Martedì 28 maggio ore 18, 30 Cenacolo di Santa Croce
Convegno per il Centenario del passaggio della Romagna Toscana dalla Provincia di Firenze a quella di Forlì
Sala di Firenze Capitale, Firenze, 5 dicembre 2023
“Alessandro Manzoni tra le urne dei forti”, il video integrale
E’ disponibile il video integrale del convegno “Alessandro Manzoni tra le urne dei forti” che si è tenuto nel Cenacolo di Santa Croce a Firenze, in occasione del 150° anniversario della morte di Alessandro Manzoni, per ricordare l’anniversario della battaglia di Curtatone e Montanara (29 maggio 1848), uno dei momenti più significativi del Risorgimento.
Ubaldino Peruzzi Sindaco, il video integrale del Convegno
E’ disponibile il video integrale del convegno che si è tenuto nel Salone dei Duecento di Palazzo Vecchio il 13 dicembre 2022 su “Ubaldino Peruzzi Sindaco”
Mameli, il doppio calvario. Un patriota prima e dopo la morte
Nella biografia del giovane che scrisse dell’Inno nazionale, Gabriella Airaldi mette in rilievo i contrasti che opposero il movimento democratico a casa Savoia
Paolo Mieli Corriere della Sera 30 aprile
Il «cantore della prima e più autentica stagione risorgimentale» — così lo definisce Gabriella Airaldi in L’Italia chiamò. Goffredo Mameli poeta e guerriero che la Salerno manda in libreria il 2 maggio — nacque nel 1827 a Genova, città repubblicana «fieramente ostile al Regno di Sardegna» al quale apparteneva dal 1815. Il suo idolo fu, fin da giovanissimo, il più illustre dei genovesi dell’epoca, quel Giuseppe Mazzini che Mameli avrebbe incontrato la prima volta alle Cinque Giornate di Milano, nel 1848. All’epoca Mameli aveva 21 anni e pochi mesi dopo, il 6 luglio 1849, sarebbe morto nell’ultima battaglia di difesa della Repubblica Romana. Ventidue anni: così poco visse il ragazzo che nel 1847 aveva scritto l’Inno d’Italia.
Suo padre Giorgio, nato nel 1798 a Cagliari da una nobile famiglia sarda, si era imbarcato la prima volta a tredici anni e da marinaio sarebbe progressivamente salito di grado facendosi sempre più apprezzare dall’ammiraglio Des Geneys. Nel 1815 è guardiamarina di prima classe, nel ’17 sottotenente di vascello. Nel 1825, Giorgio Mameli si segnala nella spedizione a Tripoli, meritando la croce all’ordine militare di Savoia. Da questo momento la casa regnante, a partire dal sovrano Carlo Alberto, guarda con simpatia a Giorgio Mameli, anche a dispetto delle sue ostentate idee democratiche. La ribelle Genova all’epoca era un cruccio per i Savoia. Gabriella Airaldi descrive con efficacia le modalità dispotiche con cui Torino aveva cercato a quei tempi di domare la città: l’università chiusa dal 1821 al 1823 (le aule furono trasformate in dormitorio per le truppe piemontesi); l’onda repressiva che seguì a una serie di atti di insubordinazione; lo stesso Mazzini condannato a morte una prima volta nel 1833 per la sua attività cospirativa. Finché nel settembre 1846 gli animi si riaccendono in occasione delle rievocazioni di Giovanni Battista Perasso (detto Balilla) che nel 1746 aveva innescato una rivolta con il lancio di un sasso contro un alcuni soldati austriaci. Il giovane figlio di Giorgio Mameli è alla testa di quelle manifestazioni. Ha diciannove anni e l’anno successivo, come si è detto, scriverà le parole del Canto degli italiani destinato a diventare il nostro Inno nazionale. Nel frattempo il padre nella carriera sui mari è salito sempre più in alto: nel 1843 è stato fatto entrare nel Consiglio d’ammiragliato mercantile, nel ’47 avrà il comando della regia fregata San Michele, un incarico prestigiosissimo. Ma l’attivismo del figlio gli nuoce. Da quel momento, scrive la Airaldi, «comincia per lui un periodo difficile che, pur sfociato nella nomina a contrammiraglio, lo vedrà messo a riposo precocemente». Dopo la morte del figlio Giorgio verrà eletto deputato e però lascerà presto la vita pubblica.
