ma se c’è un periodo oggi da riscoprire, dimenticato da quasi tutti e denigrato da molti, è il Risorgimento.

L’Italia esisteva già, da molto prima che divenisse uno Stato. L’idea dell’Italia nasce dalla cultura e dalla bellezza, da Dante e da Giotto, passa attraverso il Rinascimento e rifiorisce in un secolo straordinario, che ci restituisce finalmente uno Stato unitario: l’ottocento. Non è stato il Risorgimento a fare l’Italia, ma l’Italia a fare il Risorgimento. Ugo Foscolo si commuove a Santa Croce davanti al sepolcro di Vittorio Alfieri: «E l’ossa fremono amor di patria». Giacomo Leopardi vede il monumento che i fiorentini stanno elevando a Dante e scrive: «Volgiti indietro, e guarda, o patria mia/ quella schiera infinita d’immortali/ e piangi e di te stessa ti disdegna;/ che senza sdegno omai la doglia è stolta./ Volgiti e ti vergogna e ti riscuoti,/ e ti punga una volta/ pensier degli avi nostri e de’ nepoti». Alessandro Manzoni compone Marzo 1821 per onorare il coraggio di chi in piena Restaurazione si ribellava all’impero austriaco. Giuseppe Verdi si precipita a Roma per festeggiare la Repubblica assistendo al suo Macbeth al teatro Argentina: gli spettatori lo acclamano in piedi. Ippolito Nievo, uno dei Mille, moriva prima di veder pubblicate le Confessioni di un italiano: «Io nacqui veneziano ai 18 ottobre del 1775, giorno dell’evangelista san Luca; e morrò per la grazia di Dio italiano quando lo vorrà quella Provvidenza che governa misteriosamente il mondo». L’idea nazionale fa discutere pensatori e statisti del livello di Rosmini, Gioberti, Balbo, D’azeglio, Cavour, Mazzini, Cattaneo, Settembrini, Poerio.

Non è vero però — come si ripete spesso — che il popolo italiano sia assente dal Risorgimento. In un Paese di analfabeti, molto meno popolato e molto meno collegato dell’Italia di oggi, in cui le polizie dei vari Stati sorvegliano, arrestano, torturano, impiccano i patrioti, il sogno dell’unificazione conquista anche artigiani e operai. Nel 1848 insorgono le grandi città della penisola, da Palermo a Venezia, dove a guidare l’insurrezione sono gli arsenalotti. Non sarebbero bastati i «sciuri» per cacciare gli austriaci da Milano: quando alla fine delle Cinque giornate Carlo Cattaneo va all’obitorio a vedere i corpi degli oltre 400 caduti, esamina le loro mani, e vede che sono mani callose, di operai e manovali.

Gli italiani, per la prima volta dopo secoli, mostrano di essere pronti a combattere, e di saperlo fare. Radetzky deve rioccupare le città venete una a una, tranne Verona dove le truppe austriache sono di stanza (e sarà una Verona in festa quella che le giubbe bianche lasceranno nel 1866, sparando per sfregio sulla folla e uccidendo una donna incinta, Carlotta Aschieri, 25 anni). Sovrani intimoriti, se non apertamente ostili all’unità, non possono impedire la partenza di volontari da Firenze, da Roma, da Napoli, ansiosi di unirsi all’esercito piemontese. Si muove persino l’armata pontificia, per quanto sconfessata poco dopo dallo stesso Pontefice. Più in generale, quando il 24 giugno 1859 gli austriaci sono battuti a Solferino e San Martino, crolla tutta l’impalcatura del loro dominio sulla penisola, e le loro truppe si mostrano per quel che erano: un esercito di occupazione.

Quanto a Giuseppe Garibaldi, al tempo era l’uomo più famoso del mondo. Ovunque ci fosse un popolo oppresso, nelle case c’era il suo ritratto, i cortei scandivano il suo nome, le mamme mandavano a letto i bambini raccontando come in una fiaba che il giorno dopo sarebbe potuto arrivare un generale italiano a sanare le ingiustizie. Fu lo stesso Cavour — che lui non sopportava, ricambiato — a riconoscerlo: «Garibaldi ha reso agli italiani il più grande dei servigi che un uomo potesse rendergli: ha dato agli italiani fiducia in sé stessi, ha provato all’Europa che gli italiani sapevano battersi e morire sui campi di battaglia per riconquistarsi una patria». E noi non dovremmo essere orgogliosi di uomini così?

Archiviato in:Tribuna

L’orgoglio di un Paese ammalato

10/03/2020 da Sergio Casprini

Ernesto Galli della Loggia domenica 8 marzo 2020

Parlare bene dell’Italia non è facile: per le ragioni che ogni italiano conosce da quando è nato e che fanno sì che abitualmente del nostro Paese siamo assai più pronti a deprecare i difetti che a cantare le lodi. Nella sostanza, infatti, gli italiani sono uno dei popoli meno nazionalisti (meno nazionalisti in senso forte, intendo, cioè meno boriosamente nazionalisti) che ci siano. Nel Dna italiano è presente una notevole «xenofobia popolaresca», come la chiamava Gramsci, piuttosto che un consapevole e sviluppato spirito nazionalistico. Senza contare che una lunga storia ci ha obbligato a prendere atto della forza degli stereotipi negativi che circolano nel mondo sul nostro conto. Ai quali reagiamo, c’indigniamo, ma tutto finisce lì. Siamo abituati a essere stigmatizzati, anche perché spesso siamo noi i primi a farlo a danno di noi stessi.

L’epidemia di coronavirus è valsa a confermare l’immagine negativa che il mondo ha di noi. In più casi siamo stati additati come trampolino decisivo del contagio proveniente dalla Cina (mentre è ora sempre più chiaro, invece, che il virus ha sùbito preso a circolare inavvertito in molti luoghi del mondo).  In un’infografica la Cnn ci ha descritti addirittura come il focolaio originario della malattia, mentre un canale televisivo francese ha ironizzato pesantemente sul contagio mostrando un pizzaiolo italiano starnutire su una pizza appena sfornata. Anche le nostre radicali misure di prevenzione (peraltro poi via via imitate da molti altri Paesi) sono state interpretate non come il piglio saggiamente deciso con cui affrontavamo la malattia ma come la prova dell’estensione straordinaria che essa aveva nella Penisola, un luogo da cui notoriamente non ci si può aspettare niente di buono.

