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Risorgimento Firenze

Il sito del Comitato Fiorentino per il Risorgimento.

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Turismo

Il divenire di Firenze tra passato, presente e futuro

01/03/2019 da Sergio Casprini

Al Museum of Modern Art di New York si trova una tela dipinta dal futurista Umberto Boccioni nel 1910 dal titolo La città che sale, con la visione di palazzi in costruzione,  ciminiere e impalcature nella periferia di Milano. Il centro del quadro è occupato da uomini e da cavalli, fusi insieme in un esasperato sforzo dinamico. In questa metafora visiva Boccioni mette in risalto alcuni tra gli elementi più tipici del futurismo, quali l’esaltazione del lavoro dell’uomo, artefice di un nuovo mondo, e il valore della crescita culturale e sociale della città moderna in ragione del progresso tecnico e industriale

Nel contesto trasgressivo delle avanguardie artistiche dell’inizio del Novecento i futuristi italiani in particolare si distinsero nel provocare l’opinione pubblica inneggiando ai miti della velocità e del dinamismo nella moderna società industriale e nel fare tabula rasa del culto della tradizione artistico-culturale e della conservazione delle tracce del passato.

Il 12 dicembre 1913 al teatro Verdi di Firenze gli esponenti del movimento futurista presentarono la loro visione politica e artistica con performance teatrali e letture poetiche. Tra gli interventi fece soprattutto clamore  fra il numeroso pubblico quello del fiorentino Giovanni Papini, che lesse il suo manifesto dal titolo Contro Firenze passatista. Definì la città “una delle tombe più verminose dell’arte” e invitò i fiorentini a non trasformare la città in un grande museo per i turisti, a vivere nel presente e nel futuro, a ingrandire le stradine strette e a buttare passatisti e dantisti nell’Arno, per creare, finalmente, una città moderna ed europea al posto della Firenze museale e medievale. Papini scatenò una tempesta d’indignazione, perché il pubblico reagì con furia a quest’offesa da parte di un fiorentino alla propria città natale: urlò e fischiò, soffiò il fischietto e il corno, strepitò con sonagli e volarono verso il palcoscenico pomodori, frutta e verdura.

Papini nella sua foga dissacratoria aveva però dimenticato che anni prima a Firenze aveva operato un architetto come Giuseppe Poggi, che negli anni di Firenze Capitale aveva progettato una città moderna ed europea, con la creazione di infrastrutture che aprivano Firenze all’esterno e all’interno verso il fiume, come i viali di circonvallazione e i lungarni, aree di verde pubblico, piazze ampie e larghe vie, moderni fabbricati residenziali, anche per risolvere questioni di ordine igienico date le condizioni di degrado sociale dell’intero centro storico.

Il piano urbanistico del Poggi fu realizzato solo parzialmente, perché con il trasferimento della capitale a Roma il Comune di Firenze fece fallimento e il progetto si arenò.  Il piano era stato osteggiato da intellettuali, artisti, esponenti di spicco della società civile, romanticamente ancorati alla salvaguardia di tutte le vestigia della Firenze rinascimentale e medievale, nonostante che l’architetto fosse un serio professionista e non una testa calda come i futuristi.

Anche oggi nella Firenze che sale esiste  una contrapposizione analoga a quella tra futuristi e passatisti sul senso della crescita – se felice o infelice – della città dei Medici.  Ci si interroga e si dissente sulle nuove infrastrutture come la tramvia, sulla destinazione di edifici storici dismessi, sul rapporto tra centro storico e periferie, sulla ridefinizione di una moderna forma urbis. Ma sembrano tornati anche i tempi del Poggi e di Firenze Capitale, visto che ieri come oggi ci si lamenta della speculazione immobiliare, dello spreco di denaro pubblico, della lentezza con cui si realizzano le opere, spesso con le parole d’ordine della lotta alla corruzione e della difesa, senza se e senza ma, della città culla del Rinascimento.

Eppure i Medici avevano un motto in latino, Festìna lente, allegorizzato con l’immagine di una tartaruga sospinta da una vela, con il quale invitavano se stessi e la classe dirigente di allora a operare fattivamente anche se con giudizio e accortezza nelle scelte di gestione della città e del Granducato. A maggior ragione in tempi di democrazia i fiorentini, cittadini e non più sudditi, possono invitare i loro amministratori a pianificare il futuro della città senza farsi sedurre da furori futuristici, ma anche senza consegnare una Firenze museificata al turismo di massa.

 

 

 

 

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Welcome to Florenceland

01/12/2018 da Sergio Casprini

Nel maggio del 2017 fu approvato dal Comune di Firenze un NUOVO REGOLAMENTO di MISURE PER LA TUTELA DEL CENTRO STORICO, patrimonio mondiale UNESCO; un Regolamento, che aveva come finalità generali quella di… “perseguire la tutela del Centro Storico Patrimonio Mondiale UNESCO di Firenze, area di particolare pregio ed interesse storico, artistico, architettonico e ambientale della città, attraverso una generale lotta al degrado contro quegli elementi e quei comportamenti che portano alla lesione di interessi generali, quali la salute pubblica, la civile convivenza, il decoro urbano, il paesaggio urbano storico, l’identità culturale e storico-architettonica del centro della città, anche in coerenza con i programmi di viabilità urbana, con le limitazioni o interdizioni del traffico veicolare e la prevenzione dell’inquinamento sia atmosferico che acustico”.

