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Risorgimento Firenze

Il sito del Comitato Fiorentino per il Risorgimento.

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Editoriale

E A SETTEMBRE TORNA A SUONARE LA CAMPANELLA DELLA SCUOLA

01/09/2021 da Sergio Casprini

Suona la campanella;
scopa, scopa la bidella;
viene il bidello ad aprire il portone;
viene il maestro dalla stazione;
viene la mamma, o scolaretto,
a tirarti giù dal letto…

Viene il sole nella stanza:
su, è finita la vacanza.
Metti la penna nell’astuccio,
l’assorbente nel quadernuccio,
fa la punta alla matita
e corri a scrivere la tua vita.

Scrivi bene, senza fretta
ogni giorno una paginetta.
Scrivi parole diritte e chiare:
Amore, lottare, lavorare
.

Gianni Rodari, Il primo giorno di scuola

 

Tra le priorità programmatiche del governo Draghi c’era l’esigenza di tornare prima possibile alla normalità nella scuola: in termini di orari, di programmi, di esami, ma soprattutto di presenza di allievi e docenti in carne e ossa nelle classi, visti i pessimi risultati della didattica a distanza, confermati tra l’altro dai recenti dati dell’Invalsi.

Sarà possibile iniziare un regolare anno scolastico come negli anni pre-Covid, grazie a un alto numero di vaccinati tra i docenti, l’introduzione del Green Pass, le fasce d’ingresso diversificate e le mascherine per gli allievi. Resta il problema della sicurezza dei trasporti pubblici per gli studenti pendolari e della presenza ancora in alcune regioni di scuole con classi numerose.

Il dibattito e le polemiche degli ultimi mesi sul rientro in sicurezza nelle aule e sul ritorno alla normalità delle scuole hanno però nascosto i problemi che da lungo tempo caratterizzano l’istruzione in Italia. La scarsa preparazione dei nostri giovani non è dovuta solo a questi due anni di lockdown e di didattica a distanza. Nasce molto prima, da quando i fondamenti del fare scuola sono venuti meno, a partire dagli anni ’60, con il proposito delle classi dirigenti di allora, in sé corretto, di cancellare le chiusure e i privilegi classisti di cui era imbevuto l’ordinamento scolastico tradizionale. Ideologicamente, però, si è pensato che il classismo della scuola consistesse essenzialmente nei suoi contenuti e nei relativi modi di insegnamento e di apprendimento. Cioè nella cosiddetta cultura «borghese» e nel «nozionismo»; e dunque che, modificati o aboliti l’una e l’altro, cancellati il latino, il riassunto e le poesie «a memoria», sarebbe stata possibile un’istruzione finalmente per tutti. Da qui progressivamente sono stati intaccati i contenuti epistemologici di ogni disciplina, anche per la ricerca di una trasversalità tra i diversi insegnamenti, al punto che alcune materie come l’italiano e la storia, fondamentali per la formazione di una cittadinanza consapevole e della coscienza nazionale, rischiano di non essere più patrimonio comune del nostro Paese.

Inoltre, il tentativo dei politici e dei pedagogisti di quegli anni di rinnovare il tradizionale modello di istruzione con il fine democratico di annullare gli svantaggi di partenza di molti allievi ha portato di fatto a una scuola programmaticamente, ma anche illusoriamente, «inclusiva» con la proclamazione del “diritto al successo formativo”. Con l’inevitabile conseguenza di addossare alla sola scuola il conseguimento di questo successo e di far sparire il tema della volontà e dell’impegno da parte degli allievi. Si è proceduto inoltre a un graduale appiattimento dei corsi di studi, invece di dare il giusto valore alla diversità e alla ricchezza dei diversi percorsi scolastici, tanto che si è potuto imputare alla classe politica la “licealizzazione” degli istituti tecnici e professionali. Ancora nella linea di un’illusoria “inclusione”, si è soprattutto delegittimata qualsiasi forma di selezione insieme ai suoi strumenti di valutazione del merito, al contrario di quanto chiede l’art. 34 della nostra Costituzione (I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.)

Infine le istituzioni scolastiche, con la loro politica permissiva, hanno pervicacemente cercato il consenso dei genitori e degli studenti, dando molto più peso ai loro diritti che alle loro responsabilità, non imponendo le giuste regole dello stare a scuola e pregiudicando l’autorevolezza del corpo insegnante nello svolgimento del suo compito.

1866 Illustrazione dal libro Cuore

Nel lungo processo storico della formazione dello Stato italiano la classe politica risorgimentale e gli uomini di cultura, che fossero o no ministri della Pubblica Istruzione, da De Sanctis a Villari, da Croce a Gentile, da Salvemini a Gobetti hanno visto la scuola non in maniera ideologica o come terreno di avventurose sperimentazioni pedagogistiche, ma come spazio reale di emancipazione culturale e democratica e di formazione di un’autentica coscienza nazionale.

La scuola deve giustamente stare al passo con i tempi e accettare le sfide della modernità, senza però perdere il rigore culturale e i veri fini educativi insiti nel suo Dna, altrimenti si accentuerà ancora lo smarrimento delle nuove generazioni, già provate da due anni di pandemia e di confinamenti, con il rischio che i continui richiami di Draghi e di Mattarella alle responsabilità e ai doveri civici dei cittadini cadano nel vuoto soprattutto per chi è più fragile per età e per formazione.

Sergio Casprini

 

 

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La Nazione e la salute dei suoi cittadini

01/08/2021 da Sergio Casprini

Da quando il presidente francese Macron ha annunciato l’obbligatorietà, a partire da agosto, del cosiddetto “Green pass” per accedere ai luoghi pubblici e per usufruire dei trasporti a lunga distanza, è nato un dibattito sulla possibilità, ma anche sulla legittimità, di replicare in Italia questo modello.