Ma è proprio in circostanze come queste — quando le cose ci vanno male e anche l’ostilità del mondo sembra che non ci risparmi —, è proprio in circostanze come questa, se non m’inganno, che in molti di noi scatta un sentimento d’identificazione con il nostro Paese fino a quel momento nascosto. Patriottismo è una parola grande e impegnativa. È qualcosa di diverso. È il sentimento oscuro di appartenere ad una medesima storia la quale anche a dispetto della nostra stessa volontà però ci tiene insieme, non foss’altro perché agli occhi degli altri siamo uno stesso popolo dalle Alpi alla Sicilia. È accorgersi che anche se siamo di Lecce in fondo consideriamo quello che accade a Bergamo come qualcosa che ci riguarda, che anche se tifiamo per il Verona non è per niente vero, alla fine, che vorremmo vedere Napoli inghiottita dal Vesuvio. È il sentimento insomma che oggi abbiamo di dividere una sorte comune. Non perché siamo diventati misteriosamente diversi da come eravamo prima dell’epidemia, ma perché il pericolo che oggi ci avvolge tutti fa venir fuori una parte profonda di noi che in precedenza non si faceva sentire. Una parte di noi costruita da memorie ed emozioni sepolte: un incontro con un gruppo di persone che parlavano la nostra stessa lingua in attesa come noi nell’aeroporto di un Paese lontano, i colori intravisti di una bandiera, il suono di una musica familiare così nostra.

Accade anche qualcos’altro nell’Italia malata. Accade ad esempio che, è vero, siamo sempre d’accordo con le critiche mosse da tutte le parti a come funziona o meglio non funziona il nostro Paese, con le critiche alla sua burocrazia, alla sua disorganizzazione, alla sua classe politica, così come alla sua società afflitta da mille difetti. L’ho detto all’inizio: la vocazione nazionalista non ci appartiene. Ma se questo accade, accade pure che proprio in una situazione come quella di questi giorni, in cui ci sembra che il Paese sia con le spalle al muro, che tutto sembri confermare i giudizi sconfortanti che noi per primi siamo soliti dare di esso, accade che proprio in una situazione simile avvertiamo però, dentro di noi, nascere un pensiero diverso, un sentimento di orgoglio che non sospettavamo di avere.

Non è tanto facile ammazzare l’Italia, ci dice quel sentimento. Non è mai stato facile. Paragonata a tanti altri Paesi, l’Italia è un piccolo lembo di terra, povera, senz’alcuna risorsa, ma bene o male da duemilacinquecento anni quell’Italia riesce a stare sul palcoscenico della storia, da duemilacinquecento anni il suo nome non è mai scomparso nel mondo. In virtù delle molteplici e multiformi qualità dei suoi abitanti, di qualcosa che è intima parte del suo «genio» (bisognerà pure essere liberi di usare parole importanti per dire cose importanti) essa ha sempre avuto qualcosa da dire o da dare. E continua ancora oggi. Ancora oggi siamo tra i primi, tra i primissimi in Europa, nel produrre ogni genere di macchine, di strumenti, di oggetti utili e necessari o semplicemente belli, che esportiamo dappertutto. Così come negli studi, nella ricerca, nelle scienze, non sono poche le conoscenze che portano un nome italiano, e voci, immagini, scritture, musiche, le quali recano in sé anch’esse tutte qualcosa dell’Italia, percorrono ancora oggi il mondo, e il più delle volte non proprio in modo insignificante.

Questo pensiamo mentre con non comune sincerità (ben venga!) il nostro governo c’informa ogni giorno del male che cresce e che c’insidia, e di come combatterlo. Ormai sappiamo che il colpo che ne avremo sarà duro. Ma se la storia ci dice qualcosa, ci dice che resisteremo. Che potremo anche cadere, forse. Ma che dopo di sicuro ci rialzeremo.

 

Archiviato in:Tribuna

L’antisemitismo colpisce l’Europa non solo gli ebrei

27/01/2020 da Sergio Casprini

Elena Loewenthal  La Stampa 25 gennaio 2020

In Israele vige un’ossessione per i numeri. Nulla a che fare con equazioni complesse o numeri astronomici: il conto è quello del censimento. Un popolo vissuto per millenni sul filo dell’estinzione ha bisogno di sapere che esiste anche nella quantità. Qualche anno fa, il censimento si è meritato titoli cubitali in prima pagina, di quelli che si usano solo per le grandi catastrofi, gli eventi epocali nel bene e nel male: allora la popolazione ebraica aveva, seppure di poco – qualche migliaia di anime – superato i 6 milioni. «Abbiamo sconfitto la Shoah!», dicevano più o meno così tutti i giornali, registrando un’emozione collettiva profonda, quasi indescrivibile.

In L’Europa senza ebrei, l’ultimo libro di Giulio Meotti in uscita per Lindau (pp. 174, € 16), il giornalista offre un quadro devastante della presenza ebraica in Europa. Dalla Francia ai Paesi Scandinavi, dall’Olanda all’Italia, il lettore trova qui sostanzialmente due cose: per un verso l’inarrestabile calo della popolazione ebraica, per l’altro una lunga serie di episodi di violento antisemitismo.
È vero, i numeri dell’ebraismo europeo sono in drastico calo. Gli ebrei sono sempre meno: in Italia davvero pochissimi, un’inezia nel panorama demografico, neanche 24.000 in tutto lo Stivale, isole comprese. Ma sono tante, e complesse, le ragioni di questa esiguità, tanto italiana quanto europea. Matrimoni misti, assimilazione, e certo anche l’emigrazione verso Israele, magari sulla spinta della paura – come è accaduto in Francia all’indomani dei terribili attentati, da Charlie Hebdo al Bataclan.
È dunque molto vero il quadro che descrive Meotti: gli ebrei sono sempre meno. Ma, al di là dell’allarme, si tratta forse di confidare nelle risorse di sopravvivenza – demografica, culturale, storica – che il popolo d’Israele ha sempre saputo mobilitare. Esiste infatti una specie di indecifrabile alchimia, o forse di fede tenace, che accompagna da sempre il corpo a corpo degli ebrei con la storia, con le innumerevoli avversità, con l’ostinazione del pregiudizio. Soprattutto con quella condizione esistenziale anomala che è stata, ed è tuttora la Diaspora.

E poi c’è la questione dell’antisemitismo: davvero più all’ordine del giorno che mai, dal secondo dopoguerra. Ma l’antisemitismo è, più che degli ebrei, una questione dell’Europa, dei conti con la storia recente ancora in gran parte da fare. Per questo è necessario vigilare con tanta fermezza quanto equilibrio, senza mettere in gioco i valori della libertà e della responsabilità. L’antisemitismo è il vero «tradimento dell’Occidente», come dice il sottotitolo del libro: il fatto che in Francia e altrove si possa ancora essere assassinati per il semplice fatto di essere ebrei, il fatto che in Germania e altrove sia diventato rischioso andare in giro per le strade con una kippah sulla testa dimostra che l’Occidente ha tradito e continua a tradire sé stesso. Ha un che di assurdo, l’antisemitismo oggi. Eppure è reale, tangibile. Meotti ne enumera una preoccupante serie di casi, nel passato più recente. Perché davvero gli ebrei sono i canarini nella miniera di carbone, i primi a subire le mortifere esalazioni di metano e monossido di carbonio. Poi, però, tocca agli altri. Perché, oltre a essere un disvalore di per sé, il pregiudizio antiebraico è immancabilmente un campanello d’allarme, l’innesco di una catena della violenza, fisica o verbale che sia.

