• Passa alla navigazione primaria
  • Passa al contenuto principale
  • Passa alla barra laterale primaria
  • Passa al piè di pagina
  • Il Comitato Fiorentino per il Risorgimento
  • Redazione
  • Contatti
  • Photogallery
  • Link
  • Privacy Policy

Risorgimento Firenze

Il sito del Comitato Fiorentino per il Risorgimento.

  • Home
  • Focus
  • Tribuna
  • I luoghi
  • Mostre
  • Rassegna stampa
  • Pubblicazioni
  • Editoriale

Tribuna

Cerimonia per i Caduti Della Grande Guerra nella Basilica di San Miniato

26/10/2018 da Sergio Casprini

Intervento di Andrea Ceccarelli, Presidente del Consiglio Comunale di Firenze,

  alla Cerimonia per i Caduti Della Grande Guerra, domenica 7 ottobre  nella Basilica di San Miniato

I canti – soprattutto quelli popolari – rappresentano l’anima di un popolo, ne accompagnano la storia, sono parte importante della nostra vita, della nostra memoria e della nostra memoria storica. A volte, il suono e le parole di un canto o di una canzone o, come si dice oggi, di un pezzo musicale hanno un potere evocativo mille volte più potente di tante letture o racconti.

Oggi noi ricordiamo la fine della prima guerra mondiale, un conflitto terribile come lo sono tutti i conflitti, forse più di altri a causa delle sue drammatiche peculiarità: una guerra di trincea, combattuta spesso in mezzo al fango e alla neve, nel freddo delle nostre montagne, una guerra – forse l’ultima – caratterizzata da combattimenti corpo a corpo e che, pure, contempla già il ricorso a strumenti orrendi, disumani, criminali quale fu l’uso dei gas venefici.

Nella tragedia di quella guerra fa spicco un elemento di novità assoluta rispetto a tutti i precedenti conflitti: il gran numero di canti che parlano dei soldati, della nostalgia di casa, dell’amore, del terrore di chi ha visto la morte da vicino. Ve ne sono anche di spensierati, allegri, cantati in coro nelle serate trascorse nelle retrovie, per allontanare la paura; altri particolarmente adatti ad accompagnare il passo durante le marce. Essi costituiscono un elemento fondamentale nel tramandare la memoria della Grande Guerra: il soldato soffre, combatte, vede tanti suoi commilitoni feriti o perdere tragicamente la vita e sogna ostinatamente il rientro in famiglia, il ritorno a casa, in un mondo dove regni finalmente la pace.

Ascoltando questi canti, lasciandosi andare alla musica, spesso malinconica, e facendo attenzione ai testi, capita di rivivere, almeno in parte, quelle emozioni, quelle paure e quella speranza di pace di chi fu protagonista di una guerra durissima e sanguinosa, fatta di trincee, di immobilità, di pulci e sporcizia, di mutilazioni, in una parola di perdita di dignità individuale. La forza, la potenza di un canto, meglio di qualunque resoconto, a volte riesce a superare le barriere del tempo ed a testimoniare, meglio di qualunque racconto, ciò che accadde un secolo fa.

C’è un altro aspetto che mi preme sottolineare. Quella musica e quelle parole – profonde e solo apparentemente “facili” da mettere in rima – rappresentano un vero e proprio arsenale identitario per ciò che è poi diventato un mito: quello degli Alpini certo, particolarmente prolifici nel mettere in musica le loro leggendarie gesta, ma anche quello dei fanti in generale. Ancora oggi, nel nostro immaginario collettivo, il Corpo degli Alpini e l’idea del fante in trincea si sposano inequivocabilmente al ricordo e alle atmosfere della Grande Guerra.

L’iniziativa di oggi pomeriggio, iniziativa per la quale ringrazio il Coro di Grassina, il Comitato per il Risorgimento, i frati di San Miniato e in particolare Padre Bernardo, l’iniziativa di oggi pomeriggio – dicevo – ci fornisce però l’occasione di fare una brevissima riflessione su quel conflitto. Lascio ad altri, a chi ha ben altre competenze rispetto a quanto posso fare io, l’analisi delle cause e delle conseguenze di quel conflitto, delle ripercussioni che ebbe, negli anni immediatamente successivi, la gestione dell’esito della guerra, lo studio dei numerosi episodi, combattimenti, battaglie che scandirono gli anni del conflitto.

Alla fine – proviamo ad azzardare un giudizio – la Prima Guerra Mondiale fu, almeno per il popolo italiano, una tragica epopea, la prima grande prova di un popolo che si era fatto Nazione da poco più di cinquant’anni e che rivendicava un ruolo sullo scenario internazionale, in nome dell’Amor di Patria e del risentimento, se non dell’odio, ancora vivo e presente nei riguardi degli antichi oppressori. Una epopea tragica, perché pagata da migliaia di morti e di feriti, da decine di migliaia di profughi e rifugiati, da importanti ripercussioni politiche che contribuirono poi alla nascita del fascismo e all’avvento della dittatura. Non si capisce la Seconda Guerra Mondiale se non si comprendono a fondo le conseguenze della Prima.

Poi, c’è Firenze. E i suoi rapporti con gli anni della Prima Guerra Mondiale, i mesi che la precedettero e poi i quarantuno mesi di conflitto, l’accoglienza dei profughi, il dopoguerra e, in particolare, il periodo immediatamente post bellico. Una storia in gran parte da scrivere, da scoprire o da riscoprire, e forse gli eventi collegati alle commemorazioni di questi mesi serviranno anche a questo.

Dal 2 agosto 1914 al 24 maggio 1915 le manifestazioni a favore e contro la guerra furono una costante per la nostra città, con episodi di intolleranza e violenza. Il fronte interventista era ben radicato tra la borghesia, una parte dell’aristocrazia e una folta schiera di intellettuali e personalità pubbliche. A dicembre il gruppo nazionalista rinunciò addirittura alla campagna elettorale delle elezioni comunali per dedicarsi esclusivamente alla propaganda interventista “per agitare e tener desto con comizi, conferenze, dimostrazioni lo spirito pubblico contro i neutralisti di ogni colore. […]”». Sul fronte opposto il neutralismo si radicò profondamente nelle zone popolari ad alta concentrazione operaia, come San Frediano, Porta alla Croce, S. Lorenzo, S. Spirito. Le logge di Piazza Vittorio Emanuele (l’attuale Piazza della Repubblica) divennero il teatro di discussioni, confronti, a volte scontri, anche fisici. In qualche caso, le manifestazioni, soprattutto di studenti, si concludevano in piazza Duomo, al canto dell’inno di Mameli, inneggiando alla guerra. E l’urto con i socialisti si traduceva “in una vera e propria battaglia a colpi di bastone, pugni e calci”. A partire dalla primavera 2015, gli scontri si fanno sempre più frequenti, spontanei e gravi (anche per la diffusa detenzione delle armi) e si allargano ad altre parti della città, con frequenti episodi di intolleranza e violenza nei riguardi di persone, attività, esercizi commerciali di lingua tedesca (fra questi, una birreria nei pressi di Piazza Vittorio). Il console tedesco viene addirittura inseguito da alcuni interventisti che gli gridano dietro “fuori dall’Italia, fuori lo straniero”, un’agenzia di assicurazioni tedesca subisce l’assalto di alcuni studenti che ne spaccano le vetrine. Come detto, gli studenti sembrano sposare in massa la causa interventista: pochi giorni prima dell’entrata in guerra, gli studenti del Galilei impongono la sospensione delle lezioni e l’esposizione del tricolore alle finestre della scuola. Alcuni giornali scrivono di una drammatica alternativa che ormai si pone alla classe politica fra guerra civile e “guerra contro lo straniero”.

Poi, a guerra ormai dichiarata, Firenze diventerà uno dei centri di accoglienza di rifugiati e profughi del nord Italia, alcune chiese – fra queste Santa Maria Novella – saranno adibite a questo scopo, l’entusiasmo cederà il passo alla disillusione e al dolore delle tante vittime e sfollati.

