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Risorgimento Firenze

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Tribuna

Così il turismo è come veleno. Lo Stato salvi Venezia e l’Italia

22/02/2017 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Ernesto  Galli della Loggia   Corriere della Sera 14 febbraio

A costo di apparire ripetitivi e noiosi, a costo di doversi sentire dire che bisogna occuparsi come al solito di «ben altro», non bisogna stancarsi invece di dirlo e di scriverlo: il nostro patrimonio urbano, paesaggistico e artistico è sull’orlo del collasso. E di questo collasso, delle sue cause e dei suoi modi Venezia, grazie alla sua assoluta unicità, è il simbolo massimo. A cominciare per l’appunto dalle cause di un tale collasso. E allora, proprio prendendo l’esempio di Venezia, diciamolo chiaro e forte: oggi è principalmente il turismo a mettere in pericolo il futuro.

Il turismo, infatti, ci porta ogni anno fiumi di denaro ma in cambio produce un danno enorme alla ragione stessa della propria esistenza, e cioè alla bellezza italiana. Basti pensare che ogni anno si abbatte su Venezia, per l’appunto, la quantità inaudita di circa 30 milioni di turisti, qualcosa come più o meno la metà della popolazione italiana. I turisti calpestano, urtano, affollano tutto all’inverosimile, si sdraiano dovunque — sui gradini di ogni chiesa, di ogni ponte, sui minimi spazi liberi — obbligando i passanti a scavalcare i loro corpi e i loro zaini. Ma soprattutto i turisti vanno alloggiati e rifocillati. E allora lungo calli e vie ecco pizzerie, kebab, sandwicherie, hostarie, alternarsi in una ridda paradossale alle boutique delle griffe dai prezzi più astronomici, alle rivendite di limoncello e parmigiano, ai negozi della paccottiglia made in Vietnam. Miliardari sudamericani, commessi macedoni, operai giapponesi, avanti, avanti c’è posto per tutti. Per la notte infine si aprono le porte dei mille alberghi ma soprattutto di un terzo o forse la metà, si calcola, delle abitazioni della città, le quali sono adibite ormai da anni (perlopiù illegalmente) a vere o finte seconde case, a bed and breakfast clandestini, a microappartamenti alla giornata.

Venezia è ormai irrimediabilmente una città fantasma, l’originale di una Disneyland che è già eguale alla propria copia. Una mostruosità. Dove ogni giorno arrivano navi da crociera di oltre 100 mila tonnellate attraverso il bacino di San Marco, passando dunque sì e no a 500 metri dalla basilica. Uno spettacolo tra il fantasy e l’horror: puro stile Disneyland appunto. Una città fantasma cui presiede però un sindaco vero che si chiama Luigi Brugnaro e che — tanto per far capire ai lettori come la pensa — è uno che dice di non amare né i filosofi né i professori (c’è assolutamente da credergli), e che contro le suddette navi protestano «solo gli estremisti»; che per il futuro di Marghera prospetta un programma del genere: «sul waterfront grattacieli fino a cento metri quanti ne vogliono, con terziario residenziale, alle spalle una zona industriale» (dunque grattacieli con affaccio solo sul davanti, immagino); e quanto al turismo ha poche idee ma fulminanti: «Quando hai fame prima pensi a riempire il frigorifero, poi a mangiare meglio. Se elimini il turismo si svuota il frigo e non mangiamo più».

Ma il punto con il turismo è proprio questo: riempie il frigo e tuttavia i proprietari del medesimo frigo non pensano che esso sia mai riempito abbastanza. Dunque guai a chi voglia mettere loro un limite. Lo sfruttamento selvaggio delle risorse turistiche ha così creato a Venezia come in molti altri luoghi della Penisola un vasto intreccio d’interessi che tiene insieme tanto i proprietari del frigo che quelli che hanno il permesso di aprirlo solo una volta al mese: un intreccio che risulta virtualmente inespugnabile e mira in pratica a essere il padrone della politica locale e delle sue decisioni. Troppo spesso riuscendoci.

Anche in conseguenza di un fatto che ha dell’incredibile. E cioè che l’Italia non ha alcuna specifica autorità politica nazionale responsabile per il turismo: solamente un’agenzia volta alla promozione dell’offerta turistica e peraltro da tempo immemorabile agonizzante per totale mancanza di fondi e dunque ridotta all’impotenza. Quindi nessuna pianificazione con relativi obiettivi, nessun tentativo di governo dei flussi grazie a opportune incentivazioni e disincentivazioni, nessun’iniziativa altresì per impedire i diffusissimi abusi ai danni dei turisti, nulla. Così tutto è frantumato in mano alle Regioni. Vale a dire in mano alla ben nota lungimiranza, disinteresse, e capacità di governo mediamente propri delle loro classi politiche. E di cui resta testimonianza memorabile, proprio a Venezia, il Mose con la sua ramificata Banda Bassotti composta quasi tutta di veneti purosangue (vero presidente Zaia? Ma un tempo non era Roma ad essere «ladrona»?)

Il turismo, insomma, è diventato il nuovo veleno che sta uccidendo i paesi e le città italiani, il nostro patrimonio d’arte e di cultura, spesso il nostro modello di vita e di relazioni sociali. C’è ancora a Venezia, mi chiedo, un tessuto di vita che in qualche modo possa dirsi veneziano, che abbia a che fare con la storia della città? E se c’è, quanto potrà durare ancora di questo passo? Ed è giusto questo? Ma soprattutto, è giusto che a decidere della sorte di Venezia siano solo gli iscritti all’anagrafe della città? Che il sindaco di Venezia tutto solo possa decidere ad esempio di progettare un nuovo terminal marittimo o un nuovo canale che consenta di accrescere l’afflusso in laguna delle grandi navi? Che sempre lui da solo possa consentire feste ed eventi devastanti tipo Carnevale, rinviare sine die il piano per il traffico acqueo, rilasciare licenze di ogni tipo, salvo poi, quando per qualche ragione monta la protesta, allora dare il via a tutto uno scaricabarile, a tutto un nascondersi dietro i «bisogna studiare», «bisogna capire», «mi dispiace ma la competenza non è nostra»? È giusto, ripeto, va bene così? Si risponda come si vuole. A me sembra solo che in qualche caso, come è per l’appunto questo, siano sempre di più gli italiani ai quali piacerebbe che, non dico a decidere, ma almeno a far sentire la propria voce alta e forte ci fossero uno Stato e un governo italiani.

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Europa senza identità che rinuncia a storia e valori

13/02/2017 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Ernesto Galli Della Loggia              Corriere della Sera 9 Febbraio

Troppo spesso accadono in Europa cose che fanno pensare a un’inspiegabile volontà di suicidio, il cui significato sembra essere solo un cupo desiderio di autoannientamento. Ho in mente ad esempio due episodi recenti, debitamente riportati dai giornali (uno anche dal Corriere e abbastanza diffusamente), ma passati sostanzialmente inosservati. Quasi si trattasse di due insignificanti fatterelli di cronaca.

Il primo episodio riguarda il Real Madrid, la celebre squadra di calcio spagnola. I cui dirigenti, abbiamo letto, volendo stipulare un contratto con una società degli Emirati per la commercializzazione in quell’area di prodotti con il marchio della propria squadra (incasso previsto 50 milioni di euro), ma consapevoli d’altra parte, così hanno detto, che «ci sono alcuni luoghi sensibili ai prodotti che mostrano la croce», non hanno trovato di meglio che togliere la croce dalla corona che fino a ieri campeggiava sul simbolo storico della loro società.

ll secondo episodio è avvenuto invece a Parigi. Qui, all’inizio di febbraio, nella prestigiosissima sede del centro di ricerca di Sciences Politiques è stata annullata all’ultimo momento la conferenza che doveva tenere David Satter, un ex corrispondente in Russia delFinancial Times, sull’argomento del suo ultimo libro: il cui titolo, Meno sai e meglio stai: la via russa al terrore e alla dittatura sotto Yeltsin e Putin, non sembra richiedere molte delucidazioni. Motivo accampato dalla direzione (smentito però da un gran numero di esempi passati): la mancanza di un contraddittorio ufficialmente previsto.

Nel primo caso, dunque, il potere del denaro, nel secondo il potere e basta (con l’uso spregiudicatamente intimidatorio che è abituato a farne il Cremlino). Nel primo caso l’avidità, nel secondo la paura. Da una parte tutto questo e dall’altra due istituzioni assai diverse tra loro — un club di calcio e un’università, la massa e l’élite — ma proprio perché così diverse rappresentative dell’insieme cui entrambe in realtà appartengono. L’insieme di vicende, di storie, di tradizioni, di eccellenze, di valori, anche di realtà nazionali, che sommate e intrecciate tra loro hanno fatto nel tempo l’Europa quella che è. O forse bisognerebbe dire l’Europa che è stata. Quell’Europa cioè che era animata dalla consapevolezza della propria assoluta peculiarità non disgiunta da un sentimento di orgoglio per i traguardi straordinari — in tutti i campi: dalla scienza al benessere materiale all’emancipazione delle persone — che quella peculiarità era stata capace di raggiungere.

È vero: anche a prezzo di ingiustizie e dolori non solo al proprio interno ma specialmente inflitti ad altri popoli. Ma che cosa mai è stato costruito di durevole nel corso dei millenni da qualunque altra civiltà, da qualunque altra grande costruzione politico-culturale, che potesse dirsi immune dalla medesima obiezione? Salvo prova contraria, però, solo quella che ha visto la luce in questa parte del mondo è riuscita a conseguire risultati di progresso e di libertà potenzialmente fruibili da tutti, e infatti prima o poi da tutti emulati, perseguiti, imitati. Cancellare la croce (e poi per cosa? per mettere le mani su 50 milioni di euro!), impedire la libertà di parola per non dispiacere al vendicativo padrone della Russia, significa precisamente rinunciare all’intera vicenda che ha portato ai non spregevoli risultati di cui sopra. Significa rinunciare alla propria storia, alla propria identità.

