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Risorgimento Firenze

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Tribuna

L’abolizione della pena di morte in Toscana: 30 novembre 1786

23/11/2020 da Sergio Casprini

Villa di Poggio Imperiale –  Un appartamento della residenza fiorentina di Pietro Leopoldo

Il Consiglio regionale della Toscana con la legge N. 26 del 21 giugno 2001 ha istituito come festa della Toscana il giorno 30 novembre per ricordare la data in cui il granduca Pietro Leopoldo abolì col Codice leopoldino la pena di morte, la tortura e le pene corporali.

Solo il Comune di Lucca fino al 2009 non ha celebrato la festa perché fin dal 2000 il Consiglio comunale a maggioranza si dissociava non per rifiutare il valore civile della celebrazione, ma per ricordare che la Toscana non era tutta sotto il granducato e Lucca in particolare era una repubblica. Indubbiamente il Codice leopoldino fu il risultato più alto raggiunto in Europa durante l’età dei lumi. Estrapolare l’abolizione della pena di morte, della tortura e delle pene corporali dal clima culturale e politico della seconda metà del ‘700 significa ridurla a un atto filantropico, dovuto alla generosità e all’umanità del granduca. In realtà tutto il codice è ispirato dal dibattito che la cultura illuministica aveva aperto su tutti gli aspetti della vita civile e politica. Si trattò di un vasto e profondo movimento riformatore che investì molti stati europei nei quali il paternalismo illuminato dei sovrani aveva consentito un rinnovamento radicale della società, dell’economia e della religione. Pietro Leopoldo era figlio di Maria Teresa d’Austria e fratello di Giuseppe II, al quale successe nel 1790 per mancanza di eredi diretti, e la sua politica nel granducato trovava corrispondenze in quella della madre e del fratello. Fu così che anche in Toscana furono presi provvedimenti per l’abolizione della manomorta e del maggiorascato, per la liberalizzazione del commercio dei grani. Le riforme trovavano fondamento nella ragione, unica guida per l’agire umano secondo gli illuministi. L’azione di governo di Pietro Leopoldo in Toscana cominciò nel 1765 e l’impronta che dette col suo governo, grazie all’appoggio di una classe dirigente illuminata, doveva fare della Toscana uno degli stati italiani più progrediti. Furono anni di grande fervore ma anche di contrasti perché le riforme leopoldine andavano a sradicare privilegi secolari. Soprattutto in campo ecclesiastico le resistenze furono molto forti per la soppressione di quegli istituti religiosi non utili al pubblico bene che mise sul mercato proprietà fondiarie da rendere fruttuose grazie agli investimenti con capitali freschi e alle nuove tecniche di coltivazione. Come suo fratello Giuseppe II, il re sagrestano, si interessò delle pratiche religiose abolendone molte secondo le indicazioni del vescovo di Pistoia e Prato Scipione de’ Ricci.

Pietro Leopoldo ( a sinistra) e suo fratello Giuseppe II ritratti a Roma da Pompeo Batoni 1769

Questo spirito riformatore presente nella cultura fiorentina del tempo in collegamento con i centri illuministici di Milano e Napoli, fece sì che la prima edizione dell’opera di Cesare Beccaria Dei delitti e delle pene, avvenisse a Livorno nel 1764. Il sistema giudiziario, che si inseriva nella più vasta opera di riorganizzazione dell’amministrazione statale, era oggetto di un vasto dibattito sia in Italia che in Francia, dove il saggio di Beccaria fu tradotto subito ed ebbe grande successo.

Beccaria si soffermava molto sull’utile che alla società viene da un sistema giudiziario ben organizzato in cui la rieducazione del reo attraverso la pena riporti alla vita civile un essere umano che può dare il suo contributo al bene comune. L’attenzione alla realtà di Beccaria distingue tra peccato e reato: il primo è pertinente alla religione, il secondo è un danno alla società. Per questo è inutile la tortura e, come l’esperienza dimostra, anche la pena di morte non è un deterrente contro il crimine. La posizione di Beccaria fu unica, altri riformatori come Gaetano Filangieri nella Scienza della legislazione, non contemplavano l’abolizione della pena di morte. Alla vigilia della rivoluzione francese la riforma del codice operata da Pietro Leopoldo appare indubbiamente la più avanzata, quella che aveva fatto tesoro di un dibattito aperto e vivace e aveva avuto il coraggio di andare contro pratiche giudiziarie che neppure l’autorità religiosa aveva mai osato condannare. Purtroppo l’abolizione della pena di morte durò poco. Nell’aprile del 1790, un mese dopo la partenza del granduca per Vienna, dove divenne imperatore del Sacro Romano Impero col nome di Leopoldo II, scoppiarono gravi tumulti in tutto il granducato, soprattutto a Firenze e a Livorno. Gli elementi più retrivi del clero, che mai avevano accettato le riforme di spirito giansenistico di Pietro Leopoldo, sobillarono la popolazione in nome del ripristino di forme tradizionali di religiosità che sconfinavano nella superstizione, mentre la liberalizzazione del commercio dei grani veniva considerata causa di miseria. Il reggente Serristori riuscì a placare gli animi solo ritirando alcune riforme. Questo provocò la reazione di Leopoldo II che, prima di insediare come suo successore il figlio Ferdinando III il 22 febbraio 1791, reagì con una dura repressione che portò al ripristino della pena di morte, che i suoi successori mai più avrebbero abolito. Infatti Ferdinando III nel 1815 e l’ultimo granduca Leopoldo II nel 1852 emanarono codici militari in cui le pene corporali sono puntigliosamente previste anche per mancanze non gravi. Fu solo il Governo provvisorio, che il 30 aprile 1859, pochi giorni dopo la fine del granducato, abolì nuovamente la pena di morte rifacendosi alla legge di Pietro Leopoldo e rivendicando con orgoglio che la Toscana era stata la prima ad abolire la pena di morte: Considerando che fu la Toscana la prima ad abolire in Europa la pena di morte, / Considerando che se questa venne in seguito ristabilita lo fu solamente quando le passioni politiche prevalsero sulla maturità de’ tempi e alla mitezza degli animi / Considerando però che quantunque per tal modo ripristinata non venne applicata giammai perché fra noi la civiltà fu sempre più forte della Scure del Carnefice: / Ha decretato e decreta. / Articolo uno. La pena di morte è abolita.

1859 Saverio Altamura La prima bandiera italiana portata a Firenze

La memoria del Codice leopoldino rimase viva anche nei decenni successivi e non si perse neppure negli anni più bui della storia italiana. Mentre in tutto il mondo anche paesi di radicata tradizione democratica conservavano e applicavano la pena di morte, l’opinione pubblica specialmente in Toscana esprimeva la sua condanna. Il modo migliore per darle voce fu quello di rivendicare con una legge che la Toscana per prima aveva abolito la pena di morte. Così nell’art. 2 della legge regionale del 2001 si afferma che la Festa ha lo scopo di far meditare sulle radici di pace e di giustizia del popolo toscano, per coltivare la memoria della sua storia, per attingere alla tradizione di diritti e di civiltà che nella regione Toscana hanno trovato forte radicamento e convinta affermazione, per consegnare alle future generazioni il patrimonio di valori civili e spirituali che rappresentano la sua originale identità rigorosamente inserita nel quadro dell’unità della Repubblica Italiana, rispettosa dei principi sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea

La legge non è solo un segno di orgoglio campanilistico perché il richiamo all’unità della Repubblica Italiana rimanda alla tradizione dei valori risorgimentali ma non meno importante è quello alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea: la cultura illuministica, caratterizzata da un cosmopolitismo per il quale nessun europeo si sentiva completamente straniero fuori della sua patria, è stata fondamentale per dare a tutti gli uomini e le donne la consapevolezza di essere soggetti portatori di diritti universali.

