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Risorgimento Firenze

Il sito del Comitato Fiorentino per il Risorgimento.

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Editoriale

1° MAGGIO. La Festa del Lavoro

01/05/2022 da Sergio Casprini

Il Quarto Stato Giuseppe Pellizza da Volpedo 1898/1901 ( dettaglio)

Il 1° maggio del 1886 una grande manifestazione operaia si svolse a Chicago all’inizio di uno sciopero generale per portare l’orario di lavoro a otto ore.

Nei giorni seguenti si ebbero altre manifestazioni, in alcune delle quali la polizia sparò facendo numerose vittime. Ci furono arresti e condanne a morte. Il 20 luglio 1889, a Parigi, il Congresso della Seconda Internazionale decise che per ricordare quei fatti ogni Primo Maggio in tutto il mondo i lavoratori avrebbero manifestato chiedendo di ridurre per legge la giornata lavorativa a otto ore e di mandare a effetto altre risoluzioni approvate dal Congresso di Parigi. Nasce così la Festa del Lavoro, come festa internazionale, con manifestazioni e spettacoli in tutte le città e paesi del mondo. Dopo due anni anche in Italia fu celebrato il Primo Maggio, come riconoscimento delle battaglie dei lavoratori italiani nei primi decenni dell’Unità nazionale.
Dalla fine dell’Ottocento fino all’avvento della globalizzazione economica, con la conseguente trasformazione del mondo dell’impresa e dei servizi, c’è stata una progressiva affermazione dei diritti dei lavoratori, nonostante le battute d’arresto con il Fascismo e le vicende drammatiche delle guerre mondiali.
La conquista più significativa delle rivendicazioni sindacali è stata l’approvazione della legge del 20 maggio del 1970, lo Statuto dei Lavoratori, che reca appunto “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”. Si tratta di un corpo normativo fondamentale del diritto del lavoro che, parzialmente modificato e integrato nel corso di questi decenni, ancora oggi costituisce la disciplina di riferimento per i rapporti tra lavoratore e impresa.

Oggi però questi rapporti, in una società postindustriale, sono resi più complessi per la diffusione delle tecnologie digitali, per le nuove caratteristiche del mercato del lavoro e per la delocalizzazione delle imprese. Inoltre, nonostante l’innegabile progresso delle condizioni di vita degli italiani rispetto all’Ottocento, è oggi alta la disoccupazione giovanile e non vige ancora pienamente la parità tra uomo e donna nei luoghi di lavoro.
Ciò non significa comunque riproporre oggi una visione egualitaria di tipo ideologico come nelle rivendicazioni sindacali degli anni ’70, centrata esclusivamente sui diritti dei dipendenti pubblici e privati. Anzi, una battaglia sulla dignità e la qualità del lavoro deve essere centrata anche sul merito e sulla responsabilità, sui doveri oltre che sui diritti. Giuseppe Mazzini, di cui quest’anno ricorre il centenario della morte e al quale la nostra nazione riconosce d’esser stato uno degli artefici della nostra Unità, metteva addirittura i doveri prima dei diritti; e infatti tra il 1840 e il 1860 scrisse I Doveri dell’Uomo, dedicato agli operai italiani, che può essere considerato il suo testamento spirituale.
Vi si legge: “La libertà non esiste senza uguaglianza, ma non esistono né uguaglianza né libertà senza una profonda coscienza dei doveri a cui tutti siamo chiamati.”

Con queste finalità, il 24 febbraio del 1861 promosse la fondazione della Fratellanza Artigiana d’Italia, con sede nazionale a Firenze. La Fratellanza si affermò immediatamente come la più importante associazione operaia nel panorama nazionale, sia per numero di iscritti, sia per ambizioni politiche. Le finalità statutarie riflettevano gli intenti politici di formare una grande associazione nazionale, la prima che desse visibilità al mondo del lavoro, superando il localismo e la frammentazione delle associazioni fiorentine e italiane costituite negli stessi anni.
Sono gli stessi anni in cui si realizza il processo di unificazione del nostro Paese, in cui i valori di Libertà e Indipendenza si sostanziano solo in un contesto di democrazia politica, economica e sociale. E infatti oggi solo nelle nazioni democratiche, dove vigono la libertà di parola e il pluralismo delle idee, ha ancora un forte significato simbolico celebrare il 1° MAGGIO. La Festa del Lavoro.

Sergio Casprini
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GUERRA E PACE

01/04/2022 da Sergio Casprini

Guernica  Pablo Picasso 1937

Il tragico conflitto in Ucraina, dove al momento le armi della diplomazia sono sopraffatte dall’impiego massiccio di quelle militari da parte dei Russi, aggressori di uno Stato sovrano democratico, ha riproposto alla coscienza degli europei il tema lacerante della guerra, di cui si era ormai persa la memoria dopo i lutti e gli eventi tragici della seconda guerra mondiale
Invero storicamente la continua alternanza di guerra e pace è da sempre la condizione esistenziale delle società umane, nonostante sia solo la pace a permettere la prosperità individuale e collettiva. Pur essendo condizioni eminentemente sociali e politiche, guerra e pace riguardano anche la dimensione antropologica, religiosa e psicologica dell’essere umano: già nel mondo antico, per esempio per il filosofo Platone, era evidente il nesso tra ordine (cioè benessere) dell’anima e ordine della città; così come per lo storico Tucidide, nel racconto della guerra del Peloponneso, era evidente il rapporto tra la dimensione della violenza individuale e le pratiche di guerra, la cui tragica efficacia di fatto nel corso dei secoli è poi progredita di pari passo con lo sviluppo della tecnica.
A partire dal Settecento si svilupparono sempre di più gli scambi commerciali. In Occidente l’interdipendenza economica tra le nazioni favoriva i processi di pace e “ingentiliva i costumi” come scriveva Montesquieu. In un certo senso, per noi il punto di arrivo di questo lungo e tormentato percorso di “ingentilimento”, rafforzatosi in seguito all’estrema distruttività della II Guerra mondiale, è costituito dall’art. 11 della nostra Costituzione, in cui si afferma che L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.
Date però le condizioni storiche delle attuali società umane, divise tra società aperte e società chiuse, una condizione generale e permanente di pace è da considerarsi sempre possibile, oppure l’uso della forza è legittimo per fermare le aggressioni da parte di eserciti che violano la sovranità e l’indipendenza di un paese, come oggi in Ucraina?
Quando è in gioco il destino della patria le armi non possono tacere, come d’altronde stabilisce anche la stessa Costituzione Italiana nell’art. 52, con il quale si dichiara che la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino. E infatti nella storia del nostro Paese questo è successo nei diversi momenti che hanno segnato la conquista della nostra indipendenza e della libertà dal dominio straniero, contribuendo alla costruzione della nostra identità nazionale.

