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Risorgimento Firenze

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Turismo

Il turismo? Ricchezza, non incuria

09/06/2017 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

I visitatori sono una risorsa: un acquazzone di denaro da gestire con intelligenza. Altrimenti esondano i canali e saltano i tombini

Gian Antonio Stella Corriere della Sera 3 giugno

Firenze e Venezia non ne possono più, di un certo turismo prepotente. C’è chi dirà che è facile fare gli insofferenti con la pancia piena e chissà quante altre realtà vorrebbero esser alluvionate da moltitudini di visitatori. La svolta parallela delle due città d’arte più amate dagli stranieri non è però lo sfogo di chi è già sazio. Dietro la scelta del sindaco fiorentino Dario Nardella di bagnare i marciapiedi e i sagrati «presi d’assalto da turisti poco civili che li imbrattano mangiandoci e bevendo» e del suo collega veneziano Luigi Brugnaro di arginare l’orda quotidiana di ospiti invadenti mettendosi di traverso a nuovi alberghi e bed&breakfast c’è di più. Molto di più. C’è, finalmente, la presa d’atto dell’impossibilità di accogliere tutti senza pagare un prezzo spropositato sul fronte del degrado dei nostri tesori urbanistici. Vale per le grandi metropoli d’arte come Roma e più ancora per i gioielli medievali come San Gimignano dove un fazzoletto di viuzze e torri e botteghe lungo meno di un chilometro e largo la metà è assediato da centinaia di auto e almeno cinquantasei pullman da tredici metri al giorno con punte di oltre un centinaio, costringendo il municipio a svuotare tre volte al giorno i cestini e scopare due volte al dì i vicoli e le piazze nella sfida immane di portar via tutto il pattume abbandonato dal passaggio dei barbari. Ne vale la pena? No.

Patrimonio Unesco

Certo, anche stando alla larga dallo stereotipo del «petrolio d’Italia» (frase fatta che poi spinge i creativi più scadenti a mettere una pompa da benzinaio in mano ai Bronzi di Riace), ogni cittadino italiano ha ben chiaro che il turismo nel suo momento di boom mondiale è una straordinaria opportunità per un Paese come il nostro. Che col triplo dei siti Unesco ha quasi due milioni di occupati nel turismo in meno del Regno Unito. E la metà, con l’indotto, della Germania. Sia benedetto, questo acquazzone di turisti e denaro. Ogni acquazzone, però, va gestito con intelligenza. Sennò esondano i canali e saltano i tombini.

Il boom dei posti letto

A Venezia, dove i fotografi hanno immortalato non solo navi gigantesche e restauri da far accapponare le pelle ma gringos con le bici d’acqua, distese di nottambuli in sacchi a pelo, scorpacciate nei campielli di involtini primavera, gare di tuffi acrobatici dai ponti, vecchi fricchettoni nudi nelle calli e cialtroni evacuanti a ogni angolo, sono state censite strutture ricettive di vario tipo per 47.229 posti letto. Più, immaginiamo, quelle abusive. In una città ridotta a meno di 55 mila abitanti. Era ora che arrivasse la proposta di bloccare nuovi alberghi e nuovi affittacamere come ha fatto Barcellona al grido di «Barcellona non è Venezia»! La conversione in hotel dell’ultimo asilo per bambini a San Marco o lo sfratto del professore centenario per mettere nel suo vecchio quartierino un altro B&B hanno marcato il limite. Basta.

Degrado crea degrado

Nessuno, in nome di un’idea insana della democrazia, pretende di fare entrare mille persone insieme nella Cappella degli Scrovegni. Nessuno. E lo stesso deve valere per certi centri storici troppo piccoli e fragili per essere invasi da milioni di assatanati del «tutto e subito» che magari, come nel cuore della Firenze medicea, schizzano via sui risciò (i risciò!) come fossero a Bangkok o Calcutta. Quanto al degrado, alla sporcizia, all’incuria, vale l’antico monito: degrado crea degrado. E a nulla vale lagnarsi contro la sbalorditiva velocità con cui troppi stranieri che a casa loro non oserebbero gettare un mozzicone a terra si lasciano contagiare dal più volgare andazzo nostrano: liberi tutti! Vanno colpiti, sia chiaro, con la mano ferma. Ma l’esempio, perché serva davvero, deve partire da noi.

 

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Turismo a Firenze: un passo avanti, e uno indietro

19/04/2017 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Paolo Ermini Corriere Fiorentino 13 aprile

Non c’è che da insistere, le somme si tireranno alla fine. Ci sono voluti anni perché la sinistra italiana, o almeno una sua parte, si convincesse che la battaglia per la legalità e la sicurezza non è affatto una battaglia di destra; allo stesso modo la sinistra fiorentina, che governa da Palazzo Vecchio, prima o poi capirà che l’assalto subìto dalla città di giorno e di notte è sì ricchezza (per tanti), ma anche la condanna a un’usura sempre più veloce che, superati certi limiti, non sarà più rimediabile.

Per anni si è applaudito all’aumento dei turisti senza metterci un briciolo di testa (qualcuno lo fa ancora). Come se lo sviluppo stesse solo nella lievitazione dei numeri, delle presenze e degli incassi, e non anche nella difesa di un equilibrio sociale e culturale, di quell’identità che poi resta il vero nucleo di una città, capace di trasmetterne l’eredità. Invece s’è vista tanta miopia. Una miopia che ha dato i suoi frutti. I nostri cronisti ne hanno dato testimonianza con le inchieste di questi giorni sul centro storico di Firenze È la cronaca di un’invasione che non conosce limiti né regole. E che diffonde in città, sia tra chi ci abita sia tra chi ci passa, un crescente senso di insicurezza, come succede quando sembra di essere sopraffatti dal caos.

Non è facile curare chicchessia quando si è a lungo trascurata la malattia. Per la Firenze aggredita di giorno  non c’è una medicina già pronta. Il 2 aprile il Corriere della Sera ha rilanciato la discussione sul numero chiuso nelle città d’arte, con una riflessione tutt’altro che banale del ministro dei Beni culturali: «Il turismo — dice Dario Franceschini — è una crescita da gestire. Non si può mettere un ticket, ma servono regolatori d’accesso. Saranno necessari prima o poi». E in quel prima o poi c’è tutta la consapevolezza della difficoltà nel prendere una decisione che scatenerebbe di certo le accuse di chi è sempre pronto a vedere dietro a ogni angolo trame antidemocratiche. Ideologismi insensati che possono condannare una città allo svuotamento.