Alessandra Campagnano

Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea

 

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ESSERE VERAMENTE LAICO

06/10/2020 da Sergio Casprini

 

Armando Niccolai Fratellanza Artigiana d’Italia di Firenze

Sembrerebbe inutile indagare il significato ed il compito di un laico. In fondo se è vero, ed è vero, che laico significa, secondo la sua etimologia, non essere iniziato alle cose sacre, non fare parte del clero, tutti noi siamo laici. In realtà il significato di questa parola è fortemente mutato dalle sue origini: dalla affermazione di cosa non è un laico, si è passati alla definizione di cosa è. «Laico è colui che si pone dinanzi a problemi e scelte, specialmente etici o politici, con atteggiamento scevro da pregiudizi o vincoli ideologici [e dogmatici]».( 1)

 Non bisogna però credere che la nostra indagine sia conclusa perché quella della maggior parte delle persone è una laicità indefinita, affermata solo a parole e, talvolta, anche nascondendo profonde contraddizioni. Le parole che caratterizzano la laicità ed il laicismo sono sostanzialmente quelle che apparvero agli inizi dell’illuminismo e che si affermarono durante la rivoluzione americana del 1775 e quella francese del 1789. Esse sono: la tolleranza, la giustizia, la fratellanza, l’uguaglianza, la libertà, il progresso, il bene dell’umanità. Il vero problema consiste nel dare sostanza a queste parole, definire il loro significato. Cosa si intende per tolleranza? Su questa questione tante sono le interpretazioni e tante le convinzioni che ne derivano, talvolta anche in contrapposizione tra di loro. Non basta pronunciare la parola per averne un significato accettato e condiviso da tutti. E a quale giustizia ci si riferisce, basata su quali principi, decisi da chi? Solo per il piacere del paradosso, vorrei ricordare che l’olocausto del popolo ebraico, voluto dal nazismo, si basava sulle leggi di uno stato e su una giustizia che le applicava. Quali sono i metodi per tentare di realizzare la fratellanza universale? Ed ancora, basta davvero trovare solo ciò che unisce per realizzarla o forse, se non si abbattono le differenze, non la si otterrà mai? Ed in tal caso quali differenze occorre abbattere e come si opera per abbatterle?

Un esempio di quanto possa essere importante addirittura definire il significato della parola, si trova nel viaggio Apostolico del 3-5 febbraio 2019 negli Emirati Arabi Uniti. In quella occasione è stato firmato, tra Papa Francesco ed il Grande Imam di Al-Azhar Ahmad Al-Tayyib, il “Documento sulla Fratellanza Umana per la Pace Mondiale e la Convivenza Comune”. Nella prefazione si afferma: «La fede porta il credente a vedere nell’altro un fratello da sostenere e da amare. Dalla fede in Dio, che ha creato l’universo, le creature e tutti gli esseri umani – uguali per la Sua Misericordia –, il credente è chiamato a esprimere questa fratellanza umana, salvaguardando il creato e tutto l’universo e sostenendo ogni persona, specialmente le più bisognose e povere». Nel documento poi si continua affermando: «Un documento ragionato con sincerità e serietà per essere una dichiarazione comune di buone e leali volontà, tale da invitare tutte le persone che portano nel cuore la fede in Dio e la fede nella fratellanza umana a unirsi e a lavorare insieme, affinché esso diventi una guida per le nuove generazioni verso la cultura del reciproco rispetto, nella comprensione della grande grazia divina che rende tutti gli esseri umani fratelli».

 In altre parole, per quei religiosi, la fratellanza umana, ed anche l’uguaglianza, discendono da Dio e le si possono realizzare solo con la fede in Lui. Non credo sia necessario aggiungere altro se non che lo stesso termine sottintende un’idea che si ha di esso profondamente diversa da quella di un laico. Ispirarsi al trinomio Libertà, Uguaglianza, Fratellanza non significa forse sposare anche un’etica che queste parole nel 18º secolo avevano avuto, con l’affermazione dell’illuminismo, che ne fu il loro massimo interprete? Di quale progresso si parla? Progresso sociale, materiale, filosofico, scientifico eccetera certamente, ma in che modo, verso cosa? La fiducia illimitata nel progresso, che tanto ha affascinato gli uomini dell’ottocento e di tutto il novecento, ha portato alla nostra società attuale, nei confronti della quale nutriamo molte riserve. In realtà quindi si dovrebbe seriamente ripensare tutto l’apparato fondante della laicità, precisando il significato delle affermazioni che ne costituiscono le basi. A titolo di esempio faccio notare che volere il bene dell’umanità è stata un’affermazione appartenuta non solo ai santi, ai saggi, ai giusti, ma anche a tutti i dittatori che, in nome di quel bene non meglio precisato, hanno commesso i più atroci delitti, in questo accomunati dalla storia della stessa Chiesa Cattolica. È quindi giunta l’ora che la comunità laica decida di darsi un compito preciso che serva veramente a dare sostanza alle parole di cui abbiamo parlato. Come abbiamo visto, la chiesa Cattolica e le religioni in genere, si preoccupano di definire le parole e di darne una giustificazione, anche se spesso dogmatica. E’ urgente che anche i laici compiano questo percorso se non vogliono che la genericità, l’inesattezza o, ancor più, la mancanza di definizioni, porti al disorientamento di coloro che invece ritengono necessario affermare le idee laiche. Tanto più ora che è in atto un profondo tentativo di riaffermare la importanza imprescindibile di ritornare alla credenza nelle religioni, rafforzato anche dallo smarrimento indotto nella coscienza delle persone dovuto ai recenti avvenimenti collegati con la pandemia del Coronavirus.

Non precisare cosa significhi moralità e etica per un laico, non chiarire cosa si intenda per tolleranza, per fratellanza, per libertà, per uguaglianza, significa commettere un grave atto di omissione.

 Non è sufficiente riferirsi a epoche storiche passate perché è chiaro che la fratellanza all’epoca della rivoluzione francese avesse un significato che era senz’altro diverso da quello che le potremmo dare oggi. E così anche per le definizioni che dovrebbero essere fornite per gli altri termini. Termini che necessitano di un continuo aggiornamento in virtù dell’evoluzione culturale di cui siamo protagonisti.(2)

Come laici sappiamo benissimo, infatti, che niente è assoluto e che tutto deve essere ricercato e definito in itinere, poiché affidarsi a “certezze” certificate dalla tradizione illuminista, conferendo ad esse un valore assoluto, è esattamente il contrario dell’essenza di essere laico. Un laico, in definitiva, • si propone di affermare la tolleranza tra le persone ed i popoli;

  • rifiuta il dogmatismo e non accetta limiti alla ricerca della verità;
  • opera per l’affermazione del trinomio “Libertà, Uguaglianza, Fraternità”;
  • persegue, attraverso il progresso, il bene dell’umanità.