Garibaldi all’assedio di Roma del 1849 Georges Housman Thomas 1854

Basterà citare, tra i molti possibili, la difesa della Repubblica Romana nel 1849, l’orgogliosa riscossa dei nostri fanti dopo Caporetto nel 1917, fino alla Resistenza al nazifascismo nel biennio 1944/45, che si celebra ogni anno il 25 Aprile. I partigiani presero le armi in nome di quei valori di libertà e di democrazia, per i quali avevano combattuto, spesso con sacrificio della loro vita, i patrioti del Risorgimento. E nella celebrazione di quest’anno non potremo quindi non sentirci vicini al popolo ucraino, che combatte contro la potenza militare dell’esercito russo per la libertà e la democrazia del proprio Paese.

In questa guerra, che pure non ci vede coinvolti direttamente né come soldati né come volontari a fianco della resistenza ucraina, non possiamo in nome della pace restare neutrali o equidistanti tra le ragioni dei due belligeranti, ma ricordare sempre la validità ancora attuale delle parole del commissario politico Kim al comandante partigiano nel bel romanzo di Italo Calvino Il sentiero dei nidi di ragno: “C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra. Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pur uguale al loro, va perduto, tutto servirà, se non a liberare noi, a liberare i nostri figli”.

Sergio Casprini

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Difendere la patria degli altri popoli  

01/03/2022 da Sergio Casprini

 

A STANISLAO BECHI FIORENTINO
COLONNELLO FRA I SOLDATI DELLA POLONIA
E PERÒ FUCILATO DAI RUSSI L’ANNO MDCCCLXIII
I POLACCHI RENDONO LACRIME PER SANGUE
E QUI ALL’EROICO DIFENSORE DELLA LORO PATRIA
PONGONO UN SEGNO DI MEMORE AFFETTO
MDCCCLXXXII

 L’epigrafe, dedicata dai polacchi alla memoria di Stanislao Bechi, si trova in una lapide con un rilievo bronzeo dello scultore polacco Lenartowicz nel chiostro trecentesco della basilica di Santa Croce sulla parete esterna dell’antico refettorio.

Stanislao Bechi, cadetto d’artiglieria nell’esercito granducale, con i battaglioni toscani si distinse a Curtatone e Montanara e a Goito (29 e 30 maggio 1848), meritandosi la medaglia d’argento sul campo. Capitano nell’esercito toscano nel 1855, maggiore nel 1859, prese parte alla seconda Guerra d’indipendenza. Successivamente si legò ai garibaldini e ai mazziniani e nel 1863, sospinto dal vasto movimento di pubblica opinione a favore della Polonia insorta contro l’oppressione zarista, decise di dare il suo contributo all’insurrezione polacca. Messosi a disposizione del Comitato nazionale polacco di Parigi, che gli riconobbe il grado di colonnello, giunse a Varsavia alla fine di agosto del 1863. Gli fu assegnato il comando delle truppe agenti nella Masovia, con le quali sostenne combattimenti vittoriosi contro i russi. L’8 dicembre 1863 fu fatto prigioniero. Processato seduta stante da una corte marziale, fu condannato alla fucilazione.

Figura paradigmatica dei patrioti italiani, fossero volontari o inquadrati nell’esercito nazionale, negli anni delle battaglie risorgimentali Stanislao Bechi ha testimoniato con il sacrificio della propria vita l’amor di patria in difesa di ogni popolo oppresso dallo straniero, fossero gli austriaci per l’Italia o i russi per la Polonia. Oggi si combatte in Ucraina nella stessa area geografica dell’Europa dove morì due secoli fa il toscano Bechi. Vladimir Putin, l’autocrate che domina il suo Paese da più di vent’anni, reprimendo ogni forma di dissenso e di opposizione al suo governo, vuole spostare verso ovest i confini del suo sogno imperiale, come ai tempi degli Zar Alessandro III e Pietro il Grande. Il suo obiettivo è fare dell’Ucraina uno stato vassallo, violando la Carta delle Nazioni Unite e facendo carta straccia delle risoluzioni della conferenza di Helsinki del 1975, che garantivano il rispetto dell’indipendenza, della sovranità e dell’integrità territoriale delle nazioni.

Goya I disastri della Guerra Acquaforte 1810

Le lancette della storia sembrano tornare indietro. Fino al secolo scorso l’Europa è stata dilaniata quasi ininterrottamente da guerre in cui i singoli Stati affermavano con la violenza delle armi la loro volontà di dominio e di egemonia su altri popoli. In questa lunga storia di vicende belliche va conservata la memoria di tutti coloro che hanno combattuto per l’indipendenza del loro Paese, come in Italia i mazziniani, i garibaldini e i soldati dell’esercito piemontese e poi di quello italiano. E la figura del Milite Ignoto nella Grande Guerra, come è avvenuto nelle celebrazioni dell’anno scorso, ne è diventato il simbolo, come Stanislao Bechi è uno dei simboli del secolo precedente.

Nel 1795 Immanuel Kant scrisse Per la pace perpetua, un saggio di filosofia politica per un ipotetico trattato di pace, che avrebbe dovuto impedire il verificarsi di qualsiasi conflitto futuro. In Europa questa utopica proposta è sembrata concretizzarsi nel lungo periodo di pace seguito alla seconda guerra mondiale e nel processo di integrazione europea. Ancora oggi, però, questa unione è solo economica, mentre è inesistente militarmente e ancora debole politicamente, oltre che sottoposta continuamente ai costi e ai rischi della finanza globalizzata. Nonostante ciò, l’Unione Europea deve sostenere sia militarmente che economicamente l’Ucraina nella difesa della sua sovranità e deve anche mostrare una capacità più politico-diplomatica che militare nei confronti del cinico e spregiudicato autocrate Putin. Lo scatto di orgoglio, di volontà politica e di spirito unitario, cui sono chiamati oggi i capi di governo delle nazioni europee, è davvero vitale per l’idea stessa di Europa e non solo per il destino dell’Ucraina.