Da allora per rispondere alle finalità di questo regolamento e alle esigenze dei fiorentini di risiedere in una città con meno degrado, più decoro e migliore qualità della vita, l’amministrazione di Firenze ha fatto delle delibere attuative, soprattutto per regolare e razionalizzare il turismo di massa che negli ultimi anni ha invaso il centro storico,  occupato quotidianamente da torme di visitatori e gremito di servizi commerciali a fini turistici, con il conseguente deterioramento ambientale e la crescita dell’inquinamento acustico. Qualche numero di questa invasione: nel 2017 il territorio metropolitano è stato caratterizzato da una crescita sia degli arrivi (+ 295 mila unità, pari a + 5,9%) sia delle presenze (+ 804 mila pernottamenti pari a +5,7%,  per un totale di 15 milioni!), grazie agli arrivi di tantissimi turisti stranieri, ma anche di molti italiani. (Dati delle rilevazioni ufficiali del Servizio Statistica dell’Ufficio Attività Produttive e Turismo della Città Metropolitana di Firenze ed elaborati dal Centro Studi Turistici di Firenze)

Per cercare di far fronte a questa situazione, un recente Consiglio comunale ha deliberato lo stop ai ‘bagarini’ davanti ai musei, la limitazione della circolazione dei risciò solo in alcune zone del centro e una nuova stretta contro i ‘furbetti’ del trasferimento e dell’ampliamento delle attività alimentari in area Unesco; infine limiti alla circolazione dei cosiddetti ‘bussoni’ turistici nelle aree di particolare sensibilità del centro storico.

Per alleggerire poi la pressione turistica, di concerto con i comuni della Città Metropolitana, con la Regione Toscana e coordinandosi anche con le città italiane ed europee a maggiore vocazione turistica, il Comune sta ipotizzando un intervento di governo e di orientamento dei flussi turistici, offrendo al visitatore che arriva a Firenze valide alternative alle “icone” di Botticelli e di Leonardo agli Uffizi e di Michelangelo alle Gallerie dell’Accademia. Anche le associazioni degli albergatori e le agenzie del marketing culturale chiedono alle istituzioni cittadine di governare il mercato del turismo di massa utilizzando maggiormente gli strumenti digitali per orientare i flussi dell’overtourism.

Pur apprezzando l’impegno del Comune nel cercare soluzioni possibili per un fenomeno, quello del turismo selvaggio, sempre più drammatico, negli amministratori fiorentini non sembra esserci la consapevolezza che, dati i numeri sempre crescenti, bisogna ormai decidersi a ridurre gli accessi turistici nel centro storico, pena il suo degrado irreversibile. Non si tratta certo di rialzare le mura medievali che l’architetto Poggi negli anni di Firenze Capitale buttò giù in nome del decoro urbano e di moderne infrastrutture, degne appunto di un città che doveva confrontarsi con le altre cosmopolitiche capitali europee; né tantomeno proporre balzelli onerosi a chi entra in città.

Si dovrebbe invece individuare una strategia per ridurre il numero di ingressi quotidiani agli Uffizi e all’Accademia, cioè i musei di maggior richiamo per i visitatori sia italiani che stranieri, per esempio (d’accordo col Ministero dei Beni culturali che li gestisce) tramite prenotazioni obbligatorie , con periodiche aperture riservate ai residenti della Città metropolitana e ai giovani italiani e stranieri, a prezzi ovviamente ridotti.  Solo così avremmo un orientamento virtuoso dei flussi turistici e di fatto una minore pressione sul centro storico.

Ma allora il turismo come risorsa economica, come occasione di reddito e di occupazione? E l’immagine di Firenze con il suo valore umanistico di bellezza universale, di una città che non può anacronisticamente chiudersi in se stessa quando oggi ormai viviamo in una società aperta e globale? Queste e altre ancora sarebbero le obiezioni che sicuramente verrebbero fatte a chi propone una politica di contenimento del turismo di massa per la salvaguardia della identità urbana, della memoria storica di una città come Firenze. Non si tratta però di mettere in discussione il valore del turismo, ma solo di regolarlo in modo più razionale. Altrimenti l’unica seria alternativa a questa situazione di implosione del centro storico sarebbe quella di decidere che i fiorentini risiedono altrove, al di là delle mura e dei viali di circonvallazione, riservando ai soli turisti il Centro Storico Patrimonio Mondiale UNESCO, facendolo così diventare definitivamente un nonluogo, secondo la felice definizione del sociologo francese Marc Augé, come gli aeroporti e i grandi centri commerciali, dove la gente transita, consuma, ma non ci vive.

E nei fine settimana anche i fiorentini residenti in periferia potrebbero andare a visitare Florenceland e a fare shopping, come fanno le famiglie parigine che in mezz’ora vanno a Disneyland Paris.

Sergio Casprini

 

 

 

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Gli stabilimenti Balneari Pancaldi di Livorno

28/08/2018 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

La storia dei Pancaldi Acquaviva come unico stabilimento balneare risale al 1924, anno in cui le due strutture, in origine separate da un canale, furono riunite, per mezzo del grande arenile, in un solo complesso che l’Indicatore Tascabile del 1925 ricorda come Lo stabilimento più grandioso del mondo.

I primi bagni a sorgere tra il Largo Bellavista e l’Ardenza furono gli Acquaviva, così denominati per la bellezza e la purezza dell’acqua che lambiva questo tratto di scogliera da dove scaturivano sorgenti naturali, note come Fonti dello Scalo. Ricordati come i primi bagni in muratura sorti in Italia, gli Acquaviva vennero edificati nel 1840 da Giuseppe Santi Palmieri che dotò il suo stabilimento delle migliori comodità costruendovi una famosa Rotonda per la libera e utile respirazione dell’aria marina, poi resa celebre da un noto dipinto di Giovanni Fattori e da una breve, ma intensa espressione del Carducci “Qui è un gran bello stare, con la quale il poeta volle esaltare la bellezza e la serenità di questo luogo”.

Frequentato da un turismo colto e d’élite, nei primi anni del nostro secolo, lo stabilimento è anche ricordato come un luogo ove si mangia e si beve con una spesa addirittura giustificata, e una orchestrina Strauss composta da eccellenti professori che ogni sera ha un nuovo genialissimo e artistico programma per divertire un bel numero di belle ed eleganti signore e signorine e di signori che vi si recano ogni sera.