 Ne consegue che i laici si propongono un ben preciso FINE ULTIMO. L’affermazione che ci si dedichi ad un traguardo da raggiungere per noi stessi e per l’umanità tutta, che si indichi un fine da perseguire, determina già in sé un comportamento morale. Credere che esista tale fine ultimo significa però anche ammettere che esista, o che si debba tracciare, un disegno cui è obbligo fare riferimento. Infatti la sua esistenza accetta implicitamente, come proprio fondamento, la costruzione di un ordinamento morale. La nostra società è senz’altro portatrice di valori laici, ma lo è, da questo punto di vista, nello stesso modo generico di cui prima abbiamo parlato. Ogni giorno, con le nostre azioni, contribuiamo a modificare l’etica cosiddetta naturale predicata dalle religioni. Il vero problema è che lo facciamo inconsapevolmente aumentando di fatto le contraddizioni della nostra società anziché risolverle. Al di là delle opinioni personali, non c’è dubbio che la ricerca scientifica abbia posto, anche subdolamente, il problema. Ci troviamo nelle condizioni di fare cose “innaturali” con un ordinamento filosofico superato dagli eventi. È a questo ordinamento che bisogna porre mano. Occorre perciò che si attenda a qualcosa di più. Infatti, se nel XVII secolo, l’attestazione di laicità mediante l’affermazione dei principi laici, costituiva di per sé un evento rivoluzionario nel panorama culturale esistente, oggi tali affermazioni di principio non sono più né originali né sufficienti. Per essere veramente laici, è necessario lavorare concretamente alla realizzazione di un ordinamento giuridico e sociale equilibrato ed in continuo mutamento in funzione della capacità degli individui di progredire nella educazione della loro coscienza civica. Abbiamo visto che dichiararsi laici è facile e quasi scontato nella nostra società, ma non basta. Anche affermare e operare per realizzare la laicità di uno stato non è sufficiente se non si riesce prima a chiarire in quale ambito si debba agire. D’altra parte sposare il laicismo storico, con la sua elaborazione di una precisa morale, è addirittura sbagliato. Essere laico oggi non può più significare semplicemente neanche operare secondo la definizione che abbiamo dato all’inizio. Perché affermo questo? Perché porsi in un certo modo (con atteggiamento scevro da pregiudizi o vincoli ideologici e dogmatici) rispetto alle questioni cui dobbiamo dare una risposta, riveste un carattere del tutto individuale e personale, e perciò svincolato da ogni qualsivoglia riferimento, e non assicura alcuna forma di società coerente. E’ necessario cioè passare da un impegno individuale ad un impegno collettivo trovando le basi comuni su cui impostare l’azione futura. Viviamo in una società, come abbiamo sopra accennato, che, a causa del progresso scientifico e tecnologico, ha aperto una serie impressionante di contraddizioni rispetto al modo di pensare tradizionale, proponendo sfide aperte dalle nuove eccezionali possibilità offerte a ciascuno di noi e alla aspettativa di straordinarie future conquiste che promettono, ad esempio, addirittura, di arrivare, tramite la manipolazione genetica, ad una vita sana, senza un deterioramento percettibile delle cellule ed indefinita. Il vero laico si deve preoccupare di governare questa situazione che causa non poche questioni di coscienza e di contrasto con le leggi che sono state da sempre ritenute naturali ma che in realtà sono tali solo perché così ci appaiono e che potranno finalmente essere modificate a favore dell’umanità. D’altra parte deve essere ben chiaro ad un laico che l’attuale situazione non è a priori garantita. Il ritorno all’oscurantismo intellettuale del medioevo, guidato dalle chiese cristiane, islamiche e orientali, non è così improbabile come potrebbe apparire. Dirsi laico oggi significa combattere affinché ciò non avvenga ed esiste un solo modo per riuscire a farlo: quello di porre tutte le forze per lavorare alla costituzione di un nuovo laicismo, creando una nuova cultura laica che sia il fondamento della edificazione di una vera civiltà laica. Alla luce di queste considerazioni si può aggiornare la definizione di laico con la seguente formulazione: «laico è colui che si pone dinanzi a problemi e scelte, specialmente etici o politici, con atteggiamento scevro da pregiudizi o vincoli ideologici e dogmatici, e che si adopera per la elaborazione di un nuovo laicismo e di una etica laica, come fondamento per l’edificazione di una civiltà laica».

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1) Devoto, Giacomo e Oli, Carlo (1990), Il dizionario della lingua italiana, Firenze: Casa editrice Felice Le Monnier

 2) Cfr. Niccolai, Armando (2016), La nuova etica – Prefazione di Simone Cavallini, Firenze: Porto Seguro Editore

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La Breccia di Porta Pia 150 anni dopo

20/09/2020 da Sergio Casprini

Intervento di Alessandra Campagnano del Comitato Fiorentino per il Risorgimento, tenuto il 19 settembre 2020 alla sede della Fratellanza Militare di Firenze  per i 150 anni della Presa di Roma

La Breccia di Porta Pia 150 anni dopo

Celebriamo oggi in tono dimesso a causa di circostanze avverse un evento che avrebbe meritato ben altra attenzione e ben altro interesse da parte dell’opinione pubblica. Eppure nonostante tutto studiosi e cittadini hanno cercato di dare importanza a un evento che è stato ed è causa ancora di polemiche sulla funzione di Roma capitale.

Cos’era Roma 150 anni fa? Era la capitale di un potere universale, ma regionale che doveva servire di supporto a quello universale. Era in pratica la capitale di uno stato teocratico che rifiutava tutto ciò che era moderno, nuovo. Il Sillabo di Pio IX nel 1864 aveva condannato il libero pensiero e tutte le conquiste del XIX secolo. Roma per il suo passato e per il significato che aveva avuto nel corso dei secoli – basti pensare a Dante, Petrarca, Machiavelli – per la civiltà italiana, rappresentava per i padri del Risorgimento un elemento fondamentale per il compimento dell’unità nazionale.

Roma rappresentava un nodo all’apparenza inestricabile. In quanto sede del papato, la massima autorità religiosa per i cattolici che erano la stragrande maggioranza della popolazione italiana, ai cattolici poneva problemi di coscienza non indifferenti. Ai più sensibili appariva chiaro che senza un’autentica riforma morale del modo di essere cattolici, per gli Italiani non avrebbe potuto esserci un vero progresso civile e politico. La messa all’Indice dei libri dell’abate Rosmini che denunciavano le piaghe della Chiesa contemporanea dimostra quanto l’apparato gerarchico, specialmente nella curia romana, fosse insensibile a ogni proposta di rinnovamento. D’altra parte il congresso di Vienna nel 1815 aveva sancito l’alleanza del trono e dell’altare con il compito di frenare ogni anelito di rinnovamento considerato “rivoluzionario”. Nonostante le trasformazioni politiche avvenute in Europa dopo il 1815 – nel 1830 formazione del regno del Belgio, indipendenza della Grecia, nel 1861 costituzione del regno d’Italia, nel 1866 fine della presidenza austriaca della Confederazione germanica a favore della Prussia, nel 1867 trasformazione dell’impero asburgico in impero di Austria-Ungheria – il papato aveva una posizione difensiva. Questa posizione aveva molti sostenitori nei paesi dove i cattolici facevano pesare la loro influenza come nella Francia di Napoleone III. Le petit Napoleon era molto condizionato dall’opinione dei cattolici francesi, tanto che la sua politica estera condizionò l’azione di quella del regno d’Italia, trovando una composizione con la Convenzione di settembre del 1864 che trasferì la capitale da Torino a Firenze. Furono le sconfitte della guerra franco-prussiana e la proclamazione della repubblica a convincere il governo italiano che le clausole che impegnavano l’Italia a contrastare ogni tentativo di penetrazione armata nello stato pontificio erano venute meno, quindi si poteva prendere l’iniziativa di varcare il confine con lo stato della Chiesa.

La guerra portata avanti dall’esercito italiano non fu una scaramuccia. La leva obbligatoria aveva reso l’esercito composto da soldati provenienti da ogni parte d’Italia. Non va dimenticato che a Porta Pia l’ordine di fare fuoco fu dato da Giacomo Segre, un capitano di artiglieria ebreo originario di Chieri. L’esercito pontificio era composto da mercenari ben armati e ben equipaggiati che si batterono in modo professionale. Lo testimonia il numero dei caduti e dei feriti negli scontri precedenti il 20 settembre e poi quelli di Porta Pia. In totale si ebbero 38 caduti e 150 feriti.              I papalini ebbero in tutto 16 morti e 58 feriti. Il corpo più colpito fu quello degli zuavi, per i quali fino a qualche anno fa a Roma veniva celebrata la messa in suffragio. 

Nei giorni successivi si ebbero altri 10 morti per le ferite riportate, fra i quali troviamo l’artigliere Giulio Cesare Paoletti di Firenze, sepolto a cura del Comune di Roma nel cimitero delle Porte Sante.

Cominciava un’altra storia per Roma, Firenze e l’Italia. Il trasferimento della capitale da Firenze non fu indolore, la città nel giro di pochi anni aveva vissuto una trasformazione che aveva avuto i suoi costi specialmente per le classi subalterne. Roma dopo l’arrivo dei bersaglieri si avviava a essere una città del XIX secolo con interventi criticabili, ma che la trasformarono radicalmente. Per l’Italia divenne più grave la questione romana, con gli interventi del papa e dei suoi portavoce tendenti a togliere legittimità all’Italia unita. Si cominciò con la scomunica maggiore che colpì tutti coloro che in un modo o nell’altro avevano partecipato al processo di unificazione e a invitare i buoni cattolici a rispettare il non expedit. Politicamente non fu un problema di poco conto, eppure il Parlamento italiano aveva votato già il 13 maggio 1871 la legge delle guarentigie.