Insomma, e concludo, l’irrazionalità, il fanatismo, l’intolleranza, il nazionalismo da una parte e dall’altra la pietas, la solidarietà, l’accoglienza, sollecitate a più riprese anche da Papa Benedetto XV. Due atteggiamenti per molti aspetti contrastanti, anche se non necessariamente contrapposti, sui quali però, alla fine, sembrarono prevalere i primi, forse anche per maggiore empatia con quella che oggi si definirebbe la “pancia” degli italiani. Quegli stessi sentimenti che avevano portato l’Italia in guerra, infine, non le portarono molta fortuna e rappresentarono i prodromi del fascismo e il diffondersi un nazionalismo sempre più diffuso e di ideologie totalitarie, isolazioniste, imperialiste. A dimostrazione che, spesso, i segni vanno colti per tempo e che i semi dell’intolleranza e della sopraffazione possono avere radici lontane, a volte impercettibili, altre volte mistificati da rivendicazioni con qualche parvenza di giustizia ed equità, ma non per questo meno pericolosi per la democrazia e la libertà di un popolo.

 

Archiviato in:Tribuna Contrassegnato con: mondo

I limiti della manovra economica e le ragioni del consenso

12/10/2018 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Sono chiari i difetti del Documento di Economia e Finanza ma le misure non hanno determinato una diminuzione del gradimento da parte dell’opinione pubblica, che sembra invece giudicare sempre più positivamente l’operato della maggioranza

Giovanni Belardelli  Corriere della Sera 7 ottobre

 

Commenti e analisi degli ultimi giorni hanno chiarito in modo convincente quali siano i limiti, e spesso gli aspetti decisamente negativi, della manovra economica del governo: dal forte aumento del deficit, con il connesso rischio di impennata degli interessi sui titoli di Stato, al carattere assistenzialistico di una misura come il reddito di cittadinanza. Ma proprio chi condivida queste critiche dovrebbe anche chiedersi come mai le misure economiche previste non abbiano determinato una diminuzione del gradimento da parte dell’opinione pubblica, che sembra invece giudicare sempre più positivamente l’operato dei partiti di governo (i sondaggi continuano ad attribuire ai gialloverdi insieme un consenso superiore al 60%).

Un consenso di massa è sempre fatto di orientamenti diversi, nel senso che in certi segmenti dell’opinione pubblica esso avrà soprattutto certe motivazioni, in altri ne avrà altre. Nell’assegnazione del reddito di cittadinanza il Sud appare senz’altro favorito; e non a caso il giudizio positivo su questa misura, come ha mostrato un sondaggio comparso su questo giornale (Corriere, 4 ottobre), è lì maggiore rispetto al Nord (ma è significativo che i favorevoli superino i contrari anche nelle regioni un tempo «rosse»). Tra i favorevoli alla manovra possiamo dunque banalmente collocare quei 5 milioni di persone che prevedono di usufruire del reddito di cittadinanza (più una consistente quota di quanti sperano di averlo e poi non lo avranno). A costoro sono da aggiungere i pensionati e pensionandi che contano di beneficiare della modifica della legge Fornero e dell’introduzione della pensione di cittadinanza. In ogni caso, un governo fortemente concentrato sulle pensioni non può che essere guardato con favore da molti in un Paese che vede una presenza consistente e crescente di anziani (al momento gli ultrasessantenni sono quasi il 30% della popolazione).

Tuttavia la platea dei direttamente o indirettamente interessati alla manovra (mettiamoci pure quanti beneficeranno della cosiddetta pace fiscale) non penso che basti a spiegare il giudizio così ampiamente favorevole di cui si diceva. Per farlo dobbiamo piuttosto rifarci a certi orientamenti profondi di un Paese, il nostro, che nei decenni passati è stato abituato da un potere politico in cerca di facile consenso a misure economico-assistenziali il cui costo era scaricato sulle successive generazioni. L’enorme crescita del debito pubblico costrinse a un certo punto a interrompere quelle politiche ispirate a un «keynesismo perverso», come è stato definito, ma le conseguenze durano fino a oggi. Non solo perché è stata costante la tendenza di un po’ tutti i governi ad aumentare la spesa pubblica.

Forse ancora più rilevante è il fatto che, anno dopo anno, quelle politiche hanno alimentato un processo che potremmo definire di «deculturazione»; un processo attraverso il quale un Paese che, dopo la seconda guerra mondiale, si era mostrato capace di reagire con vitalità, impegno, fatica, essendo anche per questo protagonista di una grande crescita economica, ha visto diffondersi sempre più una cultura assistenzialista, un’abitudine al sostegno pubblico, una sfiducia nel valore del lavoro e della competizione economica; tutto ciò insieme a un senso diffuso di irresponsabilità che consentiva (e consente ancora) di non porsi troppi problemi circa il debito caricato sulle spalle dei nostri figli e nipoti.

È anche questo insieme di sentimenti diffusi che porta oggi all’assenza di forti reazioni di fronte a una manovra che, come ha dichiarato il presidente dell’Inps Boeri, «trasferisce risorse da chi lavora a chi non lavora».

Naturalmente c’è una parte ancora grande del Paese che non ha perso l’antica operosità, che si impegna e compete sui mercati internazionali; non è affatto scomparsa quell’«Italia dell’energia» – come chiamarono l’Italia del dopoguerra Giuliano Amato e Andrea Graziosi in un loro libro – che coltiva le inclinazioni e le abitudini di un tempo; un’Italia che guarda con diffidenza, e spesso con piena consapevolezza del pericolo, a politiche che distribuiscono soldi che non abbiamo; che non pensa ci sia nulla da festeggiare quando aumentiamo il deficit, e con esso l’ammontare già stratosferico del nostro debito pubblico. Purtroppo, almeno per ora, la voce di questa Italia è sopraffatta da quella di chi immagina possibile una specie di «Paese dei balocchi» nel quale si consuma senza lavorare. Abbiamo letto tutti Le avventure di Pinocchio e sappiamo che il suo fu un brutto risveglio.

 

Archiviato in:Tribuna

La Sinistra e l’identità

21/09/2018 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

La nostra Penisola presenta un insieme di caratteri che sono soltanto suoi. Questo non significa che tutto sia uguale a se stesso, tutto identico

 

Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera 16 Settembre

 

Ogni volta che decide di suicidarsi la Sinistra sa che può sempre contare su chi è pronto ad aiutarla a infilare il colpo in canna: sono gli intellettuali della sua parte. I quali a propria volta sanno che qualunque cosa dicano o facciano possono sempre contare sul masochistico silenzio della loro vittima. È questa la prima riflessione che viene alla mente leggendo il lungo articolo di Tomaso Montanari «L’identità inventata degli italiani» (Il Fatto, 10 settembre).

E subito dopo non si può non pensare che su certe materie in Italia ogni discussione è impossibile dal momento che invece di sforzarsi di capire le ragioni dell’altro ognuno ripete le proprie come un mantra per il pubblico degli aficionados.

La tesi di Montanari è perfettamente espressa dal titolo dell’articolo: l’identità italiana non esiste. Lo stesso termine identità è a suo avviso un termine maledetto, servendo solo ad alimentare «il veleno della retorica identitaria» e quindi a giustificare il «noi» contro «loro», le dottrine del «respingimento», «i campi di concentramento in Libia», lo «straniero come nemico» nonché ovviamente «i paradigmi culturali (…) connessi ai fantasmi del nazionalismo nazifascista», il «prima gli italiani» e via così sermoneggiando. Tutte infamie imputabili per l’appunto al famigerato concetto di identità.

