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Risorgimento Firenze

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Tribuna

La battaglia del Piave, quel miracolo dopo la disfatta di Caporetto

17/11/2017 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Aldo Cazzullo Corriere della Sera 11 novembre

 

Non è vero che siamo stati salvati dai francesi e dagli inglesi. Furono i reduci del Carso i primi a resistere sul Piave. E furono i ragazzi del ’99, gettati nella mischia appena scesi dai treni, a tamponare la falla che si era aperta qui, al Molino della Sega, dove gli austriaci avevano passato il fiume e vennero fermati con un assalto risorgimentale all’arma bianca. La prima vittoria dopo Caporetto. La battaglia d’arresto che salvò l’Italia. Oggi però sul Piave non sventola il tricolore, ma il leone di San Marco.

Le bandiere della Serenissima sono ovunque: sui balconi delle case, fuori dai bar, sui capannoni svuotati dalla crisi, nei vigneti di prosecco. Il leone è un simbolo secolare dell’identità italiana ed europea, ma qui simboleggia l’autonomia del Veneto rivendicata dal referendum, talora l’aspirazione all’indipendenza. Quando i ragazzi del ’99 la attraversarono per andare al fronte era tra le regioni più povere d’Italia, oggi è la più ricca; e i separatisti sono sempre i ricchi, i poveri restano attaccati alla mammella dello Stato, che i loro antenati difesero un secolo fa. Veneti e calabresi, lombardi e sardi non si capivano, parlavano dialetti troppo diversi, ma erano uniti dalla miseria e dalla dignità contadine. Ora molte cose sono cambiate, anche il clima: sul Piave un vivaio ha messo a dimore ulivi e palme. 

Miracolo sul fiume. Cent’anni fa, in questi stessi giorni, gli abitanti della zona videro arrivare 250 mila profughi friulani: stanchi, avviliti, terrorizzati. La loro terra era in fiamme. Gli italiani in ritirata avevano bruciato tutto, per non lasciare nulla agli invasori. Gli austriaci completarono la devastazione. Il prezzo della guerra fu pagato, come sempre, dalle donne. Anche da Fagaré, Breda, Nervesa ci si prepara a fuggire. Ma poi si vedono arrivare le avanguardie dell’«invitta» Terza Armata. Hanno ripiegato per oltre cento chilometri, incalzate dal nemico, senza disperdersi, e ora sono pronte a combattere. 

Dal 9 novembre c’è un nuovo capo di Stato maggiore. Gli alleati hanno avuto la testa di Cadorna, di cui non si fidano più. Il successore è un napoletano: Armando Diaz. L’ordine è tenere il Piave, dal Grappa al mare, ma si teme di dover arretrare ancora. Il governo è nel panico: l’Italia si è liberata dal dominio austriaco solo da due generazioni, e ora il nemico secolare è alle porte di Venezia, vede la pianura padana, pregusta Milano e la resa di un vassallo umiliato. Gli austriaci passano il Piave nella notte tra l’11 e il 12 novembre. Piove da giorni, il fiume è in piena, ma riescono a gettare un ponte di barche, prendono Zenson. La prima brigata a entrare in linea è la Pinerolo, che si scontra corpo a corpo con le avanguardie nemiche, le ferma con i lanciafiamme e le baionette, mentre la 47° batteria di artiglieria da montagna batte la riva, massacrando amici e nemici.
Piangere e cantareIl 16 novembre alle 5 del mattino è ancora buio, ma Fagaré è illuminata a giorno dalle granate, che sollevano nubi di ghiaia. Il 92° reggimento boemo sbuca dalla nebbia e investe il reggimento Novara, la difesa vacilla, scendono in campo i bersaglieri del 18°. Il capitano Francesco Rolando è ferito da una mitragliatrice, si fa medicare, torna alla testa dei suoi uomini, è colpito ancora, avrà la medaglia d’oro. È allora che il maggiore Guido Caporali, comandante dei due battaglioni delle reclute, riceve l’ordine di portarsi in prima linea.
Alcuni soldati non hanno ancora compiuto diciotto anni. Sono arrivati in treno il giorno prima, terrorizzati dall’eco sorda del cannone e dall’odore di morte. Eppure non sbandano. Annoterà Diaz o il suo ufficio stampa, con una punta di retorica: «Li ho visti i Ragazzi del ’99. Andavano in prima linea cantando. Li ho visti tornare in esigua schiera. Cantavano ancora». Nelle osterie della zona raccontano che fino a vent’anni fa i reduci venivano qui a ritrovarsi. Alla fine del pranzo univano i tavoli, disponevano le panche a quadrato, si prendevano sottobraccio e intonavano i canti di guerra: Tapum, il testamento del capitano, e ovviamente la canzone del Piave. Cantavano e piangevano. Ai nipoti incuriositi dal rito rispondevano che parlare della guerra era inutile. Chi sa, non ama ricordare. Chi non sa, non può capire. «Facciamo le sole cose che potevamo fare in trincea: cantare e piangere».

Ci sono ancora le trincee, a Fagaré, allagate dalla pioggia di questi giorni. Il Piave più che mormorare impreca, scorrendo impetuoso. Un cartello segnala il divieto di balneazione: qualche residente si è lamentato perché d’estate vengono i romeni a nuotare. Fagaré è frazione di San Biagio di Callalta, il paese di Giorgio Panto: re degli infissi da giardino, sponsor di Colpo grosso, fondatore di un partito venetista che nel 2006 sottrasse a Berlusconi 92 mila fatali voti, morto in elicottero sulla laguna di Venezia su un’isola di sua proprietà. Nel sacrario ci sono 5.191 soldati conosciuti e 5.350 ignoti. Charbonnier è sepolto accanto a Cicilli, Crapiz vicino a Coppola. Non c’è il tricolore, neanche qui. Il 4 novembre sono arrivati 81 visitatori, ma già il 6 non è venuto nessuno. È custodito il frammento di muro su cui la propaganda scrisse: «Tutti eroi! Il Piave o tutti accoppati!». Il Comune vicino, Breda, organizza il 17 novembre una ricostruzione della battaglia, titolo «Voliamo la pace!», come da iscrizione ritrovata in trincea. Ma i fanti avevano ben chiaro che prima di fare la pace bisognava resistere.