Nel 1846, poco distanti dagli Acquaviva, sorsero i Bagni Pancaldi, edificati da Vincenzo Pancaldi sulla punta estrema della antica Cala, dei Cavalleggeri, dove il Granduca Leopoldo II di Lorena, detto Canapone per la sua barba bionda, si era fatto costruire un baldacchino in ferro per le bagnature estive.

Nel 1870 i Pancaldi ottennero il titolo di Bagni Regi per le frequenti visite del Principe Amedeo di Savoia e della consorte Maria Vittoria, divenendo un ambiente esclusivo e raffinato, descritto dalle riviste estive dell’epoca come stabilimento balneare di prim’ordine impiantato con criteri di modernità e d’igiene e corrispondente a tutte le esigenze della comodità e del conforto.

All’interno dei Pancaldi, la clientela poteva infatti usufruire di ben aereati ed eleganti camerini da bagno, bagni idroterapici e bagni caldi di mare, oltre la grandissima sala di pattinaggio, elegante e decorosa, una magnifica e luminosa sala di lettura e di ballo, nonché di servizio inappuntabile di caffè, di birreria, gelateria e pasticceria.

Sin dall’Ottocento i Pancaldi si distinguevano nella programmazione di spettacoli musicali e teatrali allestiti nel famoso Caffè Concerto Olympia, interno al bagno, e ricordato come aristocratico ritrovo veramente parigino per l’eleganza dello spettacolo e per la qualità del pubblico era convegno gradito di tutta la colonia balneare e dell’alta società livornese. Per il suo aspetto elegante e signorile e per i servizi esclusivi che venivano offerti, lo stabilimento era frequentato da un turismo aristocratico e da esponenti in vista della politica e delle cultura come Pietro Coccoluto Ferrigni, meglio noto come Yorick, il Carducci, il Pascoli, il Mascagni ed altre personalità del tempo.

In seguito ai bombardamenti della Guerra lo stabilimento fu in parte ricostruito con opere in muratura, come la passerella in cemento, realizzata sull’antico arenile che in origine univa i due bagni. Attualmente i Pancaldi Acquaviva si aprono con due ingressi distinti lungo il Viale Italia tra la Terrazza Mascagni e la Chiesa di San Jacopo, poco lontano dall’Accademia Navale. In seguito all’unione due stabilimenti, il complesso presenta un’architettura ampia e spaziosa che si articola intorno antichi fabbricati principali, ora collegati da una lunga fila di cabine in tela colorate che costeggiano la Passeggiata Lungomare.

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Il Ponte di Santa Trinita a Firenze

11/06/2018 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Il ponte sorge tra Ponte Vecchio e Ponte alla Carraia; prende il nome dalla vicina chiesa della Santa Trinità ed è uno dei ponti più belli di tutta Italia e fra i più eleganti d’Europa.

Costruito nel 1252, con il patrocinio della famiglia Frescobaldi, unisce Piazza Santa Trinita a Piazza de’ Frescobaldi, con due importanti palazzi a testa del ponte: il Palazzo Spini Feroni a nord e il Palazzo della Missione a sud.

Il palazzo dei Frescobaldi conserva ancora la struttura medievale, e la vicina piazza intitolata sempre a questa famiglia perché furono loro che nel 1252 fecero edificare il primo attraversamento dell’Arno che poi divenne, in seguito alle ricostruzioni, Ponte Santa Trinita. Era un ponte di legno che univa Via Tornabuoni con l’altra riva dell’Arno.

Crolla nel 1259 sotto il peso della folla che assisteva ad uno spettacolo sull’Arno, e a rimetterlo in piedi saranno i monaci architetti Giovanni e Ristoro.

Venne riedificato in pietra, ma cedette sotto la spinta della grande piena del 1333 che risparmiò solo Ponte alle Grazie. La successiva riedificazione fu lenta e durò un cinquantennio iniziò soltanto nel 1346 e, data la scarsa importanza del ponte, fu completata nel 1415.

Una nuova alluvione, nel 1557, spazzò via il ponte, che però permise la costruzione della struttura odierna. Cosimo I de’ Medici incaricò Bartolomeo Ammannati di realizzare un nuovo ponte, più resistente e più bello, che fosse all’altezza dell’importanza di Via Tornabuoni e di Via Maggio, dove si erano stabilite molte famiglie nobili della corte medicea. La progettazione durò ben 10 anni, sembra con l’aiuto di Michelangelo nel disegno, il quale suggerì la moderna linea ellittica delle tre arcate, che pare si rifacesse ai suoi studi messi in pratica nelle tombe delle Cappelle Medicee e nella scalinata del vestibolo della Biblioteca Medicea Laurenziana.

Questa linea curva è un’innovazione che anticipa la moda del barocco ed ha anche un’importante risvolto tecnico, perché ha una resistenza statica chiamata anche dell’arco di catenaria, la versione capovolta cioè della figura che disegna una pesante catena sospesa per i suoi capi a due punti.

I lavori iniziarono nel 1567. Dopo tre anni il ponte era completato, e colpì immediatamente per la sua eleganza e per il nuovo disegno delle arcate.

Oltre che grazie a questa linea d’archi, il ponte deve la sua eleganza anche agli acuti piloni di sostegno, che evitano il rimanere di tronchi impigliati durante le piene, ai cartigli bianchi sugli archi ed alle quattro statue allegoriche che ne decorano gli angoli e che raffigurano le quattro stagioni: collocate nel 1608, due sono opera dello scultore seicentesco Pietro Francavilla (Primavera e Inverno) e due di Giovanni Caccini (Estate e Autunno); celebravano le nozze di Cosimo II con Maddalena d’Austria.