C’è tra le altre l’esigenza di garantire la didattica in presenza a tutti gli studenti, in particolare nelle scuole superiori, fin dall’inizio del prossimo anno scolastico, per evitare il ricorso alla didattica a distanza, di cui l’Invalsi ha di recente evidenziato i danni all’apprendimento. Il governo sembra orientato a stabilire l’obbligo vaccinale almeno per tutto il personale scolastico, come molti ritengono necessario, e questo ha reso particolarmente aspra la discussione pubblica.

Ne è nato infatti uno scontro tra due posizioni radicalmente diverse: da una parte chi si dice contrario al Green Pass in nome della libertà individuale; dall’altra i favorevoli, che si appellano per lo più all’interesse della collettività. Va pur aggiunto che le ragioni di chi si oppone alle scelte del governo sono sostenute in modo fazioso e spesso in malafede. Si denuncia una dittatura sanitaria in un paese democratico come l’Italia, si fanno accostamenti vergognosi con l’Olocausto, in nome della libertà si sfida il contagio, negando le regole della convivenza civile e dimenticando i 128.000 morti dall’inizio della pandemia e quelli che potrebbero essere causati dalla mancanza di responsabilità.

I nostri connazionali “No Vax”, che sventolano in piazza il tricolore, non ricordano che l’articolo 32 della Costituzione stabilisce che “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge.” Quindi non vieta affatto la possibilità che tutti i cittadini, o particolari categorie di cittadini, possano essere sottoposte per legge all’obbligo di vaccinarsi nell’attuale situazione di emergenza sanitaria. Questo principio costituzionale, tra l’altro, ha avuto attuazione con la Legge 23 dicembre 1978, n. 833, con la quale è stato istituito il Servizio sanitario nazionale; con essa viene appunto sancito il concetto di salute inteso come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività.

Anche negli anni della nascita della Nazione si pose con urgenza la questione della salute e dell’igiene pubblica. Infatti, all’indomani della proclamazione dell’Unità d’Italia, il Regno si presentava come un paese povero, dove le condizioni di vita della popolazione erano in media fortemente arretrate. Nel 1863, anno in cui vennero rilevati i primi dati sulla speranza di vita della popolazione, morivano entro il primo anno 232 bambini nati vivi su 1000. Le abitazioni malsane, la mancanza di acqua potabile e la scarsa igiene portavano alla diffusione di molte malattie contagiose come il colera, il tifo, il vaiolo e la difterite, oltre alla tubercolosi, detta “il male del secolo” e la sifilide, diffusa soprattutto fra i militari. Ancora nel 1887, a quasi vent’anni dalla breccia di Porta Pia, uno dei problemi che affliggeva maggiormente il Paese era quello sanitario.

1890 Ritratto di Francesco Crispi

Alla morte nel 1887 di Agostino Depretis, Presidente del Consiglio, gli successe Francesco Crispi. Appena salito al potere, decise di affrontare il drammatico problema sanitario del Paese e istituì al Ministero dell’Interno la Direzione di sanità pubblica, coinvolgendo per la prima volta i medici nel processo decisionale. Affidò l’incarico della stesura di una nuova legislazione all’epidemiologo Luigi Pagliani, illustre docente universitario torinese, titolare della prima cattedra italiana di Igiene e uno dei padri fondatori della Sanità pubblica in Italia. Il 22 dicembre 1888 fu promulgata la legge “Sulla tutela dell’igiene e della sanità pubblica”, la prima grande riforma sanitaria italiana. La legge, detta anche “Legge Crispi – Pagliani”, trasformò l’approccio di polizia sanitaria in sanità pubblica. Teneva infatti conto dell’insieme delle condizioni geo-fisiche, demografiche e urbanistiche del Paese e prevedeva assistenza farmaceutica, medica, ostetrica e profilassi delle malattie sociali.

La riforma prevedeva un’organizzazione sanitaria di tipo piramidale che garantisse tra vertice e base un continuo flusso bidirezionale di informazioni. Dalla base provenivano notizie aggiornate sullo stato di salute del Paese: presenza di focolai epidemici, mortalità nei luoghi di lavoro, malattie da carenze alimentari; dal vertice le direttive del mondo accademico e della ricerca scientifica. Il mondo accademico non era più isolato nelle aule universitarie e nei laboratori e la classe medica era obbligata ad aggiornarsi scientificamente, conferendo al Paese una moderna coscienza sanitaria. La legge ebbe allora anche il plauso di Benedetto Croce: “La vigilanza igienica in Italia fece molti passi innanzi, concorrendo alla sparizione o attenuazione delle epidemie e degli altri morbi e dell’abbassamento della mortalità”. Fu quindi, quel periodo riformatore che pose le basi dell’odierna assistenza sanitaria, fortemente ispirato alla preoccupazione per il bene comune e per il sostegno ai meno fortunati.

Certamente tra i valori costitutivi del movimento risorgimentale italiano fu centrale il richiamo alla Libertà, per la quale sono morti tanti patrioti, dalle prime battaglie per l’Indipendenza del nostro Paese fino alla Resistenza. Una libertà, però, intesa come partecipazione a un comune destino e come adesione a un contratto sociale che includa la solidarietà reciproca tra i cittadini. Quindi, nello stato di necessità a cui il Covid-19 ci ha costretti in questi ultimi tragici anni, il senso della libertà individuale dovrebbe misurarsi sempre con una dimensione collettiva, per rafforzare ancor di più i valori e le regole della convivenza civile e il senso di appartenenza alla comunità nazionale.

In questo spirito patriottico giustamente il presidente Mattarella, garante dell’Unità nazionale, alla recente cerimonia del Ventaglio ha ammonito gli italiani, affermando che il virus limita la libertà di tutti e che vaccinarsi è un dovere morale e civico.