Tre alpini ignoti sul Grappa. Sul Grappa cominciò a nevicare tra l’11 e il 12 novembre. Gli austriaci attaccano la notte successiva. Ci sono anche i tedeschi. È la battaglia cruciale. Il Grappa è un castello alto 1.650 metri a picco sulla pianura veneta: se cade, non ci sono ostacoli sino a Bologna o a Torino. I nostri cedono il Monte Santo, il Roncone, il Cismon. Gli alpini di Feltre salgono sul Tomatico riforniti di castagne e rosari dalle mogli: difendono le loro case; invano, la cima è presa, il paese invaso. Eppure il comandante nemico Von Bulow annota che il soldato italiano pare irriconoscibile: ora applica in modo spontaneo la difesa elastica; indietreggia per contrattaccare. Il Comando Supremo è spettatore: sul Grappa non arriva una sola direttiva. I sottufficiali si prendono l’autonomia prima negata. Il maggiore Scarampi senza attendere ordini sposta l’artiglieria e bersaglia i nemici arroccati al Colle dell’Orso; quando i superiori gli chiedono conto delle munizioni sparate risponde: «Pago io». Sull’Isonzo l’avrebbero fucilato; qui i suoi soldati lo acclamano. Tiene la IV Armata e tengono anche i reparti della II – le brigate Gaeta, Re, Massa Carrara, Messina, Trapani – «vilmente arresisi» a Caporetto secondo il primo bollettino ufficiale. Pure il mitico Rommel si scorna: sbaglia strada e finisce in una valle cieca (e qui pare di vedere Sordi e Gassman: «Tié!»). A metà dicembre la grande battaglia d’arresto è vinta.
Anche quest’anno sul Grappa è già nevicato. Altre bandiere con il Leone a Bassano, a Romano d’Ezzelino, lungo la strada Cadorna. Su un solo balcone sventolano due vessilli: quello veneto e quello bianconero della Juve. Un papà orgoglioso ha esposto un lenzuolo con la scritta: «Enrica vincitrice coppa italiana di Show Dance!». Dall’alto luccicano tre nastri: il Piave, il Brenta e il cantiere della Pedemontana, che langue per mancanza di soldi; la Regione sostiene che deve metterli il governo, il governo la Regione. Una scolaresca di Lodi combatte un’aspra battaglia a palle di neve. Un cartello chiede di aprire la caccia ai lupi che sbranano gli armenti e spaventano i muli. Al rifugio Val Tosella si cucina con più amore che in qualche ristorante stellato. Nell’ossario austriaco riposano fianco a fianco il tedesco Krauser e lo slavo Kratic, l’ungherese Kubatnyz e il polacco Koudelka. Le guide indicano ai bambini la lapide che ricorda un soldato di nome Peter Pan; ma i piccoli sono più colpiti dal telefono con la rotella del rifugio Bassano (qui il cellulare non prende). Altri tedeschi arrivarono nel 1944: animati dal ricordo della Resistenza dei padri, i partigiani avevano tentato di asserragliarsi quassù; furono fucilati o impiccati agli alberi di Bassano.
Ogni tanto il Grappa restituisce un frammento della Grande Guerra: una baionetta, una giberna, un osso. Quest’anno sono stati ritrovati quattro corpi e un servizio di porcellane: era la mensa degli ufficiali austriaci, presi di sorpresa dagli arditi. Ci sono recuperanti specializzati col metal-detector, qualcuno per lucro, molti per il gusto della memoria. Altre lapidi sono state messe dalle famiglie: «Qui riposano tre alpini. Due dovrebbero essere i nostri nonni Angelo Vassalli e Romeo Gianuzzi. Se sono loro, questa scritta li ricorda. Se non sono loro, rende comunque omaggio agli alpini italiani».
La vera «Razza Piave»Per il centenario di Caporetto sono usciti libri a decine, alcuni molto belli. Sul Piave e sul Grappa neanche uno. La sconfitta ci ispira. Ci raccontiamo di aver perso anche le poche guerre che abbiamo vinto. Oppure ci rifugiamo nella retorica, come il mito della «Razza Piave» rilanciato dall’ex sindaco di Treviso Gentilini. Ma sul Piave morirono veneti e lucani, napoletani e genovesi. La brigata Aosta sul Grappa era composta da siciliani: i valdostani erano quasi tutti morti.

«Fu un meraviglioso fenomeno in una situazione straordinariamente incerta» riconobbe il generale Giardino, uno dei vice di Diaz (l’altro era Badoglio). «Il vero mistero di Caporetto è il riscatto che seguì appena venti giorni dopo» scrive Mario Silvestri. Nessuno dei motivi indicati dalla storia ufficiale spiega alcunché. Non il miglioramento del vitto, mai tanto scarso come in quei giorni. Non i turni di riposo, che non furono concessi. Non il nuovo governo: i fanti non sapevano neppure che quello vecchio era caduto. Non le truppe alleate, che entrano in linea ai primi di dicembre, dopo aver visto che gli italiani tengono. Non l’assicurazione gratuita, che è del gennaio 1918. Non il nuovo servizio propaganda, istituito il primo febbraio. Non i sussidi alle famiglie (4 maggio 1918). Non il morale della nazione, che era a terra; furono i soldati a risollevare i civili.
Non si combatteva più in terra straniera, per conquistare montagne dal nome slavo, il Matajur e il Kuk, per avanzare in campagne dove non si sentiva una parola in italiano, per prendere città italianissime – Trento e Trieste – in cui però nessuno era mai stato.

Si combatteva la guerra di casa, per difendere una patria giovane, per impedire che anche alle altre donne venisse fatto quello che stavano subendo le friulane e le venete al di là del Piave e del Grappa. Una guerra che ai nostri nonni, fanti contadini abituati a badare alla terra e alla famiglia, risultava quasi naturale. Se non giusta, inevitabile. Fu la vera nascita della nazione. E se fosse vivo ancora uno, uno solo, dei ragazzi del ’99, il suo racconto sarebbe utilissimo ai nostri figli e nipoti, cresciuti nel lamento – «ci stanno rubando il futuro!» – e nella rassegnazione, ormai quasi convinti che essere italiani sia una sfortuna; mentre essere italiani è una grande e a volte terribile responsabilità.

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Un mito capace di reggere alle smentite della storia. Il bolscevismo affascinò masse e intellettuali agitando l’illusione della società senza classi

23/10/2017 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Giovanni Belardelli  Corriere della Sera 12 Ottobre

Nel marzo 1919 Alphonse Aulard, professore di storia della rivoluzione francese alla Sorbona, formulava un paragone tra il 1789 e il 1917 destinato a una straordinaria fortuna: «Anche la rivoluzione francese è stata compiuta da una minoranza dittatoriale», anch’essa ha dovuto combattere contro i suoi nemici e utilizzare delle procedure che alimentarono l’accusa ai francesi d’essere «dei banditi». Dunque, concludeva, «quando mi dicono che c’è una minoranza che terrorizza la Russia, capisco solo una cosa, che in Russia c’è la rivoluzione».

Ecco, formulata da uno studioso che pure si dichiarava politicamente lontano dai bolscevichi, una delle ragioni, forse la principale, che avrebbero determinato l’enorme fascinazione della Rivoluzione d’Ottobre in tutto l’Occidente, ben oltre i confini di chi militava a sinistra. Secondo questa visione, con la presa del potere da parte di Lenin la rivoluzione, che era iniziata nel 1789 ma presto si era interrotta per l’egoismo della borghesia vincitrice, finalmente riprendeva il suo cammino. E lo riprendeva agitando quella promessa di eguaglianza sociale che i rivoluzionari francesi, si sosteneva, avevano presto dimenticato.

Che si trattasse solo di un’illusione, che in Unione Sovietica nessuna eguaglianza sociale si stesse davvero realizzando (se non nella forma di una generale penuria, da cui erano esclusi però i vertici del regime), questo non ha avuto mai molta importanza per chi ha creduto nel mito dell’Ottobre rosso. Neanche le notizie sulle violenze compiute dai bolscevichi contro i loro oppositori o sulla vera e propria guerra combattuta da Stalin per cancellare i contadini come classe, assassinandoli o deportandoli nel Gulag, furono in grado di distruggere completamente quell’immagine iniziale, di una rivoluzione che issava lo stendardo dell’eguaglianza tra gli uomini.