Lentamente gli steccati cominciarono a cadere. Soprattutto dopo la morte di Pio IX il 7 febbraio1878, quando il conclave si svolse senza alcuna interferenza da parte delle autorità italiane, ma il nuovo papa, Leone XIII, continuò a vivere chiuso in Vaticano. Neppure il patto Gentiloni per le elezioni politiche del 1913 e la firma dei Patti Lateranensi e del primo concordato l’11 febbraio 1929 avevano cambiato il giudizio storico sulla breccia di Porta Pia. In pieno fascismo la Chiesa cattolica fece valere in più occasioni il suo ruolo di chiesa di stato contribuendo a conculcare il diritto di libertà religiosa, e quindi di pensiero, con strascichi destinati a durare nel dopoguerra come – per esempio – con l’applicazione delle circolare Buffarini Guidi del 1935 contro i pentecostali.

Fu solo nel 1970 che papa Paolo VI riconobbe che la fine dello stato pontificio aveva liberato la Chiesa dalle incombenze legate all’amministrazione politica di uno stato e le aveva permesso di dedicarsi alla sua missione religiosa e alla sua azione pastorale. Ma Paolo VI era erede della tradizione cattolica lombarda segnata fortemente dal giansenismo prima e dal cattolicesimo liberale e sociale poi. Eppure negli anni ’70 e ancora dopo si sono avuti interventi tesi a riaffermare il ruolo della Chiesa come guida spirituale dell’intero popolo italiano.

Certo gli artt. 7 e 8 della Costituzione sono ancora oggi oggetto di discussioni, ma dopo la firma della prima intesa con una confessione non cattolica, la chiesa valdese, avvenuta nel 1984, altre confessioni religiose hanno firmato intese con lo stato italiano. Ma le attuali trasformazioni che portano a spostamenti di popolazioni di culture e fedi diverse faranno necessariamente superare altri steccati e allora che ne sarà di Roma? Anche il papato che a Roma continua ad avere la sua sede, non è più quello di Pio IX e neppure di Pio XII. Viene in mente Rutilio Namaziano che nel De reditu suo nel V sec. riconosceva a Roma il grande merito di avere fatto e pluribus unum grazie al diritto che aveva dato a popoli diversi un’organizzazione statuale unica.

È questa tradizione universalistica che tutti i nostri padri risorgimentali riconoscevano a Roma che, forse, dopo la Roma dei cesari e la Roma dei papi ci consentirà di parlare non solo della Roma del popolo ma della Roma dei popoli?

Alessandra Campagnano

 

 

 

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Porta Pia 150 anni dopo

13/09/2020 da Sergio Casprini

Roma riparta dall’orgoglio per la Breccia

Mario Ajello, Il Messaggero, domenica 13 Settembre 2020 

Arrivano nel momento giusto i 150 anni della Breccia di Porta Pia. Perché è adesso – mentre l’Italia deve ricostruirsi dopo l’emergenza Covid e senza sentirsi ancora al sicuro – che la centralità di Roma va ribadita e rilanciata con forza. Nell’interesse di tutti. Scriveva infatti la Gazzetta Piemontese di martedì 13 settembre 1870, il giorno dopo l’ingresso dell’esercito regio nel territorio pontificio: «Posta la capitale a Roma ognun vede che le provincie dell’Italia centrale e dell’Italia meridionale entreranno in una via di progresso tale da raggiungere in pochi anni quello dell’Italia superiore. Allora, grazie a Roma, l’Italia sarà una grande potenza». 

Il discorso vale ancora, perfettamente. E guai dunque, come si è spesso tentato di fare, anche con successo purtroppo, a sminuire l’evento di Porta Pia. Perché questo parla al futuro, e nell’antica Breccia c’è la leva – ovvero la centralità di Roma – per il riequilibrio economico e territoriale del nostro Paese oggi e nei decenni che verranno. Si è troppo a lungo cercato di ridurre, per il gusto dell’oblio di natura anti-patriottica, la Breccia di Porta Pia a una «passeggiata militare» con pochi morti e scarsi eroismi. E insomma ci si è dimenticati di celebrarla come si deve, anche prima di questo anniversario ridotto causa Covid, perché vedere e vivere il 20 settembre come una data fondativa della nazione avrebbe significato dare a Roma ciò che è di Roma. Vale a dire il suo valore di «Capitale ineluttabile», come la chiamava Cavour.

E la Breccia non ha fatto breccia nell’immaginario collettivo anche perché lungo la storia le diedero l’importanza che merita personaggi politici come Crispi – a lui si deve nel 1895, nel venticinquesimo anniversario dell’ingresso dei bersaglieri, l’istituzione del 20 settembre come festa nazionale, poi a torto abolita – che sono poco graditi alla cultura mainstream e alla storiografia più andante. Sostiene Hubert Heyriès, storico di valore che ha appena pubblicato per il Mulino il saggio «La Breccia di Porta Pia»: «C’è una sottovalutazione dell’evento, per motivi ideologici. Gli storici cattolici hanno avuto difficoltà a inoltrarsi in un terreno insidioso per la Chiesa e per la religione, cioè la fine del potere temporale del Papa. Mentre gli intellettuali di sinistra non hanno mai amato una campagna militare condotta dall’esercito regio, braccio armato della borghesia e strumento di repressione sociale. Un movimento assai diverso dalle rivolte popolari del 1848 o dalle spedizioni garibaldine». Quelle in cui il Generale diceva «O Roma o morte!» e che, nella divertita ridicolizzazione successiva, è diventata «O Roma o Orte!». 

Ma c’è molto poco da ridicolizzare, figuriamoci. I 150 anni della Breccia servono a ricordare – a chi non vorrebbe e arriva al punto di esaltare l’impresa dei Mille in quanto nordista: «Erano per lo più bergamaschi!», questa la cantilena leghista – che il Risorgimento ebbe il suo culmine con la presa di Roma. Alla quale parteciparono soldati lombardi, piemontesi, toscani, napoletani, mescolati in un’impresa – anteprima della Grande Guerra – che era nazionale e non più piemontese e che aveva Roma come simbolo spirituale oltre che come obiettivo militare e politico. Questo centocinquantenario serve insomma a ritrovare le ragioni che portarono un Paese a riconoscersi in questa città. E sono ragioni tuttora validissime. Spiritosamente Francesco Saverio Nitti, grande statista liberale, si chiedeva nel 1868, due anni prima della Breccia, come potesse stare insieme un Paese in cui «una metà lo chiama pesce e l’altra metà uccello». E Roma era già lì in mezzo a mediare. Senza averne poi, e ancora oggi è così, i riconoscimenti sperati e meritati. Anzi, a 150 anni da quei fatti, a Roma si chiedono solo doveri – rappresentare l’Italia senza poter contare su poteri speciali – e non le si riconoscono diritti. A cominciare da quello del rispetto attivo da parte dei vari governi nazionali, della partecipazione comune di tutti gli italiani al suo lustro, dell’identificazione piena della nazione nella sua Capitale, della necessità di dotare anche di risorse speciali – no, Roma non è come Foggia! – una metropoli che non ha nulla di normale. Il problema è che Roma è troppo pesante e ingombrante per una Paese che si sente troppo fragile e che stenta a capire un’evidenza: non potrà mai spiccare il volo senza farsi accompagnare e dirigere dalla città che dà il senso alla sua storia.

Lo avevano capito 150 anni fa statisti illuminati. Uomini di governo e non governatori più o meno nordisti (mentre quelli sudisti dovrebbero rileggersi il Mazzini dell’«Italia sarà ciò che il Mezzogiorno sarà»). Ripartire dalla Breccia, ecco. Ossia riconoscere la regia di Roma e attivarsi perché funzioni. Senza cadere nei revanscismi territoriali e provincialotti. Senza illudersi che le piccole patrie e le piccole invidie possano essere spacciate per modernità autonomistica. Senza rimpiangere vetero clericalismi, perché ad essere battuta il 20 settembre fu l’ultima trincea della più assolutistica e forcaiola concezione del potere e della società, che coagulava intorno a sé ogni sorta di ostilità alla civiltà moderna.