Fino ai primi decenni del Novecento, l’11 novembre, per la festività di  San Martino, sul ponte e sulla parte iniziale dell’attigua Via Maggio si svolgeva la caratteristica fiera dei “trabiccoli“, le cupole fatte di assicelle di legno usate per scaldare o asciugare panni o lenzuola con uno scaldino. La “fierucola di San Martino”, animata dai richiami dei venditori, era fatta di piccolo commercio e artigianato povero.

Il ponte insieme agli altri salvo Ponte Vecchio fu distrutto dai tedeschi in ritirata il 4 agosto del 1944. Di fronte alle macerie della guerra, Bernard Berenson chiese (sul primo numero del «Ponte» di Piero Calamandrei) che Firenze risorgesse «com’era e dov’era». Si aprì un lungo e acceso dibattito, il cui frutto migliore fu la ricostruzione del Ponte a Santa Trinita,  appunto com’era e dov’era. Lo stesso Berenson, e poi figure come Ugo Procacci, Mario Salmi, Edoardo Detti si opposero con forza all’uso del cemento armato nella struttura interna del ponte, e Carlo Ludovico Ragghianti (autorevole storico dell’arte, ma anche presidente del CLN toscano e capo del governo provvisorio che aveva liberato Firenze) scrisse con perfetta lucidità che «la caratteristica di un’opera d’arte consiste anche nella sua tecnica, che non è scissa dalla sua forma».

 

Nel  1952 fu incaricato l’architetto  Riccardo Gisdulich per la direzione dei lavori di ricostruzione, insieme all’ingegnere Emilio Brizzi; pertanto furono ripristinate le arcate con la curvatura della catenaria, per la pietra arenaria  si riaprì una cava storica nel Giardino di Boboli e si ripescarono in Arno le pietre rimaste intatte.

Il ponte ricostruito fu inaugurato il 16 marzo 1958. Le quattro statue vennero ripescate nell’Arno in quegli anni, per ultima nel 1961 venne ritrovata la testa della Primavera.

Attualmente ha suscitato polemiche l’inserimento di un cordolo di cemento sulla carreggiata del ponte per realizzare un percorso ciclabile a scapito dell’estetica del manufatto storico e soprattutto nel tempo con l’avvento del turismo di massa il ponte è diventato come d’altronde  in altre zone del centro storico luogo di bivacco e di sosta selvaggia

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Debito pubblico e politica estera all’inizio del ‘900.

11/04/2018 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Luigi Luzzatti e la conversione della rendita del 1906.

 

Autore     Pier luigi Ballini

Editore    Istituto Veneto di Scienze, lettere ed arti

Anno        2018

Pag.          654

Prezzo      Euro 43,00

 

La conversione della rendita – relativa a uno stock di titoli pari a 8.100 milioni –, il 29 giugno 1906, fu la maggiore dopo quella inglese del 1888, per il capitale assoggettato all’operazione; venne considerata «la meglio riuscita di quei tempi, la meno costosa»; una vicenda di grande rilievo nella storia dell’Italia contemporanea. L’Italia occupava, nel 1905, il sesto posto per l’ammontare del debito, fra i «sei maggiori paesi d’Europa», ma il primo se si considera la percentuale delle entrate ordinarie assorbite dal suo servizio. La «grande operazione» – rinviata nei due anni precedenti a causa delle conseguenze della guerra russo-giapponese e poi della riproposta questione marocchina – fu resa possibile dalla coerente «politica della conversione» di Luigi Luzzatti, dall’attività svolta dalla Banca d’Italia, in particolare da Bonaldo Stringher, e favorita dalle condizioni del paese nei primi anni dell’«età giolittiana», profondamente mutate rispetto a quelle degli anni Novanta (importante crescita del PIL, forte flusso delle rimesse degli emigrati, notevole apporto di valuta del turismo, mutata struttura della bilancia dei pagamenti, importanti riserve degli Istituti di emissione, raggiungimento della parità aurea – alla fine del 1902 –, rientro sempre più consistente della rendita collocata all’estero). La conversione della rendita del 1906 emblematizzò così il risanamento monetario e finanziario del paese; rappresentò l’ultimo atto del lungo processo di riacquisizione, da parte dell’Italia, della propria autonomia finanziaria. La vicenda, difficile e particolarmente complessa – per l’ammontare del capitale da convertire, per gli accordi da definire con le banche straniere, in particolare con la Casa Rothschild di Parigi, e per i condizionanti risvolti internazionali – è presentata nel quadro delle relazioni internazionali, delle «alleanze e delle amicizie», e delle alterne fasi della lotta politica all’inizio del Novecento. Nell’Appendice un’ampia documentazione selezionata negli Archivi italiani e stranieri.

 

Pier Luigi Ballini ha insegnato nelle Università degli Studi di Bologna e di Firenze ed è professore ordinario di Storia contemporanea nella Facoltà di Scienze Politiche «Cesare Alfieri» dell’Università di Firenze. Ha dedicato ricerche, saggi e volumi a periodi diversi della storia italiana dall’Ottocento al secondo dopoguerra, con particolare riferimento alle istituzioni politiche e alla attività del Parlamento nel Regno d’Italia. Collabora alle più importanti riviste di storia contemporanea. Ha diretto «In/Formazione». Ha fatto parte del Direttivo della Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea, fa parte del Direttivo della Società Toscana per la Storia del Risorgimento e di quelli dell’Istituto per la Storia della Resistenza in Toscana e della Società Italiana di Studi Elettorali.

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La Trottola e il Robot. Tra Balla, Casorati e Capogrossi

28/03/2018 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

PALP. Palazzo Pretorio Pontedera

11 novembre 2017 – 22 aprile 2018

 

Il 22 aprile  al PALP Palazzo Pretorio di Pontedera chiude la  mostra La trottola e il robot. Tra Balla, Casorati e Capogrossi, curata da Daniela Fonti e Filippo Bacci di Capaci e promossa dalla Fondazione per la Cultura Pontedera, dal Comune di Pontedera e dalla Fondazione Pisa, in collaborazione con l’Istituto di Biorobotica della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e con il patrocinio della Regione Toscana e del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo.