Ma è per l’appunto questo ciò che da qualche decennio sta accadendo nelle nostre società.

Dove gli orientamenti prevalenti nei mass media, nell’opinione «illuminata», nell’intellettualità più influente, nell’intrattenimento colto ma anche in molti sistemi scolastici (basti pensare ai programmi delle scuole italiane) si sono abituati a considerare la dimensione identitaria come una dimensione da esorcizzare. L’identità è apparsa qualcosa che legando al passato avrebbe portato con sé qualcosa di oscuramente atavico. Qualcosa che avrebbe condotto inevitabilmente al pregiudizio etnico, ad una compiaciuta autarchia culturale ostile al progresso, all’esclusione più o meno persecutoria di ogni diversità. Ha avuto in tal modo via libera una modernità culturale tanto superficiale quanto pervasiva, indifferente quando non ostile verso ogni valore consolidato.

Di un tale orientamento anti-identitario dal sapore vagamente nichilistico la principale vittima è stata il passato, cioè la storia (anche la religione, ma qui il discorso dovrebbe essere in buona parte diverso e spingersi in ben altre direzioni). E ci ha messo del suo, complice giuliva quanto inconsapevole, pure l’Unione Europea con la sua Commissione.

Infatti quest’ultima, non solo non ha compreso che anche al fine dell’auspicata trasformazione della stessa Unione in un vero soggetto politico bisognava cercare di favorire a livello di massa la formazione di un’identità europea; ma neppure ha capito che a tal fine la conoscenza della storia del continente, della sua grandezza e delle sue contraddizioni, del multiforme significato ideale della sua vicenda, erano strumenti indispensabili.

Ha preferito invece muoversi in tutt’altra direzione.

La burocrazia dell’Unione e i gruppi politici nazionali in essa dominanti — entrambi subalterni ai tic e ai tabù del mainstream culturale — hanno deciso che non già la storia ma il diritto, anzi «i diritti»!, dovevano essere l’insegna di Bruxelles. Non la concretezza del passato iscritta dappertutto nella vita del presente ma l’astrattezza formale dei diritti e dei doveri. Non la memoria che lega tra loro gli individui in un organismo orientato ai valori ma il rapporto pattizio tra i singoli in vista del rispetto delle regole necessarie alla tranquilla convivenza. Non l’identità ma l’universalità.

Questa è la strada imboccata da tempo dall’Europa. Dove ci sta portando cominciamo a vederlo: all’abdicazione delle élite e alla protesta rabbiosa delle masse.

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Febbraio 1878: a Firenze si inaugura il Cimitero agli Allori

08/02/2017 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Grazia Gobbi Sica     Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Portale per la Storia della città di Firenze

 

Il 1878 si era aperto con la morte di due figure che avevano segnato la storia dell’Italia: il re Vittorio Emanuele II iI 9 gennaio e il papa Pio IX il 7 febbraio.

Nella cronaca della città del quotidiano «La Nazione» di mercoledì 6 febbraio si legge che «un comitato di quarantatre gentiluomini inglesi residenti nella nostra città presieduto da Sir James Hudson G.C.B si adunava alcuni giorni or sono per dare un attestato della sua simpatia alla nazione italiana nella sventura che colpì il nostro paese con la morte di SM il Re Vittorio Emanuele contribuendo al monumento che sarà eretto in Firenze alla memoria dell’augusto sovrano. La sottoscrizione limitata a L. 5 italiane per persona, raggiunse ben presto la ragguardevole somma di 1545 lire italiane e nel giorno scorso un comitato eletto nel seno dei promotori e composto dal Console di S. Maestà Britannica D.E. Colnaghi, da Sir James Hudson e dai signori Archibald C. Dennistoun, C. Heath Wilson e W.V. Fowke insieme al segretario onorario, reverendo C.G. Harvey, si recava alle due pomeridiane dal sindaco, comm. Peruzzi, presentandogli la generosa offerta».

La notizia riportata ci dice dell’importanza della comunità britannica in città. Tuttavia, della solenne inaugurazione del cimitero “Agli Allori” il 28 febbraio dello stesso 1878, «La Nazione», evidentemente poco sensibile alla presenza di gruppi religiosi acattolici peraltro numerosi e partecipi della vita locale, nella cronaca cittadina non dà alcuna notizia.

Il nuovo cimitero sorgeva sull’area di un podere, “Agli Allori,” posto fra la comunità di Firenze e quella del Galluzzo lungo la via Senese. Non era stata facile la ricerca del terreno su cui realizzare il nuovo cimitero da quando quello detto “degli Inglesi” in piazza Donatello, aperto fuori le mura a’ Pinti nel 1827, si era rivelato insufficiente e impossibilitato ad ampliarsi, circondato com’era dai nuovi viali progettati da Giuseppe Poggi per adeguare Firenze al ruolo di capitale dello Stato unitario. Il Comitato evangelico italiano, dopo vari tentativi, con l’acquisto dalla famiglia Mazzei del podere di 70.000 metri quadrati aveva risolto la questione: il terreno non correva il rischio di essere inglobato nell’espansione della città. Agli Allori i morti andavano veramente in periferia, rispondendo così ai principi stabiliti dall’editto napoleonico di St. Cloud del 1804, con l’allontanamento delle sepolture dal centro della città, dalle chiese, dai chiostri.
Per la realizzazione di questa opera si riunirono in consorzio le cinque chiese evangeliche presenti a Firenze (la chiesa evangelica riformata, la chiesa cristiana libera, la chiesa episcopale inglese, la chiesa libera di Scozia e la chiesa valdese). Gli atti del Consiglio comunale di Firenze tra il 1874 e il ‘76 ci dicono degli ostacoli burocratici che l’impresa dovette superare, mentre il Comune aveva già proibito le inumazioni nel vecchio cimitero chiuso fin dal settembre 1877. Il progetto fu assegnato all’architetto Giuseppe Boccini, professionista assai attivo, membro del consiglio direttivo della Società per la difesa di Firenze antica e dell’arte pubblica, autore di numerosi edifici nella ricostruzione dell’antico centro, architetto dell’Opera del Duomo e insieme a Michele Preobragenski della chiesa russa di cui diresse i lavori fino alla morte avvenuta nel 1900.

Nella prima seduta del comitato consorziale tenuta il 22 dicembre 1877 in casa del dottor Gustavo Dalgas in via Palestro 3 viene accettata la proposta del Rev. Tottenham, rappresentante della chiesa episcopale inglese, di fare una consacrazione ufficiale del terreno sul quale sta sorgendo il cimitero. La cerimonia si effettua il 29 dicembre, secondo il rito anglicano officiato dal vescovo di Bombay che si trova a Firenze in quei giorni, con l’intervento di molti invitati, e alla presenza del Sindaco di Firenze, il commendator Ubaldino Peruzzi.

Il giorno dell’inaugurazione, il programmato corteo funebre, che avrebbe dovuto attraversare il centro, viene deviato all’ultimo momento dall’autorità di polizia municipale sui viali esterni – Filippo Strozzi, Principe Umberto, Ponte Sospeso alle Cascine e attraverso il sobborgo del Pignone. Data la lunghezza del percorso, l’itinerario è svolto in carrozza dai membri del Comitato, dai pastori e dalle famiglie dei defunti, mentre i numerosi partecipanti seguono a piedi attraversando il centro per la via più breve. La decisione dell’autorità pubblica che riduce la solennità dell’evento impedendone lo svolgersi nelle vie del centro cittadino produce «sommo dispiacere del pubblico evangelico», secondo il resoconto dell’evento riportato nel verbale della riunione del comitato nel marzo 1878.

Secondo il regolamento, «Il cimitero consorziale degli Allori è destinato alla tumulazione dei defunti evangelici di qualunque nazione o denominazione come pure di individui di altra professione religiosa quando l’amministrazione creda conveniente accettarli». L’indiscutibile apertura dimostrata nei confronti delle altre fedi sembra rafforzata dalla decisione di permettere la «sepoltura di materialisti e liberi pensatori a patto che siano sempre sepolture a pagamento e a tariffa intera così di prima come di seconda classe. Il consorzio non avendo l’onere delle sepolture gratuite che per gli indigenti evangelici». Ad ogni modo, in presenza di sepolture di liberi pensatori, viene richiesto «che non si pronuncino discorsi o si mettano sulle fosse iscrizioni contrarie al Vangelo e che non si portino nel recinto del cimitero emblemi di sorta contrari al nostro culto».

Il progetto studiato dall’architetto Boccini si basa su un impianto chiuso, recinto da un porticato, differenziato al suo interno secondo le caratteristiche del sito posto a metà collina dove la declività naturale gioca un ruolo non secondario nella scelta formale. Un primo settore in leggero declivio rispetto all’ingresso sulla via Senese presenta al centro, in asse con l’ingresso e la cappella, una rotonda circondata da un’area a verde da cui si stacca un percorso perpendicolare al primo, che si conclude in due esedre semicircolari. Un secondo settore, che si appoggia alla più forte pendenza della collina, ha come fulcro la colonna centrale, donata dal signor Archibald Dennistoun, membro onorario del Comitato consorziale e benemerito del cimitero per il «vistoso imprestito fatto in tempi difficili»; la colonna, su progetto dell’architetto Boccini, viene realizzata dallo scultore/marmista Giuseppe Bondi, già attivo al cimitero degli Inglesi. Di qui si dipartono radialmente i percorsi: tre assi che dividono le gradinate dell’anfiteatro orientandosi verso la sommità. Il loggiato che secondo il progetto seguiva i contorni del cimitero, nell’esecuzione definitiva, si limitò a concludere l’emiciclo superiore. Il problema della realizzazione del loggiato fu alquanto dibattuto; la sua riduzione al minimo, ha rafforzato agli Allori l’immagine del cimitero giardino, sottolineando l’assialità dell’impianto anziché la percorrenza ai suoi margini.