E se Roma mala-amministrata ormai è tutta una grande breccia, ciò non deve diventare un’inutile lagna ma uno stimolo a tornare all’ardore lungimirante di Porta Pia.

 

 

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FORMARE UNA CLASSE DIRIGENTE

25/05/2020 da Sergio Casprini

È indispensabile un’ampia e approfondita preparazione basata sulle materie umanistiche, che potrà annoverare competenze specialistiche, ma in seconda battuta

  • Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera 25 Maggio 2020

 È almeno dalla fine della Prima Repubblica che l’Italia ha un problema di classe dirigente, della sua debolezza/assenza. E come ha visto bene Ferruccio de Bortoli, questo problema lo ha oggi più che mai, quando ci troviamo certamente a un punto critico della nostra storia. Tuttavia la discussione che è seguita al suo articolo su queste colonne mi pare essersi fermata sulle generali non avendo chiarito abbastanza i tre aspetti fondamentali della questione, che a me sembrano i seguenti:

1) Quali capacità deve possedere una classe dirigente per essere tale? Che cosa in particolare la caratterizza?  Direi che sono necessarie quattro capacità, soprattutto: A) avere una visione complessiva del proprio Paese, condizione indispensabile per immaginare un suo futuro, per immaginare il tipo di società, di valori e d’interessi che esso deve cercare d’incarnare; B) indispensabile per far ciò è possedere un’adeguata conoscenza del Paese stesso e del mondo. Il che non significa aver viaggiato molto, aver compiuti molti «soggiorni all’estero». Può certamente aiutare ma non è l’essenziale. L’essenziale è conoscere il passato, le vicende politiche, la cultura, la sensibilità, e quindi aver letto dei libri, dei romanzi, aver visto dei film, ascoltato delle musiche. Il presente e il futuro si costruiscono su basi solide solo conoscendo il passato, non a caso la fucina delle classi dirigenti è sempre stata la storia. C) Serve poi un forte tasso di disinteresse personale. Si chiama anche senso dello Stato: è l’idea che nella propria azione l’interesse della collettività (sobriamente e quanto più possibile imparzialmente valutato; in proposito ci sono delle tradizioni) debba prevalere sul proprio tornaconto, di qualunque genere questo sia. D) Infine una classe dirigente è tale se è capace di «assumersi la responsabilità»: cioè se sa prendere delle decisioni. Se sa compromettersi decidendo.

2) Come e dove si formano le capacità ora dette? Naturalmente e principalmente in una sede elettiva che è l’istruzione scolastica. Un’istruzione che possieda tre caratteristiche: abbia come sua base la cosiddetta cultura generale, cioè quella con forte presenza delle materie umanistiche; sia mirata alle conoscenze proprie delle diverse discipline e non alle cosiddette «competenze», al «saper fare»; e nella quale infine si proceda in base esclusivamente a criteri di merito. Qui è necessario essere molto chiari, anche a rischio di apparire spiacevolmente unilaterali o, peggio, «passatisti»: ma la chiarezza delle posizioni è una condizione essenziale per discutere in modo fruttuoso. Le classi dirigenti si formano di regola (le eccezioni sono appunto delle eccezioni) solo assumendo come base un’ampia e approfondita cultura generale. Non va mai dimenticato: bisogna sapere molte cose per avere il senso di ciò che è essenziale. Solo una vasta cultura generale – sempre che si ritenga che l’esperienza di un paio di secoli conti qualcosa – dà la duttilità, la capacità di orientamento, l’ampiezza di orizzonti, che servono a compiere quelle scelte di portata generale e di natura complessa che sono le scelte tipiche che competono a una classe dirigente. La quale, ovviamente, potrà benissimo poi annoverare al proprio interno le più varie competenze specialistiche, ma per l’appunto in seconda battuta.

Infine, se è vero che il compito cruciale di una classe dirigente è sempre un compito in definitiva di natura politica, allora c’è un’ultima ragione che milita a favore dell’importanza per la sua formazione della cultura generale a base umanistica. Ed è che una tale cultura appare specialmente predisposta a fornire modelli etici, esempi di fortezza d’animo, di tenacia, di comportamenti ispirati all’obbedienza ai valori, i quali – per lo più sostenuti da un’alta qualità artistica – hanno una forte probabilità di lasciare un’impronta positiva nella formazione della personalità. Soprattutto, come ho detto, in vista di un’attività nella vita pubblica. Il progressivo crollo qualitativo che si è avuto in Italia della classe dirigente, e in specie di quella politica, è una conseguenza diretta dell’implacabile smantellamento che nella nostra scuola si è compiuto del tipo d’istruzione appena tratteggiata. Per opera di ministri impreparati e incapaci, talora fino al grottesco, e dei loro consiglieri. Smantellamento che è andato di pari passo con quello dell’impianto scolastico educativo nel suo complesso. La «povertà educativa» italiana sta sì nello scarso numero di iscritti all’università, ma sta soprattutto nell’impreparazione di una gran parte di essi, spesso incapaci (il Paese ne è a conoscenza?) di scrivere quattro righe senza errori di ortografia e di punteggiatura raccapriccianti.

3) Il ruolo della borghesia produttiva è il terzo aspetto su cui si è soffermata la discussione sulla classe dirigente. Personalmente dubito molto che possano essere le aziende il luogo dove si forma una classe dirigente, così come dubito che possa venire dalla «borghesia produttiva» (industriali e professionalità tecnico-scientifiche) quel «progetto per il Paese» che da tante parti si invoca. Il quale può e deve venire, semmai, dall’ interlocuzione della suddetta borghesia con la politica. Ricordo in proposito che negli anni dell’immediato dopoguerra le basi per la ripresa dell’economia italiana non furono gettate dagli imprenditori (allora anzi in genere molto pessimisti e portati a vedere per la Penisola un avvenire grigio e subordinato). Quelle basi si dovettero a un pugno di figure che possiamo ben definire di visionari imbevuti di spirito nazionale – i Sinigaglia, i Saraceno, i Mattei, i Mattioli, gli Olivetti, anche i Valletta: tra i quali come si vede gli imprenditori veri e propri erano una minoranza atipica – i quali trovarono una controparte ideale in alcuni grandi politici come De Gasperi e La Malfa.

A mio giudizio il compito della borghesia produttiva in quanto classe dirigente deve consistere innanzi tutto nel cercare di essere se stessa, vale a dire produttiva: naturalmente nel modo più corretto (penso evidentemente ai doveri fiscali), moderno ed efficiente possibile. Se parliamo ad esempio dello scarso tasso d’impiego che hanno da noi le professioni tecnologico-scientifiche, ciò non credo proprio che dipenda dal fatto che in Italia manchino ottimi ingegneri, chimici, o biologi o i luoghi dove essi possono formarsi; dipende soprattutto dal fatto che mancano le aziende che li assumano. È nelle aziende, nella loro struttura proprietaria, nella loro dimensione, nella scarsità degli investimenti, che troppo spesso si trova la causa prima della debolezza del «capitale umano» italiano.

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UN NUOVO DIRITTO

09/05/2020 da Sergio Casprini

Sergio Romano Corriere della Sera 9 Maggio 2020

Sono almeno tre i motivi per cui questa epidemia è potenzialmente più grave e minacciosa di quelle che hanno afflitto il mondo nel corso degli ultimi decenni, da quella dell’aids a quelle dell’ebola e della Sars.