Peccato che per cercare di aver ragione l’autore ricorra a un espediente alquanto indegno del suo rango intellettuale: quello di fabbricarsi un avversario di comodo da poter facilmente stendere al tappeto. Se identità, egli scrive infatti, significa «uguaglianza assoluta, corrispondenza esatta e perfetta», ebbene, conclude trionfante, allora «bisogna dire con chiarezza: no, questa identità italiana non esiste». Già: il punto è che a mia conoscenza non vi è mai stato nessuno così idiota (meno che meno qualcuno con un minimo di studi alle spalle) che abbia sostenuto l’esistenza di un’identità italiana nel significato che alla parola identità attribuisce Montanari. Quando si parla d’identità italiana s’intende infatti quel significato della parola per cui ad esempio si parla di «carta d’identità»: e cioè, come attesta qualsiasi buon vocabolario (cito dallo Zingarelli): la «qualificazione di una persona, di un luogo, di una cosa per cui essa è tale e non altra». Identità italiana significa insomma che la nostra Penisola presenta un insieme di caratteri che complessivamente presi sono solo suoi e non di altri luoghi della terra. Non significa affatto che in Italia tutto è monotonamente eguale a se stesso, che tutto è identico.

***

Avendo furbescamente stabilito che invece si tratta proprio di ciò il nostro autore ha facile gioco a farsi beffa di una simile castroneria. Non lo sanno forse tutti, infatti, che gli italiani sono il frutto di mille incroci di popoli diversi dalle Alpi alla Sicilia? Che la cultura italiana è sempre stata multiforme e multanime? Che non esiste neppure una cucina italiana? Tutte cose vere che però non dimostrano nulla. Certo, gli italiani — come del resto quasi tutti i popoli d’europa — sono dei sanguemisto, ma fino a prova contraria solo qui e non altrove, solo in questo spazio geografico, Normanni e Bizantini, Arabi ed Ebrei, Greci e Longobardi, Latini e Franchi, le loro lingue e le loro culture hanno avuto modo di mischiarsi e incrociarsi in una maniera così peculiare. Egualmente solo nella Penisola sono nate una miriade di prestigiosissime produzioni letterarie guarda caso scritte tutte in una sola lingua, l’italiano: anche se naturalmente con prospettive e contenuti tra loro diversissimi (come se poi la cultura di Monaco fosse mai stata la stessa di quella di Berlino o a Marsiglia si parlasse la stessa lingua di Parigi). Sta di fatto che nessuna persona sensata definirebbe mai Primo Levi o Giorgio Bassani come degli scrittori ebrei: sono stati due grandi scrittori italiani e basta. Quanto alla cucina è certo innegabile la straordinaria varietà delle cucine locali di questo Paese, ma conosce Montanari un altro luogo nel mondo dove si mangia dappertutto la pasta come da noi? dove si adoperano tanto le verdure come sui nostri fornelli?

Qui insomma non si tratta di stabilire l’esistenza di un identico bensì di un unicum.

Non si tratta di affermare una qualunque purezza — come invece tenta continuamente di insinuare Montanari per poter vestire i comodi panni del Catone antirazzista — bensì di mettere a fuoco una singolare complessità. Non si tratta di biologia, insomma, si tratta di storia. L’identità è un fatto storico, il frutto di una storia. Per questo essa è unica e irripetibile: perché tale è ogni storia. Sicché proprio da un punto di vista storico mi sembra velleitario, ad esempio, il tentativo di Montanari di contestare la centralità che nell’identità italiana hanno le sue «radici cristiane», e di farlo portando come prova decisiva null’altro che una frase contro le patrie di don Milani. Allora è solo una caso, mi chiedo, è solo un caso, che so, lo sterminato numero di chiese presenti nella Penisola? È solo un caso se fino a ieri il nome femminile più diffuso fosse Maria? È solo un accidente insignificante la presenza a Roma della Santa Sede?

***

La denunciata «mancanza di un’identità unitaria» non vuol dire affatto la mancanza di un’identità (e magari anche di un’identità fortissima). Se ciò fosse vero, del resto, nessun Paese almeno in Europa ne potrebbe allora vantare una, dal momento che né Spagna né Francia né Germania, tanto per citarne qualcuno, possiedono certo un’identità molto meno variegata di quella italiana. Non solo, ma resterebbe inoltre da spiegare un non piccolo mistero storico che mi piace porre in una forma adeguatamente retorica e tale da suscitare, immagino, il sano disgusto di Montanari: che cosa dobbiamo pensare delle migliaia di donne e uomini che negli ultimi due secoli si sono fatti ammazzare sui campi di battaglia, sulle forche e dai plotoni d’esecuzione gridando «Viva l’italia»? Che cosa sono state? Vittime di un inganno, di un’illusione di «un’idea di nazione chiusa e guerresca», «di un bieco nazionalismo»? Di che cosa?

***

In realtà ciò che a Montanari veramente interessa in questa discussione è adoperare la storia, il passato dell’Italia, per un fine esclusivamente e schiettamente politico: e cioè sostenere la necessità della porta aperta nei confronti degli immigrati, dal momento che come scrive «tutti siamo provvisori, migranti e stranieri», che «il nostro noi si è formato grazie ad una somma di “loro” accolti e fusi in questa terra» , e che dunque «l’Italia è sempre stata multietnica e dunque multiculturale». Affermazioni che contengono però una serie di forzature un po’ troppo disinvolte, che specialmente uno studioso dovrebbe avere qualche ritegno a permettersi. I popoli che Montanari descrive ad esempio come «accolti e fusi in questa terra» nel corso dei secoli lo furono sì, ma dopo invasioni, guerre, soprusi e miserie devastanti che spesso durarono molto a lungo: il che non mi sembra un particolare irrilevante. Parlare poi di Enea, per fare un altro esempio, come di «un rifugiato, richiedente asilo e migrante troiano» significa, a parte la ridicolaggine del lessico, falsare anche la realtà di un mito che, almeno nella versione virgiliana, lungi dal consegnarci una simile immagine idilliaca ci parla invece di guerre feroci che sarebbero state scatenate proprio dall’arrivo di Enea sulle coste del Lazio. A volerlo prendere sul serio un precedente per nulla rassicurante, si dovrà ammettere.

Alla fine comunque, fatta piazza pulita di una parte della storia e manipolatane il resto, la strada è aperta perché il nostro autore possa proclamare quale unica identità italiana possibile quella di un «patriottismo costituzionale ispirato da una costituzione cosmopolitica come quella che avrebbe potuto darsi l’unione europea».

E così la Sinistra è servita: se lo desidera ha la ricetta perfetta per assaporare il bis della catastrofe elettorale del 4 marzo.

Archiviato in:Tribuna Contrassegnato con: idiota, mondo

La maturità dei ragazzi del ’99. Cent’anni fa si fece in trincea

22/06/2018 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Quest’anno fanno l’esame gli ultimi ragazzi nati nel Novecento. Un secolo fa, ai loro trisnonni richiamati in guerra, toccò farla combattendo fra il Piave e il Monte Grappa

Antonio Carioti Corriere della Sera 18 giugno

I ragazzi del ’99 oggi sono gli alunni delle scuole secondarie superiori che, nati appunto nel 1999, tra poco dovranno affrontare l’esame di maturità allo scopo di conquistare un «pezzo di carta» dal valore incerto, per poi scommettere su se stessi con prospettive non certo rosee, continuando gli studi o provando a trovare uno spazio nel mondo del lavoro. Non li attendono anni facili.

Però forse conviene riflettere sui loro predecessori di cento anni fa, i «ragazzi del ’99» celebrati anche da una via nel centro di Milano, nei pressi del Duomo. Quei giovani erano figli di un’Italia povera e prevalentemente agricola, in cui il tasso di analfabetismo superava ampiamente il 40 per cento e solo una minoranza molto ristretta e privilegiata proseguiva gli studi oltre l’obbligo scolastico, fissato a 12 anni. Eppure anche loro un secolo fa, proprio nella seconda metà di giugno, dovettero mettersi alla prova.

Quella generazione fece il suo esame di maturità in Veneto, sul fiume Piave e sul massiccio montano del Grappa, in quella che fu la battaglia decisiva della Prima guerra mondiale sul fronte italiano. Alcuni mesi prima, il 24 ottobre 1917, c’era stata la disfatta di Caporetto: tedeschi e austro-ungarici avevano sfondato le linee del nostro esercito ed erano dilagati dalle Alpi verso la pianura. A stento in novembre era stato possibile fermarli lungo il Piave, nello scontro che fu chiamato «battaglia di arresto». In pratica erano alle porte di Treviso e non lontani da Vicenza.