Ancora nel 1996 a Norberto Bobbio accadde di scrivere che in Urss «il più grandioso tentativo di realizzare in terra la millenaria utopia di una società di eguali si era rovesciato in una spietata forma di dispotismo». Una frase in cui la netta condanna degli esiti politici dell’Ottobre rosso non nascondeva qualche ammirazione per i suoi presupposti ideologici.

Del resto, vari anni prima, Alcide De Gasperi aveva mostrato di ammirare il messaggio universalistico del comunismo sovietico, il cui «formidabile tentativo di accorciare le distanze fra le classi sociali» a suo giudizio era eminentemente cristiano. Perfino lui, dunque, che nell’Italia del dopoguerra si stava opponendo con successo alla sinistra comunista, finiva col seguire quel doppio standard con cui tanta parte delle élites intellettuali e politiche europee hanno valutato per molto tempo le dittature del Novecento: mentre regimi come quello fascista e nazista sono stati condannati anzitutto sulla base dei risultati, cioè delle azioni effettivamente compiute, il regime nato dalla rivoluzione del 1917 è stato giudicato con qualche indulgenza sulla base delle sue premesse (e promesse) ideologiche.

Alla fine degli anni Venti ad alimentare ancor più il mito dell’Urss era intervenuto il primo piano quinquennale varato da Stalin: il processo di collettivizzazione delle campagne e l’industrializzazione forzata che vi si accompagnava parvero a molti non solo un modo per modernizzare un Paese arretrato, ma anche un’alternativa all’irrazionalità dell’economia capitalistica, squassata dalla Grande Crisi innescata dal crollo di Wall Street dell’ottobre 1929. «Il comunismo presentato come un mezzo per migliorare la situazione economica è un insulto alla nostra intelligenza», scrisse un economista di sinistra come John Maynard Keynes nel 1934. Ma molti intellettuali occidentali non la pensavano affatto come lui.

Di fronte ai grandi processi di Mosca cominciarono però ad aumentare i dubbi sul regime nato dalla rivoluzione d’Ottobre. Nel 1937 lo scrittore francese André Gide, che pure in precedenza aveva manifestato le sue simpatie per l’Urss di Stalin, scrisse di ritenere che «in nessun Paese, fosse pure nella Germania di Hitler, lo spirito è meno libero, altrettanto asservito, intimidito (leggi: terrorizzato), schiavo». In quello stesso anno la filosofa Simone Weil definiva i due regimi «quasi identici». Un paragone che nell’agosto 1939 il patto di non aggressione tra Urss e Germania venne a confermare, lasciando nello sconcerto i militanti comunisti, ma anche i tanti che in Occidente ancora simpatizzavano per il regime sovietico.

Sembrò la fine della grande illusione che si era impadronita per anni di milioni di europei. Ci pensò Adolf Hitler, involontariamente, a dare nuova linfa al mito del comunismo. L’attacco all’Unione Sovietica nel giugno 1941 e il ruolo decisivo avuto da questo Paese nella guerra contro la Germania fecero presto dimenticare il patto di due anni prima. L’ex alleato di Hitler, Stalin, diventava uno dei grandi liberatori d’Europa.

Così la grande illusione che si era affermata nel 1917 riacquistava credito e riprendeva slancio. Per molti sarebbe terminata nel 1956, con la rivelazione da parte di Nikita Krusciov dei crimini di Stalin e con l’immagine dei carri armati russi aggressori a Budapest

Per altri avrebbe avuto fine con l’invasione della Cecoslovacchia nell’estate del 1968. Per altri ancora sarebbe durata più a lungo (nel 1977 un sondaggio indicava che la metà dei militanti del Pci riteneva i diritti individuali meglio garantiti in Urss che in Italia), terminando solo nel fatidico 1989 con la caduta del Muro di Berlino.

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Il revival neoborbonico: la parola agli storici

16/10/2017 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Fulvio Cammarano   Mente Politica 7 ottobre *

 

La questione del ritorno di nostalgie neoborboniche in alcune regioni del sud quest’estate, in Puglia ha preso le sembianze di una proposta di legge regionale per una giornata della memoria delle vittime meridionali dell’unificazione italiana.

Si tratta di un progetto che va ben aldilà dei consueti e periodici revival destinati a riempire l’ozio estivo e poi a spegnersi con la chiusura degli ombrelloni. La stessa contingenza storica internazionale in cui ci troviamo, caratterizzata da tensioni nazionali centrifughe, ci costringe a guardare con molta attenzione ai numerosi risvolti di questo “ritorno ai Borbone”. Il versante storico, da cui  ha preso le mosse, è in fondo l’aspetto più semplice. Poiché per sostenere una causa risulta utile inventarsi dei nemici, i laudatores del Regno delle Due Sicilie hanno vita facile, in un Paese ormai assuefatto all’idea del dibattito pubblico come gara o duello, a presentare il vasto problema di quella che un tempo si chiamava questione meridionale, come il risultato dell’azione vessatoria dei Savoia. La violenta occupazione piemontese avrebbe cioè distrutto un sistema economico e sociale funzionante e competitivo a livello internazionale e sottomesso definitivamente il Meridione agli interessi del  “Nord”. E’ evidente che utilizzare un borbonismo mitologico come chiave di lettura introduttiva agli squilibri nel rapporto tra settentrione e meridione risulta una forzatura che non serve alla comprensione dei fatti. Nuove generazioni di studiosi da anni stanno lavorando al tema della situazione del Regno delle Due Sicilie, dell’unificazione italiana e dell’annessione delle regioni meridionali, seguendo ipotesi di ricerca e percorsi interpretativi lontani anni luce dall’impostazione “colpevoli e innocenti” nella nascita del Regno d’Italia. Se non si contestualizza ciò che è avvenuto nella nostra penisola nella prima metà del XIX secolo all’interno della più vasta ed epocale trasformazione introdotta a livello planetario dalle grandi rivoluzioni di fine ‘700, si rischia di leggere molte di quelle tragiche e sanguinose vicende come un evento più vicino al gioco del risiko che a quello dei movimenti reali che caratterizzarono davvero quei decenni. Le ovvie e indiscusse brame degli ambiziosi Savoia debbono però essere declinate, in quel contesto geopolitico e ideale, all’interno di una logica propulsiva che introduceva un nuovo modo d’intendere la modernità e la partecipazione alla vita pubblica. Una logica che i Savoia, o meglio la mediazione tra la Casa regnante e la loro classe politica, hanno saputo cavalcare, anche in virtù di una Costituzione – la stessa stracciata dai Borbone pochi anni prima – che stava lentamente trasformando un Regno in una nazione. Quindi chi affronta la storia di quegli anni non può non collocare quelle dinamiche, violente e sanguinose, all’interno delle profonde correnti culturali del costituzionalismo che solcavano l’intera Europa cercando di dare forma politica all’irrefrenabile bisogno di rifondare il modo d’intendere la vita pubblica. Dentro questa nuova, indomabile, cultura si accalcavano in ordine sparso aspirazioni ideali e materiali di élite emergenti, l’impeto delle nuove generazioni, la crisi delle dinastie obbligate a scegliere tra l’opportunismo della contaminazione con il “popolo” e la resistenza al cambiamento. Una logica costituzionale, questa, che trasformando le relazioni tra i poteri e introducendo i cittadini nel sistema, finisce non solo per rendere audaci piccole e poco gloriose dinastie, come i Savoia, o per mettere a nudo debolezze e fragilità di altre, a partire dai Borbone, ma comporterà anche l’inizio di una nuova forma di legittimazione internazionale. Nefandezze ed eroismi, fuori da questo contesto, diventano solo occasione di polemica finalizzata ad altro. Mettere l’accento unicamente sulle violenze e gli inganni che stanno alla base della nascita o del consolidamento di quasi tutte le nazioni moderne, serve solo ad alimentare quei processi di semplificazione – perfetti incubatori della massa di fake news che assedia la “rete” – a cui gli storici, per forma mentis, a prescindere dalle diverse collocazioni politico-culturali, dovrebbero sempre sottrarsi. Un rifiuto che tuttavia non significa rinunciare al confronto pubblico. Informazioni e dati storici erronei o senza contesto richiedono pronte contro-argomentazioni per impedire la loro tramutazione in luoghi comuni che spesso influenzano più o meno inconsapevolmente la decisione politica. Fondamentale sarebbe quindi un più dinamico rapporto di confronto e scambio della storiografia con il giornalismo culturale, e più in generale con i media vecchi e nuovi. Allo stesso modo, la rappresentanza politica, a qualunque livello esercitata, ha il diritto di scegliere in piena libertà, ma andrebbe sostenuta nell’indispensabile processo di acquisizione informativa che, fino a prova contraria, dovrebbe sempre precedere quello deliberativo. In questo senso, dunque, sarebbe opportuno che il legislatore, ogniqualvolta prende una decisione che coinvolge direttamente le vicende del nostro passato, sia agevolato nell’accesso ad una pluralità di dati e interpretazioni che le società storiche e i centri studi sono sicuramente pronti a mettere a disposizione. La ricostruzione storica è una delle operazioni più delicate e complesse che si possano immaginare perché ci mette a contatto con ingredienti instabili, gli esseri umani, che operano in ambienti mutevoli ed è per questo che nel laboratorio dello storico, come in quello del chimico, dovrebbe sempre campeggiare la scritta “maneggiare con cura”.