Che fare? Difficile somministrare ricette preconfezionate. Ma forse il primo passo è proprio quello della consapevolezza: capire che l’antisemitismo non riguarda tanto gli ebrei e quel loro destino funambolico che fino ad ora l’ha avuta vinta sulla storia, a dispetto di tutto, quanto l’Europa. Con le sue tragedie passate e presenti, i suoi valori, la sua memoria e le sue amnesie, la sua determinazione ad affrontare il futuro.

 

                        

 

 

Archiviato in:Tribuna

Il razzismo e i suoi confini

15/01/2020 da Sergio Casprini

 

Le culture sono una cosa complicata e da maneggiare con cura. Per una ragione evidente: perché contribuiscono in misura decisiva a costituire l’identità di ognuno di noi, a farci essere e a farci sentire ciò che siamo, spesso al di là della nostra stessa consapevolezza

Ernesto Galli della Loggia  Corriere della Sera 11 gennaio 2020

L’alternativa non è tra il razzismo e l’accoglienza. Quando si tratta di rapporti con l’«altro», con chi percepiamo come diverso perché estraneo alla collettività umana cui noi apparteniamo, l’alternativa non è tra il rifiuto aggressivo intessuto di uno sprezzante senso di superiorità da un lato, e dall’altro la disponibilità più aperta, amichevole e ospitale. C’è una terza posizione, che è poi quella istintivamente adottata dalla grande maggioranza degli esseri umani.

Ce la indica un grande antropologo, forse il più grande del Novecento, Claude Lévi-Strauss — è necessario aggiungere che difficilmente lo si sarebbe potuto definire un conservatore? — in un suo testo poco noto (De près et de loin, Odile Jacob, 1988) contenente parole di straordinaria attualità che meritano di essere conosciute e meditate. Specialmente in un momento come l’attuale in cui nella società italiana le tensioni di vario genere causate dall’immigrazione stanno accendendo intorno a questi temi un aspro dibattito pubblico nel quale si sprecano le accuse e le strumentalizzazioni politiche.

Per Lévi-Strauss il razzismo è «l’ostilità attiva» di una cultura verso un’altra, volta a «distruggerla o semplicemente ad opprimerla» sulla base di una presunta gerarchia qualitativa dei rispettivi patrimoni genetici. Questo è il razzismo: che, come è ovvio, si accompagna inevitabilmente alla negazione all’altro degli stessi diritti di cui godiamo noi.

Invece, aggiunge subito dopo Lévi-Strauss, «che delle culture, pur rispettandosi possano sentire maggiori o minori affinità le une per le altre, questa è una situazione di fatto che è sempre esistita. È un dato normale dei comportamenti umani». E fa un esempio che lo riguarda personalmente: se in metropolitana gli capita d’incontrare dei giapponesi, verso la cui cultura egli è attratto, gli viene naturale un moto di simpatia e d’interesse, e il fatto si produce, ammette senza problemi, sulla base della loro semplice apparenza fisica, del loro puro modo di comportarsi nonché della conoscenza della loro lingua. «Nella vita quotidiana, conclude, tutti ci comportiamo così per situare uno sconosciuto sulla carta geografica. (.…) Sarebbe davvero il culmine dell’ipocrisia pretendere di vietare questo genere di approssimazione»:(…) «denunciarla come razzista rischia solo di fare il gioco del nemico dal momento che molte persone ingenue si diranno: se questo è razzismo, ebbene io allora sono razzista».

Dunque non volere avere troppo a che fare con i nigeriani, dico per dire, a causa del loro modo di fare, o sentirsi infastiditi dall’odore del cibo cucinato dai bengalesi, o trovare sgradevole l’idea di avere dei vicini di casa rom, non ha niente a che fare con il razzismo. È un’altra cosa. Così come è un’altra cosa preoccuparsi del fatto che la presenza di una cultura diversa dalla propria raggiunga proporzioni tali da rendere la nostra minoritaria. Una tale preoccupazione diventa razzismo non già quando in base ad essa si chiedono all’autorità misure per evitare che si crei la condizione suddetta (chiedendo di porre dei limiti all’immigrazione, ad esempio), bensì quando s’invocano misure a qualunque titolo discriminatorie nei confronti di chi è già tra di noi. O, come accade più spesso, quando con atti o con parole ci si comporta verso chi non condivide la nostra cultura in un modo che ci guarderemmo bene da adoperare con coloro che invece la condividono.

Le culture sono una cosa complicata e da maneggiare con cura. Per una ragione evidente: perché contribuiscono in misura decisiva a costituire l’identità di ognuno di noi, a farci essere e a farci sentire ciò che siamo, spesso al di là della nostra stessa consapevolezza. Se si è nati in questa parte del mondo, ad esempio, può capitare di essere un ateo a diciotto carati, infatti, perfino un mangiapreti, ma nel momento in cui si vede la cattedrale di Notre-Dame andare a fuoco, avvertire comunque un sentimento misterioso di tristezza e di angoscia, di perdita di qualcosa che ci riguarda profondamente.

Proprio per questo la politica è sempre tentata di sfruttare, esasperandolo, il dato culturale-identitario, dal momento che essa vede in ciò la possibilità di fare appello alla nostra parte meno razionale, di sollecitare le nostre reazioni più immediate e magari sconsiderate. È questa la strada che in Italia troppo spesso imbocca una parte della destra quando esaspera gli animi e più o meno intenzionalmente favorisce comportamenti che mirano a negare o violare i diritti altrui, siano questi emigrati, rom, o chiunque altro. Al che però si risponde spesso dall’altra parte, dalla sinistra, in modo altrettanto esasperato e contrario, opponendo ai «bassi istinti» gli «alti principi», alla febbre identitaria un algido idealismo che affida tutta la sua capacità di convinzione alla forza del tabù che per ogni persona civilizzata rappresenta l’accusa di razzismo.

Ma applicare sconsideratamente il termine razzismo , come non manca di sottolineare esplicitamente Lévi-Strauss, significa solo banalizzare il concetto, svuotarlo del suo contenuto. E così rischiare di condurre alla fine a un risultato opposto a quello desiderato.

