Allegoria della storia Nikolaos Gysis 1892
Con l’invasione russa dell’Ucraina la storia – intesa come racconto del passato, perché in senso generale essa coincide con la vicenda umana – sembra tornata in campo.
Ma con ruoli molto diversi se guardiamo, da una parte, alle democrazie e, dall’altra, all’uso che della storia fa l’autocrate di Mosca. Da noi si è fatto ricorso al passato per spiegare l’invasione dell’ucraina come prodotto di una decisione di Putin, certo, che va però considerata anche alla luce di tendenze profonde della storia russa. C’è chi ha richiamato l’antica paura degli zar per le idee liberali quale elemento permanente della storia russa, una paura che ha dunque caratterizzato anche il successivo periodo comunista e poi quello postcomunista (Paul Berman); chi ha sottolineato il ruolo che l’immensità dello spazio come arma ha avuto nelle vicende russe fin dalla fallita invasione di Napoleone (Ernesto Galli della Loggia); chi ha citato il mito di Mosca come Terza Roma, dopo quella italiana e quella bizantina, come qualcosa che si aggirerebbe ancora nelle stanze del Cremlino (Carlo Galli). In ogni caso, era tanto che non si ricorreva in modo così frequente alla storia per spiegare, al di là della superficie degli avvenimenti e delle loro cause più immediate, ciò che li ha prodotti, per sondare oltre la schiuma delle onde la profondità degli oceani.
La cosa appare a prima vista singolare poiché da qualche decennio la storia, nel discorso pubblico delle democrazie occidentali e nella cultura delle sue élite, era stata messa ai margini da altre discipline: l’economia, la sociologia, la scienza politica, il diritto, considerate più utili a interpretare la realtà. Se la guerra russo-ucraina la rimette in gioco è anche perché la storia – al di là di certe mode culturali e delle tante branche in cui si è suddivisa, dallo studio delle mentalità alla global history – ha avuto sempre intrinsecamente a che fare con il potere, la forza, lo stato. Dunque con la guerra.
Venendo invece al modo in cui Vladimir Putin si richiama alla storia, esso non riguarda la comprensione del presente, non ha e non vuole avere alcuna funzione analitica. Nel caso suo il passato è fatto oggetto di una spregiudicata manipolazione e di un’accentuata falsificazione volte a giustificare le sue decisioni. Nel discorso del 21 febbraio scorso, ad esempio, negava l’esistenza stessa di una nazione ucraina autonoma e qualche mese prima, in un saggio pubblicato la scorsa estate, aveva sostenuto la tesi – di cui oggi comprendiamo appieno l’obiettivo pratico – che russi, bielorussi e ucraini sarebbero un unico popolo in virtù della loro comune origine dalla Rus’ di Kyiv, che nel IX secolo diede vita a una monarchia che si estendeva, nel periodo di massima ampiezza, dal mar Baltico ai Carpazi e fino al mar Nero (il regno di Kyiv si disgregò poi nel XIII secolo per i conflitti interni e per l’assalto dei mongoli). Del resto la manipolazione del passato a fini politici è in atto da tempo nella Russia di Putin, che ha visto in particolare tutta la storia dell’Urss privata dei suoi tratti ideologici comunisti e reinterpretata alla luce di un acceso nazionalismo.
Amos Cassioli La battaglia di Legnano 1870
Si potrebbe osservare che la manipolazione del passato attuata dal dittatore russo non è una novità. Anche in Italia, Francia, Germania e così via, si è fatto ricorso in passato a una rappresentazione della storia più o meno alterata e a volte fabbricata di sana pianta. Nel corso dell’800 soprattutto i movimenti che puntavano all’indipendenza nazionale utilizzarono, per rafforzare la loro battaglia, un passato spesso inventato. In Italia, per dire, molto ci si richiamò ai liberi comuni del medioevo come prima esperienza della nazione italiana; in questo quadro si evocava la battaglia di Legnano che aveva il suo massimo eroe nel celebre, ancorché mai esistito, Alberto da Giussano. In Germania Lutero veniva esaltato come precursore della successiva unità tedesca. Anche in una antica monarchia come quella inglese fioriva l’invenzione del passato, ad esempio con la leggenda di una libera età anglosassone che avrebbe preceduto la conquista normanna. Questa manipolazione del passato, che almeno nei casi ora citati non veniva usata per giustificare delle guerre di aggressione, portò a un certo punto a una militarizzazione della storia. Con la Prima guerra mondiale, la storia divenne anch’essa un’arma di combattimento tra due schieramenti che affermavano di combattere una guerra di civiltà: “Una delle droghe, con cui più facilmente si fabbricano i pretesti – affermò allora Gaetano Salvemini –, è la storia, che dà ragione a tutti. […] Quando si vuole suscitare una lite, è facile volgersi alla storia, e trarne un avvenimento, un attrito, un dissidio passato”.
Fu anche per questo, come conseguenza della Grande guerra, che nei paesi democratici si cominciò a maneggiare il passato con maggiore prudenza e si affermò una rinuncia a manipolare la storia a fini politici. Una rinuncia che non sempre è stata completamente rispettata e comunque non da tutti, d’accordo; ma di fronte a certe falsificazioni storiche, a certe interpretazioni strumentali del passato, c’è sempre stata la libertà di opinione che consentiva e consente di sottoporle a critica. Sta qui la vera differenza nell’uso della storia che ha luogo nella Russia di Putin e nei paesi democratici: se le democrazie guardano al passato per analizzare meglio il presente, se non lo usano più come arma, se non falsificano più la storia a fini politici, o lo fanno in modo assai limitato, è appunto perché sono democrazie.
Giovanni Belardelli Il Foglio Quotidiano 30 marzo 2022