Gli Allori si configurano dunque come una piccola città-giardino dove l’impianto urbanistico è perfettamente definito nei percorsi, nelle aree di sosta, nei confini e nella lottizzazione. Accanto alle poche cappelle famigliari nella zona inferiore, la maggior parte dei monumenti ricalca il modello della stele eretta. Foggiata in forme e dimensioni diverse un posto importante è occupato dalla croce celtica. Stele e obelischi recano spesso l’imago clipeata del defunto di derivazione classica. Angeli e figure di dolenti sono presenti, insieme alle torce accese e rovesciate e alle colonne spezzate, simbolo della vita interrotta. La sacralità del luogo si combina con l’uso celebrativo e simbolico degli elementi decorativi: la fiaccola spenta, la farfalla, il seme di papavero, il vaso lacrimale, la corona di fiori caduchi, ma anche il giglio, l’edera, l’angelo. Spesso è presente la palma a simboleggiare la vittoria cristiana sulla morte. Monumento di arte, documento di vita: il cimitero agli Allori si offre anzitutto come testimonianza, a tutt’oggi quasi completamente sconosciuta, vero e proprio museo all’aperto che accoglie significativi brani della scultura e delle arti applicate del periodo otto-novecentesco. I più importanti scultori toscani vi hanno lasciato traccia: dai Fantacchiotti, padre e figlio, ai Romanelli, dai Betti al Costoli, da Antonio Bacci a Antonio Frilli, da Corrado Feroci a Gaetano Trentanove, a Donatello Gabbrielli, ad Antonio Maraini, i nomi degli scultori operanti al cimitero includono anche gli stranieri che avevano scelto di operare a Firenze e in Toscana; tra questi, Adolf von Hildebrand, Thomas Ball, Larkin Goldsmith Mead.

Oltre ad offrire una promenade artistica che si snoda fra i monumenti, il cimitero ci fornisce la testimonianza delle numerosissime presenze straniere che dall’Ottocento in poi hanno alimentato il culto della città nell’immaginario transnazionale. A Firenze molti stranieri decidevano di trascorrere la loro esistenza, attratti dal mito della città culla del Rinascimento, un mito che non era solo contemplazione del passato ma era al tempo stesso fonte di ispirazione artistica e letteraria. Passeggiando lungo i sentieri ci si imbatte nei nomi più noti e celebrati della cultura internazionale, ma anche in quelli meno noti facenti parte della colonia di stranieri che aveva scelto Firenze come dimora d’elezione.

Molti abitanti delle ville sulle colline, luoghi privilegiati dai forestieri come Henry James sottolinea in un suo celebre passo, sono sepolti qui: dai membri della famiglia Blundell Spence, a Sybil Cutting madre di Iris Origo, vissuti in tempi diversi nella villa Medici a Fiesole, dai coniugi Keppel con la figlia Violet, alla villa dell’Ombrellino a Bellosguardo, e sempre a Bellosguardo a Elizabeth Boott Duveneck vissuta alla villa Castellani, al Palmerino la scrittrice Vernon Lee, alla Gattaia il collezionista americano Charles Loeser, il pittore preraffaellita John Roddam Spencer Stanhope alla villa dello Strozzino a Bellosguardo, per non tacere di Frederick Stibbert, e degli Acton vissuti a villa La Pietra, Sir Osbert Sitwell, al castello di Montegufoni, Arnold Boecklin a Fiesole. Ma non solo gli abitanti delle ville sono sepolti agli Allori. Molti vivevano in città: fra questi lo scultore americano Goldsmith Larkin Mead, la scrittrice Ludmilla Assing, l’intellettuale Margherita Albana col marito il pittore Giorgio Mignaty, lo storico Karl Hillebrand, il collezionista Herbert Percy Horne. Tra le personalità più vicine a noi il geografo Lucio Gambi e la giornalista Oriana Fallaci la cui tomba è oggetto di culto.

Questa sorta di Spoon River fiorentino racconta innumerevoli vite illustri. Gli intellettuali – viaggiatori, o residenti – sepolti qui sono stati una componente fondamentale della vita culturale, economica e sociale di Firenze tra Ottocento e Novecento. Molti di loro hanno lasciato alla città le loro collezioni d’arte, come Loeser, Stibbert, Horne, ma anche le istituzioni cittadine di impronta internazionale, devono la loro esistenza alla loro presenza.

Firenze accoglie il Gabinetto Vieusseux, gli istituti di cultura francese, il British Institute, il Kunsthistorishes Institut, l’Istituto olandese di Storia dell’Arte, che hanno dato alla città una permanente impronta internazionale, andando ben oltre la costruzione di un legame culturale tra popoli e facendo di Firenze uno dei miti dell’umanità.

Bibliografia

  • G. Gobbi Sica, In Loving Memory. Il cimitero agli Allori di Firenze, con un saggio e schede sulla comunità russa di Lucia Tonini, coord. di M.
  • Bossi, “Gabinetto Scientifico Letterario G.P. Vieusseux – Studi. Vol. 26”, Firenze, Olschki, 2016
  • G. Trotta, Luoghi di culto non cattolici nella Toscana dell’Ottocento, Firenze, Becocci Scala, 1997

 

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Educare non solo istruire

13/01/2017 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

EDUCARE NON SOLO ISTRUIRE CONTRO IL BUONISMO DI STATO

 Questa scuola sommamente democratica, che da troppo tempo ha smesso di pretendere, è una scuola sempre più classista. Chi può, infatti, già da tempo manda i figli negli istituti privati, se non all’estero; chi ha meno possibilità, ma è consapevole della catastrofe, supplisce con l’impegno personale.

Susanna Tamaro  Corriere della Sera 9 gennaio

 

Non so quanti spettatori abbiano visto il nuovo reality della Rai Il Collegio.

Non essendo un’esperta di format non so dire quanto di quello che ho visto sia reale o sia invece frutto di una forzatura drammaturgica degli sceneggiatori. Certo che ad assistere alle prestazioni scolastiche di questo drappello di simpatici adolescenti c’è da rimanere davvero turbati.

Davanti a una cartina muta dell’Italia, le Marche sono state scambiate per la Puglia e le  città citate qua e là senza cognizione alcuna della loro reale posizione. Per non dire della lezione di storia, in cui i ritratti di Mazzini e Cavour risultavano praticamente sconosciuti ai più, o della lezione di matematica in cui un problema di quinta elementare degli anni 60 è stato risolto solo da una ragazza che ha ammesso di amare la matematica. Che questa non sia finzione ma triste realtà ce lo confermano le statistiche internazionali che ci hanno visto precipitare nelle graduatorie Ocse di due punti in un solo anno, relegandoci al 34° posto su 70 Paesi. Ci difendiamo a stento nella matematica, mentre nel campo delle lettere e delle scienze l’ignoranza risulta pressoché assoluta. Del resto anche i dati nazionali ci confermano che il numero di persone capaci di leggere un testo e di capirne il significato sia calato di anno in anno in maniera esponenziale.

Si è parlato molto della Buona Scuola come di una riforma determinante, purtroppo -posto che tutte le riforme sono un segno di buona volontà e perfettibili – non sembra per il momento essere riuscita ad intaccare la degradata fossilizzazione del nostro sistema educativo. Introdurre i tablet, le mitiche lavagne interattive, facendo credere che l’àncora di salvezza stia nella modernizzazione informatica è un po’ come mettere del cerone su un volto ormai devastato dalle rughe. E inoltre, come ben spiega Adolfo Scotto di Luzio nel suo bel saggio Senza educazione, per non far sì che le nostre aule si trasformino in un museo del modernariato l’informatizzazione richiederebbe un enorme impegno economico, impossibile da sostenersi senza il contributo di realtà esterne.

È indubbio che il primo passo verso questo inarrestabile degrado sia da far risalire alla riforma compiuta negli anni ottanta del secolo scorso. Fu allora che la scuola elementare, in omaggio al mondo anglosassone, venne trasformata in primaria, avviandola verso una rapida «liceizzazione», abolendo l’insegnante unica per venire incontro ai sindacati, da sempre gli unici veri interlocutori del ministero. Così i pensierini sono stati sostituiti dall’analisi del testo, la grammatica- «sul qui e sul qua l’accento non va», ricordate? – è stata rimpiazzata da schede prestampate; al posto delle ciliegie da sommare e delle torte da frazionare sono comparse le corrispondenze biunivoche e le entità equipotenti. Per non parlare del riassunto e del ripetere un testo a memoria: cancellati con un colpo di spugna in quanto richiedevano troppo sforzo. In un mondo che insegue ormai unicamente ciò che  è fluido, l’idea che esistano dei principi fondanti nel sapere -gli elementi, appunto, cioè qualcosa di universale e stabile nel tempo – non può che venir considerata obsoleta e anacronistica.