La mostra nasce intorno ad una prestigiosa collezione di giocattoli d’epoca di proprietà del Comune di Roma, presentando insieme agli antichi balocchi circa 110 opere di artisti italiani attivi tra il 1860 e il 1980. La trottola e il robot mette a confronto due aspetti della creatività legati all’infanzia, quello che si traduce negli oggetti concreti, i giocattoli, creati un tempo dagli artigiani e poi dall’industria, e quello che rappresenta e interpreta il gioco infantile nelle arti figurative e plastiche italiane, dalla fine del XIX secolo alla seconda metà del XX. Si tratta di due universi separati, che solo di quando in quando hanno trovato modo di rispecchiarsi gli uni (i giocattoli) nelle altre (le opere d’arte) e il lungo racconto di figure ed oggetti che si snoda nelle sale espositive di Palazzo Pretorio, offre da differenti, dialettici o integrati punti di vista un osservatorio inedito e suggestivo sui mutamenti della società italiana nel corso dei decenni, sulle variazioni dei modelli pedagogici, di vita e di pensiero e sul rapporto spesso controverso fra il mondo degli adulti e quello – assai più misterioso – dei bambini.

Le opere degli artisti italiani che hanno prediletto il tema dell’infanzia, dialogheranno in mostra, intorno ad alcuni temi chiave, con nuclei di oggetti ludici, scelti di volta in volta per la loro valenza sociale, didattica, ma anche più latamente simbolica e onirica; di questi saranno messi in evidenza il mutamento formale, l’avvicendarsi dei materiali in uso, il loro attingere ai mutamenti tecnologici in atto.

Fra i temi significativi individuati nella sequenza espositiva, la casa coincide con la rappresentazione dello spazio interno, dell’intimità domestica nella quale si svolge la vita quotidiana dell’adulto e il gioco del bambino. Grandi modelli di casa di bambola, differenziati fra il modello alto borghese e quello più dimesso, bambole d’epoca, arredi in miniatura sono posti a confronto con le opere di Zandomeneghi, Balla, Casorati, Cambellotti, Francalancia, Campigli, Viani, Pirandello, Novelli con i giocattoli creati dagli artisti. Il rapporto del bambino con la vita degli adulti, oltreché nel gioco, si configura nei modelli dell’educazione infantile che per tradizione vi sono associati; gli artisti ritraggono volentieri i momenti di formazione del fanciullo, dall’apprendimento scolastico all’educazione al canto, alla musica, alla lettura. In sala opere di Mancini, Cambellotti, Lloyd, Levi, Capogrossi, Casorati, Mafai, Pirandello. Il gioco all’esterno predispone il bambino a una diversa percezione del mondo con una dilatazione degli orizzonti immaginativi nella quale rientrano la piena percezione di sé e del movimento, il tema del viaggio, dell’esotismo; alle pareti opere di Muzzioli, Corcos, Boccioni, Müller, Erba, Magri, Sartorio, Capogrossi, Gentilini. Il teatro e il circo protraggono lo stupore del gioco fino all’età adulta; le opere di Balla, Cambellotti, Depero, Casorati, Natali, Capogrossi, Levy s’ispirano a questo “doppio” fantastico del mondo che si rinnova sempre e si mettono a confronto con modellini teatrali, giostre per bambini e marionette. Giochi senza età richiama la valenza pedagogica del gioco, la capacità di sviluppare nel fanciullo, e più tardi nell’adulto, le sue doti di apprendimento, le facoltà critiche e tutte quelle attitudini all’organizzazione dell’azione nello spazio e nel tempo; i quadri e le sculture (di Boccioni, Pasquarosa, De Pisis, Raphael, Severini Novelli, Santoro, Novak) hanno per protagonisti i giochi, dal domino alle carte, dagli scacchi ai tarocchi. La sala degli automi, infine, rinvia allo sviluppo, illustrato attraverso i giocattoli presenti nella collezione, del tema dell’automazione, che dai primi ingenui elementi a molla arriva ai più sofisticati congegni moderni. Molti gli artisti che nel corso di un secolo hanno riflettuto sulla possibilità di creare delle copie di sé animate meccanicamente, sull’ambivalenza uomo/manichino, sulla sua trasformazione in robot meccanico: la Metafisica, il Futurismo, più tardi l’irridente Patafisica hanno a diverse riprese rilanciato il tema, con valenze espressioniste, giocose, tragiche o ironiche (in mostra opere di Grassi, Sironi, Pannaggi, Prampolini, Depero, Casorati e Baj). In questa sezione, si stabilisce un significativo collegamento con l’ambito di ricerche nella biorobotica condotte dall’Istituto Sant’Anna di Pisa, centro di eccellenza universitaria italiano e partner della mostra.

La mostra è corredata da un catalogo a cura di Daniela Fonti e Filippo Bacci di Capaci, con testi dei curatori, di Cristina Biagi, Giovanna Conti, Paolo Dario, Emma Marconcini, Gianfranco Staccioli e Claudia Terenzi (Bandecchi & Vivaldi).

PALP Palazzo Pretorio Pontedera
Piazza Curtatone e Montanara, Pontedera (PI)
Orario: da martedì a domenica 10-20, lunedì chiuso
Ingresso: intero € 7, ridotto € 5
Tel. +39 0587 468487 – +39 331 1542017
e.mail info@pontederaperlacultura.it – www.palp-pontedera.it

 

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Noi, fiorentini messi in fuga dalla visione che non c’è.

26/02/2018 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Marco Geddes da Filicaia  Corriere Fiorentino 20 febbraio

Caro direttore, ho letto il suo editoriale di sabato 17 febbraio che tratta del centro di Firenze ormai svuotato dei suoi residenti e della conseguente sparizione dei negozi di vicinato.