In questa emergenza nazionale e internazionale anche il governo italiano deve fare la sua parte con il consenso del parlamento e della società civile, le cui articolazioni organizzative, dai sindacati, alle associazioni culturali, di volontariato laico e cattolico e a quelle pacifiste stanno scendendo in piazza a sostegno della resistenza dei patrioti ucraini, senza però cadere in un irenismo astratto e ideologico.

Negli anni del Risorgimento i patrioti si sentivano cittadini italiani, oggi i patrioti si devono sentire cittadini europei e ucraini.

Sergio Casprini

Firenze 27 febbraio 2022 Piazza della Signoria Manifestazione per l’Ucraina e per la Pace 

 

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Il Presidente degli italiani

01/02/2022 da Sergio Casprini

 “La Costituzione affida al Capo dello Stato il compito di rappresentare l’unità nazionale. Questo compito – che ho cercato di assolvere con impegno – è stato facilitato dalla coscienza del legame, essenziale in democrazia, che esiste tra istituzioni e società; e che la nostra Costituzione disegna in modo così puntuale… Soprattutto nei momenti di grave difficoltà nazionale emerge l’attitudine del nostro popolo a preservare la coesione del Paese, a sentirsi partecipe del medesimo destino. Unità istituzionale e unità morale sono le due espressioni di quel che ci tiene insieme. Di ciò su cui si fonda la Repubblica”.

Dal discorso di fine anno 2021 di Sergio Mattarella

Nei giorni scorsi abbiamo rischiato di disperdete il pur piccolo capitale di serietà, credibilità, fiducia in sé stessa che l’Italia ha accumulato negli ultimi due terribili anni. E questo perché, nel corso della procedura per eleggere il Presidente della Repubblica, i partiti sono spesso apparsi più preoccupati di promuovere i loro interessi elettorali che l’interesse della Repubblica. E se è vero che la politica, il governo della “polis” è da sempre anche manovra e potere, in occasione delle elezioni del Presidente il collegio dei grandi Elettori ha soprattutto il compito di scegliere chi «rappresenta l’unità nazionale».

Gli ultimi Presidenti della Repubblica hanno svolto questo ruolo nel migliore dei modi, come del resto le altre funzioni previste dall’articolo 87 della Costituzione.

Carlo Azeglio Ciampi ha riconciliato gli italiani con i loro simboli: l’Inno di Mameli, il Tricolore e il Quirinale, che chiamava la “casa di tutti gli italiani”. Nei momenti di disorientamento politico è stato anche il pacificatore che ha spento mille focolai di scontro troppo acceso, l’arbitro dei conflitti insanabili, il predicatore instancabile del dialogo e della concertazione, il saggio che indica i nodi da sciogliere e al tempo stesso istilla fiducia.

Giorgio Napolitano ha proseguito nella ricostruzione di una forte identità nazionale, valorizzando le celebrazioni per i 150 anni dell’Unità nazionale e ribadendo l’importanza e l’attualità dei valori di democrazia e libertà, affermatisi con la lotta e il sacrificio dei patrioti del Risorgimento. E infatti negli anni della sua presidenza la data del 17 marzo è diventata una solennità nazionale la “Giornata dell’Unità nazionale, della Costituzione, dell’inno e della bandiera”, da celebrare soprattutto nelle scuole di ogni ordine e grado.

Sergio Mattarella nel suo settennato in qualità di garante dell’Unità della Patria, soprattutto in questi ultimi anni drammatici della pandemia si è rivolto sia alle istituzioni che ai cittadini italiani confidando nel loro senso di responsabilità rispetto ai sacrifici, alle rinunce e alle restrizioni che riguardavano la vita normale, nella consapevolezza che una piena cittadinanza democratica comporta diritti e doveri nei confronti della comunità in cui si vive, si studia e si lavora. In questo drammatico frangente, si è comportato come un buon pater familias, di una famiglia che è l’intera nazione, a cui ha sempre parlato con accenti fermi, ma anche rassicuranti.

Nelle elezioni di questi giorni si trattava di individuare l’erede non solo di Ciampi, di Napolitano e di Mattarella, ma anche di altri padri della patria repubblicana, da Luigi Einaudi, a Sandro Pertini, tutte figure di indiscusso prestigio e autorevolezza. Non era certo un compito facile per una classe politica, che negli ultimi anni aveva perso credibilità e consenso tra i cittadini italiani; e infatti per l’ennesima volta stava mostrando il solito spettacolo di agguati, sgambetti, tradimenti. Per fortuna del nostro Paese, abbiamo potuto contare come extrema ratio sulla generosità e sul grande senso di responsabilità del Presidente uscente. Di fronte allo stallo degli scrutini elettorali e all’incapacità di trovare un nome di alto profilo istituzionale in grado di raggiungere la maggioranza assoluta, i capigruppo dei partiti al governo e i presidenti delle Regioni hanno chiesto a Mattarella di accettare la rielezione al Colle, nonostante avesse già deciso da tempo di non ripresentarsi.

Subito dopo la sua elezione con un altissimo numero di voti Sergio Mattarella nel suo primo e breve discorso ha detto: I giorni difficili trascorsi per l’elezione alla Presidenza della Repubblica, nel corso della grave emergenza che stiamo tuttora attraversando sul versante sanitario, su quello economico e su quello sociale, richiamano al senso di responsabilità e al rispetto delle decisioni del Parlamento. Queste condizioni impongono di non sottrarsi ai doveri cui si è chiamati, e naturalmente devono prevalere su altre considerazioni e su prospettive personali differenti, con l’impegno di interpretare le attese e le speranze dei nostri concittadini.

 La nobiltà di queste parole confermano che gli Italiani possono contare di nuovo non solo su una figura autorevole super partes in grado di garantire l’unità tutti i cittadini di ogni credo politico e religioso, ma soprattutto in grado di poter perseguire,  in tempi ancora di emergenza economica, sociale e sanitaria, l’opera fondamentale di rafforzamento della coesione istituzionale e morale del Paese, per poter dare alle nuove generazioni un futuro più roseo rispetto alla precarietà e alle difficoltà del presente.