Il disastro dei ragazzi che confondono le Marche con la Puglia, che scrivono, come mi è capitato di leggere in una tesi di laurea «s’eppure» oppure «io, vado, a casa,» e che davanti ad una foto di Mussolini balbettano incerti sul nome. «Maurizio?» e poi si giustificano dicendo, a pochi mesi dalla maturità, «veramente non l’abbiamo mai fatto…» è un disastro partorito da un sistema che, in nome del lassismo, della demagogia, del vivi e lascia vivere «tanto l’importante è il pezzo di carta», ha costantemente abbassato il livello delle pretese.

È anche colpa di un sistema politico che ha sempre considerato il ministero dell’Istruzione come un jolly da tirar fuori dal cappello nei momenti di bisogno, una botta ai sindacati, una botta ai concorsi,un po’ di fumo soffiato in faccia alle famiglie per mascherare che sotto il fumo non c’era nessun arrosto e avanti così, inventando pompose rivoluzioni che, alla prova dei fatti, si sono mostrate, per lo più, drastiche involuzioni.

Delle famose tre «I» Informatica, Inglese, Impresa che cos’è rimasto? Aule intasate di computer obsoleti e generazioni di ragazzi che dopo tredici anni di studio della lingua e grammatica inglese sono totalmente incapaci di sostenere anche una minima conversazione dell’agognato idioma. La «I» di impresa non la cito neppure perché il più delle volte la sua stessa realizzazione è stata falciata sul nascere da una burocrazia ottusamente elefantiaca e dai capestri delle banche.

Diciamolo una volta per tutte. Questa scuola sommamente democratica, che da troppo tempo ha smesso di pretendere dai suoi studenti  e dunque di educare è una scuola sempre più classista. Chi può, infatti, già da tempo manda i figli negli istituti privati, se non all’estero; chi ha meno possibilità ma è consapevole della catastrofe, supplisce con l’impegno personale  ripetizioni, corsi estivi, etc. Per tutti gli altri non c’è che la deriva del ribasso, l’andare avanti di inerzia con la costante consapevolezza che impegnarsi o non impegnarsi in fondo sia la stessa cosa.

L’educazione è la vera e grande emergenza nazionale. Non essere gravemente allarmati e non fare nulla per risolverla vuol dire condannare il nostro Paese ad una sempre maggior involuzione economica e sociale. Che adulti, che cittadini, che lavoratori saranno infatti i ragazzi di queste generazioni abbandonate alla complessità dei tempi senza che sia stato loro fornito il sostegno dei fondamenti? Sono stati cresciuti con il mito della facilità, del tirare a campare, ma la vita, ad un certo punto, per la sua stessa natura pretenderà qualcosa da loro e gli eventi stessi inevitabilmente li porranno davanti a delle realtà che di facile non avranno nulla, Allora forse rimpiangeranno di non avere avuto insegnanti capaci di prepararli, di educarli.

Già, educare! Termine reietto, spauracchio dell’abuso e della diseguaglianza.

Non sarà per questo che in Italia il nostro ministero, diversamente che in Inghilterra, è chiamato dell’Istruzione non dell’Educazione? Sono la stessa cosa? Non proprio, perché istruire -cito il dizionario della lingua italiana -vuol dire «far apprendere a qualcuno le nozioni di una disciplina» mentre educare vuol dire «formare, con l’insegnamento e con l’esempio, il carattere e la personalità dei giovani, sviluppando le facoltà intellettuali e le qualità morali secondo determinati principi». Educare richiede l’esistenza di un principio di autorità principio ormai scomparso da ogni ambito della vita civile. Chi educa oggi? Le poche famiglie che caparbiamente si intestardiscono a farlo si trovano a vivere come salmoni controcorrente. Il «vietato vietare», con la rapidità osmotica dei principi peggiori, ormai è penetrato ovunque, distruggendo in modo sistematico tutto ciò che, per secoli, ha costituito il collante della società umana. Dalle maestre chiamate per nome, ai professori ai quali si risponde con sboccata arroganza, al rifiuto di compiere qualsiasi sforzo, all’incapacità emotiva di reggere anche una minima sconfitta: tutto il nostro sistema educativo non è altro che una grande Caporetto. Agli insegnanti validi -e ce ne sono tanti -viene pressoché impedito di fare il loro lavoro, anche per l’aureo principio, tipicamente italiano, per cui un eccellente ombreggia i mediocri che non vogliono essere messi in discussione nella loro quieta sopravvivenza. Abbiamo il corpo insegnante più anziano d’Europa, il gran caos demagogico dei concorsi ha paralizzato il naturale ricambio generazionale e la miserabile retribuzione della categoria ha trasformato l’insegnamento in una sorta di sinecura per molti. In realtà insegnare è un lavoro altamente usurante, richiede energie enormi, intelligenza della mente e del cuore, passione per la materia e una visione costruttiva del futuro. Fin da subito dunque migliori risorse economiche andrebbero destinate proprio alla classe docente, cominciando a restituire agli insegnanti, oltre alla dignità, l’autorità necessaria per educare veramente le giovani generazioni.

Solo così la scuola tornerà ad essere una possibilità di crescita offerta a tutti, e non solo ai pochi privilegiati che si possono permettere la fuga dal demagogico lassismo dello Stato.

 

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Un Paese senza élite

23/12/2016 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Claudio Giunta  Sole 24  Ore 18 dicembre

Compie centocinquant’anni quest’anno un saggio che non molti hanno letto, ma che chi ha letto non ha dimenticato, anzi lo riapre ogni tanto per prendere esempio e ispirazione: Di chi è la colpa? di Pasquale Villari.

In novant’anni di vita, Villari (1826-1917) riuscì ad essere molte cose: uno dei più autorevoli storici della sua generazione (uno storico-narratore ma anche uno storico da archivio: con, tra l’altro, i due volumi su Savonarola e i suoi tempi, coi tre volumi su Machiavelli e i suoi tempi), un uomo politico (fu deputato, senatore e ministro dell’Istruzione nel biennio 1891-92), ma anche e soprattutto quello che oggi si chiamerebbe un intellettuale militante, specialmente attento – lui esule napoletano a Firenze – ai problemi del Mezzogiorno (i suoi Scritti sulla emigrazione si leggono ancora con piacere, per la capacità che aveva di intrecciare all’analisi la vivida descrizione dei luoghi e delle persone, e di far sentire la voce dei testimoni: chi cerca antesignani del saggio-reportage che va di moda oggi leggerà con interesse le sue pagine).

Nell’estate del 1866 l’Italia era scesa in campo contro l’Austria al fianco della Prussia di Bismarck. La Prussia attaccò da nord, sbaragliando i nemici nella battaglia di Sadowa; sul fronte meridionale, l’Italia venne invece sconfitta dagli austriaci tanto sulla terra (a Custoza) quanto sul mare (a Lissa). Ma la vittoria prussiana costrinse gli austriaci alla capitolazione e l’Italia ricevette, secondo i patti, il Veneto. Fu insomma un successo, ma un successo umiliante, e nel saggio Di chi è la colpa?, pubblicato sul «Politecnico» nel settembre 1866 e poi più volte ristampato nelle Lettere meridionali, Villari si domanda appunto chi siano i colpevoli di questa umiliazione. La risposta fece rumore, a giudicare dal ricordo di Giovanni Bonacci che si legge nella premessa alla ristampa del 1925 di un altro saggio di Villari, L’Italia e la Civiltà: «Nel 1866, il notissimo farmacista Erba chiese il permesso di ristampare l’articolo Di chi è la colpa? nella carta da involgere le boccette del suo rinomato sciroppo, e pel rumore suscitato dallo stesso articolo al Villari fu offerta a Bologna la candidatura politica contro Minghetti».

La colpa – osserva Villari all’inizio del suo discorso – sarebbe dei capi, dei governanti, di coloro che hanno «sempre tenuto il mestolo in mano, e a danno del Paese». Ma è una risposta che non risolve il problema, lo rinvia soltanto. Intanto perché l’Italia ha avuto libere elezioni: dunque, si domanda Villari, come mai il Paese s’è lasciato «cosi lungamente governare da tali uomini?». E poi perché le sconfitte dell’estate, al di là delle carenze di Cialdini, La Marmora e Persano, non erano dipese tanto da mancanza di leadership quanto da mancanza di organizzazione e di pratica della guerra: «In un punto mancò il cibo, in un altro la munizione, un ordine non giunse a tempo, un altro fu male eseguito, il volontario fu sprovvisto d’ogni cosa». Di chi è davvero la colpa, allora? Domanda che, allora come oggi, ne poteva implicare un’altra più grande: di chi è la colpa, se gli italiani sono così?

Nelle prime pagine del saggio, Villari elogia l’esercito del Regno appena nato per aver saputo avvicinare in pochi anni, rendendoli solidali, uomini che erano a malapena in grado di intendersi perché parlavano dialetti diversi. Questi soldati sono stati eroici: «Noi li abbiamo visti sugli alberi del Re d’Italia continuare il fuoco, mentre la nave rapidamente affondava». Ma gli eroi non bastano, perché «la guerra è l’arte di ammazzare, non di farsi ammazzare». E la guerra moderna è soprattutto, ormai, un gioco di tecnica e strategia, in cui contano la velocità delle comunicazioni, l’efficienza dell’approvvigionamento, le risorse dell’ingegneria e della meccanica. In tutti questi settori, l’Italia appena unificata ha un ritardo pauroso rispetto a tutte le nazioni europee, e il fallimento nella guerra si deve anche a questo ritardo, cioè all’arretratezza del sistema produttivo italiano. Ma c’è soprattutto un’insufficienza nella formazione dei soldati, e più largamente nell’educazione e nell’istruzione dei cittadini. «Quando – scrive Villari – le ciurme della nave americana o inglese sono in riposo, voi trovate i marinai occupati a leggere. I nostri son costretti a dormire o giocare. Quando i coscritti prussiani si presentano al Consiglio di leva, la prima cosa si esamina se sanno leggere e scrivere. E quando un Municipio presenta più di un analfabeta, si apre un’inchiesta per esaminare la cagione del fatto strano». Né le cose vanno meglio se dalle reclute si volge lo sguardo agli ufficiali: «Quando in tempo di pace gli ufficiali francesi o prussiani sono di guarnigione, voi li trovate occupati nei disegni, nelle scienze militari, nella storia, e molte opere celebrate di geografia, di storia, di letteratura escono dalla loro penna. Osservate le carte geografiche dello Stato Maggiore austriaco o prussiano; sono lavori ammirabili per esattezza scientifica […]. Che cosa siamo noi che, facendo la guerra nel proprio Paese, abbiamo più volte sbagliate le strade?».