 

Archiviato in:Tribuna

LA SCUOLA CENERENTOLA

30/12/2019 da Sergio Casprini

Pierluigi Battista  Corriere della Sera  28 Dicembre 2019 

Si parla finalmente della scuola italiana che boccheggia, dell’università che annaspa, della ricerca che si impoverisce. Sarebbe un bene, se non fosse che se ne parla solo perché il ministro dell’istruzione Fioramonti si è dimesso. Poi, purtroppo, la cappa del silenzio politico coprirà ogni discussione pubblica su un tema che dovrebbe essere cruciale per la qualità stessa della nostra democrazia. Finito il clamore sullo stato del governo, la scuola tornerà ad essere, a destra e a sinistra, con eguale insipienza, la cenerentola dei problemi italiani, l’ultima voce di un’agenda politica del tutto indifferente alle sorti dell’istruzione. È di poco tempo fa l’allarme della rilevazione Ocse-pisa, secondo la quale gli studenti italiani sono tra i peggiori in Europa in quanto a comprensione di un testo. Ma, come scrivono Gianna Fregonara e Orsola Riva sul numero di «7» attualmente in edicola, mentre in Francia, per dire, «per risultati molto più lusinghieri si è aperta una riflessione pubblica sul fallimento dell’école républicaine», da noi il dibattito su quei risultati così sconfortanti è durato solo poche ore, nonostante, aggiungono, «la scuola sia stata addirittura il primo capitolo del discorso di insediamento del premier Conte». Un po’ di virtuose declamazioni retoriche e nulla più.

La politica ha smesso da tempo di interrogarsi sulla missione che la scuola dovrebbe assolvere, sul suo significato, sul suo ruolo cruciale in una società aperta e dinamica, ma anche terribilmente esposta alla marea di falsificazioni, di manipolazioni, di mistificazioni che funestano e inquinano lo spazio pubblico. C’è qualche ragione per cui i genitori mandano a scuola i figli che non sia il luogo dove parcheggiarli? Gli insegnanti sono frustrati e depressi: sentono che il loro ruolo è sempre più svilito, sempre meno riconosciuto, sempre meno socialmente apprezzato per la funzione delicata che dovrebbe svolgere. Tra i ceti più svantaggiati, lo dicono spietatamente i numeri e le statistiche, cresce la tentazione di non faticare più per mandare i figli all’università perché tanto, dicono, è inutile, tanto l’ascensore sociale si è bloccato, tanto si fa fortuna in altri modi, tanto non ne vale più la pena: è una sconfitta per l’idea stessa della democrazia, dove l’istruzione è fondamentale, il talento deve essere riconosciuto, le origini sociali non possono essere di ostacolo alle libere scelte degli studenti meritevoli. Ma c’è qualcuno che chiede di far ripartire il meccanismo delle borse di studio per garantire il principio democratico e liberale dell’uguaglianza dei punti i partenza, delle pari opportunità, del merito come criterio dell’avanzamento sociale e culturale? Le politiche dei governi si limitano invece a fare della scuola un «postificio», un po’ di sistemazione dei precari, un po’ di prepensionamenti, un po’ di indicazioni pedagogiche astruse e farraginose. Ma un giovane che oggi volesse intraprendere la professione dell’insegnante quali possibilità ha di realizzare i suoi progetti, quanti decenni di precariato ha davanti a sé? Il ministro dell’istruzione che si è appena dimesso aveva chiesto all’inizio del suo mandato 3 miliardi per la scuola. Ma nessuno gli ha chiesto: per farci che cosa. Il «che cosa» sparisce dall’orizzonte, si tratta solo di finanziare l’esistente. Ma questo esistente palesemente non funziona. La scuola come agenzia educativa perde colpi. Molti docenti confessano addirittura di cominciare ad avere la paura fisica di entrare nella scuola, dove il «gruppo dei pari» si organizza secondo logiche di clan in cui il bullismo diventa pratica diffusa. Svanisce la certezza degli stessi principi di selezione, e si stenta a capire per quale ragione nelle scuole del Sud ci siano molti meno bocciati che nelle scuole del Nord. È legittimo il sospetto di due pesi e due misure?

Una politica che non sia schiacciata sul politicismo del presente dovrebbe comprendere che quella scolastica è un’emergenza nazionale, che il senso di sfiducia e di frustrazione che si addensa attorno alla scuola, all’università e alla ricerca è una mina che esplode intaccando l’idea stessa di una democrazia moderna. Poi, concluse le scaramucce nei governi, ci saranno nuove declamazioni retoriche, i discorsi delle cerimonie, gli impegni mai rispettati. Ma la scuola continuerà ad essere la cenerentola, l’ultima della lista. Come al solito.

Archiviato in:Tribuna

Lottare contro il passato: un torto alla nostra storia

16/12/2019 da Sergio Casprini

Uno striscione comparso alla Columbia University contiene otto nomi alternativi a quelli che riassumono il retaggio greco-romano della cultura occidentale

Giovanni Belardelli  Corriere della Sera 12 dicembre 2019

La Butler Library è la più grande biblioteca di una delle maggiori università americane, Columbia. La sua facciata in stile neoclassico porta incisi, sull’architrave che sormonta l’ampio colonnato ionico, otto nomi che riassumono il retaggio greco-romano della cultura occidentale, da Omero a Virgilio. Poche cose come quei nomi potrebbero sintetizzare meglio l’idea di un’America figlia dell’Europa e della sua cultura; ma è anche vero che poche cose come quella serie di nomi sono da tempo contestate negli Stati Uniti, soprattutto in un mondo universitario investito da anni da un vento in cui si alimentano vicendevolmente multiculturalismo e femminismo radicale. Così, proprio sopra l’elenco anzidetto, è comparso di recente un lungo striscione contenente otto nomi che dovrebbero costituire una specie di canone alternativo composto da donne, dalla poetessa afroamericana Angelou a una Silko che, confesso la mia ignoranza, non so chi sia.

Sarebbe facile ironizzare sul fatto che, per quanto si possano apprezzare i libri di Toni Morrison (anche lei nell’elenco alternativo), non ha molto senso affiancarli all’Iliade o all’Eneide, e anzi così facendo si renderebbe un pessimo servizio alla scrittrice. Ma non è questo il punto. Un gesto così simbolico e provocatorio come quello di contrapporre a otto giganti, tutti maschi e bianchi, i nomi di altrettante donne non bianche ci dice qualcosa di importante dell’America e in prospettiva, forse, anche dell’Europa. Conferma anzitutto che il cosiddetto melting pot non funziona più ed è stato sostituito piuttosto da un mosaico, fatto di tessere diverse, in cui ciascun gruppo ha ed esalta in modo tendenzialmente esclusivo le proprie caratteristiche identitarie, la propria storia, le proprie radici. Proprio come succedeva, viene da aggiungere, nell’Impero austroungarico che si dissolse un secolo fa. Nella celebre conferenza che dedicò alla nazione, Ernest Renan caldeggiava la necessità di condividere una «ricca eredità di ricordi». Ebbene, da tempo negli Stati Uniti, che si sentono sempre più una nazione di nazioni, ogni «nazione» coltiva i suoi di ricordi, che spesso sono opposti a quelli degli altri (si veda il caso delle polemiche, non molto tempo fa, sui monumenti della guerra civile nel Sud). Effettivamente per gli afroamericani i ricordi, non solo precedenti ma anche successivi alla guerra civile, sono tutt’altro che rosei: l’abolizione della schiavitù fu infatti seguita negli Stati del Sud da una condizione di soggezione di fatto, segnata da episodi di violenza e limitazione dei diritti, destinata a durare a lungo (ne offre un resoconto impressionante James Oakes nell’ultimo numero della New York Review of Books).