Il governo di Roma aveva allora silurato il comandante supremo Luigi Cadorna, sostituendolo con Armando Diaz, e sotto le armi erano stati chiamati appunto i giovani nati nel 1899, per rimpinguare i ranghi di un esercito che aveva perso centinaia di migliaia di soldati, per non parlare del materiale bellico, nella disastrosa ritirata dall’Isonzo al Piave. Ma quelle forze fresche, dotate di un entusiasmo che mancava ai logori veterani delle precedenti battaglie, erano attese da momenti molto duri.

Anche il nemico era in difficoltà. I tedeschi, che a Caporetto avevano svolto un ruolo cruciale, avevano ritirato le loro truppe dall’Italia per concentrarle in Francia, dove stavano producendo lo sforzo finale (poi rivelatosi vano) per concludere la guerra vittoriosamente. Germania e Austria-Ungheria erano sottoposte a un blocco navale che ne stava riducendo i popoli alla fame. Ma intanto a Est la Russia, sconvolta dalla rivoluzione e ormai governata dai bolscevichi di Lenin, aveva abbandonato la lotta, siglando il 3 marzo 1918 la pace di Brest-Litovsk. Quindi Vienna aveva potuto ritirare molte unità militari dal fronte orientale per trasferirle in Veneto e in Trentino.

Il 15 giugno 1918 l’Austria-Ungheria tentò la mossa della disperazione per assestare all’Italia un colpo letale. Lanciò il suo esercito in un’offensiva generale, scatenando un inferno di ferro e fuoco sul Grappa e sul Piave. Stavolta però non colse impreparate le armate italiane. E i ragazzi non ancora ventenni furono in prima linea nel respingere l’attacco: dopo circa una settimana di combattimenti furibondi, i soldati asburgici che avevano attraversato il Piave dovettero ritornare sulla sponda da cui erano partiti.

Fu quella che Gabriele d’Annunzio chiamò la «battaglia del Solstizio»: un terribile, decisivo esame di maturità per l’Italia intera, nazione unita sotto la stessa bandiera da meno di sessant’anni. Ma i ragazzi del ’99 lo passarono a pieni voti e la forza dell’Impero asburgico ne uscì fatalmente fiaccata. In pochi mesi sarebbe crollato.

Alto fu il prezzo da pagare, anche se le nostre perdite furono inferiori a quelle austro-ungariche. Circa ottomila soldati italiani caddero nel giugno 1918 e 29 mila furono i feriti. Tra loro molti erano i ragazzi nati nel 1899.

Non è una condizione ideale quella dei giovani d’oggi, ma paragonarla con le tragedie del passato può insegnare qualcosa. Soprattutto a chi usa soffiare sul fuoco di risorgenti nazionalismi.

Archiviato in:Tribuna Contrassegnato con: mondo

Un Paese che va rifondato

21/05/2018 da Sergio Casprini

La nostra democrazia ha bisogno di un forte richiamo all’impegno nazionale. Il Paese per disperazione è tentato dalle sirene dell’avventurismo politico

Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera 18 maggio

 

Ha ragione Giuliano Ferrara — restituitosi finalmente alla sua intelligenza dopo il fatuo ottimismo che ostentava nella stagione che si chiude — quando ha scritto che «c’è qualcosa di misterioso e di tremendo nell’affondamento della Repubblica», nella Repubblica «virtualmente a pezzi» che abbiamo da tempo sotto gli occhi (Il Foglio, 10 maggio). Ma il punto di partenza di questo naufragio non è come egli pensa, e come in vario modo molti altri pensano con lui, l’uccisione di Aldo Moro. La «corrosione dello Stato», «la prigionia della cultura e della politica» non nascono dal quel delitto.

La democrazia italiana non è stata messa in ginocchio dalle Brigate Rosse. È stata consumata da un’entità ben più forte e indomabile: dalla sua stessa storia, non riconosciuta e ancor meno compresa ma invece mistificata ed edulcorata quanto possibile. A suo modo «misteriosa e tremenda» è per l’appunto questa resistenza della storia all’oblio, il fatto che essa non dimentica nulla e di tutto prima o poi presenta il conto agli immemori. E cioè a noi che abbiamo dimenticato la nascita infelice della nostra democrazia da una guerra rovinosamente perduta accompagnata da una guerra civile. Una guerra civile che se ha pur momentaneamente unito alcuni pezzi del Paese (quelli della sua futura ufficialità politica) , molti di più ne ha diviso tenacemente nell’anima e per molto più tempo.

Egualmente abbiamo rimosso il fatto che la sconfitta ha annichilito il nostro rango internazionale, ha cancellato per mille aspetti la nostra stessa sovranità lasciandoci organicamente subalterni a poteri stranieri. Sia pure a dispetto della buona volontà di molti è accaduto così che dopo il ‘45 la dimensione della nazione si sia rapidamente eclissata. E in assenza della nazione per forza di cose non ha potuto neppure esistere l’idea dell’autonomia e del valore superiore dei suoi interessi generali. Cioè degli unici fattori che rendono possibile l’esistenza di una vera classe dirigente. Sicché abbiamo dovuto contare solo sulla politica: ma una politica poggiante in certo senso sul vuoto, dal momento, tra l’altro, che le modalità della sconfitta — l’8 settembre — sono valse a dare un colpo durissimo all’immagine già non molto solida dello Stato, della sua autorità e del suo comando. Ha compiuto l’opera un gigantesco fenomeno di camaleontismo di massa dall’antico al nuovo regime. La Resistenza infine — benché certamente assai utile come giustificazione ideologica ufficiale del nuovo regime democratico — ha pure significato tuttavia (complice la successiva «guerra fredda») radicare nel Dna della Repubblica non solo il fascino della fazione e dello scontro e la facilità del ricorso alla delegittimazione e all’inimicizia assolute in nome dell’antifascismo, ma anche la perdurante suggestione dell’ «organizzazione» e delle «reti» più o meno occulte, oltre la strisciante tentazione per le forme più varie di «complotto» insieme al continuo allarme circa la loro esistenza.

La vita della democrazia italiana, priva dell’ancoraggio in istituzioni forti e in una vera classe dirigente, è stata progressivamente corrosa dalla corrente sotterranea dei grigi lasciti della sua origine, destinati ad affiorare di continuo e drammaticamente. Basta ripercorrere una cronaca arcinota. Eccola sia pure sommaria: la semirivolta a macchia d’olio del luglio ’60; l’uso improprio dei Carabinieri accarezzato da un Presidente della Repubblica, Segni, poi colto da un infarto in circostanze poco chiare e «dimessosi» in circostanze ancora meno chiare; una città capoluogo di regione, Reggio Calabria, messa a ferro e a fuoco e presa in ostaggio per settimane e settimane da bande di rivoltosi fascisti; un altro Presidente della Repubblica, Leone, costretto inopinatamente a dimettersi contro la sua volontà; la diffusione del terrorismo come in nessun altro Paese europeo; un’organizzazione segreta, la P2, infiltratasi massicciamente ai massimi livelli dello Stato e della società; attentati dinamitardi a ripetizione per anni di origine sostanzialmente sconosciuta, con decine e decine di vittime; un uomo politico chiave, Moro, assassinato; un altro, Andreotti, innumerevoli volte ministro e capo del governo, incriminato come colluso con i vertici della mafia, processato e solo semi assolto; ancora un terzo, Craxi, inseguito da mandati di cattura e costretto all’esilio; un altro Presidente della Repubblica, Cossiga, dimessosi prima di esser messo sotto accusa dal principale partito d’opposizione per tradimento della Costituzione; di nuovo un altro Presidente della Repubblica, Scalfaro, oggetto di illazioni pesantissime e costretto a difendersi in modo improprio; quattro partiti che per un quarantennio erano stati il cuore del governo del Paese cancellati nel giro di diciotto mesi per una serie di inchieste giudiziarie; infine una serie di uomini chiave dell’economia — Mattei, Calvi, Gardini, Cagliari — morti tutti in modo violento e in circostanze oscure o comunque drammatiche. Esiste un’altra democrazia in Europa, mi chiedo, che possa vantare una simile sfilza di fatti inquietanti (che non sono semplici fatti isolati : costituiscono un contesto)? E come non pensare proprio per tale contesto ad un’origine lontana e rimossa? L’articolo famoso con cui Pier Paolo Pasolini intendeva smascherare i «misteri d’Italia» non doveva intitolarsi «Io so»: avrebbe dovuto intitolarsi «Io ricordo».