Mi permetta di non condividere soltanto un punto: il titolo! Perché «Gli incoerenti»? Noto invece una coerente perseveranza dell’amministrazione comunale nell’allontanare dal centro storico i residenti: i negozi di vicinato, gli alimentari, le mesticherie, le farmacie, gli artigiani non possono resistere in un tessuto urbano privo di persone che ci vivono stabilmente! L’abbandono di rifiuti, le biciclette sui marciapiedi, il parcheggio selvaggio sono fenomeni incontenibili se non vi è un controllo sociale, cioè un diffuso sentimento di appartenenza e identità che contraddistingue una comunità. Sentimento impossibile se questa comunità è minoritaria e in via di estinzione. Da tutto ciò deriva la perdita del «decoro urbano», oltre che dalla mancanza di controlli e di manutenzione di vie, piazze giardini. Il turismo di massa è un fenomeno che investe tutte le città; un fenomeno internazionale, con aspetti positivi di interscambio e di apporto di ricchezza. Ineliminabile! Incontenibile! Queste sono le ovvie obiezioni, ma la politica di un’amministrazione dovrebbe orientare, contenere, governare, equilibrare le presenze turistiche con il mantenimento della residenza e di quanto questa si porta appresso, in termini appunto di botteghe e servizi. Come possono resistere le botteghe se i residenti spariscono, le entrate diminuiscono e l’affitto aumenta data la concorrenza di fast food o di venditori di gadget? Forse sospendendo temporaneamente e tardivamente l’apertura di nuovi locali? O si sarebbe dovuta impostare per tempo una politica per favorire la residenza? In centro i trasporti pubblici sono (e resteranno) inadeguati e i pochi autobussini terminano la loro corsa verso le 21.

La tramvia che doveva attraversare piazza del Duomo è stata limitata alla Stazione senza ricercare un’alternativa. Chi vive in periferia, i tanti anziani che si sono allontanati dal centro, non ci vengono più da mesi o da anni per l’impossibilità di raggiungere il Mercato Centrale, piazza del Duomo, Sant’Ambrogio e hanno timore di camminare su marciapiedi dissestati. Le abitazioni nel centro esistono soltanto per affitti di pochi giorni.

Qualche esempio: nel privato, l’insieme di abitazioni della sede centrale ex Cassa di Risparmio è in fase di trasformazione per appartamenti di lusso da affittare; nel semi – pubblico, il palazzo delle Ferrovie in viale Lavagnini viene trasformato in miniappartamenti per studenti danarosi o, diciamo la verità, per chiunque li affitterà, anche per una settimana; nel pubblico, Sant’Orsola è un rudere fatiscente da oltre quarant’anni; l’ex Teatro comunale è stato destinato, anche questo, ad appartamenti di lusso; la Scuola di Sanità Militare in Costa San Giorgio sarà un ulteriore albergo a 5 stelle. In tutti questi interventi, siano essi privati (in cui si definiscono varianti urbanistiche collaterali, permessi edilizi), semipubblici (ma non mancavano interlocutori governativi che conoscono Firenze) o pubblici, non risulta che sia stata definita una quota significativa di edilizia popolare o di residenze da collocare in un mercato regolamentato e calmierato, alfine di equilibrare le presenze occasionali con i residenti.

Cosa è mancato? Una visione e capacità di governo e una conseguente politica urbanistica, che consiste nel definire e allocare le funzioni di un città per farla vivere con e per i suoi abitanti.

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Una Porta per Firenze

01/02/2018 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

L’ex scuola carabinieri sarà la porta di Firenze. Così secondo il Comune di Firenze dovrebbero diventare i grandi spazi vuoti del complesso di Santa Maria Novella, dove fino al dicembre 2016 era ospitata la scuola sottufficiali dei Carabinieri. Così si evince dalle sette idee e quattro linee guida per usare e valorizzare i giganteschi spazi vuoti del complesso di Santa Maria Novella. Le sette idee sono quelle del concorso bandito da Palazzo Vecchio, le quattro linee guida quelle deliberate dalla giunta comunale con le quali saranno lanciati entro il 2018 i bandi di concessione degli spazi. E, come ha dichiarato il Sindaco Dario Nardella, per una «Santa Maria Novella porta della città» che si apra innanzitutto ai 36 milioni di persone che arrivano o partono dalla stazione del Michelucci, ai turisti, ai fiorentini e ai giovani, Palazzo Vecchio punta quindi sulle funzioni di «sicurezza, cultura, ricerca e alta formazione e servizi». Sul fronte sicurezza, una parte del complesso immobiliare rimarrà a disposizione dei Carabinieri, con un presidio fisso a disposizione dei cittadini 24 ore su 24. Per gli spazi culturali ci sarà l’ampliamento del percorso museale e la nuova sede di «Firenze com’era» e dell’archivio fotografico del Comune di Firenze con 112.000 immagini.

Ci sarà anche una nuova area di accoglienza con biglietteria, bookshop, guardaroba e caffetteria.

Se andiamo a vedere poi le idee progettuali proposte, tra cui quella di Palazzo Spinelli ( creare un  polo per il restauro, la valorizzazione e la formazione dei giovani volto alla tutela e alla conservazione dei beni storico-artistici) oppure di Polimoda (una nuova sede per la sua attività, con aule, laboratori e uffici nonché uno spazio per attività culturali ed eventi) ed anche dell’Istituto storico della Resistenza in Toscana (con la realizzazione di una casa della cultura e della storia del Novecento e del tempo presente a Firenze) potremmo valutare positiva questa moderna infastruttura  culturale se non ci fosse il rischio che la cosiddetta Porta sia aperta soprattutto per i milioni di persone che arrivano o partono, insomma per la massa dei turisti piuttosto che per i Fiorentini giovani o anziani, che di fatto verrebbero respinti dal numero preponderante dei forestieri, come di fatto avviene da tempo agli Uffizi o alle Gallerie dell’Accademia.

