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LA DIMENSIONE POLITICA DELLA DISUNITÀ D’ITALIA  

20/11/2019 da Sergio Casprini

La polemica tra Nord e Sud (in questo caso tra Milano e il Sud) aperta dal ministro Provenzano non appare episodica ma la spia di un disagio profondo

Goffredo Buccini Corriere della Sera 17 Novembre 2019

Nei giorni scorsi è nuovamente divampata l’eterna polemica tra Nord e Sud, in questo caso tra Milano e il Sud, aperta dal ministro Provenzano (che sul Sud ha la delega).

Soffocata in fretta con qualche imbarazzo, ma tutt’altro che episodica e spia di un disagio profondo. «Milano attrae ma non restituisce quasi più nulla» ha sentenziato il ministro. «Restituiamo nella misura in cui ci viene chiesto e per come ci è consentito fare», ha risposto il sindaco Sala. Il ministro ha infine fatto retromarcia, «Milano è un esempio, è l’Italia in ritardo». Ma, al di là del siparietto politico tra due esponenti dello stesso partito (uno del Nord e uno del Sud: elemento, vedremo, forse decisivo), quella di Provenzano è tutt’altro che una voce dal sen fuggita. Riflette una visione del Paese di una parte consistente della sinistra ora al governo (la stessa che spinge il sindaco napoletano de Magistris, davanti al dramma di Venezia, a dolersi addirittura di una «discriminazione» a causa della quale «quando accadono cose del genere al Sud c’è molta meno attenzione»).

Provenzano prima di entrare nell’esecutivo Conte faceva il vicedirettore di Svimez, l’autorevole istituto che studia lo sviluppo e le condizioni socioeconomiche del nostro Mezzogiorno. Una breve sintesi dell’ultimo rapporto sul Sud dice molto dello sconforto sotteso alla «battuta» su Milano: dal 2000, in quasi 20 anni, 2 milioni di persone lasciano il Sud e la metà sono giovani; le nascite sono al minimo storico; la ripresa dell’occupazione tocca solo il Centro Nord; il reddito di cittadinanza allevia la povertà ma allontana dal lavoro; continua l’emigrazione ospedaliera; aumentano i giovani che, al massimo con la terza media, abbandonano studio e formazione professionale. Più che una questione, un disastro meridionale.

Ma ciò che più ci aiuta a capire la querelle è un altro lavoro Svimez (con Provenzano allora pienamente operativo nell’istituto): all’inizio della scorsa estate, mentre divampava la battaglia sulle autonomie differenziate, Svimez rovescia il totem del maggiore flusso di risorse pubbliche passate al Sud a detrimento del Nord (alla base del «diritto Lega e Cinque Stelle I due partiti egemoni nella prima fase della cosiddetta Terza repubblica hanno radici diverse nel territorio di restituzione» sotteso alla richiesta di autonomia differenziata). Quel totem, sostiene l’istituto, si fonda sui dati della Ragioneria generale che «regionalizza» solo il 43% di queste risorse; assumendo invece come riferimento il Sistema dei conti pubblici territoriali si arriva a un complesso di spese pubbliche che, oltre al bilancio dello Stato, comprende enti previdenziali ed altri fondi fino alle Spa di controllo pubblico, talché in questa diversa classifica dei trasferimenti pubblici il Mezzogiorno finisce in fondo e le Regioni del Nord risalgono molte posizioni. Corretta o meno che sia l’analisi, la sortita su Milano è, parafrasando Von Clausewitz, esattamente questo dossier Svimez spiegato da un altro pulpito

Gramsci scriveva che nel Risorgimento si manifesta già, embrionalmente, «il rapporto storico tra Nord e Sud come un rapporto simile a quello tra una grande città e una grande campagna…» (e non a caso propugnava la necessità di una saldatura tra città e campagna). E aggiungeva che, risultando tale rapporto «tra due vasti territori di tradizione civile e culturale molto diversa, si accentuano gli aspetti e gli elementi di un conflitto di nazionalità».

 Un secolo dopo il conflitto «di nazionalità», lungi dall’essere superato, ha assunto contorni nuovi, perché su di esso sono andate addirittura modellandosi le nostre forze politiche. Se i grandi partiti del dopoguerra furono trasversali rispetto alla questione meridionale e a quella settentrionale che pure è esistita ed esiste (interpretandole assai diversamente ma incarnandole entrambe), i due partiti egemoni nella prima fase della cosiddetta Terza repubblica hanno avuto constituency molto divise per territorio, la Lega al Nord e i Cinque Stelle al Sud (al netto dello sforzo di Matteo Salvini di sfondare… la linea gotica con una propaganda ultranazionalista). Il Pd zingarettiano, a fronte della crisi dei Cinque Stelle, pare adesso puntare ad assorbirne l’elettorato. Ma questo elettorato, meridionale e cronicamente svantaggiato, chiede assistenza e protezione (i Cinque Stelle vinsero nel 2018 con il reddito di cittadinanza, poco più che un voto di scambio, letto ex post). Ora, il rischio è che un Pd «derenzizzato» anziché attrarre a sé le ragioni del grillismo se ne faccia risucchiare, trasformandosi (come paventa il Foglio) da partito meridionalista a partito meridionale: la gestione disastrosa dello scudo penale nel caso Ilva e l’imposizione suicida della plastic tax che va a colpire soprattutto le imprese della «rossa Emilia Romagna» sembrano altrettante conferme di questa traiettoria, diciamo così, di movimentismo sudista. La faccenda può avere effetti non proprio collaterali.

Primo: l’addio tout court alle autonomie invocate dal Nord (e, se è sacrosanto tenere duro su scuola e sanità perché attengono all’unità nazionale, può essere pericoloso alzare un muro di gomma contro tutte le richieste). Secondo: l’ulteriore radicalizzazione della divisione del Paese, con l’alibi della spoliazione che dalle frange neoborboniche attecchirebbe vieppiù nella narrazione meridionale. Nonostante le rassicuranti dichiarazioni successive, Provenzano e Sala non sembrano politici di due partiti ma di due nazioni diverse. Un problema per la sinistra, certo. Ma anche per l’Italia: perché la malattia denunciata da Svimez è grave, forse cronica, e tuttavia revanscismo e autocommiserazione sono le medicine peggiori.

 

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