Ma torniamo ai giovani repubblicani tra i quali crescerà Goffredo Mameli. Di che pasta sono fatte le loro idee rivoluzionarie? Di una pasta «americana». Mazzini, Garibaldi, il milanese Cattaneo si ispirano più alla Rivoluzione statunitense che a quella francese. Di sicuro, scrive Airaldi, «la Rivoluzione francese muove l’ordine gerarchico di un’Europa reazionaria», ma per alcune realtà repubblicane, «pur costrette in forme rigide, censuali e divise al loro interno», quella dell’89 è «solo una nuova spinta». Tra loro il grande battage sulla Rivoluzione francese, nota la Airaldi, non ha «oscurato» il fatto che, già dieci anni prima, la Rivoluzione americana aveva dato vita a «un sistema repubblicano, dove i diritti individuali e collettivi furono ampiamente promossi senza neppure mettere in gioco la parte religiosa». La propaganda francese, in quel momento, «vale soprattutto per le zone europee a regime assoluto e a economia chiusa per le quali l’America significa poco o nulla». Ma «molto meno per l’area in cui sono nati la città-repubblica e il governo degli uomini d’affari» . Altra cosa eccessivamente sottostimata è che molti rivoluzionari europei dell’epoca si riconosceranno nel pensiero di Mazzini e nell’azione di Garibaldi più che nella Rivoluzione francese e lo stesso varrà in tempi successivi per Gandhi, Nehru, Sun Yat Sen, i primi sionisti. Nelle Americhe, per compensazione, i liguri residenti o esuli svolgeranno un ruolo importante di diffusione delle idee di libertà, uguaglianza e solidarietà per le quali metteranno a disposizione capitali, fonderanno giornali e scuole.
Per questi giovani repubblicani il Medioevo sarà fonte inesausta di fatti e figure a cui ispirarsi; Dante è «la sorgente a cui tutti attingono»; e, andando più indietro, la Roma repubblicana — «un mito», nota Airaldi, «anche per inglesi e americani» — è quella a cui dovrebbe ispirarsi l’unità italiana. Il Medioevo genovese è particolarmente utile per il recupero di alcuni temi delle origini che giocano sui concetti di libertà e di lotta ai tiranni. A Genova si scrive su Paolo da Novi, sullo scontro Fieschi-Doria: lo farà anche Mameli. La storiografia genovese toccherà anche altri temi, in linea con una lettura del Medioevo che, scrive l’autrice, «non si aggancia alla storia dei castelli ma è legata all’identità mercantile della città, per cui fin dal Mille la libertà è vincolata al sistema politico repubblicano e agli orizzonti aperti del mercato e della finanza».
Torniamo adesso a Goffredo Mameli. Fallita l’esperienza milanese delle Cinque Giornate del ‘48, il giovane ragazzo genovese sarà a Roma nei giorni della Repubblica (1849). Le relazioni tra i leader politici e militari di quell’esperienza rivoluzionaria sono assai tese. Mameli cerca di mettere pace tra Mazzini e Garibaldi i cui rapporti sono precipitati addirittura nell’inimicizia. Garibaldi vuole molto bene al giovane Goffredo che nelle proprie memorie definirà «il vate guerriero, l’incomparabile Mameli». Il quale darà tutto sé stesso per la causa del «suo» generale. Nei giorni finali della Repubblica romana, l’eroe dei due mondi scatena un’offensiva per conquistare il casino dei Quattro Venti di Villa Corsini che domina il Gianicolo e Porta San Pancrazio, decisivo per la difesa di Roma. Goffredo Mameli partecipa agli assalti e al terzo, inizio di giugno, viene ferito da un suo commilitone: «un bersagliero», racconta lui stesso. Per un po’ di tempo sembra che l’unico rischio per lui sia quello di perdere una gamba. Dopo pochi giorni si rasserena: l’ipotesi dell’amputazione sembra allontanarsi. «La ferita s’era fatta seria», scrive alla madre, «si trattava nientemeno che di tagliarmi la coscia». Per poi aggiungere sollevato: «Fortunatamente non se ne fece niente ed ora vado migliorando giornalmente; non si parla più di taglio ciò che veramente mi va molto a genio». E concludere (non senza ironia): «Un galantuomo fa la sua figura anche con una gamba, ma con due è meglio — forse è un pregiudizio mio». Purtroppo però la cancrena fa il suo corso. E, poche ore dopo quel momento di ottimismo, Agostino Bertani lo informa che gli si dovrà amputare qualche dito del piede. Poi, il 26 giugno, è Mazzini in persona a notificare alla madre che al figlio verrà amputata la gamba. Andrà peggio, molto peggio: il 6 luglio — la Repubblica romana ha capitolato da poche ore — Mameli muore.