Ma lo striscione comparso sulla facciata della Butler Library ci dice anche qualcosa di ulteriore, soprattutto se lo leggiamo assieme ad altri episodi analoghi di una battaglia culturale indirizzata non solo a ottenere (giustamente) spazio nel presente e nel futuro per chi viene da una storia collettiva svantaggiata. Quella battaglia — si pensi alla condanna di Colombo come genocida o all’accusa di razzismo rivolta a Thomas Jefferson — sempre più si indirizza contro il passato. La lotta per l’affermazione dei propri diritti si è ormai volta all’indietro, vuole impadronirsi della storia e riscriverla. Non si tratta soltanto di includere in quella storia — come è giusto — anche gli schiavi o le donne soggiogate al potere maschile, insomma tutti gli emarginati, le vittime. Fosse solo questo, si renderebbe più ampia, comprensiva del passato di tutti, la storia americana, come vanno facendo libri e programmi tv che negli Usa mettono a fuoco le vicende degli afroamericani.

No, la nuova battaglia sulla storia è nella sua essenza una battaglia contro la storia, prima che come disciplina come dimensione cognitiva; rifiuta infatti la possibilità stessa di collocare uomini e donne nel loro tempo, ma li convoca, oggi e qui, di fronte a noi per condannarli se necessario (cosa che, date le premesse, avviene molto spesso). Il passato e il presente diventano contemporanei, perché contemporaneo è il criterio che li giudica e il metro di paragone delle azioni umane, quale che sia il secolo in cui si sono svolte. È una posizione che è già approdata in Europa, soprattutto (ma non solo) in Gran Bretagna, dove si è ormai diffusa molto se perfino Mary Bousted, segretaria nazionale del sindacato degli insegnanti, ha potuto bollare Shakespeare come «uno scrittore fortemente conservatore che scrisse molto per sostenere il diritto divino dei re».

Se questa tendenza a giudicare con i nostri criteri fatti e fenomeni del passato continuasse a diffondersi, non ci vorrà molto e ne sarà investita anche l’Atene del V secolo, che affidava democraticamente il governo ai cittadini maschi escludendone però donne e schiavi.

 

Archiviato in:Tribuna

La follia dei sovranisti contro il Risorgimento

04/12/2019 da Sergio Casprini

Dino Cofrancesco Il Dubbio 26 novembre 2019

 

Ora anche i sovranisti si mettono a fare gli antirisorgimentali. «Non si dimentichi, inoltre, che l’Unità d’Italia venne imposta con le armi, e non è considerazione di poco conto, e ben più della maggioranza degli abitanti dell’Italia pre-unitaria non la voleva affatto». Sono settant’anni che leggo frasi come queste in cui dà il meglio di sé l’attitudine italiana a épater les bourgeois avvalendosi di constatazioni ovvie. Nelle altre culture lo stupore si accompagna al trasgressivo, a verità che non sono tali per tutti ma, si sa, come diceva il vecchio Indro Montanelli, noi vogliamo fare la rivoluzione col permesso dei carabinieri.

C’è però una grossa differenza rispetto al passato. Al tempo della mia giovinezza, a ripetere le celeberrime parole di Alfredo Oriani (maître-à-penser, si ricordi sia di Benito Mussolini che di Antonio Gramsci) sul sopruso della minoranza eroica che, nell’indifferenza dei popoli della penisola, fece l’Italia «aiutata da incidenze e coincidenze straniere», erano soprattutto gli eredi dei vinti del Risorgimento – comunisti e cattolici. È vero che non tutte le sinistre erano, si direbbe oggi,”revisioniste” – c’è un vario socialismo risorgimentale e mazziniano che arriva sino a Gaetano Salvemini e a Leonida Bissolati; ed è anche vero che, nel mondo cattolico, una componente di rilievo – il cui più prestigioso esponente, nel secolo scorso, fu Carlo Arturo Jemolo – si riconosceva  toto corde nei valori dello stato nazionale.

D’altra parte, senza l’apporto decisivo della borghesia colta cattolica non avremmo avuto l’unità ed è, forse, superfluo ricordare che grandi statisti come Massimo D’Azeglio, Bettino Ricasoli, Marco Minghetti e lo stesso Cavour che volle per il viatico un francescano, poi condannato da Pio IX, erano credenti. Resta, comunque, che i comunisti erano patrioti di un’altra patria (l’URSS) e i cattolici si sentivano eredi di uno Stato che la Chiesa non aveva riconosciuto.

Oggi le cose sono cambiate. Paradossalmente è tra quanti si chiedono «per quale oscura ragione di diritto internazionale dobbiamo mettere il nostro ambito legislativo in posizione subordinata al diritto europeo e chiedere il nulla osta preventivo prima di decidere delle nostre questioni interne?» che si ritrova, spesso e volentieri, la demistificazione dello stato nazionale. In realtà non si comprende quale giovamento ne venga alla nostra cultura civica e su quali valori i sovranisti intendano ricostituire una citizenship condivisa. Abbattuti i monumenti a Cavour, a Mazzini, a Garibaldi, cancellate le tradizioni e gli ideali di chi volle farci diventare «una d’arme, di lingua e d’altare, di memorie di sangue e di cor» (Alessandro Manzoni, un cattolico unitario risorgimentale…), cosa ci rimane? Prevedo l’obiezione: dovremmo reintrodurre la retorica nel nostro insegnamento della storia? E trattare il Risorgimento nazionale come l’Anpi tratta la Resistenza antifascista? Ma neppure per sogno!

Il processo che portò al ricongiungimento delle sparse membra della penisola fu, sia pur assai meno della lotta di Liberazione, costellato di contrasti, di violenze, di dure opposizioni sul tipo di stato (centralizzato o federale) che si sarebbe dovuto sostituire agli staterelli preunitari. E tuttavia la storia va studiata seriamente e la storia ci dice che se i modelli politici, vagheggiati dalle diverse correnti patriottiche, furono diversi, c’era qualcosa di profondo che le univa tutte: un fortissimo sentimento d’italianità, che rifulge nettamente persino nel più intransigente oppositore della soluzione sabauda, il federalista a 360 gradi Carlo Cattaneo (basta leggersi i due volumi degli Scritti letterari, a cura di Piero Treves, ed. Le Monnier).