Sergio Casprini

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Il sagrato della basilica di Santo Spirito e la Movida fiorentina

01/07/2021 da Sergio Casprini

Sagrato (ant. o letter. sacrato) s. m. [lat. sacratum, propr. «consacrato», part. pass. neutro di sacrare «consacrare»]. Spazio consacrato davanti all’entrata principale di una chiesa (in genere separato dalle aree pubbliche circostanti mediante soluzioni architettoniche varie, come cancellate, gradinate, balaustre esim.), che anticamente godeva del privilegio di asilo e di immunità, e in cui, fino al sec. 19°, si seppellivano i morti. (Vocabolario Treccani)

Venerdì 25 giugno a Firenze c’è stata la prima di una serie di iniziative estive serali sul sagrato della chiesa di Santo Spirito: alle 21 e 30 l’Orchestra da Camera Fiorentina diretta dal maestro Giuseppe Lanzetta ha eseguito La Traviata di Giuseppe Verdi.

Il Comune si propone così di contrastare la movida selvaggia e il mancato rispetto degli spazi nel segno della cultura e dello sport. Per una sera le note della musica lirica hanno risuonato nella bella piazza di Santo Spirito, con un pubblico compostamente seduto e in silenzio e con i residenti che hanno potuto godere una notte estiva senza gli schiamazzi e il rumore assordante causato dalla movida sia prima che dopo il coprifuoco. È apprezzabile, ma non sufficiente, il tentativo dell’amministrazione di porre un freno, con proposte culturali di alto livello, alla mala educazione di tanti giovani, che rivendicano invece la libertà di trasgredire le regole della convivenza civile bivaccando nelle piazze cittadine, consumando alcool insieme a musica assordante e violando sistematicamente il diritto, riconosciuto dalla Costituzione, al riposo e alla salute dei residenti.

Infatti il rispetto delle regole della convivenza civile si realizza sì con “l’educazione alla bellezza dell’arte e della musica”, come ha dichiarato più volte il sindaco Nardella, ma anche reprimendo fermamente comportamenti talora eversivi dell’ordine pubblico. La marginalità sociale, non solo giovanile, si affronta sicuramente rimuovendo nel tempo le cause con investimenti nella scuola e nella formazione culturale, senza però che venga meno l’autorità delle istituzioni, dal Comune alle Regioni e allo Stato, nel far rispettare diritti e doveri.

Le piazze e i sagrati delle chiese devono poi essere di necessità, salvo che in particolari occasioni, spazi per il divertimento del popolo della notte? Restando nell’ambito fiorentino, solo nell’Ottocento le piazze dei vari ordini conventuali, che nel medioevo avevano edificato nuovi quartieri cittadini (i francescani a Santa Croce, i domenicani a Santa Maria Novella, gli agostiniani a Santo Spirito ecc…) sono diventate spazi pubblici; e la realizzazione di monumenti celebrativi ai protagonisti della rinascita politica e culturale italiana, a partire dal monumento a Dante in piazza Sana Croce, ne hanno confermato il ruolo civile e laico, non certo quello di ospitare lo sballo della movida.

Basilica di Santa Maria Maggiore Roma

Oggi solo il sagrato resta di stretta pertinenza della chiesa e dei fedeli che la frequentano; e le gradinate e le cancellate, come quelle di Santa Maria Maggiore a Roma o della chiesa del Cestello a Firenze, ne riaffermano la separazione simbolica e concreta dalla piazza antistante. Perciò non è lecito occuparne gli spazi né con concerti o eventi teatrali, tantomeno con i bivacchi e le bevute di gruppi di giovani.

La notte le piazze fiorentine devono quindi tornare a essere silenziose come nel passato, con la chiusura dei locali a mezzanotte e con lo spostamento del divertimento di massa in zone non residenziali, garantendo così il diritto di dormire in pace alla maggior parte dei cittadini.

Piazza Santo Spirito  fine secolo XIX

Gli strumenti attuali della pianificazione urbanistica già prevedono la suddivisione della città secondo le diverse destinazioni d’uso: le zone residenziali e dei servizi, il verde pubblico, le infrastrutture e le aree produttive; perché non possono prevedere anche le zone per il popolo della notte e della movida?

Giuseppe Poggi, l’architetto di Firenze Capitale, non solo progettò una città moderna con nuovi quartieri residenziali, spaziose infrastrutture come i Lungarni e i viali di circonvallazione, spazi di verde pubblico, ma anche, fuori del centro urbano, un parco divertimenti sul viale dei Colli. Con tanto di giostre, salone per i concerti, caffè chantant, bazar all’orientale, teatro, birreria, trattoria, tiro al bersaglio cosiddetto “alla Flobert” e non ultimo un gasometro per l’illuminazione dello stabilimento. Si chiamava “Tivoli”, come i grandi giardini parigini e come l’omonimo parco di Copenaghen. Progettato nel 1874, durò solo due anni per una pessima gestione economica e per il trasferimento della capitale da Firenze a Roma.

 Sergio Casprini

 

Giardino Tivoli sul viale dei Colli

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La Repubblica il 2 GIUGNO compie 75 anni. Li porta bene?

01/06/2021 da Sergio Casprini

Perché dietro la Carta costituzionale, se si tende l’orecchio, si sente il frastuono della democrazia, che è lotta e scontro di interessi legittimi, di valori e soprattutto di idee. Però sa cosa c’era allora, e si capisce benissimo oggi leggendo quegli articoli? Un orizzonte comune, un impegno comune per il bene comune. E infatti quegli uomini e quelle donne sono riusciti a creare lo Stato repubblicano, la sua Costituzione e la democrazia senza violenza. Un momento di grazia… Roberto Benigni, “La Repubblica”, 2 giugno 2016

Il 2 Giugno 2021 si celebrano i 75 anni della Repubblica italiana, nata con il referendum istituzionale del 1946.