Il primo motivo è la dimensione assunta dalla globalizzazione. Non è la prima volta che un bacillo arriva dall’asia. La peste nera scese da un altopiano della Mongolia all’inizio del XIV secolo, raggiunse la Turchia, attraversò la Siria e dalle coste del Mediterraneo entrò in Italia, Svizzera, Francia e Spagna provocando, secondo il calcolo di alcuni demografi, non meno di 30 milioni di morti. I vettori erano i topi che viaggiavano nelle stive mentre i tempi di diffusione del morbo erano quelli delle carovane e delle navi mercantili. Ma il numero degli abitanti nei Paesi aggrediti era molto più modesto mentre oggi tutto è infinitamente più grande e più veloce. È più grande la Cina (un miliardo e 293 milioni). È enormemente cresciuto il turismo; secondo la World Tourism Organization i turisti internazionali, nel 1950, erano circa 25 milioni, mentre nel 2019 i viaggiatori internazionali hanno superato per la prima volta il miliardo: una cifra destinata forse a contrarsi nella fase immediatamente successiva al termine della pandemia. Oggi non vi è importante città europea che non abbia un quartiere cinese, non vi è università europea che non abbia studenti cinesi, sono rari gli uomini d’affari che non abbiano fatto almeno un viaggio in Cina e non c’è linea aerea internazionale che non abbia aumentato i voli per Pechino e Shanghai. La globalizzazione significa quasi sempre maggiore ricchezza. Quanto più numerosi sono i legami che ci uniscono agli altri continenti, tanto più cresce il nostro benessere. Ma oggi sappiamo che quanto più cresce la nostra ricchezza, tanto più crescono i rischi.

Il secondo motivo è l’esistenza, soprattutto nelle democrazie occidentali, di un nuovo diritto. Nel 70° anniversario della Dichiarazione universale per i diritti umani, l’organizzazione mondiale della Sanità ha ricordato che la salute è un diritto fondamentale per tutte le persone. All’epoca delle epidemie di colera a Napoli nel 1884 e nel 1911, o della «spagnola» nel 1918, il diritto alla salute non esisteva. Questo non significa che i governi fossero insensibili all’esistenza di queste minacce e trattassero le epidemie con il «laissez faire» (lasciate fare) che fu il motto dei liberisti francesi sin dal XVII secolo. Lo storico Carlo Cipolla ci ha raccontato come il Gran Ducato di Toscana abbia organizzato i suoi servizi sanitari. E quando nel 1884 Napoli fu colpita dal colera, il re e la regina d’Italia vollero visitare personalmente la città. Ma la salute non era un diritto e nessun governo allora, avrebbe imposto le regole che sono state adottate dal governo Conte nelle scorse settimane con inevitabili ricadute sul funzionamento dell’economia nazionale. Credo che il governo abbia dimostrato grande coraggio e che il Paese, soprattutto nelle regioni maggiormente colpite abbia dato prova di disciplina. Ma gli effetti economici saranno pesanti e non è escluso che suscitino malumori e rimpianti.

Il terzo motivo è la cattiva politica. Alcuni uomini di Stato, dall’Ungheria al Brasile, hanno colto l’occasione per appropriarsi di nuovi poteri. Altri come il governo svedese sino alle scorse settimane, l’inglese Boris Johnson quando era ancora leader dei conservatori alla Camera dei Comuni e lo stesso americano Donald Trump nella fase iniziale dell’epidemia, hanno lasciato intendere più meno esplicitamente che era meglio attendere l’immunità di gregge e «lasciar fare». Altri ancora, particolarmente in Italia, stanno già speculando su quelle che potrebbero essere le reazioni della società quando la serrata (o confinamento, come lo chiamano i francesi) avrà considerevolmente ridotto il prodotto interno del loro Paese.

Di tutti i mali con cui dovremo convivere, quello della cattiva politica nell’epoca di Trump e dei sovranismi, potrebbe essere il peggiore.

 

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L’antico spirito italiano di cui essere orgogliosi

21/04/2020 da Sergio Casprini

L’idea di Italia era già viva prima dell’800 E anche le classi umili parteciparono in armi a moti come le Cinque giornate di Milano

Aldo Cazzullo Corriere della Sera 21 Aprile 2020

 

Ogni occasione importante ci conferma che noi italiani siamo più legati all’Italia di quanto pensiamo. C’è un’appartenenza espressa nei giorni scorsi nelle forme popolari degli applausi e dei canti dai balconi, che — tranne qualche chiassoso esibizionismo — hanno manifestato uno spirito di resistenza e di comunità.

Esiste un’identità italiana definita dalla musica — anche popolare —, dalle imprese sportive, da una cultura materiale in cui Nord e Sud si sono ormai compenetrati. È un patrimonio che affiora nei momenti cruciali della storia; non ce ne dobbiamo vergognare, anzi, dobbiamo salvaguardarlo come una ricchezza.

Però noi italiani siamo legati alla storia nazionale quando incrocia la storia delle nostre famiglie. Per noi, più che per altri popoli, la patria è davvero la terra dei padri, e delle madri. Questo spiega perché il 25 aprile continua a essere discusso — non tutti i nostri padri stavano dalla stessa parte — e il centenario della Grande guerra non è stato forse ricordato come meritava: i fanti del Piave sono tutti morti.

Ma se c’è un periodo oggi da riscoprire, dimenticato da quasi tutti e denigrato da molti, è il Risorgimento.

L’Italia esisteva già, da molto prima che divenisse uno Stato. L’idea dell’Italia nasce dalla cultura e dalla bellezza, da Dante e da Giotto, passa attraverso il Rinascimento e rifiorisce in un secolo straordinario, che ci restituisce finalmente uno Stato unitario: l’ottocento. Non è stato il Risorgimento a fare l’Italia, ma l’Italia a fare il Risorgimento. Ugo Foscolo si commuove a Santa Croce davanti al sepolcro di Vittorio Alfieri: «E l’ossa fremono amor di patria». Giacomo Leopardi vede il monumento che i fiorentini stanno elevando a Dante e scrive: «Volgiti indietro, e guarda, o patria mia/ quella schiera infinita d’immortali/ e piangi e di te stessa ti disdegna;/ che senza sdegno omai la doglia è stolta./ Volgiti e ti vergogna e ti riscuoti,/ e ti punga una volta/ pensier degli avi nostri e de’ nepoti». Alessandro Manzoni compone Marzo 1821 per onorare il coraggio di chi in piena Restaurazione si ribellava all’impero austriaco. Giuseppe Verdi si precipita a Roma per festeggiare la Repubblica assistendo al suo Macbeth al teatro Argentina: gli spettatori lo acclamano in piedi. Ippolito Nievo, uno dei Mille, moriva prima di veder pubblicate le Confessioni di un italiano: «Io nacqui veneziano ai 18 ottobre del 1775, giorno dell’evangelista san Luca; e morrò per la grazia di Dio italiano quando lo vorrà quella Provvidenza che governa misteriosamente il mondo». L’idea nazionale fa discutere pensatori e statisti del livello di Rosmini, Gioberti, Balbo, D’azeglio, Cavour, Mazzini, Cattaneo, Settembrini, Poerio.

Non è vero però — come si ripete spesso — che il popolo italiano sia assente dal Risorgimento. In un Paese di analfabeti, molto meno popolato e molto meno collegato dell’Italia di oggi, in cui le polizie dei vari Stati sorvegliano, arrestano, torturano, impiccano i patrioti, il sogno dell’unificazione conquista anche artigiani e operai. Nel 1848 insorgono le grandi città della penisola, da Palermo a Venezia, dove a guidare l’insurrezione sono gli arsenalotti. Non sarebbero bastati i «sciuri» per cacciare gli austriaci da Milano: quando alla fine delle Cinque giornate Carlo Cattaneo va all’obitorio a vedere i corpi degli oltre 400 caduti, esamina le loro mani, e vede che sono mani callose, di operai e manovali.

Gli italiani, per la prima volta dopo secoli, mostrano di essere pronti a combattere, e di saperlo fare. Radetzky deve rioccupare le città venete una a una, tranne Verona dove le truppe austriache sono di stanza (e sarà una Verona in festa quella che le giubbe bianche lasceranno nel 1866, sparando per sfregio sulla folla e uccidendo una donna incinta, Carlotta Aschieri, 25 anni). Sovrani intimoriti, se non apertamente ostili all’unità, non possono impedire la partenza di volontari da Firenze, da Roma, da Napoli, ansiosi di unirsi all’esercito piemontese. Si muove persino l’armata pontificia, per quanto sconfessata poco dopo dallo stesso Pontefice. Più in generale, quando il 24 giugno 1859 gli austriaci sono battuti a Solferino e San Martino, crolla tutta l’impalcatura del loro dominio sulla penisola, e le loro truppe si mostrano per quel che erano: un esercito di occupazione.