Il problema, però, è un altro: quando si scrive, come faceva Oriani, che il popolo rimase estraneo (se non ostile) alle guerre di indipendenza, bisogna, perché l’osservazione abbia un senso, fare del comparativismo. La “costruzione dello Stato”, in altri contesti europei, avvenne consultando le popolazioni interessate? “I trenta re che fecero la Francia”, per citare il grande Charles Maurras, chiesero il consenso dell’Anjou, del Cotentin, della Provence? E i monarchi inglesi tennero conto dei desideri di gallesi, irlandesi, scozzesi quando ne fecero gemme della loro corona? E ci sono Stati in Europa che fecero eccezione?

Si dirà: ma allora non erano i popoli a decidere bensì i sovrani. Certo, in ogni epoca storica sono determinate forze politiche ad assemblare regioni, province, città: la democrazia, come potere del demos, è venuta dopo. D’accordo ma la regola vale altresì per l’Ottocento, e per quello italiano in particolare, in cui a “fare politica”, a guidare i popoli, erano le borghesie nazionali e le loro avanguardie intellettuali. Ebbene si può contestare che la stragrande maggioranza di quelle borghesie – anche grazie alla stagione illuministica, che segnò una grande pagina della nostra storia intellettuale e alla conquista francese, che ci diede il tricolore – era per l’unità, per la Grande Italia? Nel meridione – a parte qualche piccolo storico locale nostalgico dei Borboni – l’alta cultura era quasi tutta schierata dalla parte dei Savoia (e, tra l’altro, non proponeva soluzioni federali ma uno stato forte e centralizzato in grado di mettere mano ai mali antichi del Sud).

Nel centro e nel nord sentirsi italiani significava sentirsi moderni e volersi ricongiungere all’Europa vivente. Letteratura, arte, storia, filosofia non conoscevano frontiere e la lingua era un potente argomento per quanti volevano che le frontiere culturali coincidessero con quelle politiche. «Unità imposta con le armi?» Vulimme pazzià? come si direbbe a Napoli. E il fenomeno del volontariato – che univa nelle stesse formazioni combattenti abitanti di ogni parte della penisola – non era la riprova che le “minoranze eroiche” erano, sì, minoranze (nel senso che contadini e plebi urbane rimanevano a guardare le loro gesta, ma per gli artigiani si dovrebbe fare un discorso diverso) ma diffuse sull’intero territorio nazionale?

A scuola una volta ci mettevano in guardia contro gli anacronismi. Anacronismo, si legge nell’Enciclopedia Treccani è l’«errore cronologico per cui si pongono certi fatti in tempi in cui non sono avvenuti e, in special modo, si attribuiscono a un’età istituti, idee o costumi discordanti dal quadro storico di essa». La sua proliferazione è, forse, la più triste riprova di quella perdita della storicità, che fu il portato più prezioso del liberalismo ottocentesco. Ricordare che l’unità italiana è stata fatta senza il consenso delle masse sta sullo stesso piano dell’abbattimento delle statue di Cristoforo Colombo, colonizzatore e razzista. Sulla bocca di un sovranista è a dir poco sconcertante!

 

 

 

Archiviato in:Tribuna

1836: ecco il Muraglione che unisce

22/11/2019 da Sergio Casprini

Sabato 9 novembre 2019 nel Municipio di Dicomano si è tenuto il convegno di inaugurazione della mostra storico-fotografica “1836: ecco il Muraglione che unisce” organizzata dai Comitati Risorgimentali  del Mugello-Valdisieve, Fiorentino e della Romagna Toscana in seguito al restauro della lapide del Muraglione da parte dell’ Accademia degli Incamminati di Modigliana.

Nella Sala del Consiglio Comunale, gremita di persone, il Sindaco di Dicomano, Stefano Passiatore; la Consigliera Regionale della Toscana, Fiammetta Capirossi; il Sindaco di San Godenzo, Emanuele Piani; il Vicesindaco di Rufina, Davide Majone; il Coordinatore dei Comitati Risorgimentali, Fabio Bertini; il Rappresentante dell’ Accademia degli Incamminati, Giancallisto Mazzolini; nel porgere il loro sentito saluto, hanno sottolineato l’ importanza della collaborazione fra territori, Regioni, Comuni, associazioni e cittadini.

In questa data è sorto spontaneo il paragone fra la celebrazione del Muraglione, che serviva ad unire la Romagna Toscana con Firenze, a collegare il Mar Tirreno con l’ Adriatico e tuttora serve a congiungere la Romagna con la Toscana; e la caduta del muro di Berlino, che invece divideva la città, la popolazione, le famiglie e le idee.

Si sono poi susseguiti gli interventi specifici di tre esperti: Esther Diana, ha illustrato la situazione stradale trovata da Pietro Leopoldo di Lorena al suo arrivo nel Granducato di Toscana; Giuseppina Carla Romby, ha presentato gli ingegneri che studiarono le varie possibilità del tracciato della Strada Provinciale di Romagna; Andrea Giuntini, ha fatto un resoconto economico e tecnico sulla realizzazione di questa strada e le sue ricadute sul territorio.

L’ interesse suscitato è stato notevole tanto che il numeroso pubblico è rimasto attento e partecipe fino al termine del coinvolgente convegno seguito dal brindisi di rito durante il quale già sono stati diffusi i semi di future collaborazioni: restiamo in attesa della germinazione.

La mostra (comitato scientifico: Alessandro Minardi, Pierluigi Farolfi, Sergio Casprini, Susanna Rontani) è costituita da immagini che illustrano il percorso della strada, i Granduchi che la vollero, gli ingegneri che la progettarono, i finanziamenti del Granducato e delle Comunità, il costo per eseguire il muraglione a vela sulla Colla dei Pratiglioni e per la sua copertura, vedute coeve, cartoline antiche e fotografie moderne.

Per tutti gli appassionati e i curiosi la mostra resterà aperta fino all’ 8 Dicembre 2019 con l’orario di apertura del Comune di Dicomano nei giorni feriali, ma anche il sabato e la domenica dalle 10 alle 18, con ingresso libero e gratuito per confermare ancora una volta lo spirito partecipativo che sempre ha guidato la progettazione di questa iniziativa.

 Susanna Rontani Comitato Risorgimentale Mugello -Val di Sieve

 

Archiviato in:Tribuna

LA DIMENSIONE POLITICA DELLA DISUNITÀ D’ITALIA  

20/11/2019 da Sergio Casprini

La polemica tra Nord e Sud (in questo caso tra Milano e il Sud) aperta dal ministro Provenzano non appare episodica ma la spia di un disagio profondo

Goffredo Buccini Corriere della Sera 17 Novembre 2019

Nei giorni scorsi è nuovamente divampata l’eterna polemica tra Nord e Sud, in questo caso tra Milano e il Sud, aperta dal ministro Provenzano (che sul Sud ha la delega).

