COMITATO FIORENTINO PER IL RISORGIMENTO
AUGURI DI BUONA PASQUA
Il sito del Comitato Fiorentino per il Risorgimento.
Vinci, Museo Leonardiano
15 aprile – 15 ottobre 2019
A Vinci, luogo leonardiano per eccellenza, la mostra Leonardo a Vinci. Alle origini del Genio, co-organizzata con le Gallerie degli Uffizi, è incentrata sul legame biografico di Leonardo con la sua città natale e sulle suggestioni che la terra d’origine offrì al suo percorso di artista, tecnologo e scienziato. In quest’ottica, sono presentati i documenti in prestito dall’Archivio di Stato di Firenze, che ricostruiscono in maniera inequivocabile le primissime vicende della vita di Leonardo a Vinci, e il primo disegno conosciuto da lui realizzato, Paesaggio (inv. 8P) datato 5 agosto 1473, conservato presso il Gabinetto dei Disegni e delle Stampe delle Gallerie degli Uffizi di Firenze.
Di grande suggestione all’interno della sezione biografica, l’esposizione del registro notarile del bisnonno di Leonardo sul quale, all’ultima pagina, il nonno Antonio da Vinci annotò la nascita, dopo quella dei suoi figli, del primo nipote, Leonardo, insieme alle portate catastali della famiglia da Vinci relative all’infanzia e prima giovinezza dell’artista. Nella sezione dedicata al giovanile disegno di Paesaggio del 1473, già identificato come raffigurazione della Valdinievole e di parte del Valdarno Inferiore, si documentano le suggestioni offerte al giovane Leonardo dalla sua terra d’origine. L’immagine costituisce infatti un vero e proprio “palinsesto” di tutta la futura opera di Leonardo tant’è che è già possibile intravedervi il profondo interesse verso la natura, la fascinazione per l’acqua e il suo movimento vorticoso, le ricerche in campo geologico e cartografico. In questo contesto, si offre una lettura del disegno da più punti di vista, da quello storico artistico a quello storico geografico, evidenziando gli elementi tematici presenti in relazione alle successive ricerche scientifiche, tecniche e ingegneristiche di Leonardo.
Il percorso comprende realizzazioni multimediali e ricostruzioni di progetti leonardiani relativi al territorio vinciano e del Valdarno Inferiore. Allestita all’interno di una delle due sedi del Museo Leonardiano, il Castello dei Conti Guidi, la mostra si integra pertanto con parte della collezione di macchine e modelli della collezione museale relativi agli studi sull’acqua, di ingegneria idraulica e rappresentazione cartografica del Valdarno Inferiore.
ORARI DI APERTURA
DAL 16 APRILE AL 26 MAGGIO 2019 IL MUSEO LEONARDIANO SARA’ APERTO TUTTI I GIORNI DALLE 9.00 ALLE 23.00 (CHIUSURA DELLA BIGLIETTERIA ALLE 22.15)
BIGLIETTO CUMULATIVO
Il biglietto comprende il Museo Leonardiano, compresa la Mostra Leonardo a Vinci. Alle origini del genio, la Casa natale di Leonardo e la sezione espositiva Leonardo e la pittura
INTERO: € 13,00
RIDOTTO: € 10,00
Gruppi non prenotati oltre 15 persone, ragazzi da 14 a 18 anni, adulti di età superiore ai 65 anni, studenti universitari, soci Touring Club Italiano, soci ACI e circuito “Show your card”, possessori carta Edumusei Regione Toscana, soci Unicoop Firenze;
RIDOTTO SPECIALE: € 8,00
Ragazzi dai 6 ai 14 anni, portatori di handicap, volontari del Servizio Civile Nazionale;
GRATUITO
Bambini fino a 6 anni non compiuti, guide turistiche e accompagnatori con gruppi, residenti nel Comune di Vinci, guide turistiche, operatori in visita per educational, disabili in gruppo con visita organizzata da comunità o associazioni di assistenza, gruppi scolastici/delegazioni istituzionali ospiti dei Comuni Empolese Valdelsa, bambini da 6 a 14 anni residenti nell’ Unione dei Comuni Circondario Empolese Valdelsa;
Informazioni
Museo Leonardiano di Vinci
Tel 0571 933251
info@museoleonardiano.it