È vero però che una svolta così radicale come il numero chiuso dovrebbe essere l’ultima carta da giocare. Ma quali sono allora le altre carte? E chi le ha calate? Per la verità abbiamo assistito a molte decisioni di segno contrario. Permessi a go-go concessi a chiunque si proponesse di entrare, in qualunque ruolo, nella partita del turismo, dai trasporti al commercio, alla ristorazione. Senza che nessuno abbia mai risposto di una politica irresponsabile, fatta di sottovalutazioni e di quel lassismo così gradito ad alcune categorie. Adesso però, se non si vuole andare dritti contro il muro dell’immobilismo, s’impone una correzione di marcia. E dunque:

1) perché non dirottare nell’estrema periferia il parcheggio dei torpedoni?

2) perché non obbligare i gestori dei mammut turistici a impegnare mezzi più piccoli nelle strette vie del centro?

3) perché non opporsi con severità ai bivacchi quotidiani sui sagrati e sui marciapiedi?

4) perché non impedire ai venditori di cianfrusaglie di ingolfare zone critiche come il Ponte Vecchio con i loro tappeti?

5) perché non togliere prima possibile dalla circolazione risciò e segway (quei graziosi monopattini dietro i quali vi sarete trovati spesso in coda)?

Servirebbe un po’ di coraggio, questo sì, perché per ogni inversione di rotta c’è un interesse economico che si sente minacciato. E il coraggio uno se lo può anche dare, checché ne pensasse don Abbondio, ma deve avere chiara la direzione di marcia e la meta da raggiungere. Dario Nardella più volte ha parlato della necessità di puntare sul turismo di qualità per difendere Firenze. Poi arrivano «Live Nation» e «Le Nozze di Figaro» che organizzano concerti rock di livello per l’estate fiorentina alle Cascine, con duecentomila persone in arrivo per due mesi da ogni dove (con un giro d’affari, pare, di 20 milioni di euro, mica noccioline), e il sindaco si precipita in conferenza stampa per assicurare che il Comune farà di tutto per portare in centro questa massa aggiunta di turisti: sconti sui parcheggi, sconti sui bus turistici, sconti per i musei civici. Poi ha aggiunto: «È una scommessa vinta sia sul piano economico che culturale, perché sarà una vetrina importante per Firenze». E ha concluso: «Tanti giovani che frequentano un concerto danno senso di sicurezza più di mille militari». Un refrain che credevamo superato e che ora stride con l’impegno delle forze dell’ordine a riportare un po’ di tranquillità in alcune zone di Firenze strappandole agli spacciatori. In ogni caso è la conferma di un’oscillazione che difficilmente potrà trasformarsi in una politica organica del turismo (che prescinde, ovviamente, dal notevole valore dei prossimi concerti estivi). Ma come sulla sicurezza, prima o poi, arriverà un altro Minniti a spiegare che, cari compagni, è il caso di cambiare

 

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Firenze, città a misura… del turismo di massa!

01/04/2017 da Sergio Casprini

Piazze interne al posto degli antichi chiostri, passaggi pedonali per “riaprire” i collegamenti tra via Cavour e via San Gallo, la ristrutturazione dei vecchi magazzini e del teatro anatomico per recuperare spazi a destinazione commerciali, ma anche la realizzazione di hotel di lusso con uno splendido panorama sulla Cupola e sulla città.   

E’ quanto prevede il progetto di riqualificazione urbana dell’area dell’antico “Spedale di San Gallo”, 16.200 metri quadri di superficie in pieno centro a Firenze, elaborato dal gruppo coordinato dall’architetto Fabrizio Rossi Prodi, risultato vincitore del concorso indetto nel settembre scorso da Cassa Depositi e Prestiti, l’agenzia statale che opera all’interno del sistema economico italiano e che soprattutto gestisce il finanziamento degli investimenti dello stato e di altri enti pubblici, quali regioni, province e comuni.

Già precedentemente in situazioni analoghe a Firenze la Cassa Depositi e Prestiti ha svolto un ruolo chiave sia per la valorizzazione della Manifattura Tabacchi alle Cascine, dove nasceranno uno studentato di lusso, un hotel, negozi, spazi di smart working e appartamenti ad alto risparmio energetico, come per l’ex Teatro Comunale di Corso Italia, dove invece saranno costruiti 120 appartamenti di lusso.

Ottimi progetti di riqualificazione architettonica ed urbanistica di aree e edifici dismessi, da molti anni non più utilizzati ed ormai in stato di degrado, e si prevedono ulteriori interventi per valorizzare altri immobili e beni pubblici, anche essi in stato di abbandono.    

Tutto bene quindi per Firenze e i fiorentini? Solo in parte perché, se è vero che una città ha bisogno di uno sviluppo urbano nel segno della modernità e che non sia frenata dalla nostalgia del passato ormai scomparso, per Firenze invece è confermata per il futuro la vocazione di città d’arte destinata pertanto alla fruizione da parte soprattutto dei turisti e non certo dei residenti, quando tra l’altro da tempo il numero dei turisti ha superato la soglia di tollerabilità per il centro storico fiorentino.

 Il 31 ottobre 1737 Anna Maria Luisa dei Medici stipulò con la nuova dinastia regnante dei Lorena il cosiddetto “Patto di Famiglia” che stabiliva che i Lorena non potessero trasportare «o levare fuori della Capitale e dello Stato del Granducato… Gallerie, Quadri, Statue, Biblioteche, Gioje ed altre cose preziose… della successione del Serenissimo Gran Duca, affinché esse rimanessero per ornamento dello Stato, per utilità del Pubblico e per attirare la curiosità dei Forestieri.».   

Oggi l’utilità del Pubblico è diventata una questione secondaria rispetto alla curiosità dei Forestieri, i quali diventati uno esercito rispetto ai tempi dei Medici e dei Lorena invadono piazze e  vie di Firenze con  inevitabili effetti sul degrado urbano di giorno e di notte.

L’implosione in fisica è quel fenomeno per cui abbiamo un cedimento violento delle pareti di un corpo cavo sotto l’azione di una pressione esterna superiore a quella interna.      

Nel caso di una città a forte vocazione turistica come Firenze con una pressione crescente dei visitatori  sul centro storico, già densamente abitato, analogamente avremmo, non un cedimento violento della struttura urbana come nel mondo della fisica, ma sicuramente un’implosione demografica con peggioramento delle condizioni di vita e della qualità urbana per i residenti.

Recentemente Dario Franceschini, Ministro dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo, in un articolo su Sette, l’inserto settimanale del Corriere della Sera, ha dichiarato che  i visitatori dei musei statali sono passati da 38 milioni nel 2013 a 45,5 milioni nel 2016, ben 7 milioni e passa in solo 3 anni!      

