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I limiti della manovra economica e le ragioni del consenso

12/10/2018 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Sono chiari i difetti del Documento di Economia e Finanza ma le misure non hanno determinato una diminuzione del gradimento da parte dell’opinione pubblica, che sembra invece giudicare sempre più positivamente l’operato della maggioranza

Giovanni Belardelli  Corriere della Sera 7 ottobre

 

Commenti e analisi degli ultimi giorni hanno chiarito in modo convincente quali siano i limiti, e spesso gli aspetti decisamente negativi, della manovra economica del governo: dal forte aumento del deficit, con il connesso rischio di impennata degli interessi sui titoli di Stato, al carattere assistenzialistico di una misura come il reddito di cittadinanza. Ma proprio chi condivida queste critiche dovrebbe anche chiedersi come mai le misure economiche previste non abbiano determinato una diminuzione del gradimento da parte dell’opinione pubblica, che sembra invece giudicare sempre più positivamente l’operato dei partiti di governo (i sondaggi continuano ad attribuire ai gialloverdi insieme un consenso superiore al 60%).

Un consenso di massa è sempre fatto di orientamenti diversi, nel senso che in certi segmenti dell’opinione pubblica esso avrà soprattutto certe motivazioni, in altri ne avrà altre. Nell’assegnazione del reddito di cittadinanza il Sud appare senz’altro favorito; e non a caso il giudizio positivo su questa misura, come ha mostrato un sondaggio comparso su questo giornale (Corriere, 4 ottobre), è lì maggiore rispetto al Nord (ma è significativo che i favorevoli superino i contrari anche nelle regioni un tempo «rosse»). Tra i favorevoli alla manovra possiamo dunque banalmente collocare quei 5 milioni di persone che prevedono di usufruire del reddito di cittadinanza (più una consistente quota di quanti sperano di averlo e poi non lo avranno). A costoro sono da aggiungere i pensionati e pensionandi che contano di beneficiare della modifica della legge Fornero e dell’introduzione della pensione di cittadinanza. In ogni caso, un governo fortemente concentrato sulle pensioni non può che essere guardato con favore da molti in un Paese che vede una presenza consistente e crescente di anziani (al momento gli ultrasessantenni sono quasi il 30% della popolazione).

Tuttavia la platea dei direttamente o indirettamente interessati alla manovra (mettiamoci pure quanti beneficeranno della cosiddetta pace fiscale) non penso che basti a spiegare il giudizio così ampiamente favorevole di cui si diceva. Per farlo dobbiamo piuttosto rifarci a certi orientamenti profondi di un Paese, il nostro, che nei decenni passati è stato abituato da un potere politico in cerca di facile consenso a misure economico-assistenziali il cui costo era scaricato sulle successive generazioni. L’enorme crescita del debito pubblico costrinse a un certo punto a interrompere quelle politiche ispirate a un «keynesismo perverso», come è stato definito, ma le conseguenze durano fino a oggi. Non solo perché è stata costante la tendenza di un po’ tutti i governi ad aumentare la spesa pubblica.

Forse ancora più rilevante è il fatto che, anno dopo anno, quelle politiche hanno alimentato un processo che potremmo definire di «deculturazione»; un processo attraverso il quale un Paese che, dopo la seconda guerra mondiale, si era mostrato capace di reagire con vitalità, impegno, fatica, essendo anche per questo protagonista di una grande crescita economica, ha visto diffondersi sempre più una cultura assistenzialista, un’abitudine al sostegno pubblico, una sfiducia nel valore del lavoro e della competizione economica; tutto ciò insieme a un senso diffuso di irresponsabilità che consentiva (e consente ancora) di non porsi troppi problemi circa il debito caricato sulle spalle dei nostri figli e nipoti.

È anche questo insieme di sentimenti diffusi che porta oggi all’assenza di forti reazioni di fronte a una manovra che, come ha dichiarato il presidente dell’Inps Boeri, «trasferisce risorse da chi lavora a chi non lavora».

Naturalmente c’è una parte ancora grande del Paese che non ha perso l’antica operosità, che si impegna e compete sui mercati internazionali; non è affatto scomparsa quell’«Italia dell’energia» – come chiamarono l’Italia del dopoguerra Giuliano Amato e Andrea Graziosi in un loro libro – che coltiva le inclinazioni e le abitudini di un tempo; un’Italia che guarda con diffidenza, e spesso con piena consapevolezza del pericolo, a politiche che distribuiscono soldi che non abbiamo; che non pensa ci sia nulla da festeggiare quando aumentiamo il deficit, e con esso l’ammontare già stratosferico del nostro debito pubblico. Purtroppo, almeno per ora, la voce di questa Italia è sopraffatta da quella di chi immagina possibile una specie di «Paese dei balocchi» nel quale si consuma senza lavorare. Abbiamo letto tutti Le avventure di Pinocchio e sappiamo che il suo fu un brutto risveglio.

 

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