Ma qui è un altro dettaglio sul quale vogliamo soffermarci. Qualche settimana prima al giovane era stata affidata una delicata missione nella città che gli aveva dato i natali. Nei confronti della ribelle Genova il nuovo re, Vittorio Emanuele II, già da tempo aveva dato segni di insofferenza tant’è che per domarla aveva mandato come governatore il generale Giacomo Durando. E a Durando aveva consegnato un decreto di assedio in bianco: avrebbe dovuto mettere soltanto la data prima di scatenare un’ondata repressiva contro quella città ribelle piena di «anarchisti». Ci avrebbe pensato il sovrano a mandargli i militari per l’opera di pulizia. Sembrava che il re aspettasse solo qualche atto di insubordinazione dei genovesi che gli offrisse il pretesto per dar odine di procedere con durezza. Il ministro dell’Interno, il marchese Dionigi Pinelli tale auspicio lo aveva addirittura esplicitato: «Credo che uno scoppio di questi malumori che covano sia quasi desiderabile», aveva scritto. Per parte loro tra i genovesi, aggiunge la Airaldi, non c’era «differenza tra moderati e democratici nell’odiare il Piemonte», accusato di «favorire la prevalenza degli interessi del proprio ceto agrario» e di aver messo su «un’asfissiante organizzazione statuale». I genovesi diffidano della corte sabauda, preferiscono guardare alla Lombardia ed è nel nome della Lombardia che nel 1848 auspicano la guerra all’Austria.
È perciò naturale che i «malumori» di cui parlava Pinelli venissero allo scoperto dopo l’armistizio tra Piemonte e Austria del 26 marzo 1849 che aveva spiazzato Milano. Genova è in subbuglio, la rivolta trova un suo capo in Giuseppe Avezzana; Vittorio Emanuele II scatta all’istante e manda il generale Alfonso Lamarmora con 30 mila uomini a reprimere i moti provocati da quella che a Torino (e dallo stesso Lamarmora) viene definita la «setta» dei genovesi. E i 30 mila eseguono l’ordine nei modi più barbari: saccheggio, stupri, uccisioni. Il 5 aprile Lamarmora inizia il bombardamento; il 6 aprile i rivoltosi capitolano; il re scrive a Lamarmora per lamentarsi addirittura del ministro dell’Interno Pinelli mostratosi a suo avviso «debole» e per raccomandare allo stesso Lamarmora «molto rigore», in particolare nei confronti dei militari compromessi nella rivolta. Il 9 aprile i bersaglieri entrano in città e sono davvero spietati. Lo stato d’assedio si protrarrà fino all’11 luglio. Da Roma il 7 aprile, all’indomani della resa dei rivoltosi, Nino Bixio e Mameli partiranno alla volta di Genova per vedere se tutto è perduto e dare una mano ad Avezzana nel caso fosse possibile una ripresa della rivolta. I due restano lì tre giorni per rendersi conto che non c’è più niente da fare e ripartire alla volta di Civitavecchia, insieme a 450 volontari (protetti dalla marina militare statunitense) sul vapore da guerra Princeton.