Ha dichiarato anche che ci sono problemi di sovraffollamento nei luoghi conosciuti e nei grandi musei, mentre invece ci sono altri siti fantastici, sconosciuti al turismo internazionale, che meriterebbero di essere valorizzati non solo per un’ulteriore opportunità di distribuzione di ricchezza, ma anche per necessità.   Infatti secondo il ministro se i milioni di turisti, che vengono in Italia, vogliono andare agli Uffizi a Firenze, al Ponte di Rialto a Venezia o al Pantheon a Roma, non ci stanno più fisicamente! 

E quindi come liberare i centri storici, in particolare di Firenze e Roma dal turismo di massa? Questo il ministro non lo dice.    

Bisogna avere il coraggio o semplicemente il buon senso di introdurre un numero chiuso per l’ accesso dei turisti per luoghi che sono ormai al limite della sostenibilità per flussi turistici ormai fuori controllo e di distribuire così i visitatori in altri siti , ricchi di memoria storica ed artistica.  

L’Italia non è forse il Bel Paese, dai mille Municipi?    

Una misura sicuramente impopolare presso le categorie economiche come gli albergatori, gli esercenti di trattorie, bar e di street food e tutto quanto ruota attorno al business del turismo, ma che va incontro invece alle esigenze dei residenti, che così potrebbero riappropriarsi delle strade, delle piazze e dei monumenti della loro città.

Altrimenti in un prossimo futuro potremmo assistere all’esodo dei fiorentini, che scapperanno  ancor più numerosi dal centro storico della loro città per rifugiarsi in periferia o nel contado, con la possibilità però nei fine settimana insieme alle torme dei turisti tornare a visitare i luoghi dove hanno vissuto, in una Firenze ormai diventata un  museo a cielo aperto, una città artificiale come Disneyland o Las Vegas!

Sergio Casprini

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Ferro, Fuoco, Terra! 50 anni di lavoro in Maremma

10/03/2017 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Magma, Museo delle Arti in Ghisa della Maremma

Comprensorio ex Ilva, Follonica

La mostra fotografica racconta con lo sguardo libertario del fotografo di fama internazionale Pino Bertelli, il lavoro di ieri e di oggi della Maremma toscana. Trenta foto in bianco e nero in grande formato (che resteranno di proprietà del Centro di Documentazione Ivano Tognarini) e un video ideato da Pino Bertelli vi accoglieranno al Magma Follonica per questa mostra.

«Ferro, Fuoco, Terra! 50 anni di lavoro in Maremma» è un’iniziativa nata all’interno del progetto di collaborazione tra Irta Leonardo (Istituto di Ricerca sul Territorio e l’Ambiente) e Magma Follonica. Da sempre sensibile e recettivo alle questioni del lavoro e della società, dell’emarginazione, della diversità e della libertà, Pino Bertelli raccoglie in questa mostra ritratti, ambienti, luoghi di lavoro e di memoria seguendo un percorso che unisce gli elementi della terra, del mare, del ferro e del fuoco. La prima dimensione ambientale è quella dei lavori agricoli e del bosco, l’elemento della terra è catturato nella sua trasformazione che negli anni Settanta è già arrivata a modificare la fisionomia delle campagne. I lavoratori dell’agricoltura in questo periodo sono ormai ridotti a proporzioni marginali, ma in Maremma, territorio agricolo, ci sono persistenze ed elementi di continuità che fanno ancora resistenza. L’altra fondamentale dimensione che racconta le terre di Maremma è quella delle miniere un mondo che scomparirà totalmente nel giro di pochissimi anni, e di cui le foto di Bertelli conservano una fondamentale traccia. Parlare di lavoro in Maremma significa anche parlare di grande industria pesante, dal polo chimico di Scarlino, a quello siderurgico di Piombino. Accanto ai modelli da «seconda rivoluzione industriale» si pone il settore terziario, da quello turistico balneare di massa, al turismo culturale e gastronomico delle colline, ai percorsi di archeologia industriale che cercano di recuperare la memoria e farne un motore di sviluppo futuro. Infine i nuovi mestieri legati alla quarta rivoluzione industriale, quella informatica, ma soprattutto la precarizzazione progressiva ed incisiva del lavoro.

«Pino Bertelli è uno dei fotografi più importanti del nostro tempo, è un fotografo di consapevolezze complesse, di qualità molto alta, di passioni anche estreme. Comunque le sue immagini sono di quelle che restano nella storia della fotografia, e non solo in quella del nostro paese. Se siano davvero realistiche non importa, i realismi sono molti e proprio Bertelli ne ha sperimentati diversi per giungere alla qualità delle sue raffigur – azioni, ma ha anche vissuto da vicino, ne sono certo, la fotografia della astrazione, quella delle avanguardie» Scrive Carlo Arturo Quintavalle, Professore Ordinario di Storia dell’arte dell’Università di Parma.

Pino Bertelli è nato in una città-fabbrica della Toscana, tra «Il mio corpo ti scalderà» e «Roma città aperta». Dottore in niente, fotografo di strada, film-maker, critico di cinema e fotografia. I suoi lavori sono affabulati su tematiche della diversità, dell’emarginazione, dell’accoglienza, della migrazione, della libertà, dell’amore dell’uomo per l’uomo come utopia possibile. È uno dei punti centrali della critica radicale neo-situazionista italiana. L’International Writers Association (Stati Uniti), l’ha riconosciuto scrittore dell’anno 1995, per la «non-fiction». È direttore responsabile della rivista di critica radicale «Tracce» e del giornale on-line «Stile libero», direttore editoriale della casa editrice «Traccedizioni», collabora con «Le monde diplomatique», «Fotographia», «Sicilia Libertaria» e altre testate. Pier Paolo Pasolini, maestro e amico, gli ha regalato la prima macchina fotografica quando aveva quindici anni. Nel 2004 ha ricevuto il «Premio Internazionale Orvieto», per il miglior libro di reportage, «Chernobyl. Ritratti dall’infanzia contaminata». Nel 2014 l’Associazione di bioarchitettura BACO gli ha assegnato il Premio Internazionale Vittorio Giorgini. Alessandro Allaria ha fatto un reportage (per la televisione tedesca), «Pino Bertelli. Il fotografo e le donne di Napoli», 2008. Nel 2014 il regista Antonio Manco ha realizzato a Buenos Aires, «Pino Bertelli. Ritratto di un fotografo di strada», prodotto dal Festival del Cinema dei Diritti umani di Napoli e Buenos Aires.

L’Archivio Internazionale di Fotografia Sociale di Pino Bertelli è curato dalla documentalista Paola Grillo. Una parte del suo archivio fotografico è depositato all’Università di Parma. Una selezione delle sue fotografie è presso la Galleria degli Uffizi di Firenze. La sua opera (Contro tutte le guerre) è stata esposta alla Mostra d’Arte Biennale di Venezia (2011) e adesso è nella Galleria degli Uffizi di Firenze. Fa parte di Reporters sans frontières.