Sergio Casprini

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L’ANNO NUOVO

01/01/2022 da Sergio Casprini

Indovinami, indovino,
tu che leggi nel destino:
l’anno nuovo come sarà?
Bello, brutto o metà e metà?
Trovo stampato nei miei libroni
che avrà di certo quattro stagioni,
dodici mesi, ciascuno al suo posto,
un carnevale e un Ferragosto,
e il giorno dopo il lunedì
sarà sempre un martedì.
Di più per ora scritto non trovo
nel destino dell’anno nuovo:
per il resto anche quest’anno
sarà come gli uomini lo faranno.

L’anno nuovo Gianni Rodari

All’alba del 1922 gli italiani vivevano ancora le conseguenze drammatiche della fine della Grande Guerra sia sul piano politico che sociale.

Eppure eravamo usciti vittoriosi dalla guerra, con Trento e Trieste diventate italiane, ritrovando dopo la disfatta di Caporetto l’orgoglio nazionale e una forte partecipazione ai destini della Patria. E ne fu conferma il grande coinvolgimento di popolo nel novembre del ’21 durante le cerimonie dedicate al Milite ignoto, icona del sacrificio in guerra di tantissimi italiani e pertanto simbolo dell’identità nazionale. La Grande Guerra fu però traumatica in termini di vite umane. Solo in Italia si contarono oltre un milione tra invalidi e morti, a cui va aggiunto tra il 1918 e il 1920 il flagello della Spagnola che fece più di 600.000 vittime nel nostro Paese. 

Al trauma della guerra si aggiunse la situazione di crisi economica che aggravò le condizioni di vita di buona parte della popolazione italiana e alimentò le tensioni sociali e la conflittualità politico-sindacale, mentre soffiava in Europa il vento della rivoluzione bolscevica e in Italia si affermava sempre di più il fascismo, che imponeva con la violenza il suo credo nazionalistico e la sua idea di Patria. E proprio nel 1922 Mussolini conquistava il potere con la marcia su Roma del 28 ottobre, soffocando quella democrazia e quella libertà politica, per cui avevano sacrificato la vita i nostri patrioti risorgimentali.

Cento anni dopo, all’alba del 2022 l’ideologia nazionalista è al governo solo in alcuni paesi europei come Polonia e Ungheria. Ma se il premier polacco Mateusz Morawiecki e il premier ungherese Viktor Orbán sono certo responsabili di aver inferto lesioni allo stato di diritto, non si possono però paragonare a Hitler e al nazismo. Il sovranismo di alcuni partiti italiani negli ultimi anni ha alimentato un atteggiamento di chiusura verso l’unione Europea, ma non ha impedito che il processo d’integrazione europeo procedesse sia pure lentamente: ne fa fede il contrasto alla pandemia del Covid sia sul piano sanitario che economico da parte dell’Unione Europea, iniziativa condivisa da tutte le comunità nazionali. Infatti in Italia si vive oramai in una società aperta, con le sue libertà civili ed economiche, la democrazia liberale, il governo della legge; né si vede all’orizzonte la possibilità di nuove avventure totalitarie di destra o di sinistra. E se pure la pandemia attuale può ricordare quella di cento anni fa del 1918/19, il modo con cui la stiamo affrontando è completamente diverso non solo sul piano scientifico e sanitario, ma anche su quello delle scelte e degli interventi a livello internazionale.

Nonostante i successi nella lotta alla pandemia e il fermento ricostruttivo che pare animare una parte del mondo imprenditoriale (a cui possiamo aggiungere le numerose vittorie sportive), l’anno appena trascorso lascia aperte numerose situazioni critiche che non c’erano un secolo fa, come la questione dell’immigrazione e quella del degrado ambientale; anche queste da affrontare in una comunità d’intenti con le altre nazioni, dato che ormai viviamo in una società irreversibilmente globale.

E allora come sarà l’anno nuovo? Non lo sapremmo certo affidandoci agli astrologi o ai venditori di almanacchi, ma come sempre nella storia “anche quest’anno sarà come gli uomini lo faranno”, soprattutto se saranno responsabili rispetto a sé stessi e alla loro comunità di appartenenza.

Sergio Casprini

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Un buon cittadino deve saper leggere e scrivere  

01/12/2021 da Sergio Casprini

…Pinocchio, con il suo Abbecedario nuovo sotto il braccio prese la strada e strada facendo discorreva tra sé: “Oggi, alla scuola, voglio subito imparare a leggere; domani poi imparerò a scrivere e domani l’altro imparerò a fare di conto…” Collodi, Le Avventure di Pinocchio 

 

Carlo Lorenzini in una caricatura di Angiolo Tricca del 1875

 “A S.E. il Ministro Coppino… È appunto per questi e per molti altri motivi, che sarebbe bene gridare fin d’ora: rispettiamo gli analfabeti! L’analfabeta, con una splendida similitudine, venne paragonato a un candido foglio, vergine e puro da ogni macchia d’inchiostro e da ogni lettera dell’alfabeto: sicché dunque, a conti fatti, l’Italia può vantarsi presentemente di possedere diciassette milioni di fogli candidi come la neve. Signor Ministro! Un po’ di carità per tutte queste risme di carta bianca!” Così scriveva Carlo Lorenzini, detto Collodi, nell’ottobre1877 in una lettera di protesta al ministro della Pubblica Istruzione Michele Coppino, reo di aver promosso la legge, approvata dalla Camera il 15 luglio 1877, con cui l’istruzione elementare diventò obbligatoria e gratuita dai 6 ai 9 anni.

La lettera rivela lo spirito irriverente e goliardico di uno scrittore noto per i suoi trascorsi libertari e bohémien nella Firenze dei Lorena, pur avendo studiato nel prestigioso liceo religioso degli Scolopi insieme a Giosuè Carducci, Diego Martelli e Telemaco Signorini; e che da patriota aveva combattuto a Curtatone e Montanara nel 1848 e poi partecipato alla seconda guerra d’Indipendenza del 1859.