Quanto a Giuseppe Garibaldi, al tempo era l’uomo più famoso del mondo. Ovunque ci fosse un popolo oppresso, nelle case c’era il suo ritratto, i cortei scandivano il suo nome, le mamme mandavano a letto i bambini raccontando come in una fiaba che il giorno dopo sarebbe potuto arrivare un generale italiano a sanare le ingiustizie. Fu lo stesso Cavour — che lui non sopportava, ricambiato — a riconoscerlo: «Garibaldi ha reso agli italiani il più grande dei servigi che un uomo potesse rendergli: ha dato agli italiani fiducia in sé stessi, ha provato all’Europa che gli italiani sapevano battersi e morire sui campi di battaglia per riconquistarsi una patria». E noi non dovremmo essere orgogliosi di uomini così?

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L’orgoglio di un Paese ammalato

10/03/2020 da Sergio Casprini

Ernesto Galli della Loggia domenica 8 marzo 2020

Parlare bene dell’Italia non è facile: per le ragioni che ogni italiano conosce da quando è nato e che fanno sì che abitualmente del nostro Paese siamo assai più pronti a deprecare i difetti che a cantare le lodi. Nella sostanza, infatti, gli italiani sono uno dei popoli meno nazionalisti (meno nazionalisti in senso forte, intendo, cioè meno boriosamente nazionalisti) che ci siano. Nel Dna italiano è presente una notevole «xenofobia popolaresca», come la chiamava Gramsci, piuttosto che un consapevole e sviluppato spirito nazionalistico. Senza contare che una lunga storia ci ha obbligato a prendere atto della forza degli stereotipi negativi che circolano nel mondo sul nostro conto. Ai quali reagiamo, c’indigniamo, ma tutto finisce lì. Siamo abituati a essere stigmatizzati, anche perché spesso siamo noi i primi a farlo a danno di noi stessi.

L’epidemia di coronavirus è valsa a confermare l’immagine negativa che il mondo ha di noi. In più casi siamo stati additati come trampolino decisivo del contagio proveniente dalla Cina (mentre è ora sempre più chiaro, invece, che il virus ha sùbito preso a circolare inavvertito in molti luoghi del mondo).  In un’infografica la Cnn ci ha descritti addirittura come il focolaio originario della malattia, mentre un canale televisivo francese ha ironizzato pesantemente sul contagio mostrando un pizzaiolo italiano starnutire su una pizza appena sfornata. Anche le nostre radicali misure di prevenzione (peraltro poi via via imitate da molti altri Paesi) sono state interpretate non come il piglio saggiamente deciso con cui affrontavamo la malattia ma come la prova dell’estensione straordinaria che essa aveva nella Penisola, un luogo da cui notoriamente non ci si può aspettare niente di buono.

Ma è proprio in circostanze come queste — quando le cose ci vanno male e anche l’ostilità del mondo sembra che non ci risparmi —, è proprio in circostanze come questa, se non m’inganno, che in molti di noi scatta un sentimento d’identificazione con il nostro Paese fino a quel momento nascosto. Patriottismo è una parola grande e impegnativa. È qualcosa di diverso. È il sentimento oscuro di appartenere ad una medesima storia la quale anche a dispetto della nostra stessa volontà però ci tiene insieme, non foss’altro perché agli occhi degli altri siamo uno stesso popolo dalle Alpi alla Sicilia. È accorgersi che anche se siamo di Lecce in fondo consideriamo quello che accade a Bergamo come qualcosa che ci riguarda, che anche se tifiamo per il Verona non è per niente vero, alla fine, che vorremmo vedere Napoli inghiottita dal Vesuvio. È il sentimento insomma che oggi abbiamo di dividere una sorte comune. Non perché siamo diventati misteriosamente diversi da come eravamo prima dell’epidemia, ma perché il pericolo che oggi ci avvolge tutti fa venir fuori una parte profonda di noi che in precedenza non si faceva sentire. Una parte di noi costruita da memorie ed emozioni sepolte: un incontro con un gruppo di persone che parlavano la nostra stessa lingua in attesa come noi nell’aeroporto di un Paese lontano, i colori intravisti di una bandiera, il suono di una musica familiare così nostra.

Accade anche qualcos’altro nell’Italia malata. Accade ad esempio che, è vero, siamo sempre d’accordo con le critiche mosse da tutte le parti a come funziona o meglio non funziona il nostro Paese, con le critiche alla sua burocrazia, alla sua disorganizzazione, alla sua classe politica, così come alla sua società afflitta da mille difetti. L’ho detto all’inizio: la vocazione nazionalista non ci appartiene. Ma se questo accade, accade pure che proprio in una situazione come quella di questi giorni, in cui ci sembra che il Paese sia con le spalle al muro, che tutto sembri confermare i giudizi sconfortanti che noi per primi siamo soliti dare di esso, accade che proprio in una situazione simile avvertiamo però, dentro di noi, nascere un pensiero diverso, un sentimento di orgoglio che non sospettavamo di avere.

Non è tanto facile ammazzare l’Italia, ci dice quel sentimento. Non è mai stato facile. Paragonata a tanti altri Paesi, l’Italia è un piccolo lembo di terra, povera, senz’alcuna risorsa, ma bene o male da duemilacinquecento anni quell’Italia riesce a stare sul palcoscenico della storia, da duemilacinquecento anni il suo nome non è mai scomparso nel mondo. In virtù delle molteplici e multiformi qualità dei suoi abitanti, di qualcosa che è intima parte del suo «genio» (bisognerà pure essere liberi di usare parole importanti per dire cose importanti) essa ha sempre avuto qualcosa da dire o da dare. E continua ancora oggi. Ancora oggi siamo tra i primi, tra i primissimi in Europa, nel produrre ogni genere di macchine, di strumenti, di oggetti utili e necessari o semplicemente belli, che esportiamo dappertutto. Così come negli studi, nella ricerca, nelle scienze, non sono poche le conoscenze che portano un nome italiano, e voci, immagini, scritture, musiche, le quali recano in sé anch’esse tutte qualcosa dell’Italia, percorrono ancora oggi il mondo, e il più delle volte non proprio in modo insignificante.

Questo pensiamo mentre con non comune sincerità (ben venga!) il nostro governo c’informa ogni giorno del male che cresce e che c’insidia, e di come combatterlo. Ormai sappiamo che il colpo che ne avremo sarà duro. Ma se la storia ci dice qualcosa, ci dice che resisteremo. Che potremo anche cadere, forse. Ma che dopo di sicuro ci rialzeremo.

 

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L’antisemitismo colpisce l’Europa non solo gli ebrei

27/01/2020 da Sergio Casprini

Elena Loewenthal  La Stampa 25 gennaio 2020

In Israele vige un’ossessione per i numeri. Nulla a che fare con equazioni complesse o numeri astronomici: il conto è quello del censimento. Un popolo vissuto per millenni sul filo dell’estinzione ha bisogno di sapere che esiste anche nella quantità. Qualche anno fa, il censimento si è meritato titoli cubitali in prima pagina, di quelli che si usano solo per le grandi catastrofi, gli eventi epocali nel bene e nel male: allora la popolazione ebraica aveva, seppure di poco – qualche migliaia di anime – superato i 6 milioni. «Abbiamo sconfitto la Shoah!», dicevano più o meno così tutti i giornali, registrando un’emozione collettiva profonda, quasi indescrivibile.