SEDE: Magma Follonica – Comprensorio ex Ilva

ORARIO: 15.30-19; chiusa il lunedì

INGRESSO: Intero € 5.00; Ridotto € 4.00 (12-18 anni e studenti universitari, Over 65, Gruppi >15 e associazioni convenzionate); Scuole € 2.00; Omaggio (under 12, Insegnanti con classi, Guide con gruppi disabile con accompagnatore, Icom, Mibac, Edumuseicard)

INFO: Tel. 0566 59027 / 59243 – www.magmafollonica.it/

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Così il turismo è come veleno. Lo Stato salvi Venezia e l’Italia

22/02/2017 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Ernesto  Galli della Loggia   Corriere della Sera 14 febbraio

A costo di apparire ripetitivi e noiosi, a costo di doversi sentire dire che bisogna occuparsi come al solito di «ben altro», non bisogna stancarsi invece di dirlo e di scriverlo: il nostro patrimonio urbano, paesaggistico e artistico è sull’orlo del collasso. E di questo collasso, delle sue cause e dei suoi modi Venezia, grazie alla sua assoluta unicità, è il simbolo massimo. A cominciare per l’appunto dalle cause di un tale collasso. E allora, proprio prendendo l’esempio di Venezia, diciamolo chiaro e forte: oggi è principalmente il turismo a mettere in pericolo il futuro.

Il turismo, infatti, ci porta ogni anno fiumi di denaro ma in cambio produce un danno enorme alla ragione stessa della propria esistenza, e cioè alla bellezza italiana. Basti pensare che ogni anno si abbatte su Venezia, per l’appunto, la quantità inaudita di circa 30 milioni di turisti, qualcosa come più o meno la metà della popolazione italiana. I turisti calpestano, urtano, affollano tutto all’inverosimile, si sdraiano dovunque — sui gradini di ogni chiesa, di ogni ponte, sui minimi spazi liberi — obbligando i passanti a scavalcare i loro corpi e i loro zaini. Ma soprattutto i turisti vanno alloggiati e rifocillati. E allora lungo calli e vie ecco pizzerie, kebab, sandwicherie, hostarie, alternarsi in una ridda paradossale alle boutique delle griffe dai prezzi più astronomici, alle rivendite di limoncello e parmigiano, ai negozi della paccottiglia made in Vietnam. Miliardari sudamericani, commessi macedoni, operai giapponesi, avanti, avanti c’è posto per tutti. Per la notte infine si aprono le porte dei mille alberghi ma soprattutto di un terzo o forse la metà, si calcola, delle abitazioni della città, le quali sono adibite ormai da anni (perlopiù illegalmente) a vere o finte seconde case, a bed and breakfast clandestini, a microappartamenti alla giornata.

Venezia è ormai irrimediabilmente una città fantasma, l’originale di una Disneyland che è già eguale alla propria copia. Una mostruosità. Dove ogni giorno arrivano navi da crociera di oltre 100 mila tonnellate attraverso il bacino di San Marco, passando dunque sì e no a 500 metri dalla basilica. Uno spettacolo tra il fantasy e l’horror: puro stile Disneyland appunto. Una città fantasma cui presiede però un sindaco vero che si chiama Luigi Brugnaro e che — tanto per far capire ai lettori come la pensa — è uno che dice di non amare né i filosofi né i professori (c’è assolutamente da credergli), e che contro le suddette navi protestano «solo gli estremisti»; che per il futuro di Marghera prospetta un programma del genere: «sul waterfront grattacieli fino a cento metri quanti ne vogliono, con terziario residenziale, alle spalle una zona industriale» (dunque grattacieli con affaccio solo sul davanti, immagino); e quanto al turismo ha poche idee ma fulminanti: «Quando hai fame prima pensi a riempire il frigorifero, poi a mangiare meglio. Se elimini il turismo si svuota il frigo e non mangiamo più».

Ma il punto con il turismo è proprio questo: riempie il frigo e tuttavia i proprietari del medesimo frigo non pensano che esso sia mai riempito abbastanza. Dunque guai a chi voglia mettere loro un limite. Lo sfruttamento selvaggio delle risorse turistiche ha così creato a Venezia come in molti altri luoghi della Penisola un vasto intreccio d’interessi che tiene insieme tanto i proprietari del frigo che quelli che hanno il permesso di aprirlo solo una volta al mese: un intreccio che risulta virtualmente inespugnabile e mira in pratica a essere il padrone della politica locale e delle sue decisioni. Troppo spesso riuscendoci.

Anche in conseguenza di un fatto che ha dell’incredibile. E cioè che l’Italia non ha alcuna specifica autorità politica nazionale responsabile per il turismo: solamente un’agenzia volta alla promozione dell’offerta turistica e peraltro da tempo immemorabile agonizzante per totale mancanza di fondi e dunque ridotta all’impotenza. Quindi nessuna pianificazione con relativi obiettivi, nessun tentativo di governo dei flussi grazie a opportune incentivazioni e disincentivazioni, nessun’iniziativa altresì per impedire i diffusissimi abusi ai danni dei turisti, nulla. Così tutto è frantumato in mano alle Regioni. Vale a dire in mano alla ben nota lungimiranza, disinteresse, e capacità di governo mediamente propri delle loro classi politiche. E di cui resta testimonianza memorabile, proprio a Venezia, il Mose con la sua ramificata Banda Bassotti composta quasi tutta di veneti purosangue (vero presidente Zaia? Ma un tempo non era Roma ad essere «ladrona»?)

Il turismo, insomma, è diventato il nuovo veleno che sta uccidendo i paesi e le città italiani, il nostro patrimonio d’arte e di cultura, spesso il nostro modello di vita e di relazioni sociali. C’è ancora a Venezia, mi chiedo, un tessuto di vita che in qualche modo possa dirsi veneziano, che abbia a che fare con la storia della città? E se c’è, quanto potrà durare ancora di questo passo? Ed è giusto questo? Ma soprattutto, è giusto che a decidere della sorte di Venezia siano solo gli iscritti all’anagrafe della città? Che il sindaco di Venezia tutto solo possa decidere ad esempio di progettare un nuovo terminal marittimo o un nuovo canale che consenta di accrescere l’afflusso in laguna delle grandi navi? Che sempre lui da solo possa consentire feste ed eventi devastanti tipo Carnevale, rinviare sine die il piano per il traffico acqueo, rilasciare licenze di ogni tipo, salvo poi, quando per qualche ragione monta la protesta, allora dare il via a tutto uno scaricabarile, a tutto un nascondersi dietro i «bisogna studiare», «bisogna capire», «mi dispiace ma la competenza non è nostra»? È giusto, ripeto, va bene così? Si risponda come si vuole. A me sembra solo che in qualche caso, come è per l’appunto questo, siano sempre di più gli italiani ai quali piacerebbe che, non dico a decidere, ma almeno a far sentire la propria voce alta e forte ci fossero uno Stato e un governo italiani.