*Fulvio Cammarano  Professore ordinario di Storia Contemporanea all’Università di Bologna

Mente Politica, un giornale on line  che esce il mercoledì ed  il sabato.

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Breve cronaca di un ordinario XX Settembre

25/09/2017 da Alberto Lopez

Alberto Lopez  Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Come di consueto il venti settembre a Firenze si è celebrata la ricorrenza della Breccia di Porta Pia (1870) che sancisce la fine del potere temporale della Chiesa e il ricongiungimento di Roma all’Italia, grazie alla costanza di alcune associazioni – tra queste il Circolo Piero Gobetti e la Fondazione Ernesto Rossi e Gaetano Salvemini che per prime hanno ripreso la tradizione interrotta nel Dopoguerra – con la partecipazione istituzionale garantita quest’anno dal consigliere comunale Andrea Ceccarelli.

Meno consueto, invece, è stato il luogo: essendo l’Obelisco ai Caduti di piazza Unità d’Italia inaccessibile, a causa dei lavori in corso per la tranvia, la commemorazione è avvenuta in piazza Santa Maria Novella, davanti alla lapide posta all’ingresso di Palazzo Pitti Lorenzi che ricorda il discorso che Giuseppe Garibaldi fece  (quasi) esattamente centocinquanta anni fa – 22 ottobre 1867 -dove fu pronunciata la storica frase ‘O Roma o morte’ in occasione dei preparativi della spedizione che si concluse negativamente a Mentana.

Infatti, allora, come è stato ricordato nell’appassionato e appassionante intervento che Sergio Casprini ha fatto a nome del Comitato Fiorentino per il Risorgimento, mancavano le condizioni perché l’azione militare per liberare Roma potesse avere buon esito, sussistendo ancora la protezione militare che la Francia garantiva allo Stato Pontificio.

E senza l’assenso francese la situazione politica italiana non poteva mutare. Di questo Cavour ne era stato sempre consapevole, non a caso era considerato il più grande statista della sua epoca ( “allo stato attuale in Europa è il solo vero uomo politico, ma disgraziatamente è contro di noi. È il conte di Cavour.” – Klemens von Metternich ) e non incidentalmente l’unificazione dell’Italia avvenne sotto la sua scaltra regia.

Ma il filo che lega l’intervento di  Sergio Casprini a quello di Andrea Ceccarelli che lo ha preceduto, sta nel riconoscere l’importanza che la celebrazione di ricorrenze di questo genere dovrebbero avere nella formazione di un senso di appartenenza e di cittadinanza – se non di amor patrio ( che nulla ha a che vedere con il nazionalismo ) – nelle nuove generazioni, minato, invece, da iniziative come quella pugliese di istituire una Giornata della memoria per i meridionali morti in occasione dell’unificazione italiana, come se si trattasse di vittime di stermini novecenteschi o la promozione di referendum in Lombardia e Veneto che aumentano le spinte centrifughe di una malintesa autonomia regionale.

La commemorazione è proseguita nel Salone della Fratellanza Militare, dove sono intervenuti Valerio Giannellini per la Fondazione Ernesto Rossi e Gaetano Salvemini e Massimo Lensi per l’Associazione per l’iniziativa radicale “Andrea Tamburi”. Di loro vorrei ricordare il richiamo all’attualità politica. In primo luogo, quello riferito alla scarsezza, se non all’assenza, di spazio che viene riservato nei media al confronto tra diverse visoni dell’etica e della società con pesanti ripercussioni sulle libertà individuali.

Si pensi, ad esempio, al testamento biologico. Perché quello dello scontro dialettico è una questione di metodo non certo marginale, secondo la migliore tradizione liberale lasciataci da Einaudi. Viene da ricordare, per inciso, che alcuni dei capolavori del pensiero occidentale sono stati scritti proprio in forma di dialogo, dove prima vengono contrapposte le tesi discordanti per poi cercare di arrivare ad una sintesi che proponga soluzioni che prima non c’erano. Oppure, che lo scienziato che più ha contribuito all’affermazione della meccanica quantistica – alla quale si devono i più importanti sviluppi tecnologici recenti – fu proprio colui che più l’ha osteggiata: Einstein (sono entrati nella storia della scienza i congressi Solvay, fondati dall’industriale belga Ernest Solvay, una serie di conferenze scientifiche dedicate ad importanti problematiche di fisica e chimica, che si tengono a Bruxelles ogni tre anni, a partire dal 1911 e dove si è consumato lo scontro intellettuale con il collega Bohr ) che con le sue sottili critiche ha dato l’impulso maggiore per una più chiara definizione e sistematizzazione degli aspetti più delicati di questa disciplina.