www.museoleonardiano.it
Caro Aldo, vorrei un chiarimento in merito a questa domanda che mi pongo da sempre e che in questo periodo mi sembra sempre più attuale. Perché l’amore ed il senso di appartenenza alla Patria aumentano più si scende verso le regioni del Sud? Tuttavia non mi sembra che la maggior parte di quelle regioni lo dimostrano nei comportamenti e nei fatti. Mi ricordo che, tanti anni fa, la stessa domanda fu rivolta a Indro Montanelli che rispose con parole molto dure. Gian Paolo Bazzani
Di solito si critica quel che si ama. Indro Montanelli era severo non specificamente con il Sud, ma con l’italia. Era convinto che gli italiani avessero un grande avvenire, ma non il nostro Paese. È una distinzione sottile, però fondamentale. Gli italiani in effetti tendono ad avere una grande considerazione di sé come persone, e una pessima come popolo. È una caratteristica che ci accomuna. Montanelli raccontava del fante siciliano che ostentava disinteresse per la guerra, ma quando fu sfiorato da un cecchino austriaco – «A mmmia?!» – divenne il più feroce nemico dell’impero austroungarico. Non so, caro Gian Paolo, perché lei pensi che la patria sia più sentita al Sud che al Nord. È vero che in Veneto e non solo sono emerse tendenze separatiste. Tenga conto però che al Sud i neoborbonici sono attivissimi, e sono riusciti ad alimentare un sentimento di astio e di risentimento verso il Nord e verso l’unità nazionale. Ci sarebbero mille argomenti per smontarlo: ad esempio, al tempo dei Savoia Napoli fu la città più monarchica d’italia, nel ’46 votò massicciamente per il re, mentre Torino, antica capitale della dinastia, votò in maggioranza per la Repubblica. Va riconosciuto però che l’unificazione non giovò a Napoli, che all’epoca era di gran lunga la città più grande del Paese. La Sicilia invece aveva un’antica tradizione antiborbonica: non bastarono certo i Mille di Garibaldi a liberarla; Garibaldi accese la scintilla della rivolta, e infatti sul Volturno di uomini ne schierò 24 mila. Detto tutto questo, resto convinto che noi italiani siamo più legati all’italia di quanto pensiamo. Al Sud come al Nord. Aldo Cazzullo
Giovanni Belardelli Corriere della Sera 13 Aprile 2019
Possiamo regalare la nazione ai sovranisti? Penso che non dovremmo, ma penso anche che è esattamente questo che sta accadendo in Italia, dove il dibattito politico si è ormai polarizzato intorno alla contrapposizione sovranisti-europeisti. Negli ultimi decenni sono stati in molti a prefigurare una democrazia postnazionale, una cittadinanza cosmopolita, nella convinzione che ogni riferimento alla nazione fosse diventato obsoleto nel quadro della globalizzazione.
In realtà la crisi economica mondiale iniziata nel 2007-08 ha mutato sensibilmente le cose, favorendo la diffusione — nei ceti medio-bassi più che nelle élite — di paure, ansie, richieste di protezione rivolte anzitutto al proprio Stato-comunità, alla propria nazione intesa in modo elementare come il «noi» del quale facciamo parte per dati linguistici, culturali, geografici, perfino per abitudini alimentari. Il governo gialloverde ha intercettato questi sentimenti e queste domande, con una divisione dei compiti forse non programmata ma evidente: alla domanda di sicurezza di fronte alla «minaccia» dell’immigrazione ha pensato la Lega, al disagio sociale di chi si sente lasciato ai margini dall’economia globalizzata ha pensato il M5S con il «reddito di cittadinanza». Qui non si tratta di valutare positivamente le misure del governo in questi ambiti, cosa che sarebbe ben difficile, ma di capire come questa politica abbia dato a molti italiani l’impressione che i gialloverdi si occupano di loro, prendono sul serio le loro paure e richieste di aiuto.