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Le piazze di Firenze e l’arte contemporanea

01/12/2016 da Sergio Casprini

la-maesta-traditaFirenze  tra il XIII ed il XIV secolo ebbe un grande sviluppo urbano grazie all’affermazione di una società mercantile e manifatturiera ed alla presenza di chiese e conventi di ordini religiosi, arrivati in città a riaffermare i valori cristiani contro il predominio tra i fiorentini di interessi meramente materiali ed economici.

Nacquero allora le grandi piazze che conosciamo oggi da quelle del potere politico, Piazza Signoria a quelle a vocazione religiosa da Santa Croce a Santa Maria Novella, da San Marco a Santo Spirito. per citarne alcune, luoghi anche di incontri e di mercati per gli abitanti dei quartieri che nel frattempo si erano andati formando attorno alle chiese conventuali.

Nell’Ottocento poi, negli anni dei Risorgimento, le piazze da proiezioni simboliche delle comunità religiose diventano luoghi deputati ad  accogliere i valori laici e civici di una comunità nazionale, con la realizzazione di monumenti dedicati ai protagonisti maggiori e minori della storia d’Italia.

Poi negli anni è proseguita quest’opera di sensibilizzazione culturale e pedagogica con la promozione negli spazi urbani di manifestazioni  civiche e di eventi artistici, per cui recentemente in occasione di mostre di artisti contemporanei vengono collocate temporaneamente nelle piazze le loro opere che interagiscono con i monumenti del passato.

Una contaminazione con l’arte del passato non facile, dato il valore spesso criptico, provocatorio, esteticamente sgradevole e talora kitsch delle opere d’arte contemporanee, che non rispettano  volutamente i canoni della bellezza classica.

E se non sorprendono le reazioni contrastanti dei fiorentini che si dividono anche in campo culturale tra guelfi e ghibellini come alla fine dell’Ottocento nella scelta della nuova facciata di Santa Maria del Fiore tra forma cuspidale e basilicale, sorprendono invece le reazioni negative da parte del soprintendente fiorentino, che ritiene lesiva della bellezza e della spiritualità dei luoghi la presenza, sia pure temporanea di opere d’arte contemporanee, affermando così un’idea meramente conservatrice di Firenze come vetrina ed immagine del suo celebre passato di città rinascimentale.

Non convincenti sono pure le critiche, venate tra l’altro di pregiudizi ideologici, di storici dell’arte, come Tomaso Montanari, per il quale l’amministrazione comunale propone iniziative di scarso valore artistico, culturale, con l’aggravante di sottostare agli interessi del mercato internazionale dell’arte, al servizio quindi dei poteri politici ed economici  della società capitalistica, dimenticando che l’arte nel passato, da Montanari considerata di qualità superiore per  canoni  estetici e per aspetti etici e pubblici, era espressione delle élites politiche, economiche ed altresì religiose di allora e ignorando pertanto che dietro le opere di Arnolfo da Cambio e di Brunelleschi, di Andrea Pisano e di Donatello, di Giotto e di Masaccio c’erano gli interessi corposi di mercanti e banchieri, dei Sassetti e dei Peruzzi, dei Medici e degli Strozzi!

Va rilevato invece come questo uso pubblico in senso culturale delle piazze fiorentine confermi da una parte la vocazione turistica di una città, patrimonio sempre più dell’umanità, ma sempre meno dei suoi residenti, e dall’altra non contrasti il progressivo degrado urbano e peggiori la qualità della vita per i fiorentini, quando il centro storico torna ad essere vissuto quotidianamente al termine dell’evento artistico.

Le piazze allora ripiombano nell’anonimato, teatro di giorno delle scorrerie del turismo di massa, della movida selvaggia di notte, con soste abusive di macchine e moto in zone pedonali e poggi e buche nelle strade circostanti.

In questi giorni ha suscitato opinioni contrastanti, plausi e feroci critiche la Maestà tradita, l’opera di Gaetano Pesce collocata davanti al sagrato della basilica di Santa Maria Novella, in quanto per alcuni sarebbe un’offesa alla bellezza del luogo, mancanza di rispetto della sacralità dell’edificio religioso e tradirebbe pertanto l’anima artistica di Firenze.

Invero saranno traditi solo i Fiorentini, i quali alla partenza della statua di Pesce ritroveranno la Piazza di Santa Maria Novella priva di decoro e dignità urbana, sede sovente di fiere gastronomiche e di mercatini multi etnici, questi sì all’insegna del Kistch e di una logica meramente commerciale !


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La bellezza perduta nelle nostre città

14/10/2016 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Ernesto Galli della Loggia  Corriere della sera 9 ottobre

A chi appartengono Firenze, Roma, Venezia, i grandi luoghi della bellezza italiana? A chi anche quelli meno noti, i tanti borghi sparsi nella Penisola, per esempio quelle autentiche gemme dell’Umbria che sono Bevagna e Montefalco? Chi ha titolo a decidere del loro destino? si chiede inevitabilmente chi oggi visita questi luoghi . Se lo chiede davanti allo spettacolo dello scempio che se ne sta facendo. Lasciamo perdere la calca soffocante dei turisti italiani e stranieri che si aggirano di continuo in un paesaggio urbano in genere concepito per la ventesima parte di quelli che oggi vi aggirano.
Lasciamo perdere dunque le gimkane tra le gambe della gente sdraiata come se nulla fosse in mezzo alla strada, o il percorso continuo a zig zag cui si è costretti per evitare di essere travolti da gruppi di turisti procedenti come rulli compressori con gli occhi fissi sul segnacolo brandito dalla loro guida, e lasciamo perdere pure gli assalti ai mezzi pubblici, o le pipì in mezzo alla strada e i tuffi nei canali delle cronache di questa estate. Ma quello che non si può lasciar perdere è lo stupro dei luoghi, lo stravolgimento dell’ambiente fino alla sua virtuale cancellazione. Tutto quello che il passato aveva fin qui prodotto – botteghe, commerci, edicole, angoli appartati , dignitosi negozi – tutto o quasi sta per scomparire o è già scomparso.