Poi, la questione della laicità dello Stato. Perché se è vero che oggi è garantita formalmente, c’è da chiedersi quanta ve ne sia realmente nello Stato italiano. Al di là delle possibili soluzioni, una proposta l’ha indicata Fabio Bertini, per il Coordinamento Nazionale Associazioni Risorgimentali con  l’invito all’impegno di tutti  per l’affermazione proprio di quei valori di libertà, di laicità e di tolleranza che si ricordano  sempre in occasione della ricorrenza del XX Settembre. E con riferimento ai media non si può fare a meno di ringraziare Radio Radicale, che ha effettuato  la registrazione della manifestazione, una radio che è un  modello di servizio pubblico esercitato da un privato e che dovrebbe far riflettere chi di dovere per trovare qualche rimedio al discredito in cui versa l’informazione tradizionale ed ufficiale. Vorrei, infine, ricordare l’intervento di Armando Niccolai, che ha parlato per la Fratellanza Artigiana d’Italia, con la citazione di alcuni articoli della Costituzione della Repubblica Romana del 1849 che sono ancora oggi un esempio, in parte, non eguagliato: “La sovranità è per diritto eterno nel popolo.. ( che ) è costituito in repubblica democratica”. “Il regime democratico ha per regola l’eguaglianza, la libertà, la fraternità”, che inevitabilmente ha portato a rievocare una vecchia, ma non superata, discussione, tanto cara ai laici ed ai liberali, su quali siano i principi che meriterebbero davvero di comparire all’inizio della nostra Carta  Costituzionale.

Erano presenti alla manifestazione anche il Circolo Fratelli Rosselli, l’Associazione veterani e reduci garibaldini, l’Unione degli atei e degli agnostici razionalisti e Firenze Radicale-Per gli Stati Uniti d’Europa. Il tutto più che moderato, animato  da Adalberto Scarlino, presidente del Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Questa è  la breve cronaca di un ordinario XX Settembre, celebrato a Firenze il 20 settembre del 2017, che avrebbe meritato una più ampia partecipazione della cittadinanza; è stata infatti una manifestazione  comunque significativa in quanto non è stata solo una mera rievocazione storica di un evento cruciale del Risorgimento italiano, è stata invece anche l’occasione per richiamare all’attenzione della classe politica italiana questioni attuali di laicità dello stato.

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No all’educazione civica come materia scolastica!

07/09/2017 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Adalberto Scarlino  Pensalibero.it 16 agosto

L’educazione civica è l’insegnante – ogni serio insegnante – che entra in classe: nel modo di parlare, di dialogare, di insegnare, appunto; di spiegare semplicemente, di applicare e far rispettare, le regole; a partire da se stesso, è ovvio. Attenzione, puntualità negli orari, decoro minimo nel vestire, corretto rapporto scuola-famiglia,chiarezza e decisione verso quei genitori che stanno dalla parte del figlio…a prescindere.

L’educazione civica NON è , non può essere una materia (tanto meno con i voti, come spara qualche trombone incompetente). Deve – dovrebbe – essere alimentata da insegnanti e presidi, meglio se con comportamenti concordi dei genitori. NON in una sola ora, ma permeando lo svolgimento di tutta l’attività didattica.

L’educazione civica, in particolare, può – e dovrebbe – crescere con lo studio della storia , raccontando la quale soltanto è possibile conoscere e apprezzare il difficile, graduale affermarsi dei principi di tolleranza, di convivenza, di libertà; strettamente legato, quest’ultimo, alla responsabilità che sempre dovrebbe essere presente per indicare ad ogni giovane le possibili conseguenze di ogni azione.

Educazione civica è storia: 

non condivido le tue idee, ma mi batterò perché tu possa liberamente esprimerle;…diritti inalienabili…la Vita , la Libertà e la ricerca della Felicità…; libera Chiesa in libero Stato; ..senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche,di condizioni personali e sociali; ……..

Principi e metodi per tutti: dall’insegnate di Lettere a quello di Matematica; dagli alunni ai genitori, ai presidi. Non riducibili , certo,  ad una sola, specifica materia.

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Ius soli e migranti, critiche sensate e paranoie identitarie

23/06/2017 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Gli oppositori si sono distinti per la loro sgangherata demagogia. I veri punti deboli della legge riguardano il fatto che è una concessione automatica, priva di requisiti che ne rafforzino il valore simbolico

Ernesto Galli della Loggia  Corriere della Sera 18 giugno

Pur essendo favorevole in linea generale alla nuova legge sulla nazionalità in discussione al Senato, trovo che le si possono egualmente muovere alcune ragionevoli critiche.

Principalmente due. La prima è che nella concessione automatica della cittadinanza prevista per coloro che sono nati in Italia da genitori di cui almeno uno con regolare permesso di soggiorno da cinque anni come minimo, non si prevede però alcun accertamento preliminare circa la conoscenza né della nostra lingua, né dei costumi, né delle regole, né di niente della società italiana. Si tratta appunto di una concessione automatica che tra l’altro, per il solo fatto di essere tale, viene privata di quel forte rilievo simbolico che invece sarebbe stato giusto conferirle. Bisogna sempre ricordare, infatti, che tutto quanto viene dato senza alcun corrispettivo perde per ciò stesso d’importanza. Il secondo punto su cui mi sentirei di dissentire riguarda il divieto di doppia cittadinanza, che secondo me sarebbe stato opportuno introdurre in ogni caso e che invece è assente. Mi rendo conto delle possibili obiezioni, probabilmente anche di carattere costituzionale. Ma anche in questo caso era comunque necessario, ne sono convinto, pensare a un modo per conferire alla concessione della cittadinanza un carattere di cesura simbolicamente irrevocabile, di frattura definitiva, rispetto a qualsiasi altra appartenenza.

Bisognava far capire insomma che la concessione della cittadinanza esclude in modo assoluto qualunque eventuale doppia fedeltà. Così come sarebbe stato forse utile considerare l’ipotesi di accrescere i motivi per i quali la cittadinanza, una volta acquistata, la si può anche perdere. Proprio in relazione a questi ragionevoli dubbi mi pare per nulla campata in aria la preoccupazione che l’immissione di nuovi cittadini provenienti da contesti radicalmente differenti dal nostro possa finire per alterare l’identità storico-culturale del Paese. La Repubblica, con la sua Costituzione, le sue regole le sue leggi, non è nata dal nulla, infatti, e non vive nel nulla, non discende dall’empireo giuridico-formale dei «Diritti». Per mille tramiti essa scaturisce e si alimenta ogni giorno, invece, di una storia — che è anche una complessa storia di valori — la quale, si provi qualcuno a dimostrare il contrario, si colloca nel tempo e nello spazio e ha un nome e un cognome. Si chiama Italia. Sollevare questioni del genere è semplice buon senso, non ha niente di xenofobico né di razzista. E un Paese serio che si trova davanti un problema esplosivo come quello di una immigrazione apparentemente incontrollabile ne dovrebbe discutere in modo serio.