Questo è il popolo italiano. E l’élite, la classe dirigente? L’Italia, sostiene Villari, non possiede un’élite degna di questo nome. I dirigenti sono in parte vecchi amministratori degli Stati pre-unitari, uomini quasi tutti anziani, spesso corrotti, disabituati alla libertà. In parte sono giovani liberali senza cultura e senza esperienza, in nessun modo in grado di amministrare una nazione di 22 milioni di abitanti. In parte, infine, sono burocrati piemontesi abituati a governare un piccolo Stato di nessuna importanza nello scacchiere internazionale, e ora promossi alla guida di una delle maggiori nazioni europee. «Quando – scrive Villari – gl’impiegati dei caduti governi e i liberali delle nuove province si unirono ai Piemontesi, questi dettero uno straordinario contingente burocratico a tutta Italia. Si trattava d’attuare le leggi e la politica del Piemonte, e i suoi uomini avevano una reputazione d’onestà, di capacità ed attività superiore agli altri. E cosi il buon maestro elementare di Torino diveniva, nell’Italia meridionale, un cattivo ispettore, un pessimo direttore. E questo lavoro si eseguì sopra una larghissima scala: il Capo-Sezione fu subito Capo di Divisione, e questi volle essere Prefetto, e il maestro elementare insegnò nel liceo. Quindi, nel medesimo tempo, si vide sgovernata l’Italia, peggiorato il Piemonte, e buoni impiegati divenire mediocri o pessimi».

Vince la guerra chi, come i prussiani, può contare su un sistema produttivo efficiente e dinamico; ma – argomenta Villari – possiede un sistema produttivo simile soltanto chi ha una burocrazia efficiente (e l’Italia ha invece il moloch insieme pletorico e inadeguato che si è descritto) e un sistema educativo solido e aggiornato ai tempi. L’educazione italiana non ha saputo veramente arrivare al popolo, e si è fondata troppo a lungo sulla retorica e sulla propagazione di un vacuo umanesimo; le pagine che Villari dedica alla scuola e all’università sono tra le più acute del saggio, e culminano in questa sintesi memorabile: «Non è il quadrilatero di Mantova e Verona che ha potuto arrestare il nostro cammino; ma è il quadrilatero di 17 milioni di analfabeti e 5 milioni di arcadi».

Di vacuo umanesimo traboccano le scuole ancora oggi, ma non è solo per questa ragione che il saggio di Villari merita di essere letto. I lamenti degli intellettuali italiani sull’indole dei loro compatrioti sono quasi sempre stucchevoli (lo sono persino certi passaggi del capolavoro che è il Discorso sui costumi di Leopardi). Ma Villari non ragiona da moralista bensì da storico e sociologo, e soprattutto da uomo che conosce bene la pubblica amministrazione, e le sue osservazioni non vertono quasi mai sul carattere degli italiani ma sul modo in cui gli italiani vivono e dovrebbero vivere: sul popolo più che sugli individui. Tra le poche eccezioni, tra i pochi giudizi sul particolare e non sul generale, c’è questo paragrafo sul «mal volere» che sembra proprio scritto oggi, e che spero invogli molti lettori ad andare in biblioteca o a cercare il pdf delle Lettere meridionali in rete:

«Avete voi mai conosciuto un Paese dove la calunnia sia così potente e cosi avida, dove in così breve tempo si sia lacerato un ugual numero di riputazioni onorate? Si grida per tutto che ci vogliono uomini nuovi, perché gli uomini vecchi sono già consumati; ma non appena si vedono i segni di un qualche giovane di vero ingegno che sorge, un mal volere, direi quasi, un odio infinito, s’accumula contro di lui e lo circonda. La mediocrità è una potenza livellatrice, vorrebbe ridurre tutti gli uomini alla sua misura, odia il genio che non comprende, detesta l’ingegno che distrugge l’armonia della sua ambita uguaglianza».

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Alle origini dell’indipendenza della Toscana

14/12/2016 da Alberto Lopez

 

Alberto Lopez  Comitato fiorentino per il Risorgimento

Mercoledì 7 dicembre nella Sala Gonfalone del Palazzo del Pegaso ( più noto storicamente come Palazzo Panciatichi ) a Firenze si è tenuta la presentazione del dizionario storico curato da Fabio Bertini “Le Comunità Toscane al tempo del Risorgimento” ( pagg.1529, Editore De Batte, Livorno).

Sono intervenuti Eugenio Giani, presidente del consiglio regionale della Toscana, Cosimo Ceccuti, presidente della Fondazione Spadolini Nuova Antologia, Luca Mannori, direttore del Dipartimento di Scienze sociali dell’Università di Firenze, Sandro Rogari, presidente della Società Toscana per la Storia del Risorgimento ed infine Marcello Verga, membro per l’Università di Firenze del comitato di gestione del Centro Interuniversitario di Ricerca sulla Storia delle Città Toscane; moderati da Adalberto Scarlino, presidente del Comitato Fiorentino per il Risorgimento, alla presenza di un nutrito pubblico, nonché del curatore e di alcuni dei suoi collaboratori fra i quali rammento Andrea Giaconi, segretario del Comitato Pratese per la promozione dei valori risorgimentali.

Per ovvie ragioni di brevità non potrò che soffermarmi solo su alcuni dei passaggi salienti di ciascuno, seguendone l’ordine cronologico.

Giani fa subito notare come il lavoro storiografico compiuto vada ben oltre il limite temporale indicato dal titolo dell’opera, partendo da una ricostruzione dei fatti che risale alla seconda metà del ‘700, trattandosi di una premessa ineludibile per una vera comprensione della genesi delle comunità toscane che si configureranno nel secolo successivo. Sottolinea come Pietro Leopoldo d’Asburgo-Lorena ( Vienna, 1747 – ivi, 1792 ), granduca di Toscana dal 1765 al 1790 ( quando divenneimperatore del Sacro Romano Impero ), all’amministrazione paternalista dei suoi predecessori ne sostituisca una più responsabile e partecipata attraverso una riforma municipale, volta a favorire un’attività più autonoma degli enti locali, realizzatasi anche attraverso il raccoglimento dei numerosissimi borghi di origine medievale in un numero di comuni di poco dissimile da quello attuale. Risulta così che la Lombardia, che è circa due volte la Toscana, ha ancora oggi circa millecinquecento comuni, ben più di cinque volte quelli toscani!

Scarlino, invece, lamenta come il Risorgimento non trovi più uno spazio adeguato nei programmi scolastici e come il dizionario, grazie ai numerosi riferimenti biografici, oltre alle 1529 schede delle comunità censite, possa contribuire alla conoscenza dei luoghi e delle personalità che contribuirono al faticoso cammino di conquista delle libertà e dell’indipendenza di cui godiamo tutt’oggi. Dopo aver sottolineato le pagine che ricordano Ferdinando Bartolommei, il liberale cavouriano protagonista degli anni cinquanta fino alla insurrezione del 27 aprile 1859, raccomanda alla lettura i capitoli che mettono in risalto la vivacità culturale e politica di alcuni comuni: Cavriglia, con i suoi 34 volontari arruolati nell’esercito sabaudo nella prima guerra dell’Indipendenza italiana e con le iniziative preziose per la cultura popolare, come la costituzione di bande musicali, da quella di Montegonzi alla Filarmonica “Umberto Giordano” ( la cui storia ènel volume di Giovanni Marrucchi, edito nel 2011 per il centocinquantenario nazionale, promosso da Antonella Fineschi della tessa Filarmonica ); Dicomano, con l’eroico farmacista Antonio Baldini e con gli 851 voti del plebiscito del 1860 favorevoli all’unione alla monarchia costituzionale del re Vittorio Emanuele; Incisa, con quello straordinario personaggio che fu Antonio Brucalassi, scienziato, letterato, astronomo, studioso di storie patrie, biografo di quella Lucrezia Mazzanti che nel 1529 si uccise per non sottostare alla violenza di soldati spagnoli; una storia presa da esempio, nel Risorgimento, di sacrificio per la libertà ( come ha ben documentato una recente ricerca di Cinzia Lodi ).

Ceccuti approfondisce il contributo che Pietro Leopoldo diede alla modernizzazione della Toscana tramite l’abolizione dei feudi, le bonifiche della Maremma senese e della Val di Chiana, la costruzione di nuove infrastrutture e la riforma religiosa che pose forti limiti al potere ecclesiastico avvicinando, con la complicità del vescovo di Pistoia Scipione de’ Ricci, il clero toscano su posizioni gianseniste e che costò la condanna di Pio VI. Ma il dizionario è più della ricostruzione dei grandi eventi, è storia delle popolazioni, del loro lavoro e della maturazione della consapevolezza di essere comunità. È la storia del loro contributo ai fatti che condussero alla libertà. Ma le schede, che si contraddistinguono per l’originalità, testimoniano non solo i momenti esaltanti del Risorgimento, ma anche le paure e le resistenze che comprensibilmente ci furono di fronte al cambiamento. Ma cosa resta del Risorgimento nella Toscana di oggi? È quanto si chiede Ceccuti ed è il quesito che sottende tutta l’opera. La risposta resta in parte sospesa, come deve essere per ogni opera scientifica di qualità. In parte, si può dire che di quell’epopea rimane la grande Toscana delle identità collettive.