Michele Coppino

Per capire quel momento storico va però ricordata l’urgenza per il giovane stato italiano, formatosi nel 1861, di creare un’identità nazionale tramite una lingua, una cultura, un’educazione per un popolo di ben 17 milioni di analfabeti, come ricordava lo stesso Collodi. La legge Coppino rispondeva a questa esigenza. Si creò, conseguentemente una grande domanda di libri di testo, che gli editori italiani cominciarono a soddisfare. E proprio in quegli anni Collodi, contraddicendo le sue provocatorie affermazioni contro la scolarizzazione di massa, iniziò a dedicarsi alla letteratura per infanzia e in particolare scrisse dei racconti con finalità pedagogiche, creando la figura di Giannettino, che spiegava ai bambini l’Abbaco, la Geografia e nozioni di economia e scienza della nuova Italia. Se negli anni del Risorgimento il laico Lorenzini aveva fatto, sia pure in forma ironica da par suo, sorprendenti affermazioni elitarie sull’alfabetizzazione di massa, era scontato invece che la Chiesa cattolica, che fino ad allora aveva avuto il monopolio dell’istruzione per i più abbienti, facesse inizialmente resistenza alla nascita di una scuola elementare pubblica e gratuita per tutti, dove imparare a leggere, scrivere e far di conto.

Dalla legge Coppino in poi, durante la Monarchia e poi con la Repubblica, si è sviluppato invece un processo virtuoso di riforme scolastiche, che ha promosso l’alfabetizzazione del popolo italiano, portando l’obbligo scolastico progressivamente ai gradi superiori dell’istruzione, di modo che la scuola potesse così garantire la formazione di tutti e la selezione dei migliori nell’ambito di un sistema didattico in cui avessero pari valore le lezioni e le verifiche dell’apprendimento. Questo processo di riforme nel suo cammino ha incontrato resistenze e difficoltà nella sua attuazione, senza però che alcun politico o intellettuale, e tantomeno la Chiesa, ponessero in discussione il valore fondante dell’istruzione pubblica italiana, almeno fino alla riforma della media unica nel 1962.

Con il Sessantotto i giovani contestatori nell’università e nelle medie superiori videro nella scuola, in un’ottica radicale e ideologica, uno strumento di selezione di classe. Furono quindi criticati i canoni tradizionali della cultura e della pratica didattica, anche attraverso l’organizzazione di corsi alternativi e spesso con la promozione generalizzata attraverso i voti “politici”. Anche se poi il movimento di contestazione ebbe termine, nella sua parte più politicizzata rimasero vivi anche negli anni successivi alcuni principi e valori nel campo della didattica, rafforzati dall’arrivo di nuove concezioni pedagogiche nella scuola italiana. Le quali sostenevano (e sostengono) che il compito della scuola non è tanto quello di trasmettere conoscenze o mere nozioni, ma di far sì che gli studenti acquisiscano “competenze trasversali”, utili anche orientarsi nel mondo del lavoro, a scapito degli insegnamenti disciplinari, di cui si riducono ore e contenuti; e soprattutto non devono subire mortificazioni psicologiche con voti negativi e bocciature.

Questo ha comportato che gli studenti conoscano sempre meno la loro lingua madre, che cioè non sappiano più né leggere né scrivere correttamente, al punto che attualmente le università sono costrette a istituire corsi recupero di italiano. Paradossalmente lo conferma il testo zoppicante di una petizione che ha raggiunto le 40.000 firme, in cui “gli studenti maturandi chiedono l’eliminazione delle prove scritte agli esami di maturità del 2022, poiché trovano ingiusto e infruttuoso andare a sostenere degli esami scritti in quanto pleonastici, i professori curricolari nei cinque anni trascorsi, hanno avuto modo di toccare con mano e saggiare le loro capacità”. Se pure si possono capire, dato il clima buonista che vige nella scuola attualmente e la permanenza di residui sessantottini, la protesta e l’irresponsabilità dei giovani firmatari (che per inciso costituiscono una piccola minoranza), non è giustificabile l’indulgenza nei loro confronti da parte dei rappresentanti delle istituzioni scolastiche, in primis il ministro in carica Patrizio Bianchi, immemore dei comportamenti seri e responsabili dei suoi predecessori.

Nicola Coppino, Gaetano De Sanctis, Giovanni Gentile, Aldo Moro, citando alcuni ministri della Pubblica Istruzione in tempi diversi nella storia del Nostro Paese, avevano svolto con spirito di servizio il loro compito di rappresentanti dello Stato, in quanto erano consapevoli che la nazione affida alla scuola il mandato sociale di formare buoni cittadini, dotati di competenze culturali e professionali, che sappiano leggere e scrivere bene, siano rispettosi delle leggi dello Stato e abbiano un forte senso di appartenenza alla comunità nazionale.

 

 

 

 

 

 

 

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4 novembre 2021: 100 anni fa il Milite Ignoto fu tumulato nell’Altare della Patria

01/11/2021 da Sergio Casprini

Il Milite Ignoto passa per Monselice il 30 ottobre 1921

Dopo la Grande Guerra, le Nazioni che vi avevano partecipato scelsero di onorare solennemente un anonimo combattente caduto con le armi in pugno come rappresentante di tutti i soldati che si erano sacrificati per il loro Paese. In Italia l’idea risale al 1920 e fu propugnata da Giulio Douhet, il generale che era stato il teorico della guerra aerea durante il conflitto mondiale. Nel 1921 fu approvato il disegno di legge, che recepiva la proposta di Douhet. Il Ministero della Guerra dette a una commissione l’incarico di esplorare attentamente tutti i luoghi nei quali si era combattuto, dal Carso agli Altipiani, dalle foci del Piave al Montello; e l’opera fu condotta in modo che fra i resti raccolti vi fossero anche quelli di appartenenti ai reparti di sbarco della Marina. Furono scelte 11 salme di Caduti sul Fronte orientale, da Rovereto, a Gorizia fino al mare Adriatico. Il 28 ottobre 1921 furono trasportate nella Basilica di Aquileia e qui si procedette alla scelta della salma destinata a rappresentare il sacrificio di seicentomila italiani.

Domenica del Corriere della Sera 5/12 novembre 1921

La scelta fu fatta da una popolana, Maria Bergamas di Gradisca d’Isonzo, il cui figlio Antonio si era arruolato nelle file italiane sotto falso nome, essendo suddito austro-ungarico, ed era caduto in combattimento nel 1916. La bara prescelta fu collocata sull’affusto di un cannone e, accompagnata da reduci decorati al valore e più volte feriti, fu deposta in un carro ferroviario appositamente progettato. Il viaggio si compì sulla linea Aquileia-Venezia-Bologna-Firenze-Roma a velocità moderatissima in modo che presso ciascuna stazione la popolazione ebbe modo di onorare il caduto ignoto.