Ne è conferma il progetto dell’azienda di Bolzano Schweigkofler Communications che prevede la realizzazione di un “Visitor Center 2.0” ( non poteva ovviamente mancare l’ennesimo anglismo) ovvero un luogo digitale per turisti e non solo ( bontà loro), visto come porta d’ingresso digitale per la città, che racconta la sua storia, nonché un luogo per eventi e congressi pubblici e privati.

Una porta d’ingresso all’insegna del contemporaneo, della pervasività del digitale e di eventi mediatici, spalancata quindi al turismo di massa, che a parole gli amministratori di Firenze vorrebbero governare e orientare e che invece nei fatti con questi progetti verrebbe incentivato.

Un turismo ancor più selvaggio non solo accentuerebbe le condizioni attuali di degrado urbano, ma soprattutto stravolgerebbe l’immagine e l’identità di Firenze e farebbe sentire  ancor più i residenti, che  ci vivono e lavorano , stranieri nella loro città.

E’ la globalizzazione, bellezza! Risponderebbe Humphrey Bogart, se vivesse ancora tra di noi.

E certamente la globalizzazione porta senz’altro dei benefici come l’apertura di nuovi orizzonti  sociali e culturali se non diventasse il più delle volte un processo di colonizzazione e di subalternità economica e culturale per chi la subisce passivamente.

E la salvaguardia della identità urbana, della memoria storica di una città come Firenze potrebbe allora essere l’unico modo per i cittadini di vivere positivamente le contraddizioni, le luci e le ombre della globalizzazione senza dover rimpiangere i tempi di Firenze Capitale del Poggi o la Firenzina dei Lorena!

Sergio Casprini

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Il Caffè Margherita a Viareggio

25/08/2017 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Sulla Passeggiata di Viareggio il gioiello del Novecento con le cupole a ghirigori create dal genio di Galileo Chini

Adolfo Lippi Il Tirreno 15 giugno 2014

Le cupole, a ghirigori, rammentano i palazzi imperiali del Siam. I saloni sono ricchi di fregi liberty, il “Gran Caffè Margherita“, sulla Passeggiata di Viareggio aveva, fino a pochi anni fa, una statua di Giacomo Puccini. Adesso la statua è altrove ma restano le tracce di un passato celeberrimo sulle terrazze, sotto gli androni, nei corridoi alla Mariembad, sicché frotte di turisti muniti di iPad si fermano a ritrarre le vestigia di un Novecento che è già archeologia come i bagni Pancaldi a Livorno, il Kursaal a Montecatini, il caffè Di Simo a Lucca.

Fu il liberty un canto del cigno, durò come stile pochissimi anni. Poi lo sopravanzarono il Decò e il funzionale fascista e si perdettero così le atmosfere incantevoli che avevano insufflato i primi film di Pastrone scritti da Gabriele D’Annunzio. Il liberty, esaltato al “Gran Caffè Margherita” non fu parigino. Fu viennese, inglese nelle stoffe fortuny e fu, soprattutto, belga. Bruxelles è piena di cose floreali e leggere. E quando Puccini creò “Turandot” ultima sua opera, enigmatica e struggente, già annunciava la morte crudelissima che uccise lui ma anche un’epoca che già si consegnava, ben ne scrisse Ugo Ojetti nel ’24, ai fasti degli stabilimenti balneari attrezzati, al “trasuolar delle automobili”, alle cene, alle danze, agli strilli dei bimbetti sul bagnasciuga, all’infinito sbadiglio del mare ammansito. Il “Gran Caffè Margherita”, ancora oggi esistente sulla Passeggiata, deve la sua fortuna a un incendio. Il viale che costeggia la battigia era una lunga linea di baracche in legno che ospitavano trattorie, ristori, botteghe di costumi da bagno e cappellerie di paglia. Le baracche, a volte, erano anche strutture trionfali, come i bagni Nettuno, Balena, Nerco, Colombo, come i teatri Eden ed Eolo, con architetture prese alle Expò di Parigi e Milano. E con amore ne raccontò Mario Tobino in “Sulla spiaggia, di là dal molo”.

Una notte, negli anni primi del Novecento, tutto bruciò. Fu un caso? In verità, da quei tempi già si voleva industrializzare il turismo e il legno sapeva troppo di paese, di precario, di pecoreccio. Mentre le esigenze balneari richiedevano edifici sicuri ed imperiali. L’incendio di Viareggio distrusse un’epoca, l’Ottocento, quando le spiagge iniziavano ad albeggiare ai riti, alle nobiltà, al culto del corpo. Ne erano stati animatori Paolina Bonaparte che prendeva i bagni, nuda, davanti alla villa che aveva fatto costruire a Viareggio per accogliervi il suo amante, Giovanni Pacini, musicista. Poi Massimo D’Azeglio, poi Alessandro Manzoni pervenuto a Firenze per sciacquarsi nell’italiano puro dei toscani. Ma col Novecento le riviere divennero mecca di famigliole e benestanti e “generume”. Viareggio spropositò come la Costa Azzurra francese, il Lido a Venezia, Rimini. L’idea di fare del Gran Caffè Margherita un ritrovo pretenzioso, ampio, gradevole, capace di ospitare centinaia di clienti, nacque con la ricostruzione, dopo l’incendio, dei luoghi bruciati. All’idea furono chiamati a lavorare l’architetto Belluomini e il pittore e ceramista fiorentino Galileo Chini.