Fu il risultato del lavoro di tutte le forze politiche, che all’indomani della Resistenza, concordi, al di là delle loro divisioni ideologiche, riportarono in Italia le libertà democratiche e dettero prestigio alla neonate istituzioni repubblicane, legittimate poi dalla Costituzione del 1848. Se ci chiediamo quale sia il bilancio del progetto dei padri e delle madri costituenti, il giudizio su questo periodo storico presenta sia luci che ombre, come sempre è avvenuto in tutti gli stati democratici e non solo in Italia.  In primis tra i problemi non ancora risolti c’è ancora la questione meridionale e cioè il divario economico e sociale tra il Nord e il Sud. Una questione già sollevata ai tempi dell’Unità Italiana; basterebbe ricordare gli interventi di Pasquale Villari, di Giustino Fortunato e di Gaetano Salvemini. Anche il decentramento regionale non ha dato buona prova di sé nei suoi 50 anni di vita; le regioni dovevano essere enti di legislazione e hanno prodotto un nuovo accentramento a danno dei comuni, quando invece negli anni del Risorgimento il perseguimento dell’Unità e dell’Indipendenza non era in contrasto con la presenza e la ricchezza di un Paese dai mille municipi.

L’Italia non è però sola ad affrontare le sue endemiche situazioni di crisi: sia pure con difficoltà e resistenze è andato avanti il processo di integrazione europea, partito soprattutto per volontà di Alcide De Gasperi e attualmente rilanciato dall’attuale premier Mario Draghi, non dimenticando i meriti di chi, come Mazzini, già auspicava non solo l’Unità Italiana ma anche quella europea. Lo stesso Mazzini nei suoi scritti dice chiaramente che la libertà di un popolo, con il suffragio universale, le garanzie politiche, il progresso dell’industria, il miglioramento dell’organizzazione sociale, è la base di quell’ordinamento democratico che può garantire una forma di governo che goda del consenso di tutti i cittadini.

Sono i principi alla base della Costituzione della Repubblica romana del 1849, che si ritrovano cento anni dopo nei primi articoli della nostra Costituzione.

E il non venir meno di queste garanzie democratiche nel corso di questi 75 anni ha permesso di salvaguardare lo stato di salute del nostro Paese e di provare a risolvere positivamente i mali cronici dell’amministrazione dello stato nazionale. Dovremmo però recuperare pienamente quell’orizzonte comune, quell’impegno comune per il bene comune della classe dirigente di allora; e soprattutto ricostruire lo spessore culturale e lo spirito di servizio della classe politica di allora per guardare con fiducia al futuro dell’Italia e dell’Europa.

Sergio Casprini

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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14 MAGGIO 1865: Inaugurazione del monumento a Dante a piazza Santa Croce a Firenze

01/05/2021 da Sergio Casprini

 

A Firenze, da poco divenuta capitale d’Italia, il 14 maggio 1865 fu inaugurata la statua di Dante in piazza Santa Croce alla presenza del re Vittorio Emanuele II. La cerimonia fu preceduta da un corteo al quale presenziarono circa trecento bandiere di province, comuni, scuole, istituzioni culturali e associazioni professionali provenienti da tutta Italia: una sorta di “plebiscito simbolico” della società civile per la nascita della Nazione in nome del poeta.

La sfilata delle delegazioni provenienti da tutta Italia, riunitesi la mattina alle ore 8 in piazza Santo Spirito, attraversò la città con le proprie bandiere fino a piazza Santa Croce. Agli angoli della piazza sventolavano quattro grandi stendardi tricolori: quelli di Firenze e di Ravenna, le città della nascita e della morte di Dante, e quelli di Venezia e di Roma, città ancora escluse dal Regno d’Italia, ma simbolicamente presenti a rappresentare l’unità dell’intera nazione.

Il momento culminante della manifestazione, in cui fu scoperto il monumento a Dante davanti al re, è rappresentato, con la polifonia cromatica delle bandiere e degli stendardi, dal grande quadro di Vincenzo Giacomelli al museo di Firenze Capitale a Palazzo Vecchio.

L’inaugurazione del monumento fu uno degli atti fondanti del nuovo Stato e della sua identità: l’autore della Divina Commedia assurgeva simbolicamente a testimone della storia civile e culturale del Paese. La riscoperta di Dante come simbolo delle virtù civiche e laiche, cominciata alla fine del XVIII secolo e affermatasi nel clima romantico ottocentesco, aveva accompagnato il processo risorgimentale come mito ispiratore di politici, uomini di cultura e d’azione che si erano battuti per unire la Nazione.

Infatti il monumento di Dante a Firenze del 1865 e poi negli anni successivi tutti i monumenti celebrativi dell’Unità d’Italia posti nelle piazze delle città erano stati realizzati con il compito di svolgere una funzione pedagogica nei confronti del popolo e di sviluppare presso di esso una coscienza nazionale.

Nell’anno delle celebrazioni dantesche per il settimo centenario della morte, ricordare l’evento fiorentino del 14 maggio 1865 significa riaffermare la valenza simbolica e politica di una manifestazione di unità tra il popolo e il suo sovrano come uno dei momenti più importanti della nascita della Nazione. Ma vuole essere anche un invito ai cittadini italiani a superare, nei momenti drammatici che stiamo vivendo, gli egoismi individuali e di fazione e a stringersi attorno al Presidente Mattarella, garante della concordia e dell’unità del Paese per un futuro sereno del nostro Paese e delle nuove generazioni. Sergio Casprini

 

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27 APRILE. LA FESTA DELL’INDIPENDENZA TOSCANA.

01/04/2021 da Sergio Casprini

Il 26 aprile 1859 l’Austria dichiarò guerra al Regno di Sardegna: cominciava la Seconda Guerra d’Indipendenza.