Credo sia anche per questo che il governo gode ancora di un’approvazione che è stimata attorno al 60%. Oltre naturalmente al fatto che la principale forza di opposizione, il Pd, sembra da tempo vittima di un blocco culturale, che gli impedisce di capire che esiste anche un sentimento nazionale del tutto conciliabile con la democrazia e con la collaborazione con gli altri popoli a cominciare dai partner europei. E che la nazione dunque svolge una funzione ancora importante su due fronti: da una parte alimenta un senso di solidarietà e vicinanza in società che hanno assicurato un gran numero di diritti e libertà individuali, generando però un rischio di solitudine per cospicue minoranze; dall’altra, rende più facilmente abitabile il mondo, radunando i cittadini secondo criteri di prossimità e comunanza, piuttosto che farli vivere in un ipotetico spazio globale, in una specie di immenso loft planetario. Quello che, secondo alcuni studiosi, sta rinascendo in Europa e negli Stati Uniti è un sentimento collettivo fatto di simboli, gesti quotidiani, usi in comune che sono specificamente nazionali in un senso elementare e senza che spesso ne siamo consapevoli. Le tasse che paghiamo, le pensioni che milioni di italiani e italiane percepiscono non contengono forse un riferimento alla nazione così implicito che neppure vi facciamo più caso? Perfino le nostre previsioni meteorologiche non definiscono un «qui» che coincide con lo Stato nazionale? Sono, questi e molti altri, i segni di un «nazionalismo banale», come lo ha definito l’inglese Michael Billig (il suo libro, con questo titolo, è stato pubblicato in Italia da Rubbettino), che è parte integrante della vita di una società democratica.
Accettare, e anzi enfatizzare, la contrapposizione irriducibile tra sovranisti ed europeisti significa invece ignorare questo sentimento di appartenenza nazionale più immediato e sotterraneo; significa lasciare tutto ciò che riguarda la nazione ai partiti cosiddetti populisti, nella convinzione che del nazionalismo si possa avere solo l’accezione aggressiva, bellicista, razzista che ha prodotto molti degli orrori del ‘900. Ma la contrapposizione tra sovranisti ed europeisti rischia di ignorare anche un dato che è sotto gli occhi di tutti: l’unione europea costituisce uno spazio che è sì di collaborazione ma al contempo anche di concorrenza tra gli Stati che ne fanno parte, dalle misure di politica economica alle iniziative di politica estera (come dimostra la crisi libica, nella quale Italia e Francia hanno seguito linee divergenti). La posizione gialloverde, anzi soprattutto leghista, nei confronti dell’europa non va oltre un muscolarismo parolaio e controproducente.
Ma ci sarebbe da preoccuparsi se l’alternativa fosse soltanto quella racchiusa in slogan come «più Europa» o «siamo europei», che rischiano di parlare soprattutto alle élite e finiscono col regalare ai cosiddetti sovranisti (o dare l’impressione di regalare, ciò che a fini elettorali è lo stesso) la difesa dell’interesse nazionale.
Piazza della Repubblica 13/14r Firenze
Il caffè storico-letterario “Giubbe Rosse” è uno dei più noti Caffè storici italiani, un crocevia della letteratura, dell’arte e della cultura del ‘900
Alla fine dell’Ottocento l’amministrazione comunale di Firenze decise di radere al suolo l’antico quartiere del Mercato Vecchio, per far posto ad una nuova piazza dedicata a Vittorio Emanuele II (oggi piazza della Repubblica) ed in quella piazza fu aperto nel 1896 il Caffè-Birreria dei fratelli Reininghaus, poi successivamente chiamato le Giubbe Rosse dal nome del colore delle nuove giacche dei camerieri quando nel 1910 un cambio di proprietà lo ristrutturò in stile liberty, tanto che i fiorentini, trovando difficoltà nel pronunciare il nome straniero del caffè, preferivano dire: “andiamo da quelli delle giubbe rosse”.
All’inizio era un circolo scacchistico dove si narra sia passato Vladimir I.Lenin appassionato della scacchiera, ed anche poeti ed intellettuali tra i quali Gordon Craig, Andrè Gide, Medardo Rosso.
Nel 1913 divenne sede fìssa dei futuristi fiorentini, trasformandosi in luogo di incontro per letterati e artisti italiani e stranieri.Fu teatro per esempio della rissa tra i futuristi milanesi di Marinetti e gli artisti fiorentini raccolti intorno alla rivista La Voce, sulla quale Ardengo Soffici pubblicò un articolo che attaccava i rivali futuristi. Dal 1914 che vide gli intellettuali dividersi tra interventisti e pacifisti si passò al ventennio in cui la libertà culturale era controllata da un regime autoritario; esempio ne è una copia della bella fotografia di Cartier-Bresson che presenta Piazza Vittorio in quegli anni desolatamente vuota.
In quegli anni alle “Giubbe Rosse” frequentatori insigni divengono Giuseppe De Robertis, Eugenio Montale, Umberto Saba, Carlo Emilio Gadda, Bonaventura Tecchi, la rivista di riferimento è appunto “Solaria” con Alessandro Bonsanti, Alberto Carocci ed altri che al Caffè tengono la redazione del periodico.