Galileo Chini era una star. Aveva creato a Firenze la storica manifattura di via Arnolfo, marchio di fabbrica un melograno, dove produceva vasellame e vetri, finemente decorati. Aveva 25 anni e dovunque, da Bruxelles a Pietroburgo, se lo contendevano: perfino il museo di Sèvres acquistò suoi lavori. Puccini, che non si faceva sfuggire i talenti, aveva chiamato Chini per le scenografie del “Tabarro” e di “Gianni Schicchi“. Ma fu durante una mostra a Venezia che la vita di Chini cambiò in vera celebrità mondiale. Lì incontrò il re del Siam e costui, invaghito dalle geniali opere del fiorentino, lo ingaggiò per la costruzione, nientemeno, del palazzo imperiale di Bangkok. Fu un trionfo. Quando Chini tornò poi in Toscana e lo scelsero quale decoratore del “Gran Caffè Margherita” utilizzò a Viareggio le esperienze fatte in Oriente. Così se ne videro (e se ne vedono anche adesso) i risultati: Chini importò l’uso di guglie preziose e sinuose, gli addobbi fiabeschi, pareti e lumi intarsiati, pavimenti sciccosi, e mentre l’Italia si ammantava di nero, il nero monocromo imposto da Mussolini, Chini fece rifulgere Viareggio di terrazzamenti, cupole, facciate, coloratissimi, smaglianti a metà tra le fosforescenze della coda del pavone e i ricami degli arazzi Fortuny. Puccini vi fu di casa. Una volta fece baruffa con Arturo Toscanini per via che Puccini era filo-tedesco e Toscanini nazionalista sfegatato. Toscanini, dopo la lite, inciampò e cadde malamente proprio nei giardinetti davanti al Gran Caffè. Ciò che Toscanini non sapeva era che Puccini, in quella stagione, aveva anche un flirt con una nobildonna alloggiante all’hotel De Russia (reso famoso dal poeta Eric M. Rilke) e la nobildonna era di Berlino. Altra zuffa, clamorosa, avvenne al Margherita quando una sera l’orchestra intonò la marcia reale. Il poeta Giuseppe Ungaretti, con il pittore Lorenzo Viani, e il “vate” Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, insolenti perché anarchici, non si alzarono in piedi. Alcuni ufficiali, presenti ai tavoli, allora s’avventarono sul gruppo.

Negli anni ’50 e ’60 del Novecento suonò altra musica. Ne è testimone il pittore Dino La Bianca, allievo di Carrà, Levy, Migneco, Maccari. La Bianca, che scrisse anche canzoni e si esibì da chansonnier, aveva un tavolo fisso davanti al palchetto d’orchestra. E qui dice di aver ascoltato Claudio Villa e Modugno, Nilla Pizzi e Gino Latilla, Mike Bongiorno e Nunzio Filogamo, il Quartetto Cetra e Paul Anka.

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I costumi di Zeffirelli in mostra a Castiglioncello

22/08/2017 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

14 luglio/10 settembre

Rende omaggio alla passione per il cinema del grande maestro Franco Zeffirelli la mostra che è stata aperta il 14 luglio al castello Pasquini di Castiglioncello, frazione di Rosignano Marittimo (Livorno):

Franco Zeffirelli al castello 

Costumi di scena della Fondazione Cerratelli

Visitabile fin al 10 settembre, curato da Floridia Benedettini e Diego Fiorini, l’allestimento vuole valorizzare il lungo legame di Castiglioncello con il cinema e offre uno spaccato del grande patrimonio della Fondazione Cerratelli che comprende circa 30.000 costumi teatrali e cinematografici riuniti nella sede di Villa Roncioni a San Giuliano Terme (Pisa). Il castello Pasquini, dagli anni Novanta cantiere di creazione scenica del Comune di Rosignano Marittimo, rinnova la vocazione di Castiglioncello come luogo di ispirazione e lavoro per artisti di fama mondiale mediante l’esposizione promossa dall’assessorato alla cultura, in collaborazione con Armunia Festival Costa degli etruschi, con il patrocinio della Regione Toscana e del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo.

La mostra comprende 60 costumi, oltre a bozzetti e foto di scena, delle pellicole che resero celebre Zeffirelli nel mondo quali ‘Romeo e Giulietta’ (premio Oscar nel 1969 per i migliori costumi a Danilo Donati), ‘La Bisbetica Domata’, ‘Fratello sole e Sorella Luna’. Il percorso espositivo lega il talento della creatività italiana nel costume alla natura di Castiglioncello come musa ispiratrice e rifugio dai ritmi di Cinecittà per attori e artisti quali Suso Cecchi D’Amico e Marcello Mastroianni, Paolo Panelli e Vittorio Gassman fino a Paolo Virzì. L’allestimento si sofferma infatti sul rapporto tra Zeffirelli e Castiglioncello, approfondendo il legame tra il maestro fiorentino e questo luogo di villeggiatura e lavoro, e sul sodalizio con Suso Cecchi D’Amico, la sceneggiatrice signora del cinema italiano, la comune passione per il cinema e i loro capolavori: ‘Fratello Sole e Sorella Luna’ e ‘Gesù di Nazareth’. Nel percorso saranno esposti i costumi di celebri produzioni teatrali come ‘La Lupa’ e ‘Maria Stuarda’, e il film d’opera ‘Otello’, tutti realizzati dalla costumista fiorentina Anna Anni. Viene messo in evidenza dal percorso espositivo il grande lavoro artigianale e artistico che caratterizza i manufatti dalla casa Cerratelli, frequentata da Zeffirelli fin da bambino e dove imparò le arguzie sartoriali e i trucchi del mestiere che più tardi avrebbero contribuito a conferire agli attori le caratteristiche dei personaggi che andavano ad interpretare. I costumi in mostra, espressione di una creatività che costituisce un marchio di fabbrica tutto italiano, offrono infatti uno spaccato sull’ingente patrimonio storico e culturale della Fondazione Cerratelli, che conserva i costumi di scena realizzati dalla casa d’arte fiorentina e appartenuti ad attori di cinema e teatro, per opere liriche e film realizzati dai più grandi registi, insieme alla collezione di schizzi, bozzetti e disegni preparatori.

Castello Pasquini

Piazza della Vittoria, 57016 Castiglioncello Livorno

telefono: 342 022 2403

 

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