La notte stessa a Firenze, capitale del Granducato, si tenne un’ulteriore riunione dei capi dei vari schieramenti politici (tra gli altri Bartolommei, Ricasoli, Peruzzi, Dolfi) favorevoli all’unificazione italiana, presenti anche molti ufficiali dell’esercito toscano. Fu stabilita per il giorno successivo una grande manifestazione  in città e fu nominata una giunta provvisoria.  La mattina del 27 aprile una gran folla scese in piazza Barbano, oggi piazza Indipendenza, gridando il proprio sostegno al Regno di Sardegna e lanciando invettive contro l’Austria. Si formò poi un corteo che arrivò fino in piazza Signoria, dal corteo si staccò un manifestante per issare il tricolore a una monofora nella facciata di Palazzo Vecchio come testimonia il dipinto di Enrico Alessandro Fanfani La mattina del 27 aprile 1859.

Il Granduca Leopoldo II, trincerato in Palazzo Pitti con i suoi ministri, era disposto a formare un nuovo governo, a schierarsi contro l’Austria e a concedere una costituzione; per calmare gli animi acconsentì alle truppe di inalberare il tricolore, ma ormai il suo rapporto con il popolo e i suoi leader era compromesso al punto che gli fu chiesto di abdicare e la sera del 27 aprile Leopoldo II lasciò Firenze con la famiglia.

Fu quindi una rivoluzione incruenta, tanto di essere definita la ” rivoluzione di velluto”.

L’11 marzo e il 12 marzo 1860 si tenne il plebiscito che decretò a larghissima maggioranza l’annessione della Toscana al Regno di Sardegna: 366.571 voti favorevoli contro 14.925 contrari. Il cambiamento era stato quindi consacrato dal plebiscito col quale i toscani, a suffragio universale maschile, vollero entrare a far parte del costituendo Regno d’Italia. La sovranità popolare quindi subentrò a quella assoluta, anche se per diversi aspetti illuminata, del granduca Leopoldo II, che si era alienato le simpatie popolari per aver conservato un rapporto di dipendenza dall’Austria. Nell’ideale dell’Italia i Toscani avevano trovato il terreno per una cooperazione politica fra il liberalismo nobiliare più convintamente unitario, quello di Ferdinando Bartolommei e di Bettino Ricasoli, e il mondo democratico di ispirazione mazziniana, guidato da Giuseppe Dolfi.

In quegli anni, al momento della costruzione dell’Unità d’Italia diventò cruciale la questione del regionalismo, che ha alimentato poi per anni un dibattito segnato dal contrasto fra posizioni che spaziavano da orientamenti marcatamente centralisti a tendenze di tipo federalista. Allora la tendenza federalista si divideva tra Cavour in cui prevaleva un’idea di creazione delle regioni quali ambiti di decentramento dell’amministrazione statale in una prospettiva di integrazione unitaria, mentre per Cattaneo l’indipendenza del paese doveva assumere un carattere non già unitario e centralistico, bensì federale con la costituzione degli Stati uniti d’Italia, come logica conseguenza delle profonde diversità storiche e sociali delle sue regioni.

A queste posizioni si contrapponevano le forze politiche della destra storica, sostenitrici di un modello accentrato di amministrazione, sull’impronta di quello già adottato in Piemonte con la legge Rattazzi del 1859. Lo stesso Ricasoli, nonostante fosse legato alla storia politica e sociale della sua Toscana, era un convinto sostenitore dell’unità della Patria e quando fu al governo dopo la morte di Cavour si adoperò per una struttura del Paese in senso centralista, soprattutto quando al Sud il giovane Regno italiano dovette fronteggiare il fenomeno politico-criminale del Brigantaggio.

Con la Costituzione della Repubblica Italiana del 1948 l’Italia introdusse le regioni nel suo ordinamento giuridico che agli articoli 114 e 115 prevedeva: «La Repubblica si riparte in Regioni, Province e Comuni.» Ma poi l’effettiva costituzione delle Regioni nel 1970 e soprattutto la Riforma del Titolo V della Costituzione, in vigore dal 2001, che ha modificato i tradizionali rapporti tra centro e periferia, non hanno affatto risolto le problematiche del nostro stato nazionale, emerse al momento della sua formazione nel 1861.

Infatti regionalismo, riconoscimento delle autonomie, decentramento, non vogliono dire, come appare  nel dibattito pubblico attuale, costituzione di repubbliche quasi indipendenti; e questo è chiaro soprattutto oggi in questa drammatica emergenza sanitaria, quando la battaglia contro il Covid non solo è nazionale, ma anche internazionale e bisogna essere uniti, saper cooperare, non certo rivendicare anacronistici orgogli regionali.

La Festa della Indipendenza Toscana è stata istituita da alcuni anni per celebrare il contributo decisivo della nostra regione al Risorgimento e ricordare quello che tanti generosi esponenti della politica, della cultura e della società civile toscana, come Dolfi, Peruzzi, Ricasoli, Bartolommei, Poggi, Barellai e altri ancora, hanno dato per lasciarsi alle spalle la piccola patria a favore di quella più grande che si stava costruendo.

Oggi celebrare il 27 APRILE al tempo del Covid significa essere consapevoli che con la grande manifestazione di piazza Barbano iniziava un percorso di crescita politica del popolo toscano nel senso di una cittadinanza, allora italiana, oggi europea senza alcun rimpianto per la Toscana dei municipi medievali o delle signorie rinascimentali, del Granducato dei Medici o dei Lorena. 