Mille segni di crisi — tra cui ultimo di queste ore la clamoroso confisca/cancellazione di fatto, ad opera della nuova partitocrazia, della carica di Presidente del consiglio — indicano che ormai all’ordine del giorno va messa la rifondazione della Repubblica. Né più né meno. Ripensare senza inganni compiacenti la sua origine storica, costruire una sua nuova memoria rispondente alla verità: ecco il primo compito di questa rifondazione.

 Senza di che continuerà ad essere impossibile restaurare la dimensione della nazione: cioè la consapevolezza di far parte di una comunità con una storia, una cultura e un destino che riguardano tutti senza che naturalmente ciò cancelli le tante e necessarie diversità; la consapevolezza che siamo solidalmente legati da bisogni e interessi generali; e che tutto ciò si accompagna sì a molti diritti ma anche ad altrettanti doveri.

Ci servono nuove culture politiche, nuovi partiti, capaci innanzi tutto di muoversi in una simile direzione. La democrazia italiana ha bisogno di un forte richiamo a un impegno nazionale comune perché è stata proprio la latitanza di esso che nell’ultimo cinquantennio ha prodotto, dopo i primi anni del dopoguerra in cui era ancora operante l’eredità del secolo precedente, lo sgretolamento di quei tre pilastri — una classe dirigente, un sistema d’istruzione, una cultura dello Stato e dell’Amministrazione — necessari a impedire che alla fine, com’è invece avvenuto, prendesse il sopravvento su tutto la più misera e vuota politica di partito . La quale, unica attrice sulla scena, è stata così destinata fatalmente a ritrovarsi alla mercé del dilettantismo dei parvenus e dell’arroganza delle oligarchie. Con il risultato dell’Italia di oggi: un Paese che sembra non sapere più che cosa è né cosa vuole essere; senza idee, senza strategie, senz’anima, sempre più terra di diseguaglianze e di povertà. Un Paese senza Stato, perlopiù sporco e malandato, spesso invivibile, incustodito e inerme di fronte a chiunque voglia prenderselo. E perciò tentato per disperazione dalle sirene di ogni avventurismo politico. È giunta l’ora di pensare in modo netto e forte. Di cominciare a pensare in termini di vera e propria salvezza della Repubblica, come fu altre volte nella nostra storia allorché si trattò di salvezza nazionale. Stiamo attenti: il punto di non ritorno potrebbe essere più vicino di quanto crediamo.

 

Archiviato in:Tribuna

Il 25 aprile della Nazione. Non di una fazione

25/04/2018 da Sergio Casprini

Lettere al Corriere della Sera , 25 aprile 2018

Caro Aldo,  il 25 Aprile, che ripropone da 73 anni il dissidio irrisolto tra fascismo e antifascismo e poi, all’interno dell’antifascismo, la divisione tra una memoria rossa politicizzata e una memoria grigia impolitica, mi fa venire in mente lo sfogo dell’operaio Andrea Marcocci davanti al suo amico oste, nel film di Pietro Germi Il ferroviere (1956): “Arrivava un ordine, sabotare, e io: pronti e giù per la linea di Cassino con quegli altri dannati che sputavano bombe…io, io sono sceso dal treno e ho aiutato i partigiani a rovesciarlo nella scarpata”. Il ferroviere fa balenare un’immagine antiretorica della guerra di liberazione. Valorizza il ruolo di chi, non politicizzato, offrì il suo contributo alla Resistenza, in cui era evidente la volontà di non collaborare con i tedeschi e il rifiuto del fascismo. Lorenzo Catania

Caro Lorenzo, Scelgo la sua lettera tra le molte che sono arrivate sul 25 Aprile, alcune cariche di un livore cui non riesco ad abituarmi. È così ogni anno ormai: attorno all’anniversario della Liberazione si danza un minuetto politico che ha decisamente stancato. Eppure vale la pena ribadire una cosa. Della Resistenza si è data una lettura ideologica. Non fu fatta dai partiti, ma dal popolo. Non appartiene a una fazione, ma alla nazione. C’erano partigiani comunisti, socialisti, azionisti, cattolici, monarchici; e c’erano moltissimi ragazzi che magari combattevano nelle brigate Garibaldi o in Giustizia e Libertà o con gli autonomi, ma non avevano la minima idea di cosa fossero il comunismo o il partito d’Azione o il partito liberale; semplicemente non volevano obbedire ai bandi Graziani e battersi per Mussolini e per Hitler. Inoltre, la Resistenza non è esaurita dalla guerra partigiana, che ebbe le sua pagine nere le quali vanno scritte e lette. Fu fatta, in diverse forme, dai civili. Da donne, ebrei, internati in Germania, carabinieri, militari, sacerdoti, suore che alla loro maniera dissero no ai tedeschi invasori e ai fascisti di Salò. Non facciamoci però illusioni. La lettura ideologica è prevalente. Siamo l’unico Paese d’Europa in cui la Resistenza è considerata una cosa «di sinistra» e in cui la parola destra è sinonimo di fascismo. E i ragazzi educati dalla Rete il 25 Aprile non sanno neppure cosa sia.

Aldo Cazzullo

 

Archiviato in:Tribuna

Stefano Feltri confuta il sovranismo, ma la democrazia vive di sovranità.

18/04/2018 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Nel saggio (Einaudi) il giornalista critica il populismo ma non considera i suoi punti di forza: chi esalta la dimensione nazionale ha delle ragioni da non sottovalutare

Ernesto Galli Della Loggia Corriere della Sera 12  aprile

Chissà se Stefano Feltri — il giovane e valente vicedirettore del «Fatto Quotidiano», autore del libro Populismo sovrano appena uscito da Einaudi — ha considerato una tipica manifestazione di sovranismo anche la protesta che il governo italiano ha inoltrato qualche giorno fa a quello francese per quanto i suoi gendarmi avevano appena combinato a Bardonecchia-

Sovranismo, come è noto, è il termine carico di significato negativo che le élite occidentali — avvalendosi della loro egemonia culturale e del potere che gliene deriva di dare il nome alle cose — hanno dato alla difesa del «potere di decidere a livello nazionale o regionale il proprio destino», fatta ostinatamente propria in genere da chi dell’élite non fa parte. Una difesa che Feltri giudica essere diventata ormai un’«ossessione» e alla quale egli attribuisce un ruolo centrale in quell’altro e maggiore morbo ideologico diffusosi di recente nelle democrazie occidentali, che è il «populismo».

Feltri perlustra accuratamente l’universo populista. In modo particolare, i mille casi in cui la mentalità complottista tipica del populismo stesso è spinta a scorgere ogni volta, dietro i conti in disordine e i fallimenti delle politiche dei governi nazionali, soltanto le presunte macchinazioni dei circoli finanziari internazionali oppure le malefatte delle potenti burocrazie «senza patria» al servizio dell’Unione Europea, del Fondo monetario, del Wto o di chi sia.