In continuità con il periodo precedente prende il via la Stagione dell’Ermetismo con la rivista “Frontespizio” nel ’31 e “Letteratura” nel ’37 e le presenze di Carlo Bo, Mario Luzi, Tommaso Landolfi, Oreste Macrì.
Nel ’38 esce la rivista “Campo di Marte” che elegge anch’essa il locale a proprio luogo di redazione con Alfonso Gatto, Vasco Pratolini, Pieto Bigongiari, Alessandro Parronchi.
Nel periodo dell’Ermetismo in cui Montale fu indotto a rassegnare le dimissioni dal Gabinetto Scientifico-letterario ‘Vieusseux’, le tradizionali giubbe rosse dei camerieri vennero sostituite da giacche bianche. Durante la guerra di liberazione il locale divenne base di frequentazione delle truppe alleate.
Al termine del secondo conflitto mondiale i camerieri indossano nuovamente le giubbe rosse e riprende la frequentazione del locale sia da parte degli intellettuali degli anni 30 che da altri come Elio Vittorini, Salvatore Quasimodo, Luciano Guarnieri e Antonio Bueno.
Termina alla metà del 900 quello che può essere indicato come il periodo d’oro delle Le Giubbe Rosse; Firenze, anche per lo spostamento di importanti iniziative editoriali verso Milano e Roma, non è più il principale luogo di riferimento, il Caffè perde il ruolo di casa dei letterati.
Il 21 dicembre 2018 il Tribunale di Firenze dichiara il fallimento della società che gestisce il locale con conseguente rischio di chiusura dello storico caffè.
Centro Giovani Piazza don Milani 3 Montemurlo | Prato
6 Aprile 2019 / 02 Giugno 2019
Umberto Brunelleschi (Montemurlo il 21 giugno 1879 – Parigi il 16 febbraio 1949) rappresenta il genio italiano dell’Art Déco, l’unico in grado di reggere il confronto con i grandi maestri francesi. La sua magia viene rivelata dalla mostra, curata da Giorgio Bacci e Alessia Cecconi, che gli dedica il Comune di Montemurlo in occasione dell’anniversario della nascita
Da Firenze a Parigi– A Firenze Brunelleschi frequenta l’Accademia di Belle Arti, decisivo è l’incontro, alla Scuola libera del nudo, con Ardengo Soffici e Giovanni Costetti. È insieme a loro che decide di trasferirsi a Parigi. Nella capitale francese avviene il vero cambio di passo: l’artista si apre a una dimensione internazionale, frequenta artisti del calibro di André Derain, Amedeo Modigliani, Pablo Picasso, oppure letterati come Gabriele D’Annunzio.
Uno stile speciale tra la Francia e l’Italia– Brunelleschi definisce negli anni un proprio stile immediatamente riconoscibile, impiegando magistralmente una tecnica preziosa e raffinata come il pochoir (di cui in mostra sono esposti alcuni esempi), ed è tra i pochi artisti di calibro internazionale a raggiungere il livello qualitativo di grandissimi disegnatori déco come Georges Lepape e George Barbier. L’artista in Francia incontra un favore crescente, illustra numerosi volumi e la sua opera è richiesta dai più importanti periodici di moda e costume.
I libri per bambini– I disegni originali per L’albero delle fiabe (1909), raccolta di fiabe di Massimo Bontempelli, evidenziano uno stile in formazione, ancora in cerca di una sua identità precisa. Tuttavia, il visitatore potrà facilmente scorgervi quella predilezione per un linearismo grafico attento e ben calibrato che tornerà, maturo e disteso, nel capolavoro Le malheureux petit voyage(di Gabriel Soulages, 1926), anch’esso esposto al pari di Les contes de Boccace (1934), Zufrin (di Giuseppe Fanciulli, 1932), La cronaca della settimana (di Luigi Bertelli, 1921).
Le riviste, dal Giornalino della domenica a La Lettura-Il settore delle riviste, centrale nella fortuna di Brunelleschi, è ben rappresentato da una serie di copertine elaborate nel 1908 per Il giornalino della Domenica, dedicate alle stagioni dell’anno: un paesaggio invernale accarezzato dalla neve (gennaio) dialoga con l’atmosfera fiabesca di uno stagno rischiarato dalla luna e dalle stelle (giugno), oppure i bambini impegnati nei giochi al mare (agosto) rispondono al piccolo imbacuccato tra gli alberi spogli (novembre). Anche un altro importante periodico si avvalse della collaborazione di Brunelleschi: è La Lettura, legato (allora come oggi) al Corriere della Sera. In mostra sono esposte numerose copertine. Dall’affascinante ritratto ‘in punta di penna’ del giugno 1926 alla ‘cineseria’ del settembre 1924, dalla maschera del febbraio 1920 al raffinato disegno arabescato del luglio 1923.