Ma da noi questo si rivela sempre difficile. Presentando la proposta di legge di cui stiamo dicendo la Sinistra, ad esempio, ha avuto l’indubbio merito di porre il problema in modo concreto, indicando comunque una soluzione concreta, ed è del merito di questa che si dovrebbe parlare. Che bisogno c’è allora che essa ricorra al sentimentalismo un po’ dolciastro di pubblicare teneri visini di bimbi extra-comunitari dagli occhi spalancati, che — si dice per convincerci — «sono nati qui»? È un sentimentalismo, va subito aggiunto, che però ha un’attenuante. Una sola ma politicamente decisiva, dal momento che anche in politica la moneta cattiva è destinata a scacciare sempre quella buona. E cioè il fatto di rispondere al «cattivismo» programmatico e apocalittico di buona parte della Destra. Alla quale, come se non bastasse si è aggiunto ora anche il Movimento Cinque Stelle (dopo essersi astenuto alla Camera). Gli argomenti messi in campo dagli oppositori si sono distinti infatti per la loro sgangherata demagogia. Abbiamo sentito e letto di tutto tranne che qualche proposta in positivo. Dal «non si fa nulla per gli italiani» (che non si capisce che cosa c’entri, essendo che gli italiani una cittadinanza fino a prova contraria già ce l’hanno) alla denuncia per gli affari sporchi connessi al traffico e all’accoglienza degli immigrati (tutto vero, ma realmente si pensa che eliminando il «business» dell’immigrazione magari si elimina anche l’immigrazione?), all’allarme diffuso per le terribili malattie che gli immigrati importerebbero (anche qui: ma che cosa c’entra con la nazionalità?).

Su tutto aleggia poi una sorta di furibonda paranoia identitaria nonché l’idea, non saprei dire se più ingenua o più bizzarra, che senza la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana di una legge sulla concessione della nazionalità, milioni di africani se ne starebbero tranquilli a morire di fame rinunciando a intraprendere il loro disperato viaggio verso l’Europa. Invece, se una cosa è certa è l’impeto ininterrotto e di difficilissimo contenimento del fenomeno migratorio da cui siamo investiti. Si tratta di una vera e propria emergenza nazionale che richiederebbe alle forze politiche d’opposizione, ma in modo tutto particolare a quelle della Destra, il perseguimento degli interessi vitali del Paese, non la ricerca a tutti i costi di un qualche possibile guadagno elettorale.

La cultura della nazione, il patriottismo, quello vero, significa tra le altre cose anche questo: capire quando bisogna rinunciare agli interessi della propria parte in nome di un interesse generale. Oggi tale interesse si sostanzia in due obiettivi assolutamente prioritari. All’interno, evitare da un lato l’apartheid di fatto e dall’altro il comunitarismo multiculturale, assicurando nel modo più rigoroso la legalità e la sicurezza; all’esterno utilizzare tutte le risorse politiche e diplomatiche (il ricatto compreso, caro presidente Gentiloni, il ricatto compreso!) per obbligare i nostri soci europei a non lasciarci da soli nelle peste alle prese con un problema che è anche il loro problema. Chiunque dia comunque una mano per raggiungere uno di questi obiettivi, a qualunque partito appartenga, è un benemerito del nostro Paese.

 

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Il turismo? Ricchezza, non incuria

09/06/2017 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

I visitatori sono una risorsa: un acquazzone di denaro da gestire con intelligenza. Altrimenti esondano i canali e saltano i tombini

Gian Antonio Stella Corriere della Sera 3 giugno

Firenze e Venezia non ne possono più, di un certo turismo prepotente. C’è chi dirà che è facile fare gli insofferenti con la pancia piena e chissà quante altre realtà vorrebbero esser alluvionate da moltitudini di visitatori. La svolta parallela delle due città d’arte più amate dagli stranieri non è però lo sfogo di chi è già sazio. Dietro la scelta del sindaco fiorentino Dario Nardella di bagnare i marciapiedi e i sagrati «presi d’assalto da turisti poco civili che li imbrattano mangiandoci e bevendo» e del suo collega veneziano Luigi Brugnaro di arginare l’orda quotidiana di ospiti invadenti mettendosi di traverso a nuovi alberghi e bed&breakfast c’è di più. Molto di più. C’è, finalmente, la presa d’atto dell’impossibilità di accogliere tutti senza pagare un prezzo spropositato sul fronte del degrado dei nostri tesori urbanistici. Vale per le grandi metropoli d’arte come Roma e più ancora per i gioielli medievali come San Gimignano dove un fazzoletto di viuzze e torri e botteghe lungo meno di un chilometro e largo la metà è assediato da centinaia di auto e almeno cinquantasei pullman da tredici metri al giorno con punte di oltre un centinaio, costringendo il municipio a svuotare tre volte al giorno i cestini e scopare due volte al dì i vicoli e le piazze nella sfida immane di portar via tutto il pattume abbandonato dal passaggio dei barbari. Ne vale la pena? No.

Patrimonio Unesco

Certo, anche stando alla larga dallo stereotipo del «petrolio d’Italia» (frase fatta che poi spinge i creativi più scadenti a mettere una pompa da benzinaio in mano ai Bronzi di Riace), ogni cittadino italiano ha ben chiaro che il turismo nel suo momento di boom mondiale è una straordinaria opportunità per un Paese come il nostro. Che col triplo dei siti Unesco ha quasi due milioni di occupati nel turismo in meno del Regno Unito. E la metà, con l’indotto, della Germania. Sia benedetto, questo acquazzone di turisti e denaro. Ogni acquazzone, però, va gestito con intelligenza. Sennò esondano i canali e saltano i tombini.

Il boom dei posti letto

A Venezia, dove i fotografi hanno immortalato non solo navi gigantesche e restauri da far accapponare le pelle ma gringos con le bici d’acqua, distese di nottambuli in sacchi a pelo, scorpacciate nei campielli di involtini primavera, gare di tuffi acrobatici dai ponti, vecchi fricchettoni nudi nelle calli e cialtroni evacuanti a ogni angolo, sono state censite strutture ricettive di vario tipo per 47.229 posti letto. Più, immaginiamo, quelle abusive. In una città ridotta a meno di 55 mila abitanti. Era ora che arrivasse la proposta di bloccare nuovi alberghi e nuovi affittacamere come ha fatto Barcellona al grido di «Barcellona non è Venezia»! La conversione in hotel dell’ultimo asilo per bambini a San Marco o lo sfratto del professore centenario per mettere nel suo vecchio quartierino un altro B&B hanno marcato il limite. Basta.

Degrado crea degrado

Nessuno, in nome di un’idea insana della democrazia, pretende di fare entrare mille persone insieme nella Cappella degli Scrovegni. Nessuno. E lo stesso deve valere per certi centri storici troppo piccoli e fragili per essere invasi da milioni di assatanati del «tutto e subito» che magari, come nel cuore della Firenze medicea, schizzano via sui risciò (i risciò!) come fossero a Bangkok o Calcutta. Quanto al degrado, alla sporcizia, all’incuria, vale l’antico monito: degrado crea degrado. E a nulla vale lagnarsi contro la sbalorditiva velocità con cui troppi stranieri che a casa loro non oserebbero gettare un mozzicone a terra si lasciano contagiare dal più volgare andazzo nostrano: liberi tutti! Vanno colpiti, sia chiaro, con la mano ferma. Ma l’esempio, perché serva davvero, deve partire da noi.