Al suo posto minimarket, rivendite di cianfrusaglie orribili spacciate per souvenirs, losche hostarie con cibi congelati, caldarrostai bengalesi in pieno luglio, miriadi di bugigattoli per pizze a taglio, pub improbabili, sedie e tavolini straripanti fino alla metà della strada e presidiati da petulanti «buttadentro», gelaterie in ogni anfratto. Per non dire dello stuolo infinito di rivenditori extracomunitari di merci false, delle mille insegne in un inglese «de noantri», della marea di Bed & Breakfast spuntati dovunque come funghi. Non chiudiamo gli occhi di fronte alla realtà: i centri storici (e non solo loro) delle più belle città italiane e molte delle località cosiddette minori sono ridotti a questa informe poltiglia turistico- commerciale. Un cinico sfruttamento affaristico si sta mangiando ogni giorno un pezzo del nostro passato, del nostro Paese, un pezzo di quella «grande bellezza» di cui pure ama riempirsi la bocca la sempiterna retorica della chiacchiera politica.
Di tutto quanto ho detto conosciamo i responsabili. Sono per la massima parte i poteri locali, le amministrazioni comunali, gli assessori e i sindaci. Questi ultimi soprattutto, per la loro funzione di guide e di responsabili politici ultimi. Sono i Comuni infatti che rilasciano le licenze commerciali, che autorizzano il cambiamento della destinazione d’uso dei locali, che emanano le regole circa l’arredo urbano. Sono essi infine che dispongono della polizia locale la quale — anche su ciò è ora di dire una parola di verità — specie nei grandi centri da Roma in giù rappresenta uno dei tanti aspetti scandalosi di questo Paese, essendo quel ricettacolo che essa abitualmente è di clientele politiche e di assenteismo, esempio di una conclamata approssimazione professionale quando non di peggio. E’ la polizia urbana agli ordini dei sindaci che non controlla nulla, non è mai presente, lascia correre, fa finta di non vedere.

Il fatto è che i sindaci hanno un interesse preciso a fare andare le cose nel modo in cui vanno. Si chiama democrazia. Non la democrazia come ideale , beninteso, al quale siamo tutti devoti, ma la democrazia come realtà. Cioè come suffragio elettorale, come necessità di ottenere e mantenere il consenso degli elettori. Al pari di ogni altro politico l’interesse primo di ogni sindaco è quello di essere rieletto (è vero che non possono esserlo più di una volta nelle località al di sopra dei 15mila abitanti, ma un sindaco che anche dopo due mandati consegna la propria amministrazione agli avversari non ha certo delle buone credenziali per vedersi candidato ad altri incarichi); egli dunque non deve assolutamente dispiacere ai propri elettori. Soprattutto là dove il turismo è una risorsa essenziale ciò significa non dispiacere alle categorie che vivono più o meno direttamente del turismo: ai commercianti, agli albergatori, ai ristoratori, ai tassisti, ma anche alla connessa proprietà edilizia e a tutta la pletora di «abusivi» che ruota intorno all’organizzazione dell’ospitalità ( tipo i finti «centurioni» o gli autobus-chiosco diffusi a Roma). Tutti segmenti sociali, quelli appena detti, abituati a organizzare in modo ferreo il proprio voto amministrativo e ad allocarlo su chi promette di non impedire loro di continuare a sfruttare strade, piazze e monumenti per il proprio esclusivo interesse.

Nove volte su dieci determinandone così la vittoria .

Ma se dunque la «grande bellezza» italiana è la vittima predestinata del meccanismo del consenso elettorale a livello locale, è davvero così antidemocratico pensare di neutralizzare un tale meccanismo? Pensare ad esempio di dare al Ministero dei Beni culturali , attraverso i suoi organi periferici quali le Soprintendenze, la facoltà di porre il veto su un certo numero di atti amministrativi concernenti le materie di cui si è discorso sopra? E’ davvero antidemocratico , ricorrendo certe condizioni (tasso di assenteismo, numero di procedimenti disciplinari e giudiziari a carico dei loro componenti) pensare ad esempio di mettere le polizie locali agli ordini di un ufficiale dei Carabinieri temporaneamente distaccato in aspettativa dall’Arma?

Il fatto è che in società dal fragile spirito civico come la nostra, abitate da interessi privati furiosamente indisciplinati, la pedissequa applicazione del suffragio elettorale può spesso risolversi in un danno reale e grave inferto proprio ai valori sostanziali, al bene comune, per la cui difesa la democrazia è stata pensata. Classi politiche degne di questo nome, le quali non si lasciassero intimidire dalle parole ma guardassero ai fatti, dovrebbero convincersene e agire di conseguenza.

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Firenze e la notte

01/10/2016 da Sergio Casprini

Lapide posta nel 1742 in piazza del Giglio a Firenze in cui gli Otto di Balia ( magistratura fiorentina) minacciano sanzioni pecuniarie e pene a chi gioca e fa schiamazzi in piazza e nei vicoli
Lapide posta nel 1742 in piazza del Giglio a Firenze in cui gli Otto di Balia ( magistratura fiorentina) minacciano sanzioni pecuniarie e pene a chi gioca e fa schiamazzi in piazza e nei vicoli

Alla Biblioteca delle Oblate a Firenze si è tenuto il 22 e 23 settembre il convegno internazionale “Nightlife and the city: Movida, strategie e pratiche europee di convivenza.

Già il titolo in inglese del convegno, promosso dall’Associazione Nazionale Comuni Toscani e dal Coordinamento Toscana Comunità di Accoglienza, con il patrocinio della regione Toscana e del comune di Firenze, era l’ennesima prova nella patria di Dante di provincialismo e di sudditanza culturale, poi nel programma presentato nella locandina la Qualità della notte con gli interventi di sociologi ed amministratori veniva considerata solo nella capacità di saper gestire le dinamiche del divertimento nelle diverse realtà urbane europee, non nelle proposte di contrastare i fenomeni di degrado urbano, per la musica ad alto volume, gli schiamazzi, il consumo sregolato di alcool e droga, il venir meno di condizioni d’igiene e sicurezza per i residenti che subiscono impotenti la cosiddetta Movida molesta in alcune zone del centro storico.

Insomma è stato lisciato il pelo al popolo della notte, formato soprattutto dai giovani, e non sono state affatto considerate le esigenze di chi giustamente dedica la notte al riposo, come fossero solo uggie di vecchi bacchettoni e brontoloni.

Altro fattore di degrado nelle città d’arte come Firenze è pure la movida del turismo di massa, per cui piazze e strade si trasformano di giorno e di sera in tanti piccoli suk arabi e tappetini e banchi punteggiano i siti artistici e monumentali, da Ponte Vecchio al Battistero.

Dal 1895 in cima all’Arcone, che chiude piazza della Repubblica, c’è un cartiglio con l’epigrafe, dettata da Isidoro Del Lungo a memoria della grande operazione urbanistica ottocentesca, “l’antico centro della città da secolare squallore a vita nuova restituito”.