Un ruolo a parte per La Tradotta, giornale settimanale della terza armata, diretto da Renato Simoni, che Brunelleschi illustrò in varie occasioni nel 1918, elaborando immagini dal tono ammiccante. Gli eventi diventano espedienti per raffigurare improbabili harem e figurini, scene galanti e trasparenti allegorie.
La Turandot del Maggio (1940)- L’esposizione vede protagonista anche un allestimento altamente spettacolare, volto a mettere in dialogo, per la prima volta, i bozzetti di scena e i figurini realizzati da Umberto Brunelleschi per la Turandot rappresentata al Maggio musicale fiorentino nel 1940, con i costumi effettivamente realizzati in quell’occasione. Il visitatore potrà ammirare i disegni originali accanto a vestiti sontuosi, in cui prendono vita dragoni d’oro e di seta.
Autore Fabio Bertini
Editore Centro Editoriale Toscano
Anno 2019
Pagine 244
Prezzo € 18,00
La storia politica e sociale di Firenze passa anche per i caffè. Dapprima i bozzolari e gli acquacedratai, i cioccolatai del settecento e, a seguire, i caffè della politica ottocentesca densa di ideali che fa convergere i diversi gruppi sociali. Poi il respiro europeo tra l’epoca della capitale e dello sviluppo urbano e quella della bella époque, tra politica, arte, teatro, varietà e cinematografo, nella trasformazione imposta dalla modernità. Dopodiché la grande guerra, i conflitti del prima e del dopo, intorno ad una rete sempre più ricca di caffè, birrerie, sale da tè, biliardi, luoghi tutt’altro che neutri, teatri delle dialettiche tra il fascismo e i suoi oppositori e all’interno del regime stesso, incerto e sospettoso sul loro ruolo. E infine la mutazione, dal caffè al bar, attraverso la seconda guerra e l’occupazione, l’identità perduta e sostituita dal mito, ingannevole prospettiva alla quale conviene sfuggire per vedere davvero la storia da quei tavoli.
Il Museo nazionale dell’ebraismo italiano e della Shoah( MEIS), dedicato alla storia degli ebrei e della Shoah in Italia, si trova a Ferrara in via Piangipane 81, adiacente all’antica cinta muraria rinascimentale, nel tratto dei Rampari di San Paolo.
Tale edificio, sino al 1922, era utilizzato come carcere cittadino, dal 1922 l’edificio è rimasto alcuni anni in stato di abbandono, sino a quando si è deciso per il suo nuovo utilizzo come sede del MEIS. Solo nel 2011 si è conclusa la prima fase di recupero del vecchio edificio originario, cioè della parte su via Piangipane. Ora qui si trovano gli uffici della Fondazione Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah e le prime sale espositive. In questa sede già si sono svolte diverse iniziative culturali, mostre e convegni
Al MEIS dal 12 aprile al 15 settembre 2019 si terrà la mostra Il Rinascimento parla ebraico curata da Giulio Busi e Silvana Greco: il tema è l’apporto dell’ebraismo durante la stagione del Rinascimento. In mostra sono compresi oggetti d’uso quotidiano e testimonianze della vita liturgica e letteraria degli ebrei, arredi delle sinagoghe, manoscritti miniati e anche un saggio dei moltissimi documenti d’archivio che ancorano la realtà ebraica nella memoria storica italiana
LETTERE ad Aldo Cazzullo Corriere della Sera 30 marzo
Caro Aldo,
il confine che divide il patriota dal terrorista credo sia molto labile, dipende da quale parte stai! Il nostro Risorgimento offre diversi spunti, ma non bisogna dimenticare che non solo ognuno seguiva il proprio dovere e ideale ma allo stesso tempo ognuno pensava di essere dalla parte giusta. Però credo che l’atto terroristico più forte sia stato quello ordito da Orsini e i suoi complici ai danni di Napoleone III che costò la vita a diversi innocenti, che ebbe come effetto la caduta di un paio di teste, ma anche l’alleanza con la Francia contro l’Austria.