Sergio Casprini 

Francesco Saverio Altamura-

La prima bandiera italiana portata in Firenze nel 1859 

 

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17 MARZO: Le donne dall’Unità d’Italia ad oggi

01/03/2021 da Sergio Casprini

17 MARZO
Giornata dell’Unità nazionale, della Costituzione, dell’Inno e della Bandiera 

“La mobilitazione di tutte le energie del Paese nel suo rilancio non può prescindere dal coinvolgimento delle donne. Il divario di genere nei tassi di occupazione in Italia rimane tra i più alti di Europa: circa 18 punti su una media europea di 10. Dal dopoguerra ad oggi, la situazione è notevolmente migliorata, ma questo incremento non è andato di pari passo con un altrettanto evidente miglioramento delle condizioni di carriera delle donne. L’Italia presenta oggi uno dei peggiori gap salariali tra generi in Europa, oltre una cronica scarsità di donne in posizioni manageriali di rilievo. Una vera parità di genere non significa un farisaico rispetto di quote rosa richieste dalla legge: richiede che siano garantite parità di condizioni competitive tra generi” (dall’intervento di Mario Draghi al Senato per la fiducia al suo governo). 

Mario Draghi ha posto tra le priorità del suo governo la necessità di coinvolgere le donne nella mobilitazione di tutte le energie del Paese in questo momento di drammatica emergenza sanitaria ed economica, per trovare adeguate e concrete misure per porre fine alle persistenti disparità di genere nella società italiana. Il rispetto però delle “quote rosa”, che ha suscitato molte polemiche nella formazione del nuovo governo perché non pienamente attuato, risolverebbe in maniera solo formale la sotto-rappresentazione delle donne in politica e la cronica scarsità di donne in posizioni manageriali di rilievo, in quanto verrebbe  meno il criterio del merito, per cui tutti gli italiani, comprese ovviamente anche le donne, possono aspirare a essere classe dirigente del loro Paese a partire da una rigorosa formazione culturale e professionale.

Se comunque la metà del cielo non è ancora  adeguatamente rappresentata, non siamo però all’anno zero  della presenza femminile in ruoli di rilievo: la radicale Emma Bonino nella politica, la virologa Ilaria Capua e la direttrice del CERN Fabiola Gianotti nella scienza, la costituzionalista Marta Cartabia nella giurisprudenza, la schermitrice Valentina Vezzali nello sport, per fare solo alcuni tra i molti nomi possibili, stanno a dimostrare che l’eccellenza delle donne in Italia e nel mondo, se ancora minoritaria rispetto agli uomini, è il risultato di un processo storico di conquiste sociali e democratiche, nato negli anni del Risorgimento, confermatosi con il suffragio universale del Referendum del 1946 fino alle lotte per i diritti civili (il divorzio, l’aborto, il nuovo diritto di famiglia) nella seconda metà del secolo scorso.

Per restare solo nell’ambito della Toscana abbiamo fulgidi esempi di donne appartenenti a ogni ceto sociale che parteciparono ai momenti salienti della storia italiana dagli anni del Risorgimento e della Resistenza a oggi. Ne ricordiamo alcune.

L’aristocratica milanese Cristina Trivulzio di Belgioioso, che dopo aver speso gli anni della sua giovinezza per l’Indipendenza italiana, in tarda età scrive saggi politici e pubblica nel primo numero della rivista di Firenze “Nuova Antologia” (1866) l’articolo Della presente condizione delle donne e del loro avvenire.

Le trecciaiole della campagna fiorentina e le sigaraie della manifattura tabacchi di Sant’Orsola a Firenze, che alla fine dell’Ottocento intrapresero duri scioperi per una più equa retribuzione del loro lavoro e per l’assistenza alla maternità.

Anna Maria Enriquez Agnoletti, già studentessa al liceo Michelangiolo di Firenze, che fu catturata dai nazifascisti negli anni della Resistenza e fucilata il 12 giugno 1944 in località Cercina di Sesto Fiorentino, insignita di Medaglia d’oro al Valore Militare ed alla Memoria, come viene ricordato in una lapide apposta sulla facciata del Liceo Michelangiolo.

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L’insegnante Bianca Bianchi che, dopo il suo impegno politico all’Assemblea Costituente, riprese con entusiasmo il suo impegno per la scuola – fondando a Montesenario la Scuola d’Europa, centro educativo di sperimentazione didattica, strutturato secondo il metodo Pestalozzi, che accoglieva ragazzi delle scuole elementari e medie; e tornò poi in politica quasi vent’anni dopo, essendo eletta consigliera comunale a Firenze e poi Vicesindaco e Assessora.

Infine, se ad oggi il cammino dell’emancipazione femminile non si è ancora concluso, questo processo storico non deve comunque trasformarsi in una lotta ideologica di genere contro la supremazia maschile, ma inverarsi oggi in un’unità di intenti contro la pandemia assieme a una volontà comune di superare nel prossimo futuro le disparità di status che ancora esistono tra uomini e donne.

Questo spirito di concordia che animò gli italiani il 17 marzo di 160 anni fa – citando ancora Draghi nel suo intervento al Senato – “è un dovere guidato da ciò che son certo ci unisce tutti: l’amore per l’Italia”.

 

 

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La maleducazione e la buona politica

01/02/2021 da Sergio Casprini

 

Sergio Tramma, docente di pedagogia all’Università di Milano ha recentemente pubblicato un libro intitolato Sulla maleducazione. L’autore scrive che nel passato vigeva in buona parte della popolazione una buona educazione, fatta di stile e di buone maniere in famiglia e in società, di adesione ai valori morali di gentilezza e bontà e mai di sopraffazione e superbia; oggi invece in una società a un tempo massificata, ma anche differenziata e divisa in una pluralità di gruppi sociali e di etnie diverse, la maleducazione, l’intolleranza, la cattiveria si sono imposte nelle famiglie, nei luoghi di lavoro, nelle scuole e nelle sedi istituzionali senza alcun freno, anzi trovando ulteriore alimento sui social e sui media.Tramma, che analizza tutto ciò dal punto di vista sociale, pensa che una possibile soluzione potrebbe essere un maggiore accesso a validi sistemi pedagogici per ritrovare quella buona educazione del passato, ma non vede invece il fenomeno da un punto di vista politico.