La cerimonia ebbe il suo epilogo nella capitale. Tutte le rappresentanze dei combattenti, delle vedove e delle madri dei caduti, con il Re in testa, e le bandiere di tutti i reggimenti mossero incontro al Milite Ignoto, che da un gruppo di decorati di medaglia d’oro fu portato a S. Maria degli Angeli. Il 4 novembre 1921 il Milite Ignoto veniva tumulato nel sacello posto sull’Altare della Patria.

In occasione del centenario della sua collocazione nell’Altare della Patria il Gruppo delle Medaglie d’Oro al valor militare d’Italia, con il sostegno dell’Associazione Nazionale Comuni Italiani, ha promosso un’iniziativa commemorativa denominata Milite Ignoto, Cittadino d’Italia e invitato tutti i Comuni d’Italia a conferire la cittadinanza onoraria al Milite Ignoto e/o a intitolare allo stesso piazze, vie o altri luoghi pubblici, in modo che ogni luogo d’Italia si assumesse la “paternità” di quel Caduto.

Ad oggi sono stati oltre 3000 i Comuni italiani che hanno deciso di concedere la cittadinanza onoraria al Milite Ignoto. Tra questi 16 capoluoghi di regione su 20 e circa i due terzi dei capoluoghi di provincia. Lunedì 18 ottobre anche Firenze ha accolto tra i suoi cittadini onorari il Milite Ignoto. La cerimonia di conferimento della cittadinanza onoraria, davanti alle massime autorità cittadine, si è svolta nel Salone dei Cinquecento a Palazzo Vecchio, dove per l’occasione si era riunito il Consiglio Comunale presieduto da Luca Milani, presenti la vicesindaco Alessia Bettini insieme ad alcuni membri della Giunta. 

Il generale Aiosa, presidente del “Gruppo delle Medaglie d’Oro al valor militare d’Italia” nel suo intervento ha indicato giustamente nella figura del Milite ignoto un simbolo dell’identità nazionale al pari del Tricolore e dell’Inno di Mameli. Attraverso di lui il pensiero va agli altri 600.000 caduti italiani in una guerra atroce e tragica, che aveva però concluso il processo risorgimentale dell’Unità e Indipendenza italiana con la conquista di Trento e Trieste.

Accenti diversi sono risuonati invece nelle parole di altri rappresentanti istituzionali; la figura del Milite Ignoto di combattente per la Patria è stata sminuita, diventando il simbolo del «cittadino ignoto», che opera silenziosamente nel quotidiano per il benessere della collettività, in ossequio forse al mainstream pacifista dei nostri tempi, tra l’altro con un giudizio astorico e moralistico della Grande Guerra come un inutile massacro (La Grande carneficina. Firenze dopo la Prima Guerra Mondiale tra lutti, dolori e speranze era il titolo del convegno per il centenario del Milite ignoto sempre a Firenze due giorni dopo)

Per celebrare oggi questo centenario basterebbe ricordare l’epitaffio scritto per lui nel 1921 alla base del Sacello all’Altare della Patria, pur sfrondandolo dei toni retorici del linguaggio dell’epoca: Degno figlio di una stirpe prode e di una millenaria civiltà, resistette inflessibile nelle trincee più contese, prodigò il suo coraggio nelle più cruente battaglie e cadde combattendo senz’altro premio sperare che la vittoria e la grandezza della Patria. 

Sergio Casprini

Sacello del Milite Ignoto Altare della Patria Roma

 

 

 

 

 

 

 

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I successi dell’Italia nello sport e l’identità nazionale

01/10/2021 da Sergio Casprini

“La nostra proposta è quella di anticipare l’iter burocratico per lo jus soli sportivo, che ad oggi è infernale, un girone dantesco” (Giovanni Malagò Presidente del CONI. Conferenza stampa di chiusura delle Olimpiadi di Tokyo)

L’estate 2021 passerà alla storia come una stagione colorata d’azzurro e avvolta nel tricolore. Come il re Mida abbiamo fatto diventare oro tutto ciò che abbiamo toccato nello sport, creando un’aura di magia attorno al nome Italia.

Gli ultimi successi sono stati quelli delle nazionali maschile e femminile di pallavolo agli Europei e di Filippo Ganna nella cronometro ai Mondiali di ciclismo su strada. Aveva cominciato la nazionale di calcio di Mancini l’11 luglio con la vittoria agli Europei nella finale con l’Inghilterra nello stadio londinese di Wembley. Poi le quaranta medaglie, tra cui 10 ori, della spedizione azzurra alle Olimpiadi di Tokyo, ricordando in particolare quella domenica 1° agosto che gli dei dell’atletica hanno voluto tingere d’azzurro con Tamberi, nel salto in alto, e Jacobs, nei 100 metri, medaglie d’oro nello spazio di dieci minuti. Le Paraolimpiadi infine hanno concluso felicemente questa stagione dello sport italiano con ben 69 medaglie, tra cui 14 ori: la pista e la piscina si sono tinte d’azzurro e l’inno di Mameli non ha mai smesso di suonare.

L’importanza per l’Italia di questa serie di vittorie è stata riconosciuta al più alto livello possibile, ovvero dal Presidente della Repubblica e dal Presidente del Consiglio, che ne hanno ricevuto i protagonisti. Le loro imprese, hanno sottolineato Mattarella e Draghi, hanno contribuito a rafforzare nel paese il senso dell’appartenenza alla comunità nazionale e all’estero il suo prestigio. Ne ha risentito positivamente anche il morale complessivo delle nazione, provato dalla pandemia e più abituato all’autoflagellazione che al riconoscimento dei propri meriti. Nei discorsi dei due presidenti, infine, non è mai mancato il riferimento all’impegno costante e alla capacità di sacrificio in vista di uno scopo, che sono la condizione indispensabile per il conseguimento dei successi sportivi. E che purtroppo scarseggiano nell’educazione familiare e nel discorso pubblico sulla scuola.