Mameli farà in tempo a rientrare nei ranghi della Repubblica e a Roma le cose andranno come si è detto. Per una curiosa coincidenza il 6 luglio, giorno della morte di Mameli, sarà lo stesso in cui il ministro dell’Interno del regno di Sardegna scriverà al commissario regio di Genova vietando l’ingresso nel territorio del Regno di tutti i difensori della Repubblica romana. In particolare (e se ne fanno esplicitamente i nomi) Mazzini, Garibaldi, Bixio e l’appena defunto Mameli.
Curiosa storia (spesso alquanto trascurata) quella della ribellione antisabauda di una Genova già «italiana» nel bel mezzo dei moti risorgimentali del 1848-49. Rivolta genovese che oltretutto si ripeterà in coincidenza con la spedizione antiborbonica di Pisacane a Sapri, nel 1857. A causa di questi nuovi moti repubblicani genovesi, Mazzini verrà addirittura condannato a morte (per la seconda volta). Nel caso di Mameli, autore dell’Inno dell’Italia repubblicana, per tutto il tempo in cui regneranno i Savoia la riconciliazione con la patria avverrà — diciamo così — per gradi. È l’ultimo «calvario di Goffredo», così lo definisce Gabriella Airaldi; «abituale», aggiunge, «in un Paese in cui non contano virtù personali e memoria».
A lungo quello di Mameli resterà un corpo «clandestino». Nessuno saprà dove sia. Imbalsamato da Bertani forse fu portato prima a Santa Maria de Monticelli e poi inumato semiclandestinamente nel sotterraneo delle Stimmate. Quando i bersaglieri entreranno a Roma, nel 1870, i morti dei giorni della Repubblica romana verranno esclusi dal monumento in ricordo dei caduti del 1867 e dello stesso 1870. Si dovrà attendere il 1872 perché i resti di Mameli siano esumati e portati al Verano. Una «cerimonia mesta», scrive la Airaldi, «alla quale presenziano in pochi (tra loro Avezzana e Bertani) dove si canta l’Inno e si pronuncia qualche discorso d’occasione». Il 16 giugno 1876 la Camera dei deputati autorizzerà il governo a raccogliere al Gianicolo le ossa dei caduti per la difesa di Roma del 1849. Ma non quelle di Mameli che resteranno al Verano.
Si dovrà attendere il 1941 — con l’Italia mussoliniana in guerra e poco attenta a questo genere di cerimonie — perché siano trasferite nel Mausoleo ossario garibaldino, nel Sacrario dei caduti del 1849. Ripetiamo, questo accade nel 1941: cinque anni prima che Fratelli d’Italia sia scelto come nostro inno nazionale. Otto anni prima che sia celebrato il centenario della Repubblica romana. Genova per parte sua si riconcilierà definitivamente con i bersaglieri soltanto nel 1994 (145 anni dopo la repressione dei moti!) quando la città ligure deciderà di ospitare un loro raduno.
Ci sono oggi leggi che possano contenere l’inciviltà della gente?
Caro Direttore,
poiché non ho una virgola da cambiare in quello che dici sul tuo editoriale Decoro urbano e diritto alla salute ed alla quiete pubblica, potrei anche ringraziare e passare all’ordine del giorno. Invece mi vengono a mente, dietro la tua suggestione, alcune riflessioni. Le direi perfino attuali in tempo di campagna elettorale. Come tu fai capire un grande principio di libertà è quello per cui la mia libertà è illimitata di per sé, ma deve arrestarsi quando limita la tua. Va bene per la piazza e dovrebbe andare bene anche per le case private. La mia esperienza mi dice che non esiste più il freno dell’educazione e del rispetto. Nelle case si svolgono ore di esercitazioni musicali, magari di canto lirico, riunioni che assimilano gli appartamenti a pub, specialmente a Firenze città dove si affitta al nero agli studenti con grande facilità. E ciò nella assoluta indifferenza di chi dovrebbe rendersi conto, nel governare che le città e le case hanno cambiato fisionomia. Due elementi amministratori moderni dovrebbero considerare: 1) che oggi una gran parte del lavoro viene svolta da casa per via telematica e richiede concentrazione; 2) la popolazione “normale” è invecchiata nella media ed ha bisogno del riposo e della necessaria serenità.