Mannori osserva come il dizionario sia lo specchio di una sensibilità storiografica recente che presta attenzione al locale per arrivare al generale. Vi è raccontato come i toscani del ‘800 arrivarono a scoprire la dimensione della politica partecipata non dal centro, ma dalla periferia fino ad arrivare a ricomporre un quadro nazionale, in virtù del fatto che all’epoca ciascuno non viveva la realtà nazionale, ma era partecipe di quella locale della comunità. Le schede sono un censimento paziente che ricostruisce un quadro complessivo delle feste, delle tipografie, dei circoli, del volontariato e della nascita dei partiti, cioè dell’insieme di iniziative e cose che contribuirono alla formazione di una sfera pubblica, non trascurando di testimoniare quanto questo cammino di emancipazione sia stato difficoltoso. Ma il dizionario, conclude, è altro ancora. È concepito come un testo di geografia storica che si presta bene ad essere una base per un atlante storico di più facile lettura e consultazione.

Rogari, invece, rammenta come il libro debba essere trattato per quello che è: uno strumento funzionale agli scopi specifici del lettore. Ciò non toglie che possegga una visione di insieme. Infatti, si può notare come la prospettiva storiografica del Risorgimento che scaturisce dalle diverse realtà locali non sia del tutto riconducibile alle tipologie che tradizionalmente identificano la Toscana nelle sue parti. È questa un’altra delle questioni storiografiche sollevate nel lavoro. L’opera si conferma così come un mosaico di tasselli utili per costruire percorsi diversi.

Verga, con riferimento a quanto già detto negli interventi precedenti, invita a prestare attenzione al fenomeno non casuale che le maggiori fratture e rivolte scaturirono proprio dalle riforme che colpivano il culto popolare. Che dove i legami di fedeltà verticale che caratterizzarono l’Antico Regime erano più forti, le resistenze alle riforme leopoldine ed ai successivi movimenti democratici furono più intense. Nonostante queste resistenze, che si protrassero nel XIX secolo, le riforme delle comunità non mancarono di produrre i loro effetti, portando per la prima volta alla partecipazione degli ebrei nelle amministrazioni locali. Con le riforme religiose, invece, la cittadinanza cessò di coincidere con il battesimo. Dopo che le nuove infrastrutture, come la ferrovia, ebbero prodotto i loro effetti di avvicinare fisicamente i territori con le conseguenti positive ricadute economiche, non tardarono ad arrivare anche i mutamenti di opinione più favorevoli al nuovo ordinamento. Sulla proposta di un atlante storico, infine, nota come sia difficile cartografare le differenze che emergono dalle schede.

Concludono brevemente l’incontro Giaconi e Bertini che, oltre a ringraziare quanti hanno contribuito alla realizzazione dell’opera osservano, il primo, l’importanza del dizionario come strumento di consultazione, per conoscere e comprendere il Risorgimento al di là delle mura di appartenenza; per conoscerne le ricadute locali e come il libro sia stato effettivamente pensato come atlante illustrativo ed interpretativo delle riforme leopoldine e del processo risorgimentale. Con l’auspicio che possa avvicinare i lettori ad un periodo storico che per i valori è molto più vicino a noi di quanto si creda. Dell’intervento del secondo, invece, ricordo su tutto una cifra: il lavoro è partito, come di deve, dai dati, rivolgendosi in prima istanza all’ANCI. Interrogati su cosa avessero del Risorgimento, solo il dieci per cento dei comuni interpellati hanno risposto. Di questi i più hanno detto di non possedere nulla. Il dizionario testimonia anche, con le bibliografie che accompagnano ciascuna delle schede del libro, oltre ad altre cento pagine di bibliografia generale, quanto ci sia di inesatto in questa affermazione.

Per me questa presentazione è la migliore risposta che si può dare a quanti contestano la scelta di Giani di aver scelto il 27 aprile come data ufficiale per festeggiare l’indipendenza della Toscana nella ricorrenza della fine del Granducato, avvenuta con l’allontanamento di Leopoldo II di Asburgo Lorena ( Firenze, 1797 – Roma, 1870 ) nel 1859. Il dizionario, infatti, con la sua ricca documentazione testimonia come quel 27 aprile di centocinquantasette anni fa, sancisca non accidentalmente, ma con partecipazione di popolo e in modo consapevole, non senza vicende e risvolti contrastanti, la fine della dominazione straniera della Toscana e l’inizio di un governo autonomo che condusse di lì a poco ( i risultati del plebiscito sull’adesione della Toscana al Regno costituzionale dei Savoia sono del 12 marzo 1860 ) alla scelta libera di far parte dell’embrione di quello che sarebbe diventato lo Stato unitario italiano. Perché non bisogna dimenticare che, per quanto possa essere stato illuminato, Pietro Leopoldo vedeva, comunque, nel piccolo stato dell’Italia centrale un territorio funzionale agli interessi dell’impero di Vienna ed i suoi successori, non esitarono, quando lo ritennero necessario alla conservazione dello status quo, ad adottare provvedimenti liberticidi, come lo stesso mite Canapone che smantellò le garanzie costituzionali edificate prima dei moti del ’48; partire dalla seconda metà del 1850 evitò di convocare il Parlamento, nel ’52 soppresse la libertà di stampa ed accettò fino al ’55 l’occupazione militare con la quale il governo di Vienna intendeva affermare il proprio protettorato sul Granducato. Quindi, bene ha fatto l’amministrazione regionale ad istituire una festività che sia occasione per tutti i cittadini toscani di ricordare il tortuoso cammino compiuto nel passato, più vicino a noi di quanto si voglia riconoscere, verso le libertà.

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La Politica e gli ideali perduti

21/11/2016 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

La gigantesca redistribuzione delle risorse su scala mondiale è avvenuta a spese dei cittadini europei e americani. Le diseguaglianze sono aumentate. La Destra e la Sinistra non solo si sono accorte con grande ritardo di come si stavano mettendo le cose, ma poi non hanno saputo cosa fare

Ernesto Galli Della Loggia    Corriere della Sera 15 novembre

Nessun esponente politico europeo potrà mai fare proprio previo opportuno adattamento lo slogan della campagna elettorale di Donald Trump «rendiamo di nuovo grande l’America». Da lungo tempo, infatti, la grandezza non abita più questa parte d’Europa: non ultimo per la buona ragione che abbiamo imparato sulla nostra pelle di quante lacrime e sangue grondi quasi sempre la grandezza quando si tratta di politica. Ciò nonostante i risultati delle elezioni americane ci riguardano da vicino poiché esse valgono a far luce su alcuni nodi critici caratteristici pure delle nostre società. Ma non già solo su quello continuamente evocato in questi giorni del «politicamente corretto», diventato adesso (ma solo adesso) oggetto di universale deprecazione. Ci sono cose che contano assai di più. Che dovrebbero contare assai di più agli occhi sia della Destra che della Sinistra europee se queste vogliono continuare ad avere qualcosa da dire ai loro elettorati.

Il nodo più importante è quello rappresentato dal binomio liberismo–globalizzazione che da almeno un trentennio domina l’orizzonte mondiale. Ora non c’è dubbio che anche grazie ad esso su tutto il pianeta centinaia di milioni di persone sono uscite dalla povertà. Ma nei Paesi occidentali è avvenuto l’opposto. Ammettiamo pure che la gigantesca redistribuzione delle risorse su scala mondiale prodotta dal binomio di cui sopra sia stata e sia moralmente giusta

Essa tuttavia è avvenuta, in sostanza, a spese di una parte non indifferente dei cittadini europei e americani. Nella maggior parte dei nostri Paesi le diseguaglianze tra i redditi e le differenze di status sono di conseguenza aumentate di molto. È cresciuto il numero dei poveri. La mobilità sociale si è quasi del tutto bloccata: chi oggi vive nell’indigenza e nel disagio, in squallidi quartieri dormitori, in periferie prive di tutto, non ha quasi più alcuna speranza che i propri figli abbiano domani un’esistenza migliore. Si calcola ad esempio che negli Stati della costa orientale degli Usa, roccaforte da sempre ( e anche una settimana fa) del Partito democratico, la probabilità di un bambino nato dai genitori più poveri di raggiungere la classe più elevata si aggiri in media (in media) intorno al 5 per cento.

La Destra e la Sinistra europee tradizionali non solo si sono accorte con molto ritardo di come si stavano mettendo le cose, ma quando pure lo hanno fatto — trovandosi oltre tutto alle prese con la crisi economica sopraggiunta nel 2008 — non hanno poi saputo cosa fare. Molto probabilmente perché convinte di essere ormai le padrone in regime di monopolio del mercato elettorale. Così più o meno dappertutto Destra e Sinistra hanno lasciato che i sistemi di protezione del Welfare (da quello delle pensioni a quello della sanità) lentamente ma implacabilmente si deteriorassero e perdessero pezzi; e insieme che il sistema fiscale volto ad alimentarlo continuasse a favorire attraverso vari espedienti legali le medie e grandi ricchezze. Legatesi con la massima superficialità a una moneta unica e alle relative politiche di bilancio di natura restrittiva, le forze di governo tradizionali non sono state in grado di creare flussi di investimenti pubblici capaci di assorbire le crescenti quote di disoccupazione, nel mentre però continuavano a elargire finanziamenti statali a sostegno delle più varie attività e degli interessi forti. In Paesi come l’Italia o la Grecia, poi, esse hanno continuato a permettere tassi di evasione fiscale altissima. Un po’ dappertutto, infine, dove più dove meno, hanno assistito senza muovere un dito al degrado dei sistemi d’istruzione pubblica, e al loro concomitante abbandono da parte dei figli delle classi agiate, con relativo effetto logorante su ogni futura coesione sociale.

