• Passa alla navigazione primaria
  • Passa al contenuto principale
  • Passa alla barra laterale primaria
  • Passa al piè di pagina
  • Il Comitato Fiorentino per il Risorgimento
  • Redazione
  • Contatti
  • Photogallery
  • Link
  • Privacy Policy

Risorgimento Firenze

Il sito del Comitato Fiorentino per il Risorgimento.

  • Home
  • Focus
  • Tribuna
  • I luoghi
  • Mostre
  • Rassegna stampa
  • Pubblicazioni
  • Editoriale

Tribuna

Italia Donati

21/06/2019 da Sergio Casprini

A Italia Donati, maestra municipale a Porciano, bella quanto virtuosa, costretta da ignobile persecuzione a chiedere alla morte la pace e l’attestazione della sua onestà

 Fabio Bertini  Cooordinatore Comitati Toscani per il Risorgimento

A Porciano, nel 1883, era giunta per insegnare nella scuola mista comunale la maestra Italia Donati,  di Cintolese di Monsummano, dove era nata il 1° gennaio 1863. Tre anni dopo, il 1° giugno 1886, si suicidò gettandosi nella gora di un mulino di Leopoldo Torrigiani. Tra le cose ritrovate, una edizione del “Genoveffa” di Lamartine, storia di una fantesca, ridotta alla disperazione dalle calunnie, il suo “livre de chevet”. In una lettera ai parenti che firmava definendosi “maestra sventurata”, chiedeva fosse eseguita l’autopsia. Sarebbe servita a dimostrare la sua integrità e smentire così le chiacchiere artatamente messe in giro su una sua presunta gravidanza. In un messaggio al fratello si definiva “Infelicissima Italia che muore per l’onore”. E forse, involontariamente, in quel terribile frangente dipingeva un Paese che moriva di disonore. “Italiano” il fratello, “Italia” lei, quella famiglia era animata dalla fiducia nel Risorgimento e si trovava a misurarsi con le persistenze ancestrali dell’Antico Regime. Era la famiglia molto povera di un fabbricante di spazzole e parte delle 45 lire di stipendio servivano per l’affitto dei genitori.

Da maestra, Italia Donati era parte di quei drappelli di donne che avanzavano in un deserto per una concreta emancipazione femminile. In un altro biglietto definiva “infame” Porciano, reo della “infame” accusa. Non voleva le ragazze maldicenti al funerale e accettava soltanto i  bambini e le bambine, “innocenti come lei”. Tale, infatti, era il carico di perfidia che l’aveva investita, una chiamata di correo per un Paese intero che aveva consumato il veleno,  mettendo insieme le sordide ragioni personali di qualcuno, quelle politiche che intendevano coinvolgere il sindaco Leopoldo Torrigiani, avesse o meno provocato suggestioni con i suoi comportamenti, e una morale consolidata. Bella, “di forme scultoree, di personale alto, elegante, con un visino affilato e una grazia non comune”, scontava soprattutto la colpa di essere avvenente e moderna. Prima del trasferimento a Cecina le era stato fatto il vuoto intorno e perfino tante sue coetanee le avevano mostrato ostracismo. Insegnare in un posto diverso non era bastato e la falsa accusa di procurato aborto – messa in giro da un parente del Sindaco – le era addosso. .Rapidamente, il «Corriere della Sera» lanciava la sua inchiesta e Matilde Serao la sua denuncia per i tanti casi in cui maestre giovani e belle erano state costrette alla stessa sorte. Tardivamente il Consiglio comunale attestò l’innocenza della Maestra. Poi il «Corriere della Sera» aprì una sottoscrizione perché potesse essere sepolta a Cintolese, come desiderava. Il ministro della Pubblica Istruzione, Coppino, ordinò un’inchiesta, ma la risposta più grande venne dalla raccolta per la sepoltura e rappresentò l’unione di tante maestre e maestri e di tanti spiriti indignati contro la persecuzione e contro l’indifferenza.

Nessuno della zona in cui tutto era accaduto comparve nella sottoscrizione, ma la domenica 4 luglio in cui avvenne la traslazione, una folla ininterrotta fece ala al feretro, da Porciano a Cintolese, e il cronista la calcolò in 20.000 persone. C’erano carrozze dell’aristocrazia, e i cortei provenienti da tutta la Vallata confluirono in uno al confine tra Pistoia e Lucca. Al Cimitero di Porciano vollero agire soltanto i cittadini di Cintolese e non vollero becchini locali. Il parroco locale, Alessandro Betti non era presente e occorse forzare il cancello per mancanza di chiavi.

Passando da Lamporecchio, il corteo, con il prete di Cintolese,  il “vecchio e buono” don Valentino Baldi, trovò le maestre con bande musicali e bambini e bambine vestite di bianco. A Cintolese  c’erano le maestre di Cecina e di Lamporecchio, con piccoli scolari e “vezzose scolarette tutte inghirlandate di fiori e foglie di cipresso”. Con loro, le bande musicali di Monte Vettolini e di Monsummano, con le bandiere, tutti i maestri e le maestre del Comune, i Sindaci di Monsummano e Lamporecchio, le autorità scolastiche, cinquanta fanciulle vestite di bianco e bambini. Il discorso funebre fu tenuto tra le lacrime dal suo vecchio maestro, Giuseppe Baronti.

La lapide realizzata con la sottoscrizione, in lettere d’oro su pietra nera, fatta mettere dal Municipio in una cappellina, recava “A Italia Donati, maestra municipale a Porciano, bella quanto virtuosa, costretta da ignobile persecuzione a chiedere alla morte la pace e l’attestazione della sua onestà”. Occorreva davvero una lapide perché Italia Donati era una vittima del Risorgimento delle donne che ancora era da compiere.

 

Archiviato in:Tribuna

Il 2 giugno che unisce il Paese

03/06/2019 da Sergio Casprini

Aldo Cazzullo Corriere della Sera 1 giugno 2019

Se il 25 Aprile divide, il 2 Giugno unisce. Più passa il tempo dalla Liberazione dal nazifascismo, più la giornata che dovrebbe celebrarla rinfocola antiche e nuove contrapposizioni, per la responsabilità incrociata di una destra — ora Salvini ma a lungo, prima di Onna, anche Berlusconi — che considera erroneamente la Resistenza una «cosa rossa», e degli ideologismi di una sinistra — si pensi alle vergognose contestazioni alla Brigata ebraica e agli scontri tra i cosiddetti «antifascisti» e le forze dell’ordine — che piega a fini di parte valori che dovrebbero appartenere a tutti gli italiani.

Poi per fortuna viene il 2 Giugno. A dimostrare che il patto repubblicano tiene.

I segnali sono molti. Il primo è la popolarità di Sergio Mattarella. Hanno fatto notizia i quattro minuti di applausi all’assemblea di Confindustria; ma alla Scala sono stati ancora di più. Sarebbe fuorviante leggerli come dissenso dall’attuale maggioranza. Oltre il 50% degli italiani ha appena votato per movimenti la cui cultura politica è distante da quella in cui il presidente si è formato. Se però anche molti di loro si riconoscono in Mattarella, questo significa che il suo stile e il suo modo di operare hanno fatto breccia al di là delle appartenenze. In un tempo segnato in tutto il mondo dalla ribellione contro le istituzioni, non è poco.

La stessa svolta nazionale della Lega, per quanto dettata da motivi tattici, non sarebbe stata possibile in assenza di un forte denominatore comune tra gli italiani, che non può essere solo la paura dei migranti.

I simboli sono decisivi, perché dietro ci sono le cose. Fino al 1982 il tricolore era considerato da molti un simbolo di parte, quasi di estrema destra; occorse una vittoria sportiva per rivedere le bandiere nelle strade. Poi Umberto Bossi invitò a farne un uso improprio. Oggi il tricolore è un simbolo in cui la grande maggioranza degli italiani si riconosce.

Anche per questo l’autonomia del Nord non deve fare paura. Pure nell’unica regione percorsa da autentiche venature separatiste, il Veneto, le due bandiere — il tricolore e il Leone di San Marco, che è poi uno dei segni dell’identità europea visto che fu il vessillo di una Repubblica durata mille anni — possono stare insieme. Non a caso, quando dopo la rivolta del 1848 risorse la Serenissima, Daniele Manin volle come bandiera il tricolore, con un Leone in alto a destra. Non tutti i veneti la pensano così; ma la maggioranza sì.

Gli italiani sono più legati all’italia di quel che pensano di essere. Ma distinguono la patria dallo Stato. Troppi fenomeni, dall’evasione fiscale alla corruzione, dimostrano che lo Stato è ancora sentito come «altro» rispetto a noi; e a volte il fisco e la burocrazia si comportano in modo tale da confermare questi pregiudizi negativi. Al malcostume quotidiano si aggiungono bizzarrie culturali: il Sud che il 2 giugno 1946 votò in massa per tenersi i Savoia ora è percorso da un’onda neoborbonica che sarebbe sbagliato sottovalutare, e non solo perché è attivissima sul web. Il retro-testo è evidente: il Sud sarebbe ricco, libero e felice se il Nord non l’avesse invaso, depredato, colonizzato. Un pregiudizio speculare a quello di certi nordisti, secondo cui il Nord sarebbe una grande Baviera se liberato dalla palla al piede del Sud. Sembrano fazioni contrapposte, ma condividono la stessa mentalità: la causa dei nostri mali non è nostra, ma di altri italiani.

L’altro grande capro espiatorio è l’Europa, ormai concepita come fonte di ogni male. La sfida è invece proseguire la costruzione europea, senza perdere del tutto la dimensione dello Stato-nazione, nei cui confini è nata la democrazia e si devono oggi costruire un’equità fiscale e un patto di reciproche responsabilità che ancora non sono compiuti.

La Repubblica non è mai acquisita per sempre. È un divenire che ha anche necessità di date, di simboli, di memorie, di persone. Persone come Carlo Azeglio Ciampi, che amava ripetere di sentirsi profondamente livornese, toscano, italiano, europeo.

 

Archiviato in:Tribuna

Immigrazione e multiculturalismo. Il silenzio degli «accoglienti»

28/05/2019 da Sergio Casprini

Ernesto Galli Della Loggia Corriere della Sera  26 maggio

Vi sono libri importanti in ragione del loro argomento e del modo in cui esso viene trattato, oppure in ragione di qualche peculiarità del loro autore, e vi sono libri, poi la cui importanza dipende da un’altra ragione ancora: dal clamore straordinario o all’opposto dal silenzio sospetto che li accoglie

Il libro di Raffaele Simone L’ospite e il nemico (Garzanti) ha la singolarità di segnalarsi per tutti e tre i motivi ora detti: non solo perché tratta di un tema chiave come la grande migrazione dal Sud del mondo di cui l’Europa è la meta da anni, ma perché il tema stesso, a differenza di tante altre pubblicazioni analoghe, è svolto in modo quanto mai documentato e soprattutto con una totale spregiudicatezza; infine perché dell’uscita del libro nessuno ma proprio nessuno ha mostrato di accorgersi. Un silenzio davvero singolare per non autorizzare un dubbio: e cioè che il mainstream culturale devoto al politicamente corretto — il Club Radicale come viene definito in queste pagine — abbia così voluto punire chi mostrava di non tenere alcun conto delle sue fisime e dei suoi tabù. Soprattutto perché chi osava tanto era uno studioso come Simone — il quale, lo ricordo, professionalmente è un linguista — la cui produzione di saggistica politica si è sempre mossa in una prospettiva schiettamente di sinistra. E che dunque oggi al suddetto Club deve essere apparso un transfuga, un traditore.

Che cosa sostiene di così scandaloso per il benpensante progressista il libro di cui stiamo parlando? Innanzitutto un criterio di metodo: «Non c’è nessun immigrato, in quanto persona, leggiamo, che visto da vicino, non susciti compassione e impulso al soccorso (…). Ma si possono osservare i fenomeni collettivi persona per persona?». Simone non ha dubbi: non è possibile. L’immigrazione verso l’Europa è un evento di una tale vastità potenziale che, incontrollato, non potrebbe che condurre questa parte del mondo a un’autentica catastrofe, più o meno analoga a quella rappresentata a suo tempo dalle invasioni barbariche. Si tratta di una presa di posizione niente affatto ideologica: infatti è davvero impressionante, in proposito, la vasta e varia documentazione, la quantità di notizie, di dati, di fatti di cronaca, circa le conseguenze negative già in atto o assai prevedibili contenute nel libro. Il cui autore, proprio perciò, sottolinea come siano a dir poco sorprendenti lo «spesso clima di ipocrisia e di falsità», «la sceneggiatura irenico-umanitaria» e la «sconsiderata rilassatezza» delle politiche migratorie praticate finora: attuate «quasi tutte — si aggiunge — contro il parere del popolo». Ce n’è abbastanza, come si vede, per giustificare la censura decretata al libro dal Club Radicale.

Sono due i principali obiettivi della polemica di Simone, dura quanto lucidamente argomentata. Il primo è l’insulsa colpevolizzazione che da tempo l’Europa va facendo del proprio passato, alimentando un vero e proprio odio di sé che in particolare il suo ceto politico-intellettuale e la sua scuola non si stancano di accrescere, costruendo l’idea di un debito che il continente sarebbe oggi chiamato giustamente a pagare, ad espiazione delle sue passate malefatte verso i popoli del Sud del mondo, sotto forma per l’appunto di un indiscriminato obbligo di accoglienza.

Ne è nata una vera e propria «cultura del pentimento e della discolpa» ormai diffusa in tutta la sfera pubblica occidentale, che conduce a considerare ad esempio come delittuosa «islamofobia» ogni pur ragionata valutazione critica della religione e della cultura islamiche. Arrivando, ad esempio, perfino al caso di indagini di polizia che in più occasioni tacciono l’origine islamica dell’indagato per il timore d’incorrere nell’accusa di razzismo. Secondo Simone si tratta di un indirizzo ideologico che, appunto per la «bramosia di penitenza» di cui si sta parlando, tende alla fine a cancellare il carattere fondamentale dell’identità europea, fondata sull’assoluta peculiarità del binomio Cristianesimo-Illuminismo e dei suoi mille esiti positivi rispetto a qualunque altra cultura. Sfidando il politicamente corretto l’autore ha il coraggio di porsi una domanda decisiva: «Cosa vogliamo preservare da qualunque rischio di alterazione? (…) Ci sono valori europei (corsivo nel testo) che bisogna assolutamente proteggere?».

Il secondo dei due principali bersagli del libro è la latitudine tendenzialmente indiscriminata del concetto di accoglienza, che è stato il criterio morale di fondo a cui il politicamente corretto occidentale si è fin qui sentito in dovere di guardare, sia pure con le inevitabili incertezze e contraddizioni del caso.

Ricordando come nell’antichità indoeuropea ospite e nemico fossero indicati dalla stessa parola (ne è rimasta traccia in latino: hospes/hostis) Simone fa una distinzione assai importante. Un conto è il diritto all’ospitalità, cioè ad essere accolto temporaneamente in un luogo e con il beneplacito dell’accogliente — secondo il modello così diffuso in moltissime culture — un conto ben diverso è il presunto diritto a stabilirsi dove uno vuole, indipendentemente dalla volontà (e dal numero!) di chi in quel luogo abita da tanto tempo, avendovi magari profuso da generazioni lavoro e cura per renderlo ciò che esso è oggi. Senza dire che quando parliamo di ospitalità intendiamo da sempre quella riservata ad una sola persona o ad un piccolo gruppo, non di certo a una massa. In questo caso sembra davvero più appropriato parlare al limite di invasione anziché di ospitalità.

Presumere che esista un diritto all’accoglienza illimitata comporta logicamente né più né meno che teorizzare la cancellazione virtuale dei confini: cioè di qualcosa che l’autore stesso definisce «una necessità etologica dei gruppi umani». Naturalmente nessun «accogliente» ha il coraggio politico e intellettuale di trarre una simile conseguenza dalla propria posizione. La retorica serve per l’appunto a rimediare a questa falla dispiegando le sue armi, quelle che Simone chiama per l’appunto le «retoriche dell’accoglienza» (da «siamo stati tutti migranti e siamo tutti meticci» a «dall’arrivo dei migranti abbiamo da trarre solo vantaggi» e così via seguitando). Retoriche che egli smonta una per una, con precisione, con i fatti, ragionando. Un libro assolutamente da leggere, insomma, non foss’altro che per discuterlo: proprio come al Club Radicale non piace mai fare con chi non la pensa come lui.

 

Archiviato in:Tribuna

Noi, diventati cittadini per merito della storia

07/05/2019 da Sergio Casprini

Ezio Mauro  La Repubblica 6 maggio 2019

La storia è fondamentale perché siamo cittadini, e non solo individui. Il fatto che oggi lo si debba rivendicare è già un segno dei tempi. La storia ci rende infatti coscienti di ciò che siamo e del percorso che abbiamo compiuto per diventarlo, insieme con gli altri, ci mette davanti i nostri errori e i nostri successi e ci costringe a prenderne atto. La vicenda di un popolo, di una nazione, di uno Stato può essere compresa solo conoscendo il suo tracciato, le scelte che l’hanno determinata, i valori che l’hanno ispirata, il contesto che l’ha favorita o condizionata.

La raccolta di firme sotto il manifesto promosso da Giardina, Segre e Camilleri prosegue e si è rivelata un successo inatteso. Dimostra l’attaccamento a una disciplina che ci aiuta a capire il nostro ruolo nel mondo

La storia è fondamentale perché siamo cittadini, e non solo individui. Il fatto che oggi lo si debba rivendicare è già un segno dei tempi. La storia ci rende infatti coscienti di ciò che siamo e del percorso che abbiamo compiuto per diventarlo, insieme con gli altri, ci mette davanti i nostri errori e i nostri successi e ci costringe a prenderne atto.

La vicenda di un popolo, di una nazione, di uno Stato può essere compresa solo conoscendo il suo tracciato, le scelte che l’hanno determinata, i valori che l’hanno ispirata, il contesto che l’ha favorita o condizionata.

È attraverso questa conoscenza che si acquista una nozione del mondo e del suo evolversi, quindi del nostro ruolo in questo paesaggio politico, sociale, culturale.

Senza una coscienza storica la politica è improvvisazione, interpretazione estemporanea del momento, puro istinto, sia da parte di chi la esercita nella cosa pubblica, sia da parte di chi la segue come cittadino, giudicando, prendendo parte, premiando e punendo con il voto.

La storia è di per sé un insegnamento critico, perché mette a confronto esperienze, teorie e politiche diverse tra di loro, sollecitando il giudizio, la passione e l’analisi autonoma di chi la studia. In più, la storia è una vicenda umana, quindi è composta di storie minime che raccontano avvenimenti grandiosi, ricordandoci che la libertà e la responsabilità del singolo sono il nucleo morale di ogni grande avventura collettiva.

Sono questi elementi che creano, insieme, una consapevolezza della cittadinanza e un sentimento repubblicano, nella condivisione del divenire della storia nazionale, nel suo bene e nel suo male, come identità del Paese.

Spesso oggi è proprio questo che manca, nel rifiuto della conoscenza e nella svalutazione del sapere che aprono la strada a cortocircuiti politici, culturali ed esistenziali, fino a giungere alla riproposizione di forme spurie, posture mimetiche e stilemi isolati del fascismo.

 

Archiviato in:Tribuna

NON REGALARE AI SOVRANISTI IL CONCETTO DI NAZIONE

15/04/2019 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Giovanni Belardelli  Corriere della Sera 13 Aprile 2019

Possiamo regalare la nazione ai sovranisti? Penso che non dovremmo, ma penso anche che è esattamente questo che sta accadendo in Italia, dove il dibattito politico si è ormai polarizzato intorno alla contrapposizione sovranisti-europeisti. Negli ultimi decenni sono stati in molti a prefigurare una democrazia postnazionale, una cittadinanza cosmopolita, nella convinzione che ogni riferimento alla nazione fosse diventato obsoleto nel quadro della globalizzazione.

In realtà la crisi economica mondiale iniziata nel 2007-08 ha mutato sensibilmente le cose, favorendo la diffusione — nei ceti medio-bassi più che nelle élite — di paure, ansie, richieste di protezione rivolte anzitutto al proprio Stato-comunità, alla propria nazione intesa in modo elementare come il «noi» del quale facciamo parte per dati linguistici, culturali, geografici, perfino per abitudini alimentari. Il governo gialloverde ha intercettato questi sentimenti e queste domande, con una divisione dei compiti forse non programmata ma evidente: alla domanda di sicurezza di fronte alla «minaccia» dell’immigrazione ha pensato la Lega, al disagio sociale di chi si sente lasciato ai margini dall’economia globalizzata ha pensato il M5S con il «reddito di cittadinanza». Qui non si tratta di valutare positivamente le misure del governo in questi ambiti, cosa che sarebbe ben difficile, ma di capire come questa politica abbia dato a molti italiani l’impressione che i gialloverdi si occupano di loro, prendono sul serio le loro paure e richieste di aiuto.

Credo sia anche per questo che il governo gode ancora di un’approvazione che è stimata attorno al 60%. Oltre naturalmente al fatto che la principale forza di opposizione, il Pd, sembra da tempo vittima di un blocco culturale, che gli impedisce di capire che esiste anche un sentimento nazionale del tutto conciliabile con la democrazia e con la collaborazione con gli altri popoli a cominciare dai partner europei. E che la nazione dunque svolge una funzione ancora importante su due fronti: da una parte alimenta un senso di solidarietà e vicinanza in società che hanno assicurato un gran numero di diritti e libertà individuali, generando però un rischio di solitudine per cospicue minoranze; dall’altra, rende più facilmente abitabile il mondo, radunando i cittadini secondo criteri di prossimità e comunanza, piuttosto che farli vivere in un ipotetico spazio globale, in una specie di immenso loft planetario. Quello che, secondo alcuni studiosi, sta rinascendo in Europa e negli Stati Uniti è un sentimento collettivo fatto di simboli, gesti quotidiani, usi in comune che sono specificamente nazionali in un senso elementare e senza che spesso ne siamo consapevoli. Le tasse che paghiamo, le pensioni che milioni di italiani e italiane percepiscono non contengono forse un riferimento alla nazione così implicito che neppure vi facciamo più caso? Perfino le nostre previsioni meteorologiche non definiscono un «qui» che coincide con lo Stato nazionale? Sono, questi e molti altri, i segni di un «nazionalismo banale», come lo ha definito l’inglese Michael Billig (il suo libro, con questo titolo, è stato pubblicato in Italia da Rubbettino), che è parte integrante della vita di una società democratica.

Accettare, e anzi enfatizzare, la contrapposizione irriducibile tra sovranisti ed europeisti significa invece ignorare questo sentimento di appartenenza nazionale più immediato e sotterraneo; significa lasciare tutto ciò che riguarda la nazione ai partiti cosiddetti populisti, nella convinzione che del nazionalismo si possa avere solo l’accezione aggressiva, bellicista, razzista che ha prodotto molti degli orrori del ‘900. Ma la contrapposizione tra sovranisti ed europeisti rischia di ignorare anche un dato che è sotto gli occhi di tutti: l’unione europea costituisce uno spazio che è sì di collaborazione ma al contempo anche di concorrenza tra gli Stati che ne fanno parte, dalle misure di politica economica alle iniziative di politica estera (come dimostra la crisi libica, nella quale Italia e Francia hanno seguito linee divergenti). La posizione gialloverde, anzi soprattutto leghista, nei confronti dell’europa non va oltre un muscolarismo parolaio e controproducente.

Ma ci sarebbe da preoccuparsi se l’alternativa fosse soltanto quella racchiusa in slogan come «più Europa» o «siamo europei», che rischiano di parlare soprattutto alle élite e finiscono col regalare ai cosiddetti sovranisti (o dare l’impressione di regalare, ciò che a fini elettorali è lo stesso) la difesa dell’interesse nazionale.

 

Archiviato in:Tribuna Contrassegnato con: mondo

La deriva non vista del Paese

08/02/2019 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

L’Italia oggi è questa perché non ci siamo resi conto che stava diventando disarticolata e invertebrata, priva di qualunque centro d’ispirazione ideale 

Ernesto Galli della Loggia  Corriere della Sera 4 febbraio

 

Non credo che ci siano altri Paesi in Europa dove un autorevole perché popolarissimo rappresentante del partito di maggioranza e di governo (sto parlando di Alessandro Di Battista) possa tranquillamente sostenere che «Trump in politica estera è il miglior presidente degli Usa incluso quel golpista di Obama», o che in Venezuela l’Italia non debba schierarsi con l’opposizione a un caudillo sciagurato il quale ha costretto all’esilio più di tre milioni di persone, ne ha arrestate migliaia, uccise a centinaia e sta portando la sua nazione alla rovina economica. Né c’è un altro posto, direi, dove mentre tutti gli indici volgono al negativo indicando un futuro da sviluppo zero le autorità di governo dichiarino che no, non è vero nulla, tutto va per il meglio, e anzi siamo alla vigilia di una notevole ripresa. In Italia invece tutto ciò non solo è possibile ma sta diventando quasi la norma. Se ne fa di solito colpa alla politica, in specie ai 5 Stelle. E di fatto le sciocchezze di cui sopra sono uscite dalla loro bocca, sono loro i principali protagonisti di quella che si può definire l’irresponsabilità politica, della quale ha già detto tutto ieri su queste colonne Maurizio Ferrera. Il guaio è che tale irresponsabilità politica è lo specchio di qualcosa di più vasto, di un’irresponsabilità diciamo così sociale (e vorrei aggiungere etica) che ormai nel nostro Paese sta conoscendo una diffusione a macchia d’olio. Certo, per una parte importante essa è ripresa e quindi rilanciata e amplificata dalla politica.

Ad esempio l’idea che esistano micidiali scie chimiche rilasciate dagli aerei, che i vaccini siano pericolosi e inutili, che i migranti portino in Italia malattie spaventose, che i musulmani presenti in Italia ammontino a non so quanti milioni, e altre falsità o idiozie simili sono state certamente e spregiudicatamente utilizzate dalla politica (di nuovo: più che altro dai grillini). Ma sono nate altrove. E sono condivise da moltissima gente, indipendentemente da Di Maio o Di Battista. I quali se ne sono fatti portavoce, io credo, non solo e non tanto per calcolo politico bensì per un’altra ragione: perché alla fine la cultura di entrambi è la stessa della gente che crede in quelle sciocchezze. O meglio, il più delle volte non sa neppure se ci crede realmente, non sa se è proprio vero, ma comunque si sente autorizzata a parlare lo stesso, a parlarne come se fosse vero. Tanto che importa?

Sicché in ultima analisi il dato veramente preoccupante è questo: in Italia è sempre più raro che qualcuno si senta responsabile di alcunché. Sempre più va prendendo piede un’irresponsabilità sociale di fondo che prende innanzi tutto una veste diciamo così intellettual-discorsiva. Si può parlare a vanvera di qualsiasi argomento, tutti si sentono autorizzati a dire la propria su qualunque cosa senza pensarci due volte, non ci sono più esperti di nulla (se non di cucina: solo i cuochi sono ormai considerati degli autentici Soloni). È questa vastissima area di irresponsabilità socio-culturale che è andata via crescendo il vero retroterra di quella che appare l’irresponsabile superficialità di tanti discorsi politici. Che differenza c’è alla fin fine, infatti, tra Di Battista che dà del golpista a Obama, il ministro che si dice certo che domani vedremo il Pil risalire alle stelle, e chi è sicuro che dal cancro si possa guarire perfettamente con una dieta adatta?

Il fenomeno di tale irresponsabilità è ancora più pervadente, in realtà. Da tempo, infatti, esso si manifesta oltre che nell’ambito delle parole e delle idee in quello dei comportamenti. Specie dei comportamenti giovanili, con lo scoppio sempre più frequente di una violenza gratuita e inconsapevole di se stessa. Un quattordicenne e un sedicenne che danno fuoco a un clochard, una banda di giovanissimi che a Como sconvolgono il centro della città con una serie di rapine e aggressioni feroci; e però i loro genitori, i «grandi», perlopiù sempre inclini a un’indulgenza assolutoria — «E via, che sarà mai, che avranno fatto poi di così grave?» — non essendo più neppure loro in grado di capire il significato e la portata delle cose. È lo specchio di una società che sta diventando nel suo complesso incapace di pesare le idee e le persone, di misurare le differenze: tra i fatti e le fantasie, tra chi ragiona e chi straparla, tra chi sa e chi non sa, alla fine tra il bene e il male. Una società che appena può ama sempre più spesso prendersi una vacanza dalla realtà per abbandonarsi all’esercizio di una irresponsabilità, resa stolidamente sicura di sé dall’impunità che le assicura la forza del numero.

Ma se oggi l’Italia è questa, non è per un caso. È perché negli anni non ci siamo accorti che stavamo diventando un Paese disarticolato e invertebrato, un organismo privo di qualunque centro d’ispirazione ideale come di qualunque istanza di controllo culturale. Le nostre sciagurate vicende interne, i nostri errori e le nostre insufficienze, hanno fatto sì che forse in nessun altro Paese d’Europa come da noi abbia messo radici un pregiudizio democraticistico ostile al principio d’autorità. Cioè un principio che, come si capisce, è essenziale non solo per l’esistenza del centro e dell’istanza di cui sopra, ma ancora di più perché esistano delle élite. Non possono esserci élite dove lo spirito pubblico non è pronto a riconoscere il peso di alcuna autorità.

Per più aspetti il problema dell’Italia di questo inizio secolo è anche, nella sua essenza, un problema di assenza di autorità. Di un’autorità socialmente riconosciuta e policentrica, come si conviene ad una società democratica, ma comunque di un’autorità. E invece non siamo disposti a riconoscere l’autorità più di niente e di nessuno. Non esiste più alcuna autorità a cui il Paese dia la sua fiducia, né esiste più — in un perverso quanto ovvio circolo vizioso — alcuna sede disposta a pensarsi fino in fondo come depositaria di una qualche autorità. Da noi non hanno ormai più nessuna vera autorità la famiglia, la scuola, la cultura, la stampa, la politica, la Chiesa, la Banca d’Italia, le istituzioni dello Stato a cominciare dalla magistratura (fanno ancora una parziale eccezione la Presidenza della Repubblica e l’Arma dei carabinieri, sempre che quest’ultima sappia fare al suo interno la pulizia che recenti vicende indicano come necessaria). Dove per autorità intendo quella che s’impone di per sé stessa, per la propria intrinseca autorevolezza, serietà, coerenza, caratteristiche capaci in quanto tali di generare consenso e dettare idee e comportamenti. Senza la quale autorità si diventa per l’appunto ciò che noi oggi siamo: un Paese senza guida in cui ognuno può dire e credere ciò che vuole, spesso anche farlo, nella massima irresponsabilità e illudendosi di non pagare mai pegno. E invece il pegno si paga sempre: e infatti noi lo stiamo già pagando.

 

 

Archiviato in:Tribuna

Nel ricambio dell’élite c’è la vita virtuosa di una democrazia

25/01/2019 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

SILVIA RONCHEY  la Repubblica 21 gennaio

Mentre nel Medioevo occidentale vigeva il modello feudale, a Bisanzio si attuava una dinamica selezione delle classi dirigenti. Una lezione per evitare quella che Polibio chiamava “ oclocrazia”, cioè il governo “ dell’uomo della strada”

La democrazia è la peggiore forma di governo, ad eccezione di tutte le altre che nel tempo sono state provate», secondo la celebre frase di Churchill. Ma sarebbe meglio parlare di democrazie al plurale; non solo perché non esiste un’espressione pura di questa forma politica, teorizzata ma in quanto tale mai storicamente sperimentata, bensì varie e spesso ingannevoli esperienze statali, antiche e moderne, che se ne autoimpartiscono il nome; ma anche perché, come è stato scritto, esistono tanti regimi cosiddetti democratici «per quanti tipi di minoranze capaci di guidare le maggioranze esistono: plutocratico, clericale, militare, sindacalista» e così via. Sono di fatto varianti di una forma di governo che per lo storico greco Polibio era tutto sommato la meno deprecabile, nell’eterno evolversi o involversi del divenire politico (monarchia-tirannia-aristocraziaoligarchia- democrazia-demagogia fino all’oclocrazia ovvero al governo dell’ochlos, “dell’uomo di strada” o dell’odierno qualunquista): la forma oligarchica. In nessun caso nella storia il demos, il “popolo”, la massa, ha mai avuto per sé il kratos, il potere o tanto meno il governo. A detenerlo, nell’Atene del V secolo o nella Roma repubblicana o negli stati moderni che a imitazione di quelli definiamo democratici, è sempre stata una frazione o una pluralità di frazioni ristrette di individui che concentrano nelle proprie mani la maggior parte delle risorse disponibili — che si tratti di vantaggi materiali o immateriali, di censo o di cultura, di funzioni o di onori — e che, nell’antichità definiti oligarchi, nella modernità si definiscono élite. Il fatto che in ogni società o epoca questa minoranza si imponga alla quasi totalità della popolazione è uno dei primi, se non forse in assoluto il primo e più importante fra gli argomenti di riflessione dei filosofi, degli storici e di chiunque altro abbia studiato la politica, l’economia, la società in cui ha vissuto o quelle che l’hanno preceduta, a partire da Platone e Aristotele fino alle riflessioni tardottocentesche di quei pensatori che con l’affermarsi del capitalismo hanno fatto delle disuguaglianze sociali e della distribuzione del potere il loro principale, positivo ed empirico oggetto di studio. Se sulla «superiorità del piccolo numero» Max Weber ha scritto pagine senza le quali le sue teorie sul capitalismo non possono essere comprese, sono stati Vilfredo Pareto e Gaetano Mosca a elaborare una teoria delle élite, della loro formazione e circolazione, del loro dinamismo e ricambio, come chiave di interpretazione globale della politica.

Il punto quindi non è se il potere debba andare all’élite o alla massa. Questa seconda possibilità non si è mai data, a meno che non si consideri tale quella “oclocrazia” di cui parla Polibio, effetto di una degenerazione demagogica del potere democratico-oligarchico, e in cui a dominare non è certo la massa come popolo ma come cieca, violenta e vaniloquente moltitudine di haters, la cui temporanea emergenza sulla scena politica è premessa certa di quell’autocrazia che, reinsediandosi, fa dolorosamente ripartire il ciclo.

Il punto è, invece, come debbano avvenire la genesi e il ricambio dell’élite. Senza considerare la qualità della minoranza dominante e senza quell’unico ammissibile giudizio che può nascere solo dalla valutazione del rapporto tra processo di selezione sociale e capacità naturali, ogni discorso su massa ed élite è vano.

Il processo di “dinamismo verticale delle élite” trova un’espressione virtuosa, e come tale è stato studiato dagli storici della scuola economico-sociale russa e poi sovietica del primo e medio Novecento, in uno stato gravato da molti pregiudizi storici, ma in realtà strutturalmente egualitario, come Bisanzio, che nei secoli bui dell’Europa contrappose al modello del medioevo occidentale feudale e papista la laicità dello stato da un lato e dall’altro la perenne apertura della classe dominante al più macroscopico ricambio di élite della storia europea: non solo sociale e culturale, ma anche razziale e religioso, dove l’affiliazione a una cultura comune — quella grecoromana — continuò a promuovere un profluvio di self made men sempre rinnovato attraverso la circolazione periferia-centro e una ben strutturata e finanziata istruzione pubblica.

La mescolanza di razze, lingue, provenienze geografiche, culture, unita alla massima possibile uguaglianza di opportunità, è in effetti, storicamente parlando, una dei presupposti del crearsi di una “buona” élite: capace di rappresentare la massa in modo non dissimile dalla molto più recente, multiforme, sfuggente a ogni definizione ma affascinante pluralità di frazioni sociali e rappresentanze culturali che un tempo abbiamo amato in quella “democrazia dell’America” la cui insondabile forza, con chiaroveggente empirismo, scorse Alexis de Tocqueville.

Se guardiamo con occhio altrettanto distaccato alla democrazia attuale dell’Italia, vediamo che il disagio delle sue masse nasce da un incepparsi, ormai tanto durevole da potersi definire storico, del meccanismo di ricambio delle élite. Non è di oggi l’impossibilità di un reclutamento trasparente nei quadri delle docenze scolastiche e universitarie, che assicurano il primo filtro di selezione dell’élite.

Non è di oggi l’accesso a posizioni di potere suggerito, come nel mondo feudale, da privilegi di clan quando non di sangue. Impasse logiche e ideologiche, familismi, settarismi, lobbismi partitici e automatismi clientelari, quando non criminali, hanno sempre più, nel corso dei decenni, a partire almeno dalla Guerra Fredda, impedito l’accesso egualitario a quelle risorse il cui possesso definisce un’élite — di denari o di saperi, di funzioni o di onori o semplicemente di presenza e influenza — lasciando, per la necessità storica additata da Polibio, che la demagogia si sostituisse a quella forma che chiamiamo, non senza mistificazione, democrazia, e che è, secondo Churchill, la peggiore forma di governo, ma sempre migliore dell’oclocrazia in cui il nostro paese, e non solo, rischia di precipitare.

Archiviato in:Tribuna Contrassegnato con: mondo

Le élite senza ricambio

09/01/2019 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

I privilegi trasformano una classe dirigente in oligarchia. Si spiega anche così l’ostilità e l’insofferenza dei movimenti populisti

Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera 20 dicembre 2018

Per spiegare la vittoria elettorale dei 5 Stelle e il sentimento genericamente «populista» che ancora circola in notevole misura nel Paese si leggono due tipi di analisi, perlopiù orientate in una o l’altra di queste due direzioni (o in entrambe, vista l’ampia base comune esistente tra di esse). La prima si appunta sull’imborghesimento, chiamiamolo così, e sul conseguente distacco politico della Sinistra dalla sua base tradizionale. Nel secondo caso, invece, ci si sofferma sul sentimento di ostilità e di rivolta da parte di vasti strati dell’elettorato contro le élite a causa dell’identificazione di queste con la globalizzazione, il multiculturalismo, l’immigrazione, il politicamente corretto e così via dicendo. A fare da collante tra le due spiegazioni si sottolinea come sintomo classico del populismo la diffusione di un forte sentimento di ostilità verso le élite. C’è senz’altro molto di vero in entrambe le spiegazioni. Ma a tutte e due sfugge un elemento di non poco conto: la specificità delle élite italiane. Che in generale la democrazia — cioè il regime del governo popolare — e le élite in quanto tali siano due cose in naturale rotta di collisione lo scoprì per la prima volta la democrazia ateniese quando alla fine del VI secolo a.C. fu indotta proprio per questo ad adottare la legge sull’ostracismo: al fine , come ci dice Aristotele, di cacciare dalla città «tutti coloro che parevano innalzarsi al di sopra degli altri». È anche vero però che su questo antagonismo diciamo così consustanziale tra élite e democrazia la storia ha poi fatto valere le proprie ragioni, stabilendo che le moderne società complesse senza élite non possono funzionare. Neppure le democrazie. Ma in questo caso a una condizione: che le élite siano élite non del privilegio o della nascita bensì del merito. Cioè che si arrivi a farne parte provenendo da qualunque estrazione sociale e solo perché si possiedono doti e competenze obiettivamente accertate. In una società democratica, insomma, anche le élite per essere legittimate devono avere un carattere democratico.

In larga misura non è questo il caso dell’Italia, però: ed è questo il punto cruciale.

Negli ultimi due tre decenni infatti — complici tre fattori principali: il ristagno dell’economia, la crescita dello svantaggio del Mezzogiorno, e la crisi del nostro sistema scolastico e universitario — le élite italiane non hanno conosciuto alcun ricambio significativo, nulla di paragonabile a quanto accadde ad esempio dagli anni 50 agli anni 80.

Esse hanno assunto un carattere sempre più odiosamente ereditario. Il principale titolo d’accesso è diventato essere figlio di: nelle università, nei vertici delle professioni, nel giornalismo, nell’alta burocrazia, nella magistratura, nella diplomazia, perfino nel mondo dell’editoria, del cinema e dello spettacolo, la trasmissione o l’acquisizione del ruolo socio-lavorativo per via ereditario-familiare (naturalmente con gli opportuni scambi tra un settore e un altro) è diventato da tempo la regola. Non sempre il merito è assente, com’è ovvio, ma il fatto è che sempre di più la possibilità di affermarlo dipende in gran parte dalle proprie condizioni familiari di partenza. Le quali in troppi casi costituiscono il solo titolo preferenziale. Accade così che oltre agli altri fattori sopra ricordati, l’antica idiosincrasia nazionale per la competizione e per la trasparenza, unita all’altrettanto antica vocazione a privilegiare nell’ambito sociale le relazioni sulle competenze, stiano ormai interrompendo quasi del tutto quel prezioso canale di comunicazione tra gli strati popolari e piccolo borghesi da un lato e dall’altro i piani alti della società, che in tutta la nostra vicenda unitaria, in modo particolarissimo nel primo trentennio repubblicano, ha consentito agli elementi più capaci e intelligenti di tali strati di accrescere la vitalità, le attitudini innovative, la tenacia delle élite della Penisola. Cosicché il Paese può contare sempre meno su quella risorsa tanto spesso presente nella nostra storia, rappresentata dalla brillantezza talora geniale dell’individualità italiana.

Dove maggiormente si respira il tanfo del chiuso è in quel settore dell’élite costituito dall’insieme dei vertici dei gabinetti ministeriali e degli uffici legislativi, dal Consiglio di Stato, dai consigli d’amministrazione dei più vari enti pubblici, agenzie e «Autorità», dalle alte burocrazie addette agli organi costituzionali dello Stato. Sono gli ambiti per l’accesso ai quali molto o tutto dipende assai spesso più che dall’affiliazione politica in senso stretto (che tra l’altro può mutare con la massima disinvoltura), dalla capacità di equilibrismo e di vantaggioso posizionamento tra i diversi clan, dai padrinaggi, dalle consorterie o dalle filiere di cui si è parte o da cui si è sponsorizzati, dall’essere stati allievi di, nello studio di, dall’aver lavorato nella fondazione di. Da tutto questo deriva la natura sostanzialmente chiusa, iperomogenea e autoreferenziale delle élite italiane, con i suoi tre caratteri tipici: l’età perlopiù avanzata (trovare un quarantenne in una posizione di vertice è da noi cosa rarissima), l’assai scarsa presenza di donne (si osservino le foto delle occasioni ufficiali: una marea di tetre grisaglie maschili); e infine la basica formazione o provenienza ideologica di centrosinistra di quasi tutti (caratterizzata da un perbenismo culturale di irritante quanto superficiale assennatezza sempre: si direbbe un requisito d’ammissione indispensabile). Alla fine quindi come effetti ultimi: conformismo, carrierismo, ostilità a ogni cambiamento, riluttanza a prendere decisioni importanti e/o impopolari. E naturalmente la crisi pervadente nella gestione del Paese a tutti i livelli e in tutti gli ambiti.

Ma se quanto detto fin qui è vero bisogna allora concludere che l’élite italiana più che altro assomiglia a un’oligarchia. È di fatto una vera e propria oligarchia. Il che forse aiuta a spiegare di più e meglio il vasto sentimento di avversione che essa suscita.

 

Archiviato in:Tribuna Contrassegnato con: mondo

Il declino del Paese non è ineluttabile

26/12/2018 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Michele Salvati Corriere della Sera 20 dicembre

 

Da alcuni amici della mia età e delle mie condizioni sociali (ottant’anni, elevato livello di istruzione, professione e reddito medio-alti) sento fare talora queste considerazioni: Nonostante le sue risorse potenziali e il suo grande passato l’Italia è inesorabilmente avviata al declino.

Noi siamo vecchi e, se rimarremo in buona salute, non vivremo male i pochi anni che ci restano. Ai nostri figli abbiamo assicurato un livello di istruzione simile al nostro, una professione esercitabile in molti altri Paesi e la padronanza dell’attuale lingua franca, l’inglese. Salvo incidenti, essi li trasmetteranno ai nostri nipoti. Per loro, una vita all’estero non sarebbe un dramma».

Queste considerazioni mi mettono addosso una certa tristezza. Anche gli anarchici erano e volevano che i loro figli fossero cosmopoliti e li addestravano in mestieri esercitabili ovunque nel mondo di allora (idraulico, tipografo, fabbro, falegname…), ma non lo facevano per assicurare loro il successo individuale, bensì per un ideale di società migliore di quella in cui vivevano. Sbagliato, pericoloso e irrealizzabile, ma un ideale. Quale ideale trasmettiamo ai nostri figli e nipoti se la pensiamo così? Non esistono forse possibilità di migliorare, e di molto, le società in cui viviamo? E perché non cercare di attuarle nel Paese dove stanno i nostri affetti e le nostre radici? L’Italia è mal messa, è vero: ma nessun declino è ineluttabile. Quali sono allora i motivi che inducono al pessimismo e all’abbandono di ogni speranza di riforma?

Il motivo principale mi sembra un acuto senso di impotenza, che si sta estendendo anche tra i ceti più elevati della società, quelli che hanno maggiori risorse sociali e culturali. È vero, ci sono riforme e scelte politiche che consentirebbero al nostro Paese di tornare a crescere e insieme di migliorare le condizioni di vita dei suoi ceti più svantaggiati. Ma queste richiedono un’analisi rigorosa e realistica delle cause da cui prende avvio il declino, assai prima degli anni ai quali lo si fa solitamente risalire. Se si devono rispettare inevitabili vincoli esterni dovuti alla globalizzazione liberale in cui siamo immersi e al grado limitato di solidarietà interstatale dovuto all’attuale assetto politico dell’Ue, essi richiedono riforme interne che turberebbero interessi consolidati e limiterebbero comprensibili aspirazioni di maggior benessere immediato: in sostanza, non ci si può indebitare ulteriormente ed è necessario diventare più competitivi e crescere di più. Richiedono dunque la messa in opera delle maggiori competenze di cui il Paese dispone. E soprattutto richiedono tempi lunghi per dare i primi frutti. Se così stanno le cose, il senso di impotenza si trasforma in pessimismo di fronte alla difficoltà di dare una risposta positiva a questa domanda: è mai possibile che possano affermarsi nel nostro Paese un movimento politico e una coalizione di forze sociali che siano in grado di rendere prevalente nell’elettorato, e quindi nel governo, la narrazione rigorosa e realistica di cui dicevo, e di conseguenza rendere accettabile la prospettiva di lungo periodo che è necessaria per affrontare le cause del declino italiano?

È la stessa natura della democrazia —  e la sottovalutazione dei limiti che il nostro sistema produttivo e istituzionale incontra nell’immediato per rispondervi — a costituire il maggior problema. Lo vediamo ora con chiarezza se osserviamo le contorsioni delle attuali forze di governo, allo scopo di non perdere la faccia di fronte alla retromarcia che le condizioni del Paese — non l’Europa! — impongono al loro insostenibile programma elettorale. Ma hanno contribuito alla diseducazione degli elettori anche molte delle forze politiche dei governi precedenti, a partire dalla Prima Repubblica, che hanno dato un’immagine falsamente ottimistica dello stato dell’economia e delle istituzioni italiane. E che, soprattutto, portano in diversa misura la responsabilità per aver aggravato il declino del Paese, di conseguenza alimentando la «ribellione delle masse». I 5 Stelle e la Lega hanno solo rincarato la dose di populismo, attribuendo gran parte delle colpe alla «casta» e all’Europa e accentuando il grado di incompetenza e di improvvisazione nell’azione di governo. Come non essere scoraggiati se è la stessa democrazia, la competizione delle élite politiche per ottenere un facile consenso popolare, a produrre questi esiti?

Ma l’antidoto a questi esiti della democrazia non può essere che la democrazia stessa e la possibilità che essa offre ad ognuno di combattere per le proprie idee. In democrazia non occorre essere eroi: impegnarsi è privo di rischi e compatibile con scelte individuali e famigliari avvedute. Ed è utile, perché un ragionevole disegno di uscita dal declino esiste, anche se lento nei suoi effetti e al momento sopraffatto dal populismo.

Ma il futuro è aperto: mentre ci sforziamo di dare un’ottima educazione a figli e nipoti, cerchiamo allora di non dare l’idea che questo serva per scappare da un Paese consegnato al declino. Serve per essere cittadini del mondo. Serve per essere cittadini europei. Serve per essere cittadini italiani e giustificare un orgoglio nazionale beninteso.

 

Archiviato in:Tribuna Contrassegnato con: mondo

Il ruolo perduto dell’Italia

21/11/2018 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Non possiamo più «barcamenarci» tra Est e Ovest e gli spazi appaiono molto ridotti: si pensi all’influenza che prima avevamo in Libia. Ci resta solo la scena europea

Ernesto Galli della Loggia   Corriere della Sera 19 novembre

 

Dietro la contesa che oggi oppone l’Italia all’Unione Europea c’è senz’altro la determinazione da parte del governo gialloverde di ingaggiare un braccio di ferro suicida con Bruxelles per far prevalere a tutti i costi la propria volontà sulle regole comunitarie. Ma quella contesa, al di là della volontà e della stessa consapevolezza dei suoi protagonisti, parla forse anche di qualcos’altro. Getta luce indirettamente su una cesura storica che sta intervenendo nel modo che tradizionalmente l’Italia ha avuto di stare tra gli altri Stati europei. Una cesura prodotta dalla fine degli equilibri mondiali avvenuta nell’ultimo quindicennio. Da un punto di vista geopolitico, infatti, anche l’Italia come la Germania è una potenza «di mezzo». Non è al centro della massa continentale europea come la prima, ma la Penisola costituisce pur sempre il prolungamento centrale della massa suddetta nel centro di un mare decisivo come il Mediterraneo. Anche l’Italia, quindi, ha sempre avuto il problema di doversela vedere contemporaneamente con il suo oriente e con il suo occidente dal momento che su entrambi i versanti, tra l’altro, il suo confine presentava una forte penetrabilità/porosità, sebbene di natura diversa. Di natura terrestre ad oriente — dove le Alpi Giulie non costituiscono alcuna efficace barriera nei confronti del mondo slavo-balcanico — e di natura invece prevalentemente marittima ad occidente, lungo il lungo litorale tirrenico da capo Noli alle Egadi, aperto ad ogni arrivo e ad ogni intromissione. Potenzialmente, cioè, l’Italia se l’è sempre dovuta vedere da un lato, a Est, con la più o meno potenziale presenza di un Grande Esercito delle Pianure (che si trattasse dei Vandali o dell’Armata Rossa non importa), ad Ovest con quella di una Grande Flotta (saracena o britannica è lo stesso).

Da qui la naturale predisposizione alla duplicità del nostro stare in Europa, che specie a occhi altrui si è perlopiù presentata come doppiezza. Sempre da qui, al tempo stesso, la tendenza a cercare di giocare l’Est contro l’Ovest e viceversa. Due aspetti che lo Stato unitario ha incarnato in pieno fin dal modo in cui si formò: usando la Francia contro l’Austria nel 1859 e poi nel 1870 la Prussia contro la Francia per cacciare quest’ultima da Roma e farne la capitale del nuovo regno. E che cos’altro significò tra Otto e Novecento l’adesione alla Triplice (cioè l’alleanza con la Germania e l’Impero Austro-ungarico) ma la contemporanea amicizia con l’Inghilterra, se non questo diciamo così obbligatorio «barcamenarci» tra mare e terra, tra Sudovest e Nordest?

Il periodo repubblicano non mi pare abbia contraddetto la modalità di cui sto dicendo. Democrazia cristiana e Partito comunista hanno rappresentato quasi simbolicamente la duplicità geopolitica del Paese. Sta di fatto che pur legata con ferreo vincolo agli Stati Uniti e totalmente impegnata dalla parte dell’Occidente nella guerra fredda, tuttavia per quarant’anni l’Italia non cessò mai di tentare di aprirsi un proprio spazio in quadranti geografici alternativi. Mirando in questo modo a bilanciare ed attenuare il vincolo di cui sopra (si pensi alla nostra politica petrolifera e in genere verso il Medio Oriente e il cosiddetto Terzo Mondo o ai continui sforzi per avere buoni rapporti con l’Unione Sovietica). Potenzialmente ma non troppo, anche l’europeismo italiano ebbe in più occasioni questa valenza.

Dopo gli sconvolgimenti susseguitisi nel quadro internazionale dalla fine del secolo scorso in poi, queste linee d’azione appaiono oggi, però, sostanzialmente impraticabili. Soprattutto per tre aspetti. Da un lato perché è venuto meno il nostro legame forte e assolutamente vincolante con gli Stati Uniti, i quali sono impegnati da tempo in una ridefinizione dei loro impegni in questa parte del mondo. Dall’altro lato perché specie il Medio Oriente e l’Africa settentrionale sono diventati teatri di crisi profonde e permanenti, con protagonisti feroci, situazioni di crisi complesse, Stati in disfacimento, rivolte e guerre endemiche. Sono diventati cioè dei teatri dove, rispetto al passato, per un Paese come l’Italia è maledettamente difficile destreggiarsi con qualche speranza di protagonismo e di successo. E infine perché in Europa, al posto della Russia comunista di un tempo — che era chiusa nel suo campo trincerato, ansiosa del minimo spiraglio che le si fosse aperto nel campo opposto, ma attenta a non giocarsi per questo il rapporto con gli Usa — c’è oggi la Russia di Putin, pronta a stringere spregiudicatamente con chiunque i rapporti più compromettenti in funzione antiamericana e anti-Ue: ma pronta dopo la mano del suo interlocutore a prendersi anche il braccio, e poi tutto il resto. Oggi, insomma, una gita a Mosca non equivale a un «giro di valzer»: rischia di essere un viaggio senza ritorno.

In questa condizione l’Italia vede di fatto chiusi tutti i teatri dove per decenni ha messo in opera la sua duplicità, dove per decenni ha cercato e trovato le sponde per i suoi sforzi di riequilibrio, avendo modo di volta in volta di costruire un suo ruolo autonomo di secondo livello diverso dal primo. Ma è per l’appunto in conseguenza di questa condizione che essa viene a trovarsi in una circostanza nuova e insolita: quella di avere un solo scenario possibile per la sua politica estera, l’Unione Europea. Oggi per l’Italia nel continente non ci sono spiragli, campi d’azione alternativi, c’è solo l’arena di Bruxelles. E anche negli altri quadranti extraeuropei, dove solitamente si esplicava la nostra presenza «secondaria» in funzione diversa e divergente da quella principale, gli spazi appaiono molto ridotti: si pensi alla perdita d’influenza, nonostante i nostri sforzi disperati, intervenuta in Libia negli ultimi dieci anni. Privi di sponde significative siamo dunque schiacciati su Bruxelles. Che però, sia chiaro, alla fine delle fini è un modo per dire una cosa alquanto diversa: e cioè che nel nostro futuro c’è senza contrappesi possibili l’egemonia tedesca. Si spera benevola naturalmente, anche se un plurisecolare e multiforme contenzioso suggerisce malignamente che non si sa mai.

Da qui una certa insofferenza psicologica, che non so se provata dalla nostra diplomazia, ma di certo da una parte della nostra opinione pubblica e della classe politica, la quale riversa anche questo sentimento nel suo generale atteggiamento polemico verso l’Ue. Insomma, non possiamo più praticare, per parlare brutalmente, quel «doppio gioco» che ha rappresentato così a lungo un tratto importante, anche se non proprio simpaticissimo, della nostra identità nazionale in politica estera. E l’unica alternativa teoricamente esistente — divenire i partner più o meno occulti degli Stati Uniti o della Russia per mettere in difficoltà l’edificio europeo a dominanza tedesca — più che i contorni di un’ipotesi vagamente fantapolitica prefigura la sostanza di un incubo.

Archiviato in:Tribuna Contrassegnato con: mondo

  • « Vai alla pagina precedente
  • Vai alla pagina 1
  • Vai alla pagina 2
  • Vai alla pagina 3
  • Vai alla pagina 4
  • Vai alla pagina 5
  • Pagine interim omesse …
  • Vai alla pagina 18
  • Vai alla pagina successiva »

Barra laterale primaria

L’editoriale del direttore

27 APRILE. LA FESTA DELL’INDIPENDENZA TOSCANA.

Prossimi appuntamenti

DANTE a Radio Toscana

11/04/2021

In tempi di Coronavirus riavvolgere il filo della memoria : il ricordo degli italiani della tragica pandemia Spagnola

12/09/2020

Lettere al Direttore

Le campane a Pasqua

05/04/2021

Focus

PERCHÉ DANTE È DAVVERO L’INVENTORE DELL’ITALIA

29/03/2021

Tribuna

17 MARZO: Giornata dell’Unità nazionale, della Costituzione, dell’Inno e della Bandiera.

17/03/2021

Luoghi

La tomba di Elisabeth Barrett al Cimitero degli Inglesi

14/04/2021

Mostre

Napoleone e il mito di Roma

21/02/2021

Rassegna stampa

QUANDO LE MANI DEI PATRIOTI CERCAVANO LA CARABINA

03/04/2021

Pubblicazioni

Il Novecento dei libri. Una storia dell’editoria in Italia

08/04/2021

RisorgimentoFirenze.it nella tua mail

E' possibile ricevere un messaggio e-mail ad ogni nuova pubblicazione sul nostro sito.
Basta inserire il proprio indirizzo di posta elettronica nella casella sottostante. Il servizio è gratuito e può essere interrotto in ogni momento.

Unisciti a 67 altri iscritti

Footer

Archivio articoli

Archivio rubriche

Area amministrativa

  • Accedi
  • Feed dei contenuti
  • Feed dei commenti
  • WordPress.org

Blogroll

  • Arte del Poggio
  • Comitato livornese per la promozione dei valori risorgimentali
  • PensaLibero.it, quotidiano on line dei laici e dei liberali della Toscana.
  • Risorgimento Toscana
  • Sito ufficiale delle celebrazioni per il 150° anniversario

Direttore Sergio Casprini | Responsabile della Comunicazione Irene Foraboschi | Webmaster Claudio Tirinnanzi