 

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Il falso mito illuminista della democrazie diretta

17/05/2017 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Giovanni Belardelli  Corriere della Sera 12 maggio

Dovrebbe essere ormai evidente che la democrazia diretta praticata dal Movimento Cinque Stelle ha ben poco di democratico: perché la decisione ultima spetta sempre a Beppe Grillo, come si è visto nel caso della candidata a sindaco di Genova, ma anche perché la piattaforma «Rousseau», nonostante si richiami al massimo teorico di una democrazia esercitata direttamente dai cittadini, è controllata da una società privata come la Casaleggio e associati. Eppure, in tempi di dilagante ostilità per i politici di professione e di generale disaffezione per il sistema rappresentativo, la democrazia diretta in quanto tale continua a godere di un pregiudizio favorevole. Jean-Jacques Rousseau, che pure la considerava l’unica vera forma di democrazia («nel momento in cui un popolo si dà dei rappresentanti, non è più libero; esso non esiste più»), aveva dovuto ammettere con rammarico che, data la dimensione dei grandi Stati moderni, la democrazia diretta era di fatto impossibile. Oggi però il web, collegando tutti i cittadini di un Paese in una grande agorà virtuale in cui ciascuno, volendo, può votare su ogni proposta, consentirebbe di superare l’ostacolo. E non appare inverosimile immaginare regole e meccanismi di organizzazione del voto online che, a differenza di quel che accade per la piattaforma dei Cinque Stelle, siano pubblici e trasparenti. Ma una volta assodato questo — che cioè, duemila e cinquecento anni dopo l’Atene di Pericle, la democrazia diretta è di nuovo diventata possibile — dobbiamo chiederci se rappresenta anche una soluzione augurabile. La risposta non può che essere negativa.

Il primo, e più evidente, motivo è anche l’unico che di solito viene evocato: vale a dire la quantità e complessità delle decisioni che un governo si trova a prendere, decisioni che non si vede come possano essere affrontate da cittadini privi di cognizioni adeguate. È un’obiezione assai rilevante, anche se probabilmente molti non la riterrebbero decisiva vista la scarsa qualità della nostra classe politica. Di certo non è però l’unica possibile. Un’altra obiezione è stata formulata di recente dal politologo francese Bernard Manin (sul numero del dicembre scorso della «Rivista di Politica»), il quale ha osservato che la democrazia rappresentativa ha una netta superiorità sulla democrazia diretta in termini di uguaglianza nella partecipazione. Non tutti siamo disposti a dedicare lo stesso tempo alla partecipazione politica; o, semplicemente, non tutti possiamo permettercelo viste le nostre abituali occupazioni. Una continua interrogazione della volontà popolare attraverso il web premierebbe dunque i militanti e gli attivisti, osserva Manin, a scapito della maggioranza dei cittadini.

La democrazia diretta si reggerebbe insomma su dei cittadini che sono «più uguali» degli altri. Questo, si noti, è ciò che già avviene all’interno del Movimento Cinque Stelle, dove le decisioni sono spesso il frutto di un numero di voti davvero risibile (a Verona al candidato sindaco ne sono stati sufficienti 85 per essere scelto). Ma c’è dell’altro. Mentre sul web il cittadino votante può solo esprimersi attraverso un sì o un no, approvando o respingendo in blocco una proposta, in un’assemblea rappresentativa si deve provare a convincere chi non è d’accordo, si deve tener conto delle argomentazioni degli avversari, a volte accogliendone qualcuna. Insomma, in una democrazia rappresentativa la decisione è il frutto della discussione e del confronto. Si dirà che questo dovrebbe avvenire in teoria ma in pratica le cose vanno diversamente. Non è del tutto vero. L’approvazione di emendamenti a una legge, la convergenza dei voti di un partito di opposizione su una proposta del governo sono prassi costante in qualunque Parlamento democratico. La democrazia rappresentativa obbliga al confronto (non necessariamente all’accordo, ovviamente) e rende possibile il compromesso. La democrazia diretta annunciata dal Movimento Cinque Stelle favorisce invece il muro contro muro, l’irrigidimento di posizioni. È sempre un gioco a somma zero in cui o si vince o si perde. Ce ne è abbastanza, direi, per considerare la democrazia diretta, proprio oggi che potrebbe diventare realmente possibile grazie al web, come una prospettiva da cui rifuggire.

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Le scuole italiane e il tabù della bocciatura

05/05/2017 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Da anni il sistema d’istruzione italiano si regge sulle promozioni d’ufficio. Così la scuola rinuncia a selezionare gli studenti in base al merito

 

Ernesto Galli Della Loggia Corriere della Sera 29 aprile

 

«Se tutti gli studenti avessero i voti che meritano non verrebbe promosso più del 20 per cento». Spetta a un professore di un istituto tecnico commerciale pugliese il merito di aver ancora una volta portato alla ribalta nel modo più clamoroso, con queste parole (Corriere, 23 aprile), la grande menzogna su cui si regge da anni il sistema dell’istruzione italiano: le promozioni d’ufficio. Proprio perché il suddetto professore non stava al gioco, e viceversa dava ai suoi studenti i voti che meritavano, il dirigente della scuola dove insegnava lo ha sospeso a suo tempo dal servizio: sanzione disciplinare che adesso, dopo ben cinque anni, il giudice del lavoro di Lecce ha però annullato dandogli ragione. Le cose in effetti stanno così: nelle scuole italiane la bocciatura è di fatto bandita, così come è bandito ogni autentico criterio di selezione e quindi di reale accertamento del merito. Gli abbandoni scolastici beninteso ci sono (ad esempio negli istituti tecnico-professionali), ma hanno una spiegazione di altro genere, perlopiù legata alla condizione socio- culturale dell’ambiente familiare. Di fatto, dunque, chi nel nostro Paese inizia il corso di studi è pressoché matematicamente sicuro di arrivare al traguardo. E infatti gli esami di diploma finale fanno regolarmente segnare percentuali di promossi che da anni sfiorano il cento per cento (in che senso possa essere considerato tecnicamente un «esame» una prova che dà abitualmente risultati simili resta per me un mistero).

Quale affidamento possano dare in Italia i voti di diploma si capisce, del resto, considerando che nel 2016, per esempio, gli alunni promossi alla licenza in Puglia e Campania con il massimo dei voti sono stati più numerosi di quelli promossi con la stessa votazione in Lombardia, Piemonte, Veneto, Toscana ed Emilia messi insieme. In Italia, insomma, al momento degli scrutini, in una grande quantità di casi, probabilmente la maggioranza, non si valuta l’effettivo grado di apprendimento degli alunni. Si dà un voto che si può ben dire un voto politico. E si promuove.

Le cause sono molte. Di gran lunga la principale è l’ideologia fondata sulla categoria di «inclusione» che da decenni domina la nostra istituzione scolastica. Cioè l’idea che compito della scuola, anche dopo il percorso dell’obbligo, non sia quello di impartire conoscenze e accertare il grado del loro effettivo apprendimento, bensì soprattutto quello di «non lasciare nessuno indietro». Che detto in parole povere significa appunto procedere alla fine a una promozione generalizzata e indiscriminata. Da decenni, poi, è venuta crescendo nella scuola una tendenza che chiamerei all’«universalismo» (che è l’altra faccia della cosiddetta «autonomia»), in base alla quale la scuola stessa è stata sollecitata a proiettarsi all’esterno o comunque fuori dall’ambito suo proprio, verso una miriade di attività, di iniziative, di interessi — connotati di una valenza che in vario modo finisce per essere sempre quella del «politicamente edificante» — della quale quella che va sotto il nome di «scuola-lavoro» è senz’altro la più significativa. E che inevitabilmente finiscono per condizionare il giudizio anche sul profitto vero e proprio dell’alunno.