Per quanto ne so io, le leggi servono a contenere la brutalità naturale ed oggi mi pare che la brutalità naturale sia in grosso recupero. Che dire?
Cari saluti,
Fabio Bertini
A passi di danza. Isadora Duncan e le arti figurative in Italia tra Ottocento e avanguardia
Villa Bardini (Costa San Giorgio 2) e Museo Stefano Bardini (via dei Renai 37)
Dal 13 aprile al 22 settembre
La prima mostra italiana dedicata alla danzatrice americana Isadora Duncan e al suo rapporto con le arti figurative italiane è ospitata a Villa Bardini e al Museo Stefano Bardini dal 13 aprile al 22 settembre.
Dipinti, sculture e documenti, fra i quali fotografie inedite, ripercorreranno il legame con l’Italia di colei che rivoluzionò le teorie accademiche della danza, per avviare una moderna e innovativa visione del corpo femminile, e del suo movimento, nello spazio, prendendo le mosse dall’influenza che ebbe nel contesto internazionale. Sono circa 170 i pezzi che saranno allestiti su due piani di Villa Bardini e una speciale sezione dedicata alle grandi sculture sarà allestita nel Museo Stefano Bardini.
L’esposizione a cura di Maria Flora Giubilei e Carlo Sisi, è promossa da Fondazione CR Firenze e da Fondazione Parchi Monumentali Bardini e Peyron, con il patrocinio del Comune di Firenze.
Orario: 10-19, chiuso i lunedì feriali, ultimo ingresso ore 18.00; biglietti: intero € 10.00, ridotto € 5.00.
Tel 055 20066233 (da lunedì al venerdì 15-18 e mercoledì 10-13)
eventi@villabardini.it
www.villabardini.it
Giuseppe Dolfi, il “capopopolo” del 1859, fra sovranità nazionale, democrazia, diritti sociali
Giuseppe Dolfi
Il “capopopolo” del 1859, fra sovranità nazionale democrazia,diritti sociali
Giornata di studi in occasione del 150° anniversario della morte di Giuseppe Dolfi
Sabato 27 aprile 2019, ore 9.30
Sala Gonfalone, Palazzo del Pegaso, via Cavour 4, Firenze
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Programma
Ore 9,30 Saluto ed intervento di apertura del Presidente del Consiglio Regionale della Toscana
Saluto ed introduzione del Presidente della Fratellanza Artigiana d’Italia Armando Niccolai
Comunicazione del Curatore della Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti Simonella Condemi
Coordinatore: Adalberto Scarlino Comitato Fiorentino per il Risorgimento
Ore 10,30 I SESSIONE
Democrazia, sovranità e costituzione
Roberto Balzani Università degli Studi di Bologna
Dolfi e la democrazia italiana: popolo, costituzione, sovranità
Fabio Bertini Associazioni Nazionali del Risorgimento
Dalla democrazia all’Internazionalismo. Percorsi fiorentini
Pietro Finelli Direttore Domus Mazziniana – Pisa
“Con cuore di onesto popolano” Giuseppe Dolfi tra patriottismo unitario e democrazia repubblicana
Ore 11,45 II SESSIONE
Gli orizzonti e i limiti della democrazia toscana
Christian Satto Università per stranieri di Siena
Popolo e élite nella rivoluzione toscana: Giuseppe Dolfi e Bettino Ricasoli
Claudio De Boni Università degli Studi di Firenze
Il tema dei diritti sociali al tempo di Dolfi
Ore 12,30 III SESSIONE
La dimensione sociale della rivoluzione nazionale e liberale
Anna Pellegrino Università degli Studi di Bologna
Il popolo di Dolfi: Patria, democrazia e lavoro nella Fratellanza Artigiana d’Italia
Ore 13,00 Light lunch
Giornata di studi in occasione del 150° anniversario della morte di Giuseppe Dolfi
Come farla finita con il fascismo
Autore Ferruccio Parri
A cura di David Bidussa e Carlo Greppi
Editore Laterza
Anno 2019
Pag. 156
Prezzo € 14,oo
«Non vogliamo che su questa pagina della vita italiana, su questa carica morale si possa stendere un comodo lenzuolo di oblio. Questo no, compagni giovani. Ora tocca a voi.»