Infatti, se oggi assistiamo ai tanti talk show di dibattito politico, ci troviamo in un’arena (titolo appunto di una seguita trasmissione televisiva) dove opinionisti, uomini di cultura e di scienza, politici si azzuffano spesso con male parole a prescindere dal merito della discussione, assicurando certamente audience alla trasmissione a scapito però di una corretta ed equilibrata informazione. È ancora più grave che anche nei dibattiti parlamentari l’offesa all’avversario politico sostituisca spesso l’argomentata critica alle sue proposte. Si tratta di un cattivo esempio che da un lato fa proseliti tra i cittadini meno attrezzati sul piano educativo e culturale, dall’altro disgusta gli elettori che hanno le idee chiare su come dovrebbe svolgersi la discussione pubblica.

La maleducazione, con le conseguenti rissosità e mancanza di rispetto reciproco, è quindi uno dei germi che infettano la buona politica e acuisce quel clima di sfiducia nelle istituzioni che nel nostro Paese c’è sempre stato a partire dall’Unità Italiana, anche se in un contesto diverso sul piano sociale e culturale.

Pasquale Villari

All’indomani delle disastrose sconfitte di Lissa e Custoza nel 1866, che provocarono accese polemiche e accuse al governo e ai comandi militari, lo storico Pasquale Villari pubblicò sulle pagine del “Politecnico” l’articolo Di chi è la colpa? Lo storico rifletteva sul modo in cui era stata condotta la guerra contro l’Austria e sulle responsabilità delle alte sfere militari nel determinare l’esito del conflitto. Ma le sue considerazioni andavano oltre i tragici eventi del momento e investivano molti altri problemi del nostro Paese, come la debolezza della sua struttura politica, lo strapotere delle “consorterie” che “fanno un disonesto monopolio del Governo a vantaggio di pochi”, la soffocante burocrazia piemontese, giungendo ad un’amara conclusione: “Bisogna però che l’Italia cominci col persuadersi, che v’è nel seno della nazione stessa un nemico più potente dell’Austria, ed è la nostra colossale ignoranza, sono le moltitudini analfabete…Non è il quadrilatero di Mantova e Verona che ha potuto arrestare il nostro cammino, ma è il quadrilatero di 17 milioni di analfabeti e 5 milioni di arcadi”.

A Villari risposero i governi italiani di allora con l’istituzione delle scuole pubbliche e favorendo una maggiore partecipazione dei cittadini alla vita politica con l’allargamento nel corso degli anni della base elettorale. Va detto inoltre che l’Italia liberale degli anni dei Risorgimento in presenza di forti squilibri sociali e culturali era sì una società elitaria in via di massificazione, ma aveva conservato pure legami comunitari di tipo tradizionale, per cui anche il popolo analfabeta possedeva le minime regole della buona educazione e il rispetto dell’autorità, fosse quella del maestro, del farmacista, del carabiniere e del prete, riconoscendone i ruoli e le competenze.

Paradossalmente nella società italiana contemporanea, in una situazione di maggior benessere economico e di maggior partecipazione democratica, i cittadini di qualsiasi ceto posseggono meno quella cultura di base, costitutiva di un’identità nazionale, che è la conoscenza storica del proprio Paese, sicuramente per via della crisi della scuola pubblica come agenzia formativa nel segno del rigore e del merito. Nello stesso tempo si è allentato il civismo degli italiani, fatto non solo di rispetto delle leggi e delle istituzioni, ma anche di osservanza delle regole di comportamento sociale. Si finisce così per abbandonarsi per futili motivi ad atti di intolleranza e di arroganza e all’uso del turpiloquio nella comunicazione sia privata che pubblica. Anche la classe dirigente non è esente da cadute di stile, sia sul piano culturale che comportamentale e questo spiega in parte il clima crescente di sfiducia dei cittadini nei suoi confronti e l’affermarsi del sentimento dell’antipolitica, così diffuso in questi anni.

Per tornare allora a una buona Politica occorrerebbe che alla mensa sia dei potenti che dei poveracci non mancasse mai il pane della buona Cultura e della buona Educazione.

 

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AUSPICI PER IL NUOVO ANNO

01/01/2021 da Sergio Casprini

  Passeggere: “Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?’”. Venditore: “Speriamo… Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere

Giacomo Leopardi, Operette Morali

Il dialogo, scritto nel 1832, è ambientato per strada, in una città di cui non viene indicato il nome. Giacomo Leopardi l’anno dopo si trasferì con l’amico Ranieri a Napoli, dove il poeta visse gli ultimi suoi tristi anni: scampato al colera scoppiato nell’ottobre 1836, morì qualche mese dopo per idropisia e conseguente attacco di asma a soli 38 anni. Nonostante ciò il tono di questo dialogo è diverso da quello sarcastico e amaro di tante Operette, le considerazioni sulla irrimediabile infelicità umana sono pacate, quasi serene. Infatti il passeggere giunge alla conclusione che la felicità consiste nell’attesa di qualcosa che non si conosce, nella speranza di un futuro diverso e migliore del passato e del presente:“Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura”.