Agli occhi delle superiori autorità, del Ministero come del dirigente scolastico regionale, il «successo» di un istituto scolastico — che poi vuol dire la quantità di risorse di cui per i più vari canali esso riuscirà a disporre, nonché la possibilità di carriera del suo dirigente e la stessa possibilità dell’istituto stesso di non essere accorpato ad un altro a causa di un’eventuale perdita di iscrizioni, cioè di «popolarità» — dipende dall’adeguamento ai due orientamenti ideologici di fondo detti sopra. I quali hanno alla fine un riscontro ineludibile in un dato preciso: nel numero dei promossi. Inutile dire quanto apprezzato dalle famiglie, il cui giudizio influisce non poco per stabilire il «gradimento ambientale» dell’istituto in questione: fattore — inutile dire anche questo — sempre assai apprezzato dalle superiori autorità.

Nella scuola italiana, dunque, la promozione del maggior numero possibile di alunni ha finito per avere un valore assolutamente strategico. Essa è un vero pilastro dell’edificio scolastico. Ma come arrivarci in concreto? Non è difficile. Nel nostro sistema scolastico infatti — in base a una disposizione che risale, credo, al lontanissimo 1925 — ma che la voga democraticistica postsessantottesca e le conseguenti disposizioni ministeriali hanno enormemente rafforzato — non è il singolo docente ad assegnare i voti di fine anno che decidono il destino dello studente. I professori hanno in pratica un semplice diritto di proposta, ma chi poi decide è il consiglio di classe a maggioranza. Consiglio presieduto ovviamente dal dirigente scolastico il quale, per le ragioni dette sopra, ha tutto l’interesse alla, diciamo così, massima benevolenza; nonché l’autorità per dar libero corso alla medesima. Con il consenso alla fine, però, degli stessi docenti, i quali, se il numero degli studenti diminuisce troppo, potrebbero veder messo in pericolo il loro posto. Avviene dunque una sorta di profana transustanziazione: le più catastrofiche insufficienze si tramutano in sufficienze, gli alunni più svogliati in bravi ragazzi, i più accidentati itinerari scolastici diventano tranquilli passaggi all’anno successivo. E così via fino all’immancabile successo del diploma finale.

Ma a che cosa serve un sistema d’istruzione simile, che non valutando contraddice ogni idea sensata d’insegnamento e di apprendimento? Serve a una cosa soprattutto: a sollevare da ogni responsabilità i partiti e la classe politica, in particolare chi governa; a liberarli dai problemi, dalle proteste e dalle accuse, dalle rivendicazioni, che per due, tre decenni li hanno tormentati ogni volta che in un modo o nell’altro c’entrava l’istruzione. Rinunciando a istituire una scuola che seleziona in base al merito — e dunque, inevitabilmente, che boccia (una parola poco simpatica, ma un altro modo e un’altra parola, ahimè, ancora non sono stati inventati) — essi riescono a dare a credere, specie alla parte meno avvertita dell’opinione pubblica, che ormai esiste finalmente una scuola davvero democratica. La quale, cioè, riuscendo a tener conto delle esigenze anche dei più sfavoriti, porta in pratica tutti gli iscritti al positivo compimento degli studi. E dando a credere che si è così realizzata anche la più importante funzione dell’istruzione nelle società democratiche: quella di rompere i vincoli dell’appartenenza di classe per nascita, assicurando invece l’ascesa sociale dei capaci e meritevoli; che insomma la scuola è veramente l’ascensore sociale del Paese.

Peccato che come indicano tutte le statistiche ciò non sia più vero da tempo. E non è più vero anche, se non principalmente, proprio perché la scuola promuove tutti, cioè non seleziona, e una scuola che non seleziona, che non accerta il merito, è una scuola che in linea di principio rifiuta di fornire alla società, al mondo del lavoro, qualunque attestato affidabile circa le reali competenze, la volontà d’impegnarsi, le capacità di ingegno e di carattere, dei giovani che le sono stati affidati. Rischia cioè di divenire una scuola autoreferenziale, utile solo come parcheggio e per consentire ai politici di dormire sonni tranquilli, illudendo le classi povere che c’è un’istruzione al loro servizio. Che, grazie all’istruzione, c’è per i loro figli quell’avvenire migliore, che viceversa assai difficilmente ci sarà. Quanto alle classi abbienti invece, loro, ormai, hanno capito bene come stanno le cose, e da tempo sono corse ai ripari. O riuscendo in vari modi a sollecitare in questo o quell’istituto specie delle grandi città la formazione di classi di serie A dove concentrare i propri rampolli, ovvero mandandoli a studiare in una scuola straniera o direttamente all’estero.

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Il gran Mufti alleato di Hitler contro gli ebrei

26/04/2017 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Giovanni Sabbatucci    La Stampa 20 aprile

Il 25 aprile è la data scelta dall’Italia repubblicana per celebrare la fine dell’occupazione nazifascista e la riconquista delle libertà politiche e civili. Naturale che a festeggiare la ricorrenza siano in primo luogo le associazioni partigiane, seppur ormai trasformate, col passare degli anni, in associazioni politico-culturali. Meno naturale che i dirigenti dell’Anpi ritengano doveroso invitare alle celebrazioni nazionali militanti della resistenza palestinese. Succede ormai da qualche anno: e ogni volta i cortei organizzati per festeggiare la liberazione dal nazismo sono diventati occasione per violente, anche se sparute, contestazioni rivolte contro le rappresentanze delle comunità israelitiche, in particolare contro i pochi superstiti della Brigata ebraica che combatterono sul fronte italiano dopo essere sfuggiti avventurosamente alla morte nei lager. Questa volta, le comunità israelitiche hanno deciso di non partecipare al corteo ufficiale e di manifestare per conto proprio. A loro si sono associati – e questa è una novità – i vertici del Partito democratico. Difficile dar loro torto. Ognuno è libero di scegliere la resistenza che preferisce, o di esaltare i movimenti di liberazione nazionale nati dalle lotte contro il colonialismo, senza troppo badare alle loro credenziali democratiche. Ma associare i combattenti palestinesi alle celebrazioni ufficiali per la sconfitta del nazifascismo significa commettere un clamoroso errore storico oltre che un atto politicamente inopportuno. 

 È noto, infatti che negli Anni 30 del Novecento, nella sua (legittima) lotta per l’indipendenza, il nazionalismo arabo cercò e ottenne sostegno nell’Italia fascista. E che il gran Mufti di Gerusalemme Amin al-Husseini, una delle più alte autorità dell’Islam sunnita, fu alleato e amico di Hitler e lo incoraggiò, per quanto era in suo potere, a perseguire sino in fondo il programma di sterminio del popolo ebraico. Non si vede allora che senso abbia invitare gli eredi del nazionalismo arabo a celebrare insieme la sconfitta del nazifascismo, che fu in fondo anche la loro sconfitta.

E farlo proprio in un momento in cui piccoli e grandi fuochi di antisemitismo tornano ad accendersi anche in Europa. 

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