Ferruccio Parri, uno dei maggiori esponenti dell’antifascismo italiano e della Resistenza, è una vera e propria guida. I suoi scritti e i suoi discorsi ci conducono, ancora oggi, attraverso una ragnatela di parole chiave necessarie per contrastare il ritorno di retoriche e pratiche violente e identitarie. Che se fasciste non sono, al fascismo assomigliano molto. L’antifascismo di Parri si inscriveva in una sorta di resa dei conti tutta italiana: obbedire alla Patria, disobbedire al Regime; tramandare il tempo lungo del Risorgimento come atto fondativo della libertà; richiamare alla responsabilità: il “doverismo” mi ha sempre dominato (e fregato)
Ferruccio Parri, (Pinerolo 1890 – Roma 1981), vicecomandante del Corpo Volontari della Libertà durante la Resistenza, è stato il primo presidente del Consiglio dell’Italia libera. Dopo una lunga militanza nel Partito d’Azione, si è impegnato in altre formazioni prima di lasciare l’impegno partitico. Ha dedicato la sua intera esistenza alla politica e non ha mai smesso di lottare contro il ritorno del fascismo.
Il 25 aprile non è «una cosa di sinistra»
LETTERE ad Aldo Cazzullo Corriere della Sera 21 aprile 2019
Caro Aldo, ritorno sulla sua risposta su Via Rasella perché ho apprezzato il suo equilibrato giudizio sul triste evento: «La bomba di via Rasella era meglio non metterla». Lei non teme le sfide. Il dibattito continua. Ora mi aspetto dalla sua parola, fuori del coro, che per il 25 Aprile, da dimenticare, si levi una voce per la «rappacificazione» e mettere una pietra tombale sull’evento che ci disonora.
Domenico Orlacchio
Caro Domenico, Non vorrei deluderla, ma non penso affatto che il 25 Aprile sia da dimenticare. La riconciliazione nazionale non passa dalla cancellazione del 25 Aprile; al contrario, quella data dovrebbe diventare il simbolo di valori — libertà, democrazia, rifiuto della dittatura, dell’antisemitismo, del razzismo — in cui tutti gli italiani dovrebbero riconoscersi. Questo non è accaduto e non accadrà. Anzi, più passa il tempo, più la faziosità cresce. Il punto è che la Resistenza viene considerata una «cosa di sinistra». Non è affatto andata così. Tra i partigiani c’erano molti comunisti, ma c’erano giovani di ogni fede politica: cattolici, monarchici, liberali; e moltissimi che volevano semplicemente evitare la leva di Salò. E poi ci furono tanti modi diversi di dire no ai nazifascisti. Lo fecero sacerdoti, suore, ebrei, carabinieri, militari, internati in Germania, pure ciclisti come Gino Bartali, che con la sinistra non avevano nulla a che fare. Questa percezione sbagliata è dovuta a due fattori.
Il primo è una certa arroganza di ambienti politici e intellettuali che si sono appropriati della memoria, con forzature inaccettabili: i fischi ai veterani della brigata ebraica; o il negazionismo sulle vendette seguite al 25 Aprile.
Il secondo è una certa debolezza culturale del centro e della destra antifascisti. Una debolezza, cari lettori, che vedo anche nelle vostre lettere: quasi tutte quelle che mi arrivano «da destra» non sono affatto severe verso la memoria del fascismo, e sembrano confermare il luogo comune per cui il 25 Aprile sarebbe appunto «una cosa di sinistra». Dire oggi «destra antifascista» in Italia sembra un ossimoro.
Eppure il nazifascismo fu sconfitto da liberali e conservatori, come Churchill e De Gaulle. A livello ovviamente diverso, in Italia vorrei ricordare il colonnello Montezemolo, monarchico e anticomunista convinto, ed Edgardo Sogno. Aldo Cazzullo