Ad un’analoga, impietosa, radiografia egli sottopone gli argomenti che vengono adoperati per solito dai fissati della sovranità nazionale contro la loro seconda bestia nera, la globalizzazione. A questo universo non privo di tratti talvolta paranoici Feltri, avvalendosi della propria notevole cultura economica, contrappone da un lato l’analisi dettagliata dei molti benefici economici della cooperazione internazionale, e dall’altra la vacuità fallimentare di ogni soluzione alternativa proposta, di ogni illusoria autoreclusione nello spazio nazionale. E i suoi argomenti risultano quasi sempre convincenti. Così come convincenti sono pure le sue considerazioni sui molti motivi alla base della crisi nelle nostre società del rapporto tra le élite e il resto della popolazione.

Anche chi non ha ragione tuttavia può avere delle ragioni. Ciò vale anche per il sovranismo populista, che a mio giudizio ha delle ragioni forti che però in queste pagine non sono affatto considerate. Sono proprio le ragioni che specialmente muovono l’animo e l’emotività dell’opinione pubblica, nutrendo la sua profonda avversione nei confronti di tutto ciò che le sembra ledere l’autonomia dello Stato nazionale. E che saranno pure ragioni spessissimo manipolate per servire a una sgangherata polemica politica, ma che non per questo cessano di tirare in ballo altrettanti ambiti cruciali per tutti i regimi democratici.

Il primo di tali ambiti è quello simboleggiato dal suffragio universale. Mi spiego. Il «potere di decidere il proprio destino», l’idea di essere titolari di un tale potere «a livello nazionale e regionale», come dice Feltri, non è certo una bizzarra pretesa dei populisti. Direi che rappresenta puramente e semplicemente il cuore del suffragio universale: il quale a sua volta è, come si sa, l’espressione più compiuta della sovranità popolare. Feltri sostiene che il sovranismo populista fa di tale potere di decisione una vera e propria «ossessione». Può essere che in più di un caso sia vero: ma al di fuori dei limiti indicati in Italia dalla nostra Costituzione chi decide quando la volontà di esercitare quel potere è fondata e quando no, quando diventa un’«ossessione»?

Ciò che l’antisovranismo fatica ad accettare è il fatto che la sovranità popolare quale si esprime nel suffragio universale — ambedue pietre angolari della democrazia — sia in realtà tutt’uno precisamente con la sovranità nazionale. Cioè sia tutt’uno con uno spazio storico-culturale (quello rappresentato dalla nazione appunto) che, tranne casi rarissimi, s’identifica anche con uno spazio geografico.

L’esistenza di questo legame inscindibile è testimoniata innanzi tutto dalla storia: non è mai esistito, infatti, un regime democratico che non si sia affermato in uno spazio nazionale e rivendicando alla nazione-popolo la sovranità su di esso. Il che vuol dire che non è facile mettere sotto accusa la sovranità e considerarla quasi alla stregua di una reliquia del passato, come in sostanza mi sembra faccia questo libro, senza per ciò stesso mettere una pericolosa ipoteca sul suffragio universale e cioè sul cuore stesso della democrazia. Chi si muove in questa prospettiva deve saperlo.

Vengo alla seconda delle due principali ragioni forti del sovranismo trascurate da Feltri. Quella a cui allude la Costituzione stessa quando afferma che l’Italia consente alle limitazioni della sua sovranità, ma «in condizioni di parità con gli altri Stati». Ora è per l’appunto dal vedere come di fatto questa condizione di parità sia venuta progressivamente meno — in particolare nell’ambito di quella che è la più importante istituzione limitatrice della sovranità italiana, l’Unione Europea — è precisamente da ciò che in molta parte dell’opinione pubblica è nato un crescente, comprensibile, sentimento a sfondo diciamo così «sovranista».

Che poi tutto ciò sia avvenuto per colpa soprattutto delle inadeguatezze e delle incapacità della nostra classe politica e di governo, è vero: ma lungi dall’essere un’attenuante non ha fatto e non fa altro che alimentare ancora di più l’avversione per le élite del Paese.

Archiviato in:Tribuna

La Costituzione settant’anni dopo. Una sintesi di tante ispirazioni ideali.

13/04/2018 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Nella Carta istanze cattoliche, liberali, marxiste. E tracce del fascismo. Un estratto del saggio di Sabino Cassese sulla «Rivista trimestrale di diritto pubblico» (Giuffrè)

Sabino Cassese  Corriere della Sera 10 aprile

 

Nel 1995, Massimo Severo Giannini, uno degli studiosi che prepararono la Costituzione, riassumeva così la sua valutazione della Carta costituzionale del 1948: «Splendida per la prima parte (diritti-doveri), banale per la seconda (struttura dello Stato), che in effetti è una cattiva applicazione di un modello (lo Stato parlamentare) già noto e ampiamente criticato». Da dove è stata attinta questa prima parte «splendida», quale è stata l’«officina di idee» che l’ha prodotta?

Piero Calamandrei ha fornito una chiave per individuare le fonti ideali delle norme costituzionali quando ha detto, nel 1955, che esse furono «il testamento di centomila morti, scritto con sangue di italiani nel tempo della Resistenza», ma anche «un punto di ripresa del pensiero politico-civile italiano, dove parlano le “grandi voci lontane” di Beccaria, Cavour, Pisacane, Mazzini».

La Costituzione ebbe una breve gestazione — non più di un triennio —, ma la sua maturazione ideale non fu altrettanto breve. Essa non nacque come Minerva armata dalla testa di Giove. Vi sono intessute culture, aspirazioni, esperienze, ideologie di diversa provenienza, di epoche differenti.

Di questo contenuto profondo dei principi costituzionali non posso fare qui che qualche esempio, e soltanto in forma interrogativa, avanzando ipotesi. Come arriva la diade della Costituzione termidoriana (non delle precedenti Costituzioni francesi rivoluzionarie) «diritti e doveri» negli articoli 2 e 4, nonché nel titolo della parte prima della Costituzione italiana? Non bisogna riconoscere dietro alla formula del secondo comma dell’articolo 3, quello sull’eguaglianza in senso sostanziale, la critica marxista della eguaglianza meramente formale affermata dalle Costituzioni borghesi e il successo che solo pochi anni prima, nel 1942, aveva avuto anche in Italia il «piano Beveridge» con la sua libertà dal bisogno? Come spiegare la circostanza che dei 1357 lemmi della Costituzione uno di quelli che hanno il maggior numero di occorrenze è «ordinamento», senza capire che «così dalla prima commissione la grande ombra di Santi Romano si estendeva all’Assemblea, come se il piccolo libro fosse stato scritto a favore dei Patti Lateranensi», come notato nel suo solito stile immaginifico da La Pira nel suo intervento sull’articolo 7? Ed è possibile ignorare la lunga storia del cattolicesimo italiano e del suo rifiuto dello Stato (la «questione romana»), che si intreccia con l’idea romaniana della pluralità degli ordinamenti giuridici o ispira le norme dove si afferma, prima che lo Stato garantisca i diritti o promuova le autonomie, che questi vadano riconosciuti, e quindi, preesistono allo Stato, consolidando quindi il pensiero della corrente antipositivistica (perché lo Stato viene dopo le persone, le «formazioni sociali» e gli ordinamenti originari non statali)? Si possono comprendere le norme costituzionali sul patrimonio storico e artistico e sulla scuola ignorando l’elaborazione, in periodo fascista, ad opera di Giuseppe Bottai, di Santi Romano, di Mario Grisolia, della legislazione sulle cose d’arte e della «carta della scuola», quindi senza riconoscere che la Costituzione antifascista ha raccolto anche l’eredità del fascismo? Infine, come intendere la portata dei programmi economici per indirizzare a fini sociali l’impresa privata, senza considerare una duplice esperienza, quella della pianificazione economica sovietica e quella del New Deal rooseveltiano?

Nel melting pot costituente, furono raccolte, messe insieme, ordinate queste diverse idee, culture, esperienze, ed altre ancora, che si mescolavano all’esigenza di riportare libertà e rispetto per i diritti nel Paese. La Costituzione rappresentò una reazione al regime illiberale fascista, ma fu anche il precipitato di ideali di epoche diverse (risorgimentale, liberaldemocratica, fascista), Paesi diversi (specialmente quelli che si dividevano il mondo, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica), aree diverse (quella cattolica, quella socialista e comunista, quella liberale), orientamenti dottrinali opposti (quello statalistico e quelli pluralistico).