Giacomo Leopardi Ugolino Panichi 1898 Recanati

La speranza e la fiducia nelle sorti dell’umanità sono state il motore della storia in ogni epoca e in ogni terra, un élan vital, direbbe il filosofo Henry Bergson, che ha permesso di superare momenti drammatici come quelli vissuti da Leopardi. In quell’epoca imperversavano il colera e altre tragiche pandemie e ampi strati di popolazione vivevano in gravi condizioni d’indigenza, con alti tassi di mortalità, in particolare di quella infantile, quasi del tutto privi di assistenza sociale e medica. L’Italia era da secoli teatro di scorrerie di eserciti stranieri e si poteva solo avere la speranza di un futuro migliore, un sentimento condiviso di poter un giorno far parte di una comunità nazionale, come d’altronde lo stesso Leopardi aveva auspicato: “La propria nazione, coi suoi confini segnati dalla natura, è la società che ci conviene. E conchiudo che senza amor nazionale non si dà virtù grande” (Pensieri di varia filosofia e bella letteratura, Zibaldone, 1838)

Il suo messaggio di amor patrio e di fratellanza universale a distanza di due secoli è ancora valido oggi ai tempi del Covid, nonostante le forti differenze tra l’Italia di Giacomo Leopardi e L’Italia del 2020, un Paese che ha conosciuto, sia pure tra luci e ombre, un forte processo di modernizzazione economica, sociale e politica a partire dai progressi della medicina e della scienza. Eppure è bastato l’imprevisto arrivo di un virus fortemente contagioso e letale per farci ritrovare in un’atmosfera di paure, di risentimenti e di false credenze. Il 2021 inizia ancora in piena pandemia, ma si apre alla speranza di un’uscita da questa emergenza sanitaria con l’inizio di una vaccinazione di massa nel giro di alcuni mesi.

E i tempi saranno brevi se gli italiani, come nel passato, a partire dalle classi dirigenti, ritroveranno un senso di responsabilità collettiva, la coscienza civica di un popolo unito e non diviso in egoismi individuali e di fazione. Lo dobbiamo non solo a noi stessi come comunità nazionale, ma soprattutto alle nuove generazioni che hanno diritto, oltre che a una formazione che ne faccia cittadini preparati e responsabili, a sperare in un futuro non horribilis come quest’ultimo anno di scuole chiuse e di restrizioni sociali.

 

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Celebrare il Natale ai tempi del Covid

01/12/2020 da Sergio Casprini

Natale 2019 a Firenze

Glória in excélsis Deo et in terra pax homínibus bonæ voluntátis…
(Incipit dell’inno di Natale dal Vangelo di Luca)

Negli anni scorsi, quando si avvicinava Natale, per la maggior parte degli italiani partiva la corsa agli acquisti e saliva la febbre consumistica nonostante che fossero anni di grave crisi economica, e si ripeteva l’affollamento delle stazioni sciistiche. Nell’occidente cristiano, da tempo secolarizzato, è venuta infatti sempre meno la dimensione spirituale e simbolica delle feste natalizie, che sono invece diventate l’occasione per lo shopping di massa, oppure per vivere in maniera smodata l’attesa del nuovo anno con botti, fiumi di alcool e cocci di vetro nelle piazze. L’emergenza sanitaria ha costretto il governo italiano a decidere misure restrittive per le feste di quest’anno: regolamentazione degli orari dei negozi e controllo delle misure di distanziamento nelle strade e nelle piazze, niente cenoni e veglioni nei ristoranti, ma solo in casa con i propri familiari, la chiusura degli impianti sciistichi.

Nel richiamo costante da parte delle istituzioni a un maggior senso di responsabilità, alla sobrietà, a una fattiva solidarietà verso il prossimo e all’unità d’intenti di fronte alle difficoltà, il Natale ritrova almeno in parte lo spirito tradizionale, orientato al desiderio di pace e alla fraternità tra gli uomini di ogni razza e ceto sociale.

Anche in altri momenti storici, come durante la tragica Grande Guerra, si può ritrovare questo autentico spirito natalizio: basta ricordare la Tregua di Natale, una serie di “cessate il fuoco” non ufficiali avvenuti nei giorni attorno al Natale del 1914 in varie zone del fronte occidentale della prima guerra mondiale. Già nella settimana precedente il Natale, membri delle truppe tedesche e britanniche schierate sui lati opposti del fronte presero a scambiarsi auguri e canzoni dalle rispettive trincee e occasionalmente singoli individui attraversarono le linee per portare doni ai soldati nemici. Nel corso della vigilia di Natale e del giorno stesso di Natale, un gran numero di soldati provenienti da unità tedesche e britanniche (nonché, in misura minore, da unità francesi) lasciarono spontaneamente le trincee per incontrarsi nella terra di nessuno per fraternizzare, scambiarsi cibo e souvenir. Oltre a celebrare comuni cerimonie religiose e di sepoltura dei caduti, i soldati dei due schieramenti intrattennero rapporti amichevoli tra di loro al punto di organizzare improvvisate partite di calcio.

In un breve saggio del 1942, Perché non possiamo non dirci “cristiani”, Benedetto Croce sostiene che il Cristianesimo ha compiuto una rivoluzione «che operò nel centro dell’anima, nella coscienza morale, e conferendo risalto all’intimo e al proprio di tale coscienza, quasi parve che le acquistasse una nuova virtù, una nuova qualità spirituale, che fino allora era mancata all’umanità»

Invero Croce non aveva abbandonato la sua convinzione laica, né si schierava certo a difesa della Chiesa romana, ma aveva capito che i valori di umanità e di fraternità, che ritroviamo in particolare nella festa cristiana del Natale, sono valori anche per i non credenti, per gli uomini di buona volontà che hanno combattuto per la libertà e per la pace tra gli uomini, come accadde in Italia dagli anni del Risorgimento alla Resistenza.

Oggi non siamo per fortuna in guerra o sotto una dittatura, viviamo in un Paese democratico e godiamo di maggiore benessere economico rispetto al passato. Il Covid ha messo però a nudo la nostra insicurezza e fragilità di cittadini, viziati come siamo dall’attuale società edonistica di massa; e il Natale sobrio che ci attende questo anno può fortificare il nostro animo e farci ritrovare un’autentica solidarietà umana.

Sergio Casprini

Giotto Il Presepio di Greccio Basilica di San Francesco Assisi

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