In L’Europa senza ebrei, l’ultimo libro di Giulio Meotti in uscita per Lindau (pp. 174, € 16), il giornalista offre un quadro devastante della presenza ebraica in Europa. Dalla Francia ai Paesi Scandinavi, dall’Olanda all’Italia, il lettore trova qui sostanzialmente due cose: per un verso l’inarrestabile calo della popolazione ebraica, per l’altro una lunga serie di episodi di violento antisemitismo.
È vero, i numeri dell’ebraismo europeo sono in drastico calo. Gli ebrei sono sempre meno: in Italia davvero pochissimi, un’inezia nel panorama demografico, neanche 24.000 in tutto lo Stivale, isole comprese. Ma sono tante, e complesse, le ragioni di questa esiguità, tanto italiana quanto europea. Matrimoni misti, assimilazione, e certo anche l’emigrazione verso Israele, magari sulla spinta della paura – come è accaduto in Francia all’indomani dei terribili attentati, da Charlie Hebdo al Bataclan.
È dunque molto vero il quadro che descrive Meotti: gli ebrei sono sempre meno. Ma, al di là dell’allarme, si tratta forse di confidare nelle risorse di sopravvivenza – demografica, culturale, storica – che il popolo d’Israele ha sempre saputo mobilitare. Esiste infatti una specie di indecifrabile alchimia, o forse di fede tenace, che accompagna da sempre il corpo a corpo degli ebrei con la storia, con le innumerevoli avversità, con l’ostinazione del pregiudizio. Soprattutto con quella condizione esistenziale anomala che è stata, ed è tuttora la Diaspora.

E poi c’è la questione dell’antisemitismo: davvero più all’ordine del giorno che mai, dal secondo dopoguerra. Ma l’antisemitismo è, più che degli ebrei, una questione dell’Europa, dei conti con la storia recente ancora in gran parte da fare. Per questo è necessario vigilare con tanta fermezza quanto equilibrio, senza mettere in gioco i valori della libertà e della responsabilità. L’antisemitismo è il vero «tradimento dell’Occidente», come dice il sottotitolo del libro: il fatto che in Francia e altrove si possa ancora essere assassinati per il semplice fatto di essere ebrei, il fatto che in Germania e altrove sia diventato rischioso andare in giro per le strade con una kippah sulla testa dimostra che l’Occidente ha tradito e continua a tradire sé stesso. Ha un che di assurdo, l’antisemitismo oggi. Eppure è reale, tangibile. Meotti ne enumera una preoccupante serie di casi, nel passato più recente. Perché davvero gli ebrei sono i canarini nella miniera di carbone, i primi a subire le mortifere esalazioni di metano e monossido di carbonio. Poi, però, tocca agli altri. Perché, oltre a essere un disvalore di per sé, il pregiudizio antiebraico è immancabilmente un campanello d’allarme, l’innesco di una catena della violenza, fisica o verbale che sia.

Che fare? Difficile somministrare ricette preconfezionate. Ma forse il primo passo è proprio quello della consapevolezza: capire che l’antisemitismo non riguarda tanto gli ebrei e quel loro destino funambolico che fino ad ora l’ha avuta vinta sulla storia, a dispetto di tutto, quanto l’Europa. Con le sue tragedie passate e presenti, i suoi valori, la sua memoria e le sue amnesie, la sua determinazione ad affrontare il futuro.

 

                        

 

 

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Il razzismo e i suoi confini

15/01/2020 da Sergio Casprini

 

Le culture sono una cosa complicata e da maneggiare con cura. Per una ragione evidente: perché contribuiscono in misura decisiva a costituire l’identità di ognuno di noi, a farci essere e a farci sentire ciò che siamo, spesso al di là della nostra stessa consapevolezza

Ernesto Galli della Loggia  Corriere della Sera 11 gennaio 2020

L’alternativa non è tra il razzismo e l’accoglienza. Quando si tratta di rapporti con l’«altro», con chi percepiamo come diverso perché estraneo alla collettività umana cui noi apparteniamo, l’alternativa non è tra il rifiuto aggressivo intessuto di uno sprezzante senso di superiorità da un lato, e dall’altro la disponibilità più aperta, amichevole e ospitale. C’è una terza posizione, che è poi quella istintivamente adottata dalla grande maggioranza degli esseri umani.

Ce la indica un grande antropologo, forse il più grande del Novecento, Claude Lévi-Strauss — è necessario aggiungere che difficilmente lo si sarebbe potuto definire un conservatore? — in un suo testo poco noto (De près et de loin, Odile Jacob, 1988) contenente parole di straordinaria attualità che meritano di essere conosciute e meditate. Specialmente in un momento come l’attuale in cui nella società italiana le tensioni di vario genere causate dall’immigrazione stanno accendendo intorno a questi temi un aspro dibattito pubblico nel quale si sprecano le accuse e le strumentalizzazioni politiche.

Per Lévi-Strauss il razzismo è «l’ostilità attiva» di una cultura verso un’altra, volta a «distruggerla o semplicemente ad opprimerla» sulla base di una presunta gerarchia qualitativa dei rispettivi patrimoni genetici. Questo è il razzismo: che, come è ovvio, si accompagna inevitabilmente alla negazione all’altro degli stessi diritti di cui godiamo noi.

Invece, aggiunge subito dopo Lévi-Strauss, «che delle culture, pur rispettandosi possano sentire maggiori o minori affinità le une per le altre, questa è una situazione di fatto che è sempre esistita. È un dato normale dei comportamenti umani». E fa un esempio che lo riguarda personalmente: se in metropolitana gli capita d’incontrare dei giapponesi, verso la cui cultura egli è attratto, gli viene naturale un moto di simpatia e d’interesse, e il fatto si produce, ammette senza problemi, sulla base della loro semplice apparenza fisica, del loro puro modo di comportarsi nonché della conoscenza della loro lingua. «Nella vita quotidiana, conclude, tutti ci comportiamo così per situare uno sconosciuto sulla carta geografica. (.…) Sarebbe davvero il culmine dell’ipocrisia pretendere di vietare questo genere di approssimazione»:(…) «denunciarla come razzista rischia solo di fare il gioco del nemico dal momento che molte persone ingenue si diranno: se questo è razzismo, ebbene io allora sono razzista».

Dunque non volere avere troppo a che fare con i nigeriani, dico per dire, a causa del loro modo di fare, o sentirsi infastiditi dall’odore del cibo cucinato dai bengalesi, o trovare sgradevole l’idea di avere dei vicini di casa rom, non ha niente a che fare con il razzismo. È un’altra cosa. Così come è un’altra cosa preoccuparsi del fatto che la presenza di una cultura diversa dalla propria raggiunga proporzioni tali da rendere la nostra minoritaria. Una tale preoccupazione diventa razzismo non già quando in base ad essa si chiedono all’autorità misure per evitare che si crei la condizione suddetta (chiedendo di porre dei limiti all’immigrazione, ad esempio), bensì quando s’invocano misure a qualunque titolo discriminatorie nei confronti di chi è già tra di noi. O, come accade più spesso, quando con atti o con parole ci si comporta verso chi non condivide la nostra cultura in un modo che ci guarderemmo bene da adoperare con coloro che invece la condividono.

Le culture sono una cosa complicata e da maneggiare con cura. Per una ragione evidente: perché contribuiscono in misura decisiva a costituire l’identità di ognuno di noi, a farci essere e a farci sentire ciò che siamo, spesso al di là della nostra stessa consapevolezza. Se si è nati in questa parte del mondo, ad esempio, può capitare di essere un ateo a diciotto carati, infatti, perfino un mangiapreti, ma nel momento in cui si vede la cattedrale di Notre-Dame andare a fuoco, avvertire comunque un sentimento misterioso di tristezza e di angoscia, di perdita di qualcosa che ci riguarda profondamente.

Proprio per questo la politica è sempre tentata di sfruttare, esasperandolo, il dato culturale-identitario, dal momento che essa vede in ciò la possibilità di fare appello alla nostra parte meno razionale, di sollecitare le nostre reazioni più immediate e magari sconsiderate. È questa la strada che in Italia troppo spesso imbocca una parte della destra quando esaspera gli animi e più o meno intenzionalmente favorisce comportamenti che mirano a negare o violare i diritti altrui, siano questi emigrati, rom, o chiunque altro. Al che però si risponde spesso dall’altra parte, dalla sinistra, in modo altrettanto esasperato e contrario, opponendo ai «bassi istinti» gli «alti principi», alla febbre identitaria un algido idealismo che affida tutta la sua capacità di convinzione alla forza del tabù che per ogni persona civilizzata rappresenta l’accusa di razzismo.

Ma applicare sconsideratamente il termine razzismo , come non manca di sottolineare esplicitamente Lévi-Strauss, significa solo banalizzare il concetto, svuotarlo del suo contenuto. E così rischiare di condurre alla fine a un risultato opposto a quello desiderato.

 

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