Censurare Shakespeare, interrompere i rapporti con le università israeliane. C’è un legame? Che cosa accomuna l’attacco diffuso ai capolavori della cultura occidentale che si registra in molte università americane ed europee e l’avversione che tanti studenti universitari, e anche un discreto numero di docenti, manifestano per Israele (unita all’indulgenza nei confronti delle tirannie, dalla Russia alla Cina all’Iran)?
Il legame è dato dalla esistenza di minoranze portatrici di una controcultura satura di umori antioccidentali. Non è in atto solo in America una guerra culturale. Si sta combattendo anche in Europa. In questo dramma le università sono uno snodo strategico perché stanno al vertice dei sistemi educativi e dispongono della capacità di influenzare ogni altra istituzione culturale (centri di ricerca, scuole, case editrici, mezzi di comunicazione). Con inevitabili ripercussioni su tutta la vita sociale, politica inclusa. Gruppi di minoranza (di docenti e studenti), ma molto combattivi e determinati, sono impegnati nel tentativo di mettere in rotta di collisione le istituzioni culturali e la civiltà liberale che le ha generate. Come è possibile che tante università (il fenomeno è nato in quelle anglosassoni) abbiano tollerato al loro interno la formazione di «polizie etiche», di guardiani del pensiero, censori/sbirri che decidono cosa è consentito e cosa non è consentito leggere, chi far parlare e chi no?
E come si spiega la diffusa tolleranza per chi nelle università inneggia a Hamas e alla distruzione di Israele? Nelle università italiane quel corpo di polizia del pensiero, fortunatamente, non si è ancora costituito ma molti ritengono che sia solo questione di tempo. Non è ancora stato redatto, qui da noi, l’elenco dei libri e dei personaggi proibiti. Per il momento, insomma, Shakespeare è ancora salvo. Anche da noi però, come sappiamo, (si tratti di università o di festival culturali) c’è chi ha diritto di parlare liberamente e chi no. Per inciso, mentre fa notizia che a qualcuno sia negata la parola da parte di gruppetti urlanti, passa invece sotto silenzio l’autocensura preventiva, il fatto che, spesso, si evitano accuratamente certi oratori e certi argomenti per non incorrere in guai. E poiché le parole hanno perso il loro significato originario c’è anche chi definisce tutto ciò come una manifestazione (niente meno) di «pluralismo».
A conferma del fatto cha la storia è fortemente condizionata da minoranze, intensamente motivate — i pochi che, spesso, riescono a prevaricare i più — accade che, pur essendo popolate da maggioranze di differente avviso, diverse università occidentali si pieghino al volere dei prepotenti, siano corrive, incapaci di opporsi a questa imperiosa richiesta di inginocchiarsi di fronte ai diktat dei rappresentanti della suddetta controcultura. Quelle minoranze vincono a meno che leader autorevoli e coraggiosi (in questo caso leader culturali) consapevoli di avere una responsabilità nei confronti della società a cui appartengono, non riescano a sbarrare loro il passo.
Contrariamente a quanto il sistema della comunicazione ogni giorno spinge tanti a pensare, la «conquista dei voti» è infinitamente meno importante della «conquista dei cuori». I voti vanno e vengono ma i pregiudizi, quando si incistano nella mente di un essere umano, diventano indistruttibili.
Come mostra la ripresa in grande stile dell’antisemitismo nel mondo occidentale. In realtà, non se n’era mai andato ma, per tanto tempo, era stato chiuso a chiave in cantina. Da alcuni anni ne è uscito — è da diverso tempo che si registrano tanti episodi di antisemitismo in Europa — ed è dilagante dopo il 7 ottobre (prima ancora, come hanno documentato alcuni sondaggi, dell’attacco israeliano a Gaza, prima ancora che ci fossero le vittime palestinesi). Una febbre, come si è visto, ora assai diffusa fra studenti universitari che si imitano fra loro (potenza della rete) da un capo all’altro dell’occidente. A conferma del fatto che la sorte dei palestinesi è soprattutto un pretesto per colpire l’occidente ci sono i silenzi sulle nefandezze iraniane, russe o cinesi. Nessuno di costoro ha messo in discussione gli accordi fra le università occidentali e quelle dei suddetti paradisi in terra.
Il presente e il futuro delle università, anche se non è chiaro a tutti, influenzeranno la sorte delle nostre democrazie. È sperabile che tanti docenti occidentali capiscano quanto grande sia il pericolo se si permette che a guidarle siano dei don Abbondio. O peggio: come l’ineffabile ex rettrice di Harvard per la quale è lecito «in determinate circostanze» (sic) invocare nei campus lo sterminio degli ebrei. E difatti lei lo aveva tranquillamente permesso. Per inciso, la suddetta non è stata cacciata per questa ragione ma perché è risultata essere una scopiazzatrice di tesi scientifiche altrui. Alle università servono leader culturali energici, consapevoli di cosa abbia significato e significhi nella storia dell’occidente disporre di luoghi di cultura dediti liberamente — senza subire ricatti e imposizioni — al sapere, leader consapevoli del legame che c’è fra la libertà dell’insegnamento e della ricerca e le libertà di tutti.
Angelo Panebianco Corriere della Sera 30 marzo 2024