Viene celebrato così in maniera altisonante il piano di risanamento e di ingrandimento della città dell’architetto Giuseppe Poggi, approvato ed iniziato negli anni di Firenze Capitale, tacendo sulle radicali distruzioni di una parte consistente dell’antiche vestigia fiorentine, ma cogliendo però il valore ed i meriti del progetto del Poggi,

Oltre a dare un volto moderno ed europeo a Firenze, con nuove infrastrutture dai Lungarni ai viali di Circonvallazione e creazione di nuovi quartieri sia borghesi che popolari, nella ricerca di un decoro urbano e di condizioni civili di convivenza contro la fatiscenza ed il degrado del centro storico, il Poggi ha tenuto conto pure delle esigenze ludiche degli abitanti, realizzando degli spazi di verde pubblico, fino allora inesistente a parte l’uso saltuario ai tempi dei Lorena del parco delle Cascine , realizzando infine un parco dei divertimenti, il Tivoli, nei pressi del Piazzale Michelangelo ( fuori quindi dalla cerchia urbana !).

La Firenze del Poggi, città borghese ed aristocratica, specchio di un mondo elitario e cosmopolita, non è certo la Firenze di oggi governata da un potere meno paternalistico e più democratico, condizionata altresì dai processi di massificazione e globalizzazione della società italiana, e le notti fiorentine, rumorose e da tempo illuminate dalle luci delle strade e dei tantissimi locali aperti fino a tardi, non sono quelle silenti e buie della città ottocentesca, ma le regole della convivenza civile, il rispetto della quiete pubblica, valgono a maggior ragione oggi più che ieri, dal momento che i fiorentini non sono più sudditi dei Lorena e dei Savoia, ma cittadini di uno stato democratico nella pienezza dei loro diritti, compresi quello del riposo e della salute nelle ore della movida notturna!

Ed allora perché non riprendere l’idea del Poggi di spostare gli spazi del divertimento fuori dalle zone residenziali, sempre nel rispetto della quiete pubblica, lasciando solo ai cinema, ai teatri e ai bar in città la possibilità di chiudere i loro esercizi come avveniva in passato e cioè entro l’una di notte ?

D’altronde non è avvenuto lo stesso il secolo scorso per buona parte delle attività produttive presenti in città?

Infatti per ragioni di igiene, compreso il rumore che producevano gli impianti, sono state considerare nocive, non adeguate alla vicinanza alle abitazioni e sono state progressivamente trasferite fuori dalle zone residenziali.

Senza la musica a palla nei locali, gli schiamazzi per le strade e le piazze e senza l’uso eccessivo della illuminazione artificiale chissà se non potrebbero  tornare ad essere attuali  alcuni versi di una canzone fiorentina del 1938, sicuramente datata da un punto vista musicale ma pertinente per una vita notturna a misura di tutti i fiorentini: Firenze stanotte sei bella in un manto di stelle, che in cielo risplendono tremule come fiammelle… Sull’Arno d’argento si specchia il firmamento, mentre un sospiro e un canto, si perde lontano…

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L’Opificio delle Pietre Dure

26/09/2016 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

copertinaL’Opificio delle Pietre Dure ha sede a Firenze  ed è un Istituto Centrale dipendente dalla Direzione generale educazione e ricerca del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo. La attività operativa e di ricerca dell’Opificio si esplica nel campo del restauro, della conservazione delle opere d’arte e dell’insegnamento del restauro. Il diploma che rilascia l’Opificio è equiparato al diploma di laurea magistrale. L’istituto nasce dalla fusione di due realtà diverse per storia, ma, nel tempo, divenute affini per scopi e finalità: nel 1975 con la legge istitutiva del Ministero per i beni culturali ed ambientali tutti i laboratori di restauro fiorentini (l’antico Opificio delle Pietre Dure ed i laboratori di restauro fiorentini) vennero riuniti sotto il nome e l’egida dell’Opificio delle Pietre Dure, grazie allo status di autonomia di cui l’antica istituzione già godeva.

L’antico Opificio delle Pietre Dure

Il primo nome, Opificio delle Pietre Dure, risale direttamente ad una delle antiche manifatture artigianali e artistiche di epoca granducale a Firenze, istituito nel 1588 nell’ex-convento di San Niccolò dal Granduca Ferdinando I dei Medici come manifattura di opere in pietre dure, la cosiddetta arte del commesso fiorentino, con la quale si realizzano tuttora splendidi intarsi con pietre semipreziose. In particolare il granduca aveva bisogno di formare le maestranze necessarie per realizzare la grande cappella dei Principi in San Lorenzo, coperta di marmi intarsiati. Esistevano già tuttavia maestranze deputate a tale attività almeno nei laboratori creati da Francesco I dei Medici nel Casino di San Marco, dai quali si originò poi l’Opificio.

Il commesso a differenza del mosaico non usa tessere geometriche, ma intaglia pezzi più grandi, scelti per colore, opacità, brillantezza e sfumature delle venature, creando un disegno figurato. Si realizzarono così opere d’arte di straordinario valore, dai mobili a oggetti vari, fino a copie perfette di pitture da appendere, che oggi arricchiscono i musei di tutto il mondo testimoniando la genialità e la tecnica degli artigiani fiorentini.

Alla fine del XIX secolo, con il tramonto della dinastia medicea prima e lorenese poi, cessò anche la richiesta di produzione di arredi in commesso di pietre dure e si passò dalla attività di manifattura a quella del restauro della produzione precedente. A questo tipo di attività di restauro si aggregarono altri laboratori simili per materiali su cui si interveniva, come il mosaico e le opere d’arte lapidee.

L’istituto è diviso in settori che corrispondono ai diversi materiali di cui si compongono le opere d’arte. È sede, inoltre, di una Scuola di Alta Formazione e di Studio , di un museo e di una biblioteca altamente specializzata nel settore del restauro. L’istituto è diviso in tre diverse localizzazioni:

  • la storica sede di via degli Alfani 78, che ospita i laboratori di restauro del commesso e mosaico, dei materiali lapidei, dei bronzi, delle oreficerie, dei materiali ceramici; la scuola, la biblioteca e il museo;
  • la grande sede della Fortezza da Basso, con i laboratorio di restauro dei dipinti, dei materiali cartacei, dei materiali tessili e delle sculture lignee;
  • la sala delle Bandiere in Palazzo Vecchio, per gli arazzi.