Soffocata in fretta con qualche imbarazzo, ma tutt’altro che episodica e spia di un disagio profondo. «Milano attrae ma non restituisce quasi più nulla» ha sentenziato il ministro. «Restituiamo nella misura in cui ci viene chiesto e per come ci è consentito fare», ha risposto il sindaco Sala. Il ministro ha infine fatto retromarcia, «Milano è un esempio, è l’Italia in ritardo». Ma, al di là del siparietto politico tra due esponenti dello stesso partito (uno del Nord e uno del Sud: elemento, vedremo, forse decisivo), quella di Provenzano è tutt’altro che una voce dal sen fuggita. Riflette una visione del Paese di una parte consistente della sinistra ora al governo (la stessa che spinge il sindaco napoletano de Magistris, davanti al dramma di Venezia, a dolersi addirittura di una «discriminazione» a causa della quale «quando accadono cose del genere al Sud c’è molta meno attenzione»).

Provenzano prima di entrare nell’esecutivo Conte faceva il vicedirettore di Svimez, l’autorevole istituto che studia lo sviluppo e le condizioni socioeconomiche del nostro Mezzogiorno. Una breve sintesi dell’ultimo rapporto sul Sud dice molto dello sconforto sotteso alla «battuta» su Milano: dal 2000, in quasi 20 anni, 2 milioni di persone lasciano il Sud e la metà sono giovani; le nascite sono al minimo storico; la ripresa dell’occupazione tocca solo il Centro Nord; il reddito di cittadinanza allevia la povertà ma allontana dal lavoro; continua l’emigrazione ospedaliera; aumentano i giovani che, al massimo con la terza media, abbandonano studio e formazione professionale. Più che una questione, un disastro meridionale.

Ma ciò che più ci aiuta a capire la querelle è un altro lavoro Svimez (con Provenzano allora pienamente operativo nell’istituto): all’inizio della scorsa estate, mentre divampava la battaglia sulle autonomie differenziate, Svimez rovescia il totem del maggiore flusso di risorse pubbliche passate al Sud a detrimento del Nord (alla base del «diritto Lega e Cinque Stelle I due partiti egemoni nella prima fase della cosiddetta Terza repubblica hanno radici diverse nel territorio di restituzione» sotteso alla richiesta di autonomia differenziata). Quel totem, sostiene l’istituto, si fonda sui dati della Ragioneria generale che «regionalizza» solo il 43% di queste risorse; assumendo invece come riferimento il Sistema dei conti pubblici territoriali si arriva a un complesso di spese pubbliche che, oltre al bilancio dello Stato, comprende enti previdenziali ed altri fondi fino alle Spa di controllo pubblico, talché in questa diversa classifica dei trasferimenti pubblici il Mezzogiorno finisce in fondo e le Regioni del Nord risalgono molte posizioni. Corretta o meno che sia l’analisi, la sortita su Milano è, parafrasando Von Clausewitz, esattamente questo dossier Svimez spiegato da un altro pulpito

Gramsci scriveva che nel Risorgimento si manifesta già, embrionalmente, «il rapporto storico tra Nord e Sud come un rapporto simile a quello tra una grande città e una grande campagna…» (e non a caso propugnava la necessità di una saldatura tra città e campagna). E aggiungeva che, risultando tale rapporto «tra due vasti territori di tradizione civile e culturale molto diversa, si accentuano gli aspetti e gli elementi di un conflitto di nazionalità».

 Un secolo dopo il conflitto «di nazionalità», lungi dall’essere superato, ha assunto contorni nuovi, perché su di esso sono andate addirittura modellandosi le nostre forze politiche. Se i grandi partiti del dopoguerra furono trasversali rispetto alla questione meridionale e a quella settentrionale che pure è esistita ed esiste (interpretandole assai diversamente ma incarnandole entrambe), i due partiti egemoni nella prima fase della cosiddetta Terza repubblica hanno avuto constituency molto divise per territorio, la Lega al Nord e i Cinque Stelle al Sud (al netto dello sforzo di Matteo Salvini di sfondare… la linea gotica con una propaganda ultranazionalista). Il Pd zingarettiano, a fronte della crisi dei Cinque Stelle, pare adesso puntare ad assorbirne l’elettorato. Ma questo elettorato, meridionale e cronicamente svantaggiato, chiede assistenza e protezione (i Cinque Stelle vinsero nel 2018 con il reddito di cittadinanza, poco più che un voto di scambio, letto ex post). Ora, il rischio è che un Pd «derenzizzato» anziché attrarre a sé le ragioni del grillismo se ne faccia risucchiare, trasformandosi (come paventa il Foglio) da partito meridionalista a partito meridionale: la gestione disastrosa dello scudo penale nel caso Ilva e l’imposizione suicida della plastic tax che va a colpire soprattutto le imprese della «rossa Emilia Romagna» sembrano altrettante conferme di questa traiettoria, diciamo così, di movimentismo sudista. La faccenda può avere effetti non proprio collaterali.

Primo: l’addio tout court alle autonomie invocate dal Nord (e, se è sacrosanto tenere duro su scuola e sanità perché attengono all’unità nazionale, può essere pericoloso alzare un muro di gomma contro tutte le richieste). Secondo: l’ulteriore radicalizzazione della divisione del Paese, con l’alibi della spoliazione che dalle frange neoborboniche attecchirebbe vieppiù nella narrazione meridionale. Nonostante le rassicuranti dichiarazioni successive, Provenzano e Sala non sembrano politici di due partiti ma di due nazioni diverse. Un problema per la sinistra, certo. Ma anche per l’Italia: perché la malattia denunciata da Svimez è grave, forse cronica, e tuttavia revanscismo e autocommiserazione sono le medicine peggiori.

 

Archiviato in:Tribuna

Italia Donati

21/06/2019 da Sergio Casprini

A Italia Donati, maestra municipale a Porciano, bella quanto virtuosa, costretta da ignobile persecuzione a chiedere alla morte la pace e l’attestazione della sua onestà

 Fabio Bertini  Cooordinatore Comitati Toscani per il Risorgimento

A Porciano, nel 1883, era giunta per insegnare nella scuola mista comunale la maestra Italia Donati,  di Cintolese di Monsummano, dove era nata il 1° gennaio 1863. Tre anni dopo, il 1° giugno 1886, si suicidò gettandosi nella gora di un mulino di Leopoldo Torrigiani. Tra le cose ritrovate, una edizione del “Genoveffa” di Lamartine, storia di una fantesca, ridotta alla disperazione dalle calunnie, il suo “livre de chevet”. In una lettera ai parenti che firmava definendosi “maestra sventurata”, chiedeva fosse eseguita l’autopsia. Sarebbe servita a dimostrare la sua integrità e smentire così le chiacchiere artatamente messe in giro su una sua presunta gravidanza. In un messaggio al fratello si definiva “Infelicissima Italia che muore per l’onore”. E forse, involontariamente, in quel terribile frangente dipingeva un Paese che moriva di disonore. “Italiano” il fratello, “Italia” lei, quella famiglia era animata dalla fiducia nel Risorgimento e si trovava a misurarsi con le persistenze ancestrali dell’Antico Regime. Era la famiglia molto povera di un fabbricante di spazzole e parte delle 45 lire di stipendio servivano per l’affitto dei genitori.