Prendersela con Radetzky non mi sembra giusto, lui era un generale austriaco, forse sarà rammaricato che ci sia un Caffè con il suo nome e non, magari c’è, un museo. Ma il nostro Risorgimento è questo e io me lo tengo stretto, poi io abito a una ventina di km da Castelfidardo!
Marco Nagni
Caro Marco,
Se le è caro il Risorgimento, non dovrebbe accostare i nostri patrioti ai terroristi. Perché tra le molte glorie del Risorgimento ci fu proprio non aver fatto ricorso al terrorismo. I milanesi protestarono contro gli austriaci rifiutando di fumare, cioè boicottando il monopolio, e furono presi a sciabolate e fucilate per questo. La rivolte di quasi tutte le città del Nord nel 1848 furono rivolte insieme borghesi e popolari, non di gruppi ristretti; altrimenti non sarebbero riuscite a cacciare gli austriaci. Quando questi tornarono, si abbandonarono talora a stupri, saccheggi ed esecuzioni sommarie, come a Brescia.
Certo, il Risorgimento ha avuto anche pagine nere. Fu un movimento ampio in cui c’era di tutto, monarchici e repubblicani, moderati e rivoluzionari. Felice Orsini però non organizzò un attentato per assassinare gente a caso e terrorizzare Parigi; voleva uccidere Napoleone III, perché lo riteneva — non a torto — il responsabile della caduta della Repubblica romana. Non c’è dubbio che Orsini commise sia un crimine sia un errore: se c’era un esercito che poteva aiutare gli italiani contro gli austriaci era quello francese, come infatti poi accadde. Ma alla decisione dell’imperatore non fu estranea in effetti la lettera con cui Orsini, prima di affrontare con coraggio la ghigliottina, lo richiamava al suo antico impegno di carbonaro per la causa italiana. Aldo Cazzullo
Complesso monumentale di San Micheletto, via San Micheletto 3, Lucca
17 marzo 2019 / 2 giugno 2019
Carlo Ludovico Ragghianti, il noto studioso di storia dell’arte, segnalava già nel 1969 la necessità di approfondire il legame fra il disegno infantile, l’arte medievale e la produzione figurativa dei primi tre decenni del Novecento, un argomento del quale era stato pionieristico indagatore nel suo Bologna cruciale 1914, testo fondamentale per le future ricerche sull’arte italiana del Novecento. E’ una lacuna che la Fondazione Ragghianti, diretta da Paolo Bolpagni, intende contribuire a colmare con questa mostra, curata da Nadia Marchioni, che affronta il tema indagandone anche gli antefatti.
Gli esempi di “regressione” verso il disegno infantile da parte di artisti italiani fra il secondo e terzo decennio del Novecento documentati da Ragghianti nel suo saggio raccontavano, fra le altre, le esperienze di Alberto Magri, Ottone Rosai, Tullio Garbari, Gigiotti Zanini, Carlo Carrà, Riccardo Francalancia e Alberto Salietti. La mostra ricerca inoltre gli espliciti arcaismi tratti dallo studio dei maestri del Duecento e del Trecento, che vede fra i precursori Alberto Magri, accompagnato dagli amici “apuani” Lorenzo Viani e Adolfo Balduini.
L’esposizione si articola in sei sezioni a partire dall’interesse di fine Ottocento verso il fenomeno dell’arte infantile: la prima sezione è dedicata a Adriano Cecioni e il mondo dell’infanzia, la seconda a Corrado Ricci e le prime incursioni del disegno infantile nell’arte fra Otto e Novecento, la terza illustra il Disegno infantile e Medioevo: alle sorgenti della figurazione e Il caso pioneristico di Alberto Magri e del cenacolo tosco-apuano, la quarta racconta L’immagine del bambino e la diffusione del primitivismo infantile in Italia negli anni della Grande Guerra, la quinta tratta di Soffici e Carrà fra arte infantile e popolare, la sesta propone Esempi di primitivismo infantile in Italia negli anni Venti e Trenta del Novecento.
Un percorso che, partendo dalla fine dell’Ottocento, percorre i primi decenni del XX secolo, mostrando opere di artisti affascinati dall’universo infantile, di cui prendono in varie forme e stili l’essenza: la semplicità, la poesia, la soavità dei colori e dei soggetti rappresentati.
Luogo: Complesso monumentale di San Micheletto, via San Micheletto 3
Telefono: 0583/467205
Orari di apertura: 10-13; 15-19. Lunedì chiuso
Costo: 5 euro; ridotto 3 euro