Contemporaneamente tale coesione è venuta incrinandosi anche per un’altra via: quella dei comuni legami ideali. Fino a qualche tempo fa, e sia pure in modi diversi a seconda delle loro diverse storie, tanto la Destra che la Sinistra europee tradizionali traevano da tali storie un loro specifico rapporto con numerose dimensioni collettive, ognuna espressione e matrice di importanti valori condivisi: la nazione, la classe, lo Stato, il partito, il sindacato, la Chiesa, la famiglia. Questo complesso universo di legami e di fedeltà, spesso tra loro intrecciati e sovrapposti, ha subìto l’urto disgregatore dei tempi nuovi.

Nel vecchio continente come negli Stati Uniti, i partiti della Destra e della Sinistra egemoni non hanno capito — o lo hanno capito solo molto debolmente — che in questo modo, però, si apriva un gigantesco vuoto nel corpo sociale. Un vuoto che unito alle molteplici difficoltà economiche di cui ho detto sopra, era la potenziale premessa per la diffusione in molti di uno stato d’animo di abbandono e di spaesamento, di solitudine, era la premessa per l’insorgere di un dubbio sottile ma angoscioso sul valore della propria identità e della tradizione del proprio gruppo, di oscuro timore circa il futuro.

Invece di comprendere tutto questo, invece di cercare dunque nuove motivazioni e nuove forme per le dimensioni della vita collettiva in crisi, invece di cercare il modo di rinvigorire i valori in esse contenute il più delle volte la Destra e la Sinistra di sistema hanno addirittura assecondato di fatto i processi di disgregazione dei legami sociali.

Invece di ricordare che la politica si alimenta di passioni e di sogni, che è quella cosa capace di gettare un ponte tra ciò che è stato e ciò che potrebbe essere, hanno dato mano a ogni lesione concreta o simbolica del passato (si trattasse di un paesaggio, di un luogo o dei programmi scolastici), hanno favorito la messa da parte di tutto quanto fosse dichiarato «sorpassato» o «antieconomico» (dalla maestra unica nelle elementari agli uffici postali e agli sportelli delle biglietterie delle stazioni in tanti centri minori).

Schierandosi regolarmente a sfavore del «piccolo» e dalla parte del «grande», a sfavore della parte più culturalmente arretrata, più anziana, più geograficamente periferica, più indigente della popolazione; a sfavore dell’ identità dell’uomo della strada contro i sacri diritti del libero individuo emancipato.

Dimenticando che però quando arriva il momento di votare, si dà il caso che i piccoli, che la gente qualunque, che gli uomini della strada, possano alla fine risultare in maggioranza.

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Quel silenzio tombale delle istituzioni sull’annessione del Veneto all’Italia

24/10/2016 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

A Cittadella (Padova), sventolerà il Leone di San Marco a mezz’asta, in segno di lutto

Ernesto Galli Della Loggia   Corriere della Sera 21 ottobre

Da sabato, a quel che riferiscono le cronache, sul municipio Cittadella, un comune poco lontano da Padova, la bandiera veneta con il leone di san Marco sventolerà a mezz’asta con il segno del lutto, a ricordo di quello che le locali autorità considerano una sciagura tra le maggiori: cioè l’unione del Veneto (nonché di Mantova e di buona parte del Friuli per la verità) all’Italia all’indomani della III guerra d’indipendenza, di cui in questi giorni ricorre per l’appunto il 150esimo anniversario. Ma non sono affatto soli il sindaco e la giunta di Cittadella. In tutto il Veneto, infatti, questo anniversario è accolto da un silenzio tombale che vuole essere di denuncia e di mestizia: nessuna commemorazione ufficiale, nessuna iniziativa pubblica, nessuna manifestazione di alcun tipo. Assenti anche le istituzioni culturali, a cominciare da quella Università di Padova che pure tante pagine ha scritto nella storia del patriottismo italiano. Attilio ed Emilio Bandiera, Daniele Manin e le altre centinaia di poveri veneti illusi che sopportarono il carcere, l’esilio e si giocarono la pelle per l’unità e la libertà d’Italia se ne facciano una ragione, insomma: di loro e di quelle vecchie storie i loro successori non ne vogliono sapere più niente.

Che tutto ciò corrisponda al reale sentimento della gente che abita tra il Mincio e l’Isonzo, è tutto da dimostrare, e c’è da dubitarne assai. Di sicuro corrisponde a qualcos’altro, invece. Alla sgangherata demagogia doppiogiochista della Lega (che fa la «veneta» in Veneto ma vorrebbe essere «nazionale» a sud del Po), e dall’altro al conformismo politico e alla fragilità ideale di tutti gli altri attori della scena politica locale, i quali da tempo si arrendono senza fiatare al ricatto leghista. Dal Pd, che — in questo caso con la lodevole eccezione del sindaco di Treviso — sembra ancora troppo spesso ammaliato dalle fole del «federalismo» anti-italiano , ai partiti della Destra, rovinosamente inerti e paralizzati come sempre di fronte ai berci di Salvini e ai favorucci di Zaia. Ma anche a Roma, per la verità, lo Stato nazionale non sembra stare a cuore più di tanto, se è vero, come è vero, che le distratte autorità centrali della Repubblica (a cominciare dal Ministero dell’istruzione o dalla Presidenza del Consiglio ) si sono ben guardate dal rompere il silenzio tombale di Venezia e dintorni.

Eppure sarebbe bastato poco, sarebbe bastato un segnale: chessò riunire il Consiglio dei ministri, per una volta, nella città della laguna. Alla fin fine qualche italiano è rimasto che vuole continuare a sentirsi innanzi tutto tale.

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La bellezza perduta nelle nostre città

14/10/2016 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Ernesto Galli della Loggia  Corriere della sera 9 ottobre

A chi appartengono Firenze, Roma, Venezia, i grandi luoghi della bellezza italiana? A chi anche quelli meno noti, i tanti borghi sparsi nella Penisola, per esempio quelle autentiche gemme dell’Umbria che sono Bevagna e Montefalco? Chi ha titolo a decidere del loro destino? si chiede inevitabilmente chi oggi visita questi luoghi . Se lo chiede davanti allo spettacolo dello scempio che se ne sta facendo. Lasciamo perdere la calca soffocante dei turisti italiani e stranieri che si aggirano di continuo in un paesaggio urbano in genere concepito per la ventesima parte di quelli che oggi vi aggirano.
Lasciamo perdere dunque le gimkane tra le gambe della gente sdraiata come se nulla fosse in mezzo alla strada, o il percorso continuo a zig zag cui si è costretti per evitare di essere travolti da gruppi di turisti procedenti come rulli compressori con gli occhi fissi sul segnacolo brandito dalla loro guida, e lasciamo perdere pure gli assalti ai mezzi pubblici, o le pipì in mezzo alla strada e i tuffi nei canali delle cronache di questa estate. Ma quello che non si può lasciar perdere è lo stupro dei luoghi, lo stravolgimento dell’ambiente fino alla sua virtuale cancellazione. Tutto quello che il passato aveva fin qui prodotto – botteghe, commerci, edicole, angoli appartati , dignitosi negozi – tutto o quasi sta per scomparire o è già scomparso.

Al suo posto minimarket, rivendite di cianfrusaglie orribili spacciate per souvenirs, losche hostarie con cibi congelati, caldarrostai bengalesi in pieno luglio, miriadi di bugigattoli per pizze a taglio, pub improbabili, sedie e tavolini straripanti fino alla metà della strada e presidiati da petulanti «buttadentro», gelaterie in ogni anfratto. Per non dire dello stuolo infinito di rivenditori extracomunitari di merci false, delle mille insegne in un inglese «de noantri», della marea di Bed & Breakfast spuntati dovunque come funghi. Non chiudiamo gli occhi di fronte alla realtà: i centri storici (e non solo loro) delle più belle città italiane e molte delle località cosiddette minori sono ridotti a questa informe poltiglia turistico- commerciale. Un cinico sfruttamento affaristico si sta mangiando ogni giorno un pezzo del nostro passato, del nostro Paese, un pezzo di quella «grande bellezza» di cui pure ama riempirsi la bocca la sempiterna retorica della chiacchiera politica.
Di tutto quanto ho detto conosciamo i responsabili. Sono per la massima parte i poteri locali, le amministrazioni comunali, gli assessori e i sindaci. Questi ultimi soprattutto, per la loro funzione di guide e di responsabili politici ultimi. Sono i Comuni infatti che rilasciano le licenze commerciali, che autorizzano il cambiamento della destinazione d’uso dei locali, che emanano le regole circa l’arredo urbano. Sono essi infine che dispongono della polizia locale la quale — anche su ciò è ora di dire una parola di verità — specie nei grandi centri da Roma in giù rappresenta uno dei tanti aspetti scandalosi di questo Paese, essendo quel ricettacolo che essa abitualmente è di clientele politiche e di assenteismo, esempio di una conclamata approssimazione professionale quando non di peggio. E’ la polizia urbana agli ordini dei sindaci che non controlla nulla, non è mai presente, lascia correre, fa finta di non vedere.