I successi italiani nei giochi olimpici hanno anche sollevato il tema dello ius soli sportivo, che il presidente del Coni Giovanni Malagò è tornato a chiedere durante la conferenza stampa di bilancio sull’impresa del team olimpionico italiano: “È un’Italia multietnica e super integrata. Abbiamo portato per la prima volta atleti provenienti da tutte le regioni e province autonome d’Italia e atleti nati in tutti e cinque i continenti…”

In effetti vige ancora la legge del 20 gennaio 2016. Questa riconosce il principio dello Jus soli sportivo, il quale permette ai minori stranieri di essere tesserati dalle federazioni sportive italiane; permettendogli di fare sport ma non di essere inseriti nelle selezioni nazionali, per le quali, ancora oggi, è necessario avere la cittadinanza italiana. È giusto però che si ottenga la cittadinanza italiana solo per meriti sportivi? È giusto che tutti gli altri minori siano esclusi? È dignitoso che un Paese che si ritiene civile sia ancora qui a chiederselo? Il tema resta legato alla questione annosa della proposta di legge dello Jus culturae, detto anche “temperato”, che prevede alcuni requisiti sociali e culturali, proposta arenatasi al Senato nel dicembre del 2017.

Se la politica non è riuscita fino a ora a dare risposte, forse dallo lo sport potrebbe nascere l’accelerazione decisiva, un po’ come quella dell’italiano Jacobs nella finale olimpica dei 100 metri piani.

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E A SETTEMBRE TORNA A SUONARE LA CAMPANELLA DELLA SCUOLA

01/09/2021 da Sergio Casprini

Suona la campanella;
scopa, scopa la bidella;
viene il bidello ad aprire il portone;
viene il maestro dalla stazione;
viene la mamma, o scolaretto,
a tirarti giù dal letto…

Viene il sole nella stanza:
su, è finita la vacanza.
Metti la penna nell’astuccio,
l’assorbente nel quadernuccio,
fa la punta alla matita
e corri a scrivere la tua vita.

Scrivi bene, senza fretta
ogni giorno una paginetta.
Scrivi parole diritte e chiare:
Amore, lottare, lavorare
.

Gianni Rodari, Il primo giorno di scuola

 

Tra le priorità programmatiche del governo Draghi c’era l’esigenza di tornare prima possibile alla normalità nella scuola: in termini di orari, di programmi, di esami, ma soprattutto di presenza di allievi e docenti in carne e ossa nelle classi, visti i pessimi risultati della didattica a distanza, confermati tra l’altro dai recenti dati dell’Invalsi.

Sarà possibile iniziare un regolare anno scolastico come negli anni pre-Covid, grazie a un alto numero di vaccinati tra i docenti, l’introduzione del Green Pass, le fasce d’ingresso diversificate e le mascherine per gli allievi. Resta il problema della sicurezza dei trasporti pubblici per gli studenti pendolari e della presenza ancora in alcune regioni di scuole con classi numerose.

Il dibattito e le polemiche degli ultimi mesi sul rientro in sicurezza nelle aule e sul ritorno alla normalità delle scuole hanno però nascosto i problemi che da lungo tempo caratterizzano l’istruzione in Italia. La scarsa preparazione dei nostri giovani non è dovuta solo a questi due anni di lockdown e di didattica a distanza. Nasce molto prima, da quando i fondamenti del fare scuola sono venuti meno, a partire dagli anni ’60, con il proposito delle classi dirigenti di allora, in sé corretto, di cancellare le chiusure e i privilegi classisti di cui era imbevuto l’ordinamento scolastico tradizionale. Ideologicamente, però, si è pensato che il classismo della scuola consistesse essenzialmente nei suoi contenuti e nei relativi modi di insegnamento e di apprendimento. Cioè nella cosiddetta cultura «borghese» e nel «nozionismo»; e dunque che, modificati o aboliti l’una e l’altro, cancellati il latino, il riassunto e le poesie «a memoria», sarebbe stata possibile un’istruzione finalmente per tutti. Da qui progressivamente sono stati intaccati i contenuti epistemologici di ogni disciplina, anche per la ricerca di una trasversalità tra i diversi insegnamenti, al punto che alcune materie come l’italiano e la storia, fondamentali per la formazione di una cittadinanza consapevole e della coscienza nazionale, rischiano di non essere più patrimonio comune del nostro Paese.

Inoltre, il tentativo dei politici e dei pedagogisti di quegli anni di rinnovare il tradizionale modello di istruzione con il fine democratico di annullare gli svantaggi di partenza di molti allievi ha portato di fatto a una scuola programmaticamente, ma anche illusoriamente, «inclusiva» con la proclamazione del “diritto al successo formativo”. Con l’inevitabile conseguenza di addossare alla sola scuola il conseguimento di questo successo e di far sparire il tema della volontà e dell’impegno da parte degli allievi. Si è proceduto inoltre a un graduale appiattimento dei corsi di studi, invece di dare il giusto valore alla diversità e alla ricchezza dei diversi percorsi scolastici, tanto che si è potuto imputare alla classe politica la “licealizzazione” degli istituti tecnici e professionali. Ancora nella linea di un’illusoria “inclusione”, si è soprattutto delegittimata qualsiasi forma di selezione insieme ai suoi strumenti di valutazione del merito, al contrario di quanto chiede l’art. 34 della nostra Costituzione (I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.)

Infine le istituzioni scolastiche, con la loro politica permissiva, hanno pervicacemente cercato il consenso dei genitori e degli studenti, dando molto più peso ai loro diritti che alle loro responsabilità, non imponendo le giuste regole dello stare a scuola e pregiudicando l’autorevolezza del corpo insegnante nello svolgimento del suo compito.

1866 Illustrazione dal libro Cuore

Nel lungo processo storico della formazione dello Stato italiano la classe politica risorgimentale e gli uomini di cultura, che fossero o no ministri della Pubblica Istruzione, da De Sanctis a Villari, da Croce a Gentile, da Salvemini a Gobetti hanno visto la scuola non in maniera ideologica o come terreno di avventurose sperimentazioni pedagogistiche, ma come spazio reale di emancipazione culturale e democratica e di formazione di un’autentica coscienza nazionale.

La scuola deve giustamente stare al passo con i tempi e accettare le sfide della modernità, senza però perdere il rigore culturale e i veri fini educativi insiti nel suo Dna, altrimenti si accentuerà ancora lo smarrimento delle nuove generazioni, già provate da due anni di pandemia e di confinamenti, con il rischio che i continui richiami di Draghi e di Mattarella alle responsabilità e ai doveri civici dei cittadini cadano nel vuoto soprattutto per chi è più fragile per età e per formazione.