Da maestra, Italia Donati era parte di quei drappelli di donne che avanzavano in un deserto per una concreta emancipazione femminile. In un altro biglietto definiva “infame” Porciano, reo della “infame” accusa. Non voleva le ragazze maldicenti al funerale e accettava soltanto i  bambini e le bambine, “innocenti come lei”. Tale, infatti, era il carico di perfidia che l’aveva investita, una chiamata di correo per un Paese intero che aveva consumato il veleno,  mettendo insieme le sordide ragioni personali di qualcuno, quelle politiche che intendevano coinvolgere il sindaco Leopoldo Torrigiani, avesse o meno provocato suggestioni con i suoi comportamenti, e una morale consolidata. Bella, “di forme scultoree, di personale alto, elegante, con un visino affilato e una grazia non comune”, scontava soprattutto la colpa di essere avvenente e moderna. Prima del trasferimento a Cecina le era stato fatto il vuoto intorno e perfino tante sue coetanee le avevano mostrato ostracismo. Insegnare in un posto diverso non era bastato e la falsa accusa di procurato aborto – messa in giro da un parente del Sindaco – le era addosso. .Rapidamente, il «Corriere della Sera» lanciava la sua inchiesta e Matilde Serao la sua denuncia per i tanti casi in cui maestre giovani e belle erano state costrette alla stessa sorte. Tardivamente il Consiglio comunale attestò l’innocenza della Maestra. Poi il «Corriere della Sera» aprì una sottoscrizione perché potesse essere sepolta a Cintolese, come desiderava. Il ministro della Pubblica Istruzione, Coppino, ordinò un’inchiesta, ma la risposta più grande venne dalla raccolta per la sepoltura e rappresentò l’unione di tante maestre e maestri e di tanti spiriti indignati contro la persecuzione e contro l’indifferenza.

Nessuno della zona in cui tutto era accaduto comparve nella sottoscrizione, ma la domenica 4 luglio in cui avvenne la traslazione, una folla ininterrotta fece ala al feretro, da Porciano a Cintolese, e il cronista la calcolò in 20.000 persone. C’erano carrozze dell’aristocrazia, e i cortei provenienti da tutta la Vallata confluirono in uno al confine tra Pistoia e Lucca. Al Cimitero di Porciano vollero agire soltanto i cittadini di Cintolese e non vollero becchini locali. Il parroco locale, Alessandro Betti non era presente e occorse forzare il cancello per mancanza di chiavi.

Passando da Lamporecchio, il corteo, con il prete di Cintolese,  il “vecchio e buono” don Valentino Baldi, trovò le maestre con bande musicali e bambini e bambine vestite di bianco. A Cintolese  c’erano le maestre di Cecina e di Lamporecchio, con piccoli scolari e “vezzose scolarette tutte inghirlandate di fiori e foglie di cipresso”. Con loro, le bande musicali di Monte Vettolini e di Monsummano, con le bandiere, tutti i maestri e le maestre del Comune, i Sindaci di Monsummano e Lamporecchio, le autorità scolastiche, cinquanta fanciulle vestite di bianco e bambini. Il discorso funebre fu tenuto tra le lacrime dal suo vecchio maestro, Giuseppe Baronti.

La lapide realizzata con la sottoscrizione, in lettere d’oro su pietra nera, fatta mettere dal Municipio in una cappellina, recava “A Italia Donati, maestra municipale a Porciano, bella quanto virtuosa, costretta da ignobile persecuzione a chiedere alla morte la pace e l’attestazione della sua onestà”. Occorreva davvero una lapide perché Italia Donati era una vittima del Risorgimento delle donne che ancora era da compiere.

 

Archiviato in:Tribuna

  • « Vai alla pagina precedente
  • Vai alla pagina 1
  • Vai alla pagina 2
  • Vai alla pagina 3
  • Vai alla pagina 4
  • Vai alla pagina 5
  • Vai alla pagina 6
  • Pagine interim omesse …
  • Vai alla pagina 20
  • Vai alla pagina successiva »

Barra laterale primaria

il Comitato Fiorentino per il Risorgimento
è associato al Coordinamento nazionale Associazioni Risorgimentali FERRUCCIO

L’editoriale del direttore

I giovani italiani sono antisemiti?

Video

“Alessandro Manzoni tra le urne dei forti”, il video integrale

Prossimi appuntamenti

Tra due province -Firenze e Forlì-: la divisione della Romagna toscana nel 1923

30/11/2023

Lettere al Direttore

Per dare i nomi alle strade esiste già al comune di Firenze una commissione toponomastica

28/08/2023

Focus

SMONTARE IL MITO NEOBORBONICO NON È PARLAR MALE DEL SUD

23/11/2023

Tribuna

COSA NON È ISRAELE

05/11/2023

Luoghi

La Real Tenuta delle Cascine

30/10/2023

Mostre

Adolfo Coppedè. Tradizione locale e respiro internazionale

04/10/2023

Rassegna stampa

LA CLAMOROSA VITTORIA DEL MITO NEOBORBONICO

18/11/2023

Pubblicazioni

C’era una volta Cavour

11/11/2023

RisorgimentoFirenze.it nella tua mail

E' possibile ricevere un messaggio e-mail ad ogni nuova pubblicazione sul nostro sito.
Basta inserire il proprio indirizzo di posta elettronica nella casella sottostante. Il servizio è gratuito e può essere interrotto in ogni momento.

Unisciti a 88 altri iscritti

Footer

Archivio articoli

Archivio rubriche

Area amministrativa

  • Accedi
  • Feed dei contenuti
  • Feed dei commenti
  • WordPress.org

Blogroll

  • Arte del Poggio
  • Comitato livornese per la promozione dei valori risorgimentali
  • PensaLibero.it, quotidiano on line dei laici e dei liberali della Toscana.
  • Risorgimento Toscana
  • Sito ufficiale delle celebrazioni per il 150° anniversario

Direttore Sergio Casprini | Responsabile della Comunicazione Irene Foraboschi | Webmaster Claudio Tirinnanzi

 

Caricamento commenti...