Il fatto è che i sindaci hanno un interesse preciso a fare andare le cose nel modo in cui vanno. Si chiama democrazia. Non la democrazia come ideale , beninteso, al quale siamo tutti devoti, ma la democrazia come realtà. Cioè come suffragio elettorale, come necessità di ottenere e mantenere il consenso degli elettori. Al pari di ogni altro politico l’interesse primo di ogni sindaco è quello di essere rieletto (è vero che non possono esserlo più di una volta nelle località al di sopra dei 15mila abitanti, ma un sindaco che anche dopo due mandati consegna la propria amministrazione agli avversari non ha certo delle buone credenziali per vedersi candidato ad altri incarichi); egli dunque non deve assolutamente dispiacere ai propri elettori. Soprattutto là dove il turismo è una risorsa essenziale ciò significa non dispiacere alle categorie che vivono più o meno direttamente del turismo: ai commercianti, agli albergatori, ai ristoratori, ai tassisti, ma anche alla connessa proprietà edilizia e a tutta la pletora di «abusivi» che ruota intorno all’organizzazione dell’ospitalità ( tipo i finti «centurioni» o gli autobus-chiosco diffusi a Roma). Tutti segmenti sociali, quelli appena detti, abituati a organizzare in modo ferreo il proprio voto amministrativo e ad allocarlo su chi promette di non impedire loro di continuare a sfruttare strade, piazze e monumenti per il proprio esclusivo interesse.

Nove volte su dieci determinandone così la vittoria .

Ma se dunque la «grande bellezza» italiana è la vittima predestinata del meccanismo del consenso elettorale a livello locale, è davvero così antidemocratico pensare di neutralizzare un tale meccanismo? Pensare ad esempio di dare al Ministero dei Beni culturali , attraverso i suoi organi periferici quali le Soprintendenze, la facoltà di porre il veto su un certo numero di atti amministrativi concernenti le materie di cui si è discorso sopra? E’ davvero antidemocratico , ricorrendo certe condizioni (tasso di assenteismo, numero di procedimenti disciplinari e giudiziari a carico dei loro componenti) pensare ad esempio di mettere le polizie locali agli ordini di un ufficiale dei Carabinieri temporaneamente distaccato in aspettativa dall’Arma?

Il fatto è che in società dal fragile spirito civico come la nostra, abitate da interessi privati furiosamente indisciplinati, la pedissequa applicazione del suffragio elettorale può spesso risolversi in un danno reale e grave inferto proprio ai valori sostanziali, al bene comune, per la cui difesa la democrazia è stata pensata. Classi politiche degne di questo nome, le quali non si lasciassero intimidire dalle parole ma guardassero ai fatti, dovrebbero convincersene e agire di conseguenza.

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Sì al burkini in spiaggia purché sia una scelta

19/09/2016 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Ernesto Galli Della Loggia   Corriere della Sera 1 settembre

 

La decisione del Consiglio costituzionale francese di non vietare il costume islamico è sacrosanta, ma affronta metà del problema. Come si fa a essere certi che le donne non siano obbligate a indossarlo? La nostra cultura deve contrastare ogni imposizione

Mi ha molto sorpreso il carattere fortemente unilaterale che ha avuto il dibattito sul burkini accesosi nelle ultime settimane. Un carattere unilaterale che la dice lunga sull’autocensura a cui noi europei più o meno inconsciamente tendiamo ad obbedire quando oggi ragioniamo dell’Islam: per l’appunto badando costantemente alla libertà da garantire della religione islamica ma assai poco a quella da garantire agli islamici.

Mi spiego. Dopo la sacrosante decisione del Consiglio Costituzionale francese ogni donna di fede islamica che voglia indossare il burkini è libera di farlo. D’accordo, non poteva essere diversamente. Questa però è solo la metà del problema che a suo modo il decreto antiburkini poneva e — malamente, molto malamente, ripeto — mirava a risolvere. Ho detto «ogni donna di fede islamica che voglia indossare il burkini…». Benissimo: ma la donna islamica che invece non volesse? potrà farlo? che ne è della sua volontà? L’altra metà del problema è per l’appunto questa.

È il problema posto dalla presenza nei Paesi europei di comunità come quelle islamiche caratterizzate in genere da strutture interne, familiari e non, fortemente gerarchizzate che assegnano alle donne un obbligo di sottomissione nonché una libertà di comportamento e di espressione limitato, spesso gravemente limitato (per esempio nel caso dell’abbigliamento e dei costumi sessuali e matrimoniali), rispetto a quello maschile. Si tratta di comunità, in altre parole, che sulla base di precetti religiosi (non m’interessa se fondati o no ) non riconoscono a uomini e donne né eguali diritti e doveri né eguale modalità di presenza nello spazio privato come in quello pubblico. Non solo, ma che, almeno per consuetudine, considerano normale che il maschio eserciti un potere di sanzione nei confronti della donna che non rispetti le regole suddette.

Si pone dunque un problema reale, mi pare: possono le nostre società e i nostri ordinamenti accettare che al proprio interno esistano vaste enclaves dove abitualmente (lo sottolineo: non come una sporadica eccezione, ma come loro abituale modo d’essere) non vigono alcuni basilari principi di eguaglianza? E pure ammesso (e tuttavia concesso con qualche difficoltà, lo ammetto) che nella stragrande maggioranza dei casi le donne accettino senza problemi, anzi addirittura volentieri, lo stato di inferiorità/sottomissione loro assegnato, può ciò bastare a cancellare l’anormalità del quadro complessivo e indurre quindi i poteri pubblici a non intervenire?

Mi viene in mente una fattispecie che presenta più d’una analogia con ciò di cui sto parlando. Fino a qualche decennio fa il codice penale italiano consentiva che il colpevole del reato di stupro vedesse il proprio crimine di fatto cancellato se egli si offriva di sposare la vittima, e se questa a propria volta accettava. Come forse qualcuno ricorda, un tale meccanismo «riparatore» aveva abitualmente corso in molte contrade specie dell’Italia meridionale. Nessuno però si prendeva la briga di indagare a quali e quante pressioni la vittima era stata sottoposta da parte di un ambiente, innanzi tutto familiare, il quale, se lei non avesse accettato di sposare il suo stupratore l’avrebbe considerata per sempre «disonorata». Orbene, proprio per rompere questa pressione ambientale spesso fortissima nei riguardi di un soggetto palesemente debole, della cui libera volontà non si poteva mai essere realmente certi, proprio perciò la legge fu cambiata, cancellando la possibilità del matrimonio «riparatore».

È consentito dire che più o meno allo stesso modo non è sufficientemente certo che una donna islamica che indossa il burkini lo faccia realmente di sua spontanea volontà? Insomma: il principio tipicamente liberale che purché non si rechi danno ad altri ognuno può fare ciò che vuole è, sì, un principio sacrosanto della nostra convivenza; ma lo è appunto perché si presume che ciò che si fa è effettivamente ciò che si vuole (non per nulla in vari casi la legge punisce molto severamente la coartazione, in qualunque modo conseguita, della volontà altrui; si pensi al caso del matrimonio). Ma come si capisce, tutto cambia se cambia la premessa.

Come risolvere allora questo contrasto tra una società la quale s’ispira largamente al principio che è vietato vietare, e alcune parti di questa stessa società che invece sono tuttora strette a un sistema di divieti anche molto penetranti riguardo la sfera dell’agire individuale, divieti per giunta sanzionabili e sanzionati in modo del tutto arbitrario ma efficace da autorità informali come possono essere un padre o un fratello?

Rigettata ogni idea di ricorrere a leggi che risulterebbero di fatto liberticide e controproducenti non resta che un solo modo: e cioè integrazione, integrazione e ancora integrazione, rivolta in modo speciale alle classi giovanili e portata avanti con risoluta fermezza. L’imposizione dell’obbligo scolastico a maschi e femmine con un controllo «spietato» e continuo del suo adempimento e dunque sanzioni durissime ai genitori inadempienti; un’istruzione concepita e organizzata con un corredo altrettanto obbligatorio di gite, visite a musei, spettacoli teatrali e cinematografici, attività culturali e sportive; diffusione capillare della lingua italiana mediante corsi per adulti con l’eventuale collaborazione di personale religioso islamico di provata fedeltà; e poi anche il rigoroso intervento della legge ogni volta che sia abbia il minimo sospetto di una violazione dei diritti della persona (dalla tratta delle donne ai matrimoni combinati per le minorenni, alle forme più o meno larvate di poligamia), nonché, per finire, una larga politica della concessione della cittadinanza — ma con il divieto della doppia cittadinanza — mirata in special modo ai giovani figli di stranieri nati in Italia (ormai sono decine di migliaia).

È con questi mezzi e molti altri che si può tentare quella lunga e difficile opera di migrazione culturale necessariamente conseguente alla migrazione geografica. Operazione lunga e difficile, per la quale ci vorrebbe un governo consapevole fino in fondo della sua necessità, e che non deve nascondersi il proprio obiettivo: provare a spezzare l’involucro comunitario che in un numero non indifferente di casi può rivelarsi per i singoli una terribile prigione. Altrimenti con il tempo andremo di sicuro verso il radicamento nella nostra Penisola di una, due, tre comunità straniere sempre più grandi e numerose, non comunicanti tra loro, alternative e in vari modi concorrenti con la preesistente comunità nazionale. Con l’effetto, alla lunga inevitabile, di far nascere un clima di latente guerra civile.

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