La sede storica occupa una porzione dell’antico monastero di San Niccolò di Cafaggio, soppresso nel 1783. Lo stesso granduca espresse la volontà di ridisegnare e quindi destinare il complesso a una accademia, scelta che nel corso del tempo determinò la riconfigurazione della struttura – previo progetto di riduzione redatto da Bernardo Fallani e quindi lavori diretti prima da Gasparo Maria Paoletti e poi da Giuseppe Del Rosso – e la sua destinazione ad accogliere istituzioni comunque riconducibili a questa indicazione: l’Opificio delle Pietre Dure per questa porzione e l’Accademia di Belle Arti per l’area su via Ricasoli verso via Cesare Battisti, quest’ultima a occupare anche gli spazi già dello Spedale di San Matteo. La manifattura delle pietre dure fu trasferita in questi locali pochi anni dopo, nel 1798, ma vantava una ben più antica storia.

Il Museo annesso all’Opificio delle Pietre Dure, in via degli Alfani 78, oggi moderno centro specializzato nel restauro, è diretta filiazione della manifattura artistica caratterizzata dalla lavorazione delle pietre dure, che fu ufficialmente fondata nel 1588 da Ferdinando I de’ Medici. La fisionomia del Museo non corrisponde ad una precisa volontà collezionistica, ma è piuttosto riflesso della vita e delle vicende della secolare attività produttiva. Le creazioni più prestigiose, oggetto sovente di dono da parte dei granduchi fiorentini, sono conservate nelle regge e nei musei di tutta Europa, mentre nei laboratori di produzione sono rimaste opere incompiute, o risultato di modifiche e smontaggi successivi, e quanto è sopravvissuto alle dispersioni ottocentesche, che ebbero termine nel 1882 con la musealizzazione della raccolta. Questa, che comprende esemplari di grande suggestione e raffinatezza, è comunque sufficiente a delineare un percorso storico della manifattura che si snoda attraverso tre secoli. Resta inoltre una importante riserva di marmi antichi e di pietre dure raccolte in funzione della tecnica del commesso. Il Museo è stato ristrutturato, su progetto di Adolfo Natalini, nel 1995. Il riordino della raccolta, curato da Anna Maria Giusti, segue un criterio tematico: nelle sale ricavate dal salone sono documentate le produzioni del periodo granducale mediceo e lorenese, nelle salette ottocentesche quelle del periodo postunitario. il piano rialzato del salone è dedicato alle tecniche di lavorazione: dal ricco campionario lapideo, ai banchi da lavoro, agli strumenti, fino alla esemplificazione didattica di alcune fasi di produzione di tarsie e di intagli. Si può in tal modo ripercorrere il processo completo, dall’ideazione all’opera finita, e scoprire i meccanismi più intimi di un affascinante episodio di storia artistica fiorenti

Orario di apertura

  • Il Museo dell’Opificio delle Pietre Dure è aperto dal lunedì al sabato dalle ore 8.15 alle ore  14.00;
  • La Biglietteria e il bookshop chiudono  alle ore 13,30;
  • Chiuso: la domenica, i giorni festivi e il 24 giugno, festa del Patrono di Firenze

Biglietto

  • Biglietto intero:     4,00 euro
  • Biglietto ridotto:    2,00 euro 
  • Biglietto gratuito   

Riduzioni e gratuita secondo la normativa in vigore per i musei statali.

 

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Le vedute di un patriota

03/08/2016 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Romantico e anticonformista per tutta la vita inseguì un suo ideale di vita artistica e politica.

A 150 anni dalla morte di Ippolito Caffi e dall’annessione di Venezia e del Veneto all’Italia, una grande mostra celebra il più innovativo vedutista dell’Ottocento, visionario e patriota. Per la prima volta dopo cinquant’anni, esposto per intero il fondo di oltre 150 dipinti donato dalla vedova alla città. 150 anni fa muore, durante la battaglia di Lissa nell’affondamento della Re d’Italia – sulla quale si era imbarcato per testimoniare le vicende belliche con l’incisività dei suoi disegni – Ippolito Caffi (1809-1866), bellunese di nascita e veneziano d’elezione, straordinario pittore -reporter, irrequieto osservatore della società e convinto patriota. 150 anni fa (quasi un segno del destino!) il Veneto e Venezia vengono annessi all’Italia. Venezia: la città che Caffi ha maggiormente amato, lottando per la sua libertà, e di cui ha tradotto in pittura la struggente bellezza, con una capacità di sintesi che non ha eguali in tutto il secolo.

È in questa coincidenza di ricorrenze che l’imponente fondo di dipinti di Caffi appartenente alla Fondazione Musei Civici Venezia – che ha avviato un’intensa attività di valorizzazione del proprio patrimonio – viene esposto integralmente, a distanza di cinquant’anni, in una grande mostra in programma al Museo Correr dal 28 maggio al 20 novembre 2016, promossa dalla Fondazione MUVE insieme a Civita Tre Venezie e a Villaggio Globale International e curata da una delle massime studiose del pittore, Annalisa Scarpa.

Una mostra che è un tributo a quello che possiamo considerare il più moderno e originale vedutista del tempo, insuperabile nell’immortalare con la sua pittura di luce l’anima di luoghi e di popoli incontrati in tanti viaggi in Italia, in Europa e nel bacino del Mediterraneo. Ma soprattutto un tesoro – pressoché inesplorato e stupefacente nel suo complesso – che finalmente riemerge: un nucleo pittorico di oltre 150 opere che la vedova di Caffi, Virginia Missana, ha donato alla città nel 1889 insieme ad altrettanti disegni sciolti e a ventitré album. I dipinti di Caffi – abitualmente conservati nei depositi di Ca’ Pesaro e di cui si realizza ora il primo catalogo ragionato edito da Marsilio – danno testimonianza di tutte le città e le regioni visitate e sono la più completa raccolta esistente del percorso artistico d’un pittore dell’Ottocento che fu viaggiatore instancabile ora per inquietudine personale, ora per insaziabile curiosità culturale. Fossero i luoghi del suo viaggiare una scelta, come il Vicino Oriente ma anche Roma e Napoli, o fossero mete obbligate dalla propria militanza patriottica, egli ce ne ha lasciato un’immagine artisticamente viva, vitale e socialmente inedita nella capillarità dei suoi vagabondaggi e delle sue esplorazioni. Ne emergono istantanee di monumenti, di architetture, di spazi urbani e di vita sociale che colgono e trasmettono tanto poeticamente quanto meticolosamente il volto di gran parte dell’Ottocento. Ne emerge soprattutto la modernità della pittura di Caffi rispetto ai canoni del suo tempo.Definito per la sua abilità prospettica l’ultimo erede di Canaletto, Ippolito Caffi supera in realtà ed elude la tradizione canalettiana, arricchendola con un’accentuata comprensione del dato atmosferico e un ricercato studio sugli effetti di luce, fino a traghettare il genere del vedutismo verso la contemporaneità. È una luce “emotiva” quella che Caffi traduce in pittura e