Sergio Casprini

 

 

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La Nazione e la salute dei suoi cittadini

01/08/2021 da Sergio Casprini

Da quando il presidente francese Macron ha annunciato l’obbligatorietà, a partire da agosto, del cosiddetto “Green pass” per accedere ai luoghi pubblici e per usufruire dei trasporti a lunga distanza, è nato un dibattito sulla possibilità, ma anche sulla legittimità, di replicare in Italia questo modello.

C’è tra le altre l’esigenza di garantire la didattica in presenza a tutti gli studenti, in particolare nelle scuole superiori, fin dall’inizio del prossimo anno scolastico, per evitare il ricorso alla didattica a distanza, di cui l’Invalsi ha di recente evidenziato i danni all’apprendimento. Il governo sembra orientato a stabilire l’obbligo vaccinale almeno per tutto il personale scolastico, come molti ritengono necessario, e questo ha reso particolarmente aspra la discussione pubblica.

Ne è nato infatti uno scontro tra due posizioni radicalmente diverse: da una parte chi si dice contrario al Green Pass in nome della libertà individuale; dall’altra i favorevoli, che si appellano per lo più all’interesse della collettività. Va pur aggiunto che le ragioni di chi si oppone alle scelte del governo sono sostenute in modo fazioso e spesso in malafede. Si denuncia una dittatura sanitaria in un paese democratico come l’Italia, si fanno accostamenti vergognosi con l’Olocausto, in nome della libertà si sfida il contagio, negando le regole della convivenza civile e dimenticando i 128.000 morti dall’inizio della pandemia e quelli che potrebbero essere causati dalla mancanza di responsabilità.

I nostri connazionali “No Vax”, che sventolano in piazza il tricolore, non ricordano che l’articolo 32 della Costituzione stabilisce che “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge.” Quindi non vieta affatto la possibilità che tutti i cittadini, o particolari categorie di cittadini, possano essere sottoposte per legge all’obbligo di vaccinarsi nell’attuale situazione di emergenza sanitaria. Questo principio costituzionale, tra l’altro, ha avuto attuazione con la Legge 23 dicembre 1978, n. 833, con la quale è stato istituito il Servizio sanitario nazionale; con essa viene appunto sancito il concetto di salute inteso come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività.

Anche negli anni della nascita della Nazione si pose con urgenza la questione della salute e dell’igiene pubblica. Infatti, all’indomani della proclamazione dell’Unità d’Italia, il Regno si presentava come un paese povero, dove le condizioni di vita della popolazione erano in media fortemente arretrate. Nel 1863, anno in cui vennero rilevati i primi dati sulla speranza di vita della popolazione, morivano entro il primo anno 232 bambini nati vivi su 1000. Le abitazioni malsane, la mancanza di acqua potabile e la scarsa igiene portavano alla diffusione di molte malattie contagiose come il colera, il tifo, il vaiolo e la difterite, oltre alla tubercolosi, detta “il male del secolo” e la sifilide, diffusa soprattutto fra i militari. Ancora nel 1887, a quasi vent’anni dalla breccia di Porta Pia, uno dei problemi che affliggeva maggiormente il Paese era quello sanitario.

1890 Ritratto di Francesco Crispi

Alla morte nel 1887 di Agostino Depretis, Presidente del Consiglio, gli successe Francesco Crispi. Appena salito al potere, decise di affrontare il drammatico problema sanitario del Paese e istituì al Ministero dell’Interno la Direzione di sanità pubblica, coinvolgendo per la prima volta i medici nel processo decisionale. Affidò l’incarico della stesura di una nuova legislazione all’epidemiologo Luigi Pagliani, illustre docente universitario torinese, titolare della prima cattedra italiana di Igiene e uno dei padri fondatori della Sanità pubblica in Italia. Il 22 dicembre 1888 fu promulgata la legge “Sulla tutela dell’igiene e della sanità pubblica”, la prima grande riforma sanitaria italiana. La legge, detta anche “Legge Crispi – Pagliani”, trasformò l’approccio di polizia sanitaria in sanità pubblica. Teneva infatti conto dell’insieme delle condizioni geo-fisiche, demografiche e urbanistiche del Paese e prevedeva assistenza farmaceutica, medica, ostetrica e profilassi delle malattie sociali.

La riforma prevedeva un’organizzazione sanitaria di tipo piramidale che garantisse tra vertice e base un continuo flusso bidirezionale di informazioni. Dalla base provenivano notizie aggiornate sullo stato di salute del Paese: presenza di focolai epidemici, mortalità nei luoghi di lavoro, malattie da carenze alimentari; dal vertice le direttive del mondo accademico e della ricerca scientifica. Il mondo accademico non era più isolato nelle aule universitarie e nei laboratori e la classe medica era obbligata ad aggiornarsi scientificamente, conferendo al Paese una moderna coscienza sanitaria. La legge ebbe allora anche il plauso di Benedetto Croce: “La vigilanza igienica in Italia fece molti passi innanzi, concorrendo alla sparizione o attenuazione delle epidemie e degli altri morbi e dell’abbassamento della mortalità”. Fu quindi, quel periodo riformatore che pose le basi dell’odierna assistenza sanitaria, fortemente ispirato alla preoccupazione per il bene comune e per il sostegno ai meno fortunati.

Certamente tra i valori costitutivi del movimento risorgimentale italiano fu centrale il richiamo alla Libertà, per la quale sono morti tanti patrioti, dalle prime battaglie per l’Indipendenza del nostro Paese fino alla Resistenza. Una libertà, però, intesa come partecipazione a un comune destino e come adesione a un contratto sociale che includa la solidarietà reciproca tra i cittadini. Quindi, nello stato di necessità a cui il Covid-19 ci ha costretti in questi ultimi tragici anni, il senso della libertà individuale dovrebbe misurarsi sempre con una dimensione collettiva, per rafforzare ancor di più i valori e le regole della convivenza civile e il senso di appartenenza alla comunità nazionale.

In questo spirito patriottico giustamente il presidente Mattarella, garante dell’Unità nazionale, alla recente cerimonia del Ventaglio ha ammonito gli italiani, affermando che il virus limita la libertà di tutti e che vaccinarsi è un dovere morale e civico.

Sergio Casprini

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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