Calamandrei ebbe l’intelligenza di riconoscere questo sguardo lungo della Costituzione, ma — forse prigioniero dell’idea che la Resistenza fosse un secondo Risorgimento — si fermò alla segnalazione del contributo ideale di autori lontani, Mazzini, Cavour, Cattaneo, Garibaldi, Beccaria. Nel discorso del 1955 tralasciò il contributo che proveniva da altri Paesi e da epoche più vicine, specialmente dal fascismo, un contributo che prova la lungimiranza degli autori della Costituzione, antifascisti che recuperarono l’eredità del fascismo (ma questo a sua volta aveva sviluppato ideali e proposte dell’età liberale).

Questo risultato non fu sempre positivo, come osservava Giannini, perché la seconda parte della Costituzione (o, meglio, quella relativa alla forma di governo) sembrò dimenticare proprio la lezione del passato, come alcuni costituenti dissero ai loro colleghi, ricordando che anche dalle debolezze del sistema parlamentare liberale era scaturito il fascismo. Ciò avrebbe richiesto un sistema di stabilizzazione dei governi, pure auspicato da molti (ed anzi accettato in linea di principio dalla ampia maggioranza che votò l’ordine del giorno Perassi), secondo il quale il sistema parlamentare doveva avere «dispositivi idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di governo e ad evitare degenerazioni del parlamentarismo».

Come osservava Paolo Ungari molti anni or sono, «l’intera vicenda della cultura giuridica italiana fra le due guerre dovrebbe essere attentamente ripercorsa, e non solo al livello delle discussioni universitarie, per rendersi conto del patrimonio di idee e di tecniche degli uomini che sedettero nelle varie commissioni di studio del periodo intermedio, dalla commissione Forti a quella sulla “riorganizzazione dello Stato”, nonché alla Consulta e alla Costituente stessa».

 

Archiviato in:Tribuna Contrassegnato con: mondo

Ma la Repubblica è nata rossa?

26/03/2018 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Franco Camarlinghi  Corriere Fiorentino  22 marzo

Può darsi che abbia ragione Tomaso Montanari quando, nella recensione sulla mostra Nascita di una Nazione (Venerdì di Repubblica), scrive che parlare degli anni cinquanta e sessanta significa parlare della giovinezza della maggior parte di coloro che visiteranno Palazzo Strozzi.

Faccio parte della categoria e, appena posso, mi presento alla biglietteria. La mostra è bella, così come l’allestimento, e il rosso che via via diventa dominante nelle opere esposte dà la sensazione di un bel colore che avvolge il visitatore: sul momento non mi passa per la testa nient’altro. Torno indietro e ricomincio da Renato Guttuso e da La battaglia di Ponte dell’Ammiraglio, quella delle Frattocchie, la scuola del Pci, il luogo dove abitava Palmiro Togliatti. All’inizio degli anni settanta mi capitò di andare a trovare in Piazza del Grillo il Maestro, insieme a Fernando Farulli, per chiedergli di fare da tramite per realizzare a Firenze un’esposizione di Picasso. Fu chiaro che Guttuso avrebbe voluto essere lui richiesto per un’iniziativa del genere, battezzò Farulli come il Guttuso fiorentino e tutto finì in quel momento. Chissà perché mi torna in mente quell’episodio, poi lo capisco: nel Pci veniva al dunque lo scontro culturale fra il sostegno a linguaggi dell’arte che erano appartenuti a un’epoca passata e tutto ciò che era avvenuto anche in Italia dal dopoguerra in poi e che la mostra di palazzo Strozzi rende evidente. Le nuove generazioni identificavano Guttuso nel realismo d’antan della Battaglia di Ponte di Ponte Ammiraglio.

A Firenze per ricostruire quella storia bastava incontrare Vinicio Berti e fargli raccontare, con toni inconsolabili, la stroncatura di Togliatti dell‘Astrattismo classico.

Faticosamente lo spazio per le tendenze che ormai erano dominanti all’esterno del Pci, si sarebbe imposto anche nell’iniziativa pubblica che dopo il’75 avrebbe visto i comunisti protagonisti nelle maggiori città italiane. Giulio Carlo Argan sindaco di Roma, nel’76, ne fu il riconoscimento più evidente.
Riprendo il cammino da Turcato, Burri, Fontana, Vedova fino al trionfo del rosso di Mario Schifano e di Franco Angeli. Un po’ mi commuovo di fronte a Fausto Melotti: avevamo pensato a una sua mostra al Forte di Belvedere che poi fu fatta e fu bellissima, come ovvio. La fecero terminare prima del tempo e lui ci rimase male, ma non protestò. Quando morì riuscimmo a ottenere una deroga per la sua sepoltura nel cimitero di San Felice a Ema: voleva stare accanto al suo grande amico Montale.

Ancora ricordi: fra questi, Burri e la mostra in Orsanmichele, l’amicizia con Franco Angeli nell’ultima parte della sua vita, quando lavorava a Firenze per una importante
Galleria e per le scene di un balletto al Teatro Comunale. Certo: potrebbero essercene altri di artisti di quei due decenni e fra loro anche fiorentini, ma l’insieme è di sicuro significativo. Però: significativo di che, a parte il valore artistico? Viene reso chiaro, per il fatto che la maggioranza degli artisti presenti nella mostra era vicina o addirittura militante nel Pci, quanto lunga e faticosa fu la battaglia per cambiare il punto di vista conservatore che caratterizzava la classe dirigente di quel partito. Ma ciò concerneva la ricerca di nuovi linguaggi dell’arte nel rapporto con la realtà, o che altro?
Questi artisti, al di là di quanto detto sopra, lavoravano incontro alla Nascita di una Nazione, come recita il titolo della mostra? Si può identificare nel rosso delle bandiere o delle falci e martelli di Franco Angeli o nello sfondo di Compagni compagni di Mario Schifano l’idea di nazione? La relazione con il Pci o la sinistra italiana costituiva la sponda giusta per un discorso del genere?

L’incipit delle lezioni milanesi del `43/44 di Federico Chabod ci può guidare nell’affrontare una tale questione. «Dire senso di nazionalità, significa dire senso di individualità storica».
L’individualità di una nazione, la sua unicità, al di là delle divisioni di classe, di ceto e di condizione sociale, la distanza da appartenenze diverse in nome dell’internazionalismo. L’Italia si è data uno stato nazionale nel 1861, ma le divisioni territoriali e sociali hanno costantemente messo in dubbio (guardare la situazione attuale, per capire) l’esistenza di caratteristiche nazionali unificanti.


Non era il Pci e la sinistra il contenitore giusto per una tale ambizione e del resto nessuno che militasse in tale contesto, negli anni a cui si riferisce la mostra, aveva al centro dei propri pensieri il problema della nazione, casomai della rivoluzione, come anche si può supporre da molte opere che sto vedendo.

La nazione è per definizione «una» e di nessun colore e il clima politico nella sinistra a cui guardavano gli artisti di cui abbiamo parlato era fra i più divisivi, per cui fare una nazione di bandiere rosse era allora e lo resta oggi non poco contraddittorio.
Pensieri di un giovane di allora: resta il fatto che quei pittori e scultori che tanto dispiacevano a Togliatti, col passare del tempo, sono diventati protagonisti della scena artistica internazionale
.

Archiviato in:Tribuna

Il silenzio degli intellettuali sulle sorti del Paese

07/03/2018 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Ernesto Galli della Loggia  Corriere della Sera 3 marzo

 

Ci fu un tempo, in Italia, in cui alla vigilia di ogni appuntamento elettorale fioccavano gli appelli, le prese di posizione sottoscritte da sfilze di scrittori, professori universitari di ogni disciplina, giornalisti, uomini e donne del cinema e della televisione, che invitavano a votare per questo o per quello (quasi sempre, in verità, per i partiti di sinistra). Oggi invece regna il più completo silenzio. Sembra che più nessuno se la senta di spendere il proprio nome a favore di un qualunque partito. Certo, in teoria della cosa ci si potrebbe pure rallegrare. C’era sicuramente moltissimo di retorico, infatti, di superficiale, di ingenuo se non di opportunistico, in quegli appelli. Mossi assai spesso da semplice conformismo ambientale. A loro modo però essi erano anche qualcos’altro: erano l’esito estremo di una lunga tradizione di impegno nazionale degli intellettuali e dei ceti colti italiani. Di un coinvolgimento autentico nelle vicende del proprio Paese, nelle sue speranze, nei suoi sforzi per crescere e diventare moderno, nelle sue lotte civili. Anche nelle sue illusioni, naturalmente, non escluse quelle più funeste.

È stata una tradizione d’impegno nazionale iniziata ai primi dell’800 — allorché sulla Penisola si alzarono altissimi i due «gridi» dei foscoliani «Sepolcri» (1807) e della canzone «All’Italia» (1818) di Giacomo Leopardi — e che con il Risorgimento diventò anche pienamente politica.

Una tradizione rimasta vivissima fino alla Prima Repubblica dopo aver attraversato tutto il nostro Novecento, e dunque dopo aver segnato in misura decisiva l’intero itinerario ideologico del Paese. Molti lo ignorano, ma nel bene come nel male poeti, romanzieri, scienziati, registi, letterati, giornalisti, hanno fatto l’Italia come pochi altri.

Oggi soprattutto, ma già da qualche tempo, non è più così. Gli intellettuali italiani, la cultura in genere, non sembrano più riuscire a interessarsi dell’Italia, delle sue sorti come del suo futuro. E forse neppure desiderare di farlo. Difficile dire se per sfiducia, per stanchezza, per mancanza di idee forti, o perché dall’altra parte la politica di queste idee non ha più bisogno, perché non ha né la voglia né la capacità di ascoltare qualunque discorso si discosti appena dalla sua grigia routine e dai suoi piccoli grandi affari quotidiani.

Sta di fatto che è difficile sottrarsi all’impressione che anche il venir meno di un carattere così tipico della nostra vicenda nazionale come l’impegno politico degli intellettuali, anche ciò, insieme a tanti altri sintomi, testimoni che qualcosa si è rotto nella fibra del Paese e nella sua identità storica. Che oggi l’Italia si trovi di fronte ad una crisi la quale, più che legata a fattori economici, sia una crisi dovuta all’incertezza circa il senso profondo del suo ruolo e del suo futuro, una crisi di volontà di vita (la caduta delle nascite!) così come della capacità di legare lo ieri con l’oggi e con il domani in una prospettiva dotata di significato e di valore.

Una crisi insomma, che richiedendo come non mai il coraggio dell’azione della politica da un lato e dall’altro l’intelligenza della cultura, proprio per questo rivela l’assenza drammatica dell’una e dell’altra. Il sintomo di crisi che è rappresentato da questo allontanamento/lontananza degli intellettuali rispetto alla politica, dalla loro tacita dimissione da un ruolo in senso lato nazionale, tale sintomo è ancor più accentuato nel suo aspetto negativo da un fenomeno concomitante e solo all’apparenza diversissimo. Mi riferisco all’ormai massiccia emigrazione di giovani italiani verso università, centri di ricerca, istituzioni industriali e finanziarie, organizzazioni internazionali, fuori dai nostri confini. A proposito della quale mi sembra giusto chiedersi: non è forse questa emigrazione una nuova manifestazione — naturalmente adattata ai tempi — di quella «funzione cosmopolita» dei colti italiani di cui a suo tempo ci ha parlato Gramsci? Nella nostra storia, egli ci ha ricordato, ben prima della grande emigrazione delle masse povere tra ‘800 e ‘900 , nei lunghi secoli dal ‘400 al ‘700 c’è stata quella di ammiragli e condottieri, uomini di corte, letterati, artisti, geografi: «un’emigrazione di elementi italiani rappresentanti la tecnica e la capacità direttiva, elementi che hanno arricchito gli Stati europei col loro contributo». C’è stata insomma «una concentrazione culturale cosmopolita» propagatasi dalla Penisola verso gli altri Paesi, la quale ha forse voluto dire, sì, una diffusione del «genio» italiano nel mondo, ma al tempo stesso è stata pure l’altra faccia se non la causa — è sempre Gramsci che scrive — di «una debolezza statale e nazionale».

Oggi — tutto lo lascia credere — quella «debolezza statale e nazionale» si riaffaccia prepotentemente nella nostra storia, e ancora una volta ne rappresenta una cartina al tornasole il ruolo e la sorte dei colti. Sia degli intellettuali per così dire tradizionali — quelli che vivono un forte legame con il passato e si occupano espressamente delle produzioni culturali, delle idee e dei valori, della società, e quindi necessariamente anche della politica — sia dei colti versati nei tanti saperi specialistici dai molti esiti pratici. Entrambi i quali appaiono accomunati da una crisi che per i primi consiste nella sopravvenuta superfluità della loro antica funzione politico-pubblica di orientamento e riflessione nei confronti dei propri concittadini, per i secondi nell’impossibilità di adoperare le loro conoscenze a favore della propria collettività d’appartenenza. In ogni caso con un effetto di sradicamento, virtuale o pratico non importa, da un’Italia che anche per loro non sembra più capace di avere alcun posto.

Archiviato in:Tribuna Contrassegnato con: mondo

  • « Vai alla pagina precedente
  • Vai alla pagina 1
  • Pagine interim omesse …
  • Vai alla pagina 3
  • Vai alla pagina 4
  • Vai alla pagina 5
  • Vai alla pagina 6
  • Vai alla pagina 7
  • Pagine interim omesse …
  • Vai alla pagina 19
  • Vai alla pagina successiva »

Barra laterale primaria

il Comitato Fiorentino per il Risorgimento
è associato al Coordinamento nazionale Associazioni Risorgimentali FERRUCCIO

L’editoriale del direttore

1° MAGGIO. La Festa del Lavoro

Prossimi appuntamenti

La commemorazione di Curtatone e Montanara al Cenacolo di Santa Croce a Firenze

21/05/2022

27 APRILE. Festa dell’Indipendenza della Toscana

20/04/2022

BUONA PASQUA

14/04/2022

Lettere al Direttore

L’INTERNAZIONALISMO DELLA RESA

04/05/2022

Focus

UN VERO ALPINO DIFENDE LE RAGAZZE, NON LE MOLESTA

14/05/2022

Tribuna

La guerra in Ucraina ha rimesso la Storia al centro della cultura europea

30/03/2022

Luoghi

Giardino delle Rose

22/04/2022

Mostre

Giuseppe Bezzuoli. Un grande protagonista della pittura romantica

16/05/2022

Rassegna stampa

Imprese e passioni del giovane Cavour prima della politica

09/05/2022

Pubblicazioni

Adriano Olivetti, un italiano del Novecento

23/05/2022

RisorgimentoFirenze.it nella tua mail

E' possibile ricevere un messaggio e-mail ad ogni nuova pubblicazione sul nostro sito.
Basta inserire il proprio indirizzo di posta elettronica nella casella sottostante. Il servizio è gratuito e può essere interrotto in ogni momento.

Unisciti a 79 altri iscritti

Footer

Archivio articoli

Archivio rubriche

Area amministrativa

  • Accedi
  • Feed dei contenuti
  • Feed dei commenti
  • WordPress.org

Blogroll

  • Arte del Poggio
  • Comitato livornese per la promozione dei valori risorgimentali
  • PensaLibero.it, quotidiano on line dei laici e dei liberali della Toscana.
  • Risorgimento Toscana
  • Sito ufficiale delle celebrazioni per il 150° anniversario

Direttore Sergio Casprini | Responsabile della Comunicazione Irene Foraboschi | Webmaster Claudio Tirinnanzi