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I rischi dell’individualismo messi a fuoco da Mazzini

09/06/2022
I triumviri della Repubblica romana del 1849. Da sinistra: Carlo Armellini, Giuseppe Mazzini, Aurelio Saffi
 

Giovanni Belardelli

Corriere della Sera 9 giugno 2022

A centocinquant’anni dalla morte di Giuseppe Mazzini, un convegno organizzato dall’Università di Genova nelle giornate di domani 10 giugno  e dopodomani 11 giugno pone al centro un aspetto essenziale del suo pensiero e della sua attività: l’idea di patria e il sentimento nazionale, concepiti dal fondatore della Giovine Italia in stretto rapporto con l’idea di libertà.

Si tratta di concetti e valori che continuano ad abitare l’universo mentale delle democrazie, se pensiamo alla resistenza condotta dagli ucraini contro l’invasione russa, in difesa appunto della loro libertà e indipendenza nazionale; o anche al fatto che le democrazie contemporanee continuano pur sempre a esistere in un contesto nazionale (è a livello nazionale che i cittadini degli Stati dell’Unione Europea eleggono chi li governa, almeno se e finché non si costruirà una federazione sul tipo degli Stati Uniti d’America). Non meno attuale appare la distinzione di Mazzini tra l’idea di nazione e quel «gretto geloso ostile nazionalismo» che avrebbe alimentato due guerre mondiali ma ai suoi tempi aveva già visto la nascita della Germania attraverso la conquista militare di Alsazia e Lorena (e le parole di Mazzini tra virgolette sono proprio del 1871).

Per Mazzini a costituire una nazione sono solo secondariamente la lingua, il territorio, l’appartenenza etnica; questi rappresentano al massimo gli indizi dell’esistenza di una nazione, mentre l’elemento davvero essenziale risiede per lui nella volontà che ciascuno ha di farne parte. Si è spesso ripetuto che questa sua idea «volontaristica» di nazione, schiettamente democratica, si contrappone a una concezione «deterministica» che, presente soprattutto nel mondo culturale germanico, insisteva sugli elementi oggettivi — lingua e «razza» in primo luogo — e si qualificava in senso necessariamente autoritario. Questa interpretazione, che ha avuto ampia circolazione in Italia sulla scia di un celebre libro di Federico Chabod, lascia però in ombra un altro aspetto della concezione mazziniana della nazione.  Convinto che la Chiesa cattolica avesse ormai fatto il suo tempo, ma seguace anche — come molti suoi contemporanei — di una nuova religione democratico-umanitaria, Mazzini riteneva che la divisione dell’Europa in nazioni fosse il prodotto di una volontà divina, che i confini di ciascuna nazione fossero stati disegnati «dal dito di Dio». E ancora: «è Dio che crea la vita di un popolo». Nella sua idea di nazione, insomma, aveva sì un ruolo la volontà dei cittadini, ma prima ancora quella divina; ciò che rendeva la sua concezione una miscela di determinismo e libertà. Ma dunque è probabile che certe sue definizioni della nazione oggi possano essere considerate attuali solo con molta prudenza. Quella che meriterebbe la massima attenzione è piuttosto una questione che rischia invece di rimanere celata nella sua torrenziale produzione di scritti.

Nato nel 1805, Mazzini si trovò a fare i conti con il mondo quale era diventato dopo la Rivoluzione francese, che aveva distrutto la società di ordini e affermato solennemente il principio della libertà e dei diritti individuali. Ai suoi occhi questa libertà e questi diritti erano naturalmente un’ottima cosa, ma presentavano un rischio: l’uomo libero (e Mazzini, favorevole al suffragio femminile, era uno dei pochi che all’epoca intendevano riferirsi con questa parola a uomini e donne) «come opererà? come vorrà? a caso?». Perché senza valori e fini comuni, senza che i diritti siano affiancati da doveri verso la comunità — questo il problema denunciato da Mazzini di continuo — una società rischia di sfasciarsi.

Era una questione che non fu lui solo a denunciare. Prendiamo due tra i maggiori pensatori liberali del tempo, Benjamin Constant e Alexis de Tocqueville. Per il primo, che pure considerava la modernità postrivoluzionaria come l’«epoca degli individui», se questi restano isolati «non c’è che polvere». L’immagine — non priva di un’eco religiosa: «polvere sei e polvere ritornerai» (Genesi, 3,19) — rendeva plasticamente il pericolo di una società fatta di individui liberi ma isolati uno dall’altro. Da parte sua Tocqueville osservò che, mentre nell’antico regime tutti erano collegati come gli anelli di una catena che andava dal contadino al re, l’avvento della democrazia aveva «spezza[to] la catena» e messo «ogni anello da parte», rinchiudendo così ciascun individuo «nella solitudine del proprio cuore». Mazzini, Constant, Tocqueville individuavano quello che era, e in fondo sarebbe rimasto, un problema costitutivo delle società democratiche. Sono sufficienti i diritti individuali per tenerle assieme? O non occorre anche una serie di valori, tradizioni e fini comuni? Non occorre — questo era un concetto davvero centrale nel pensiero mazziniano — affiancare ai diritti individuali il riconoscimento dei doveri verso la società?

La nazione democratica come comunità unita da valori condivisi e capace di affiancare i doveri ai diritti individuali: questa era la risposta di Mazzini che merita ancora oggi di essere meditata.

Silvestro Lega Gli ultimi momenti di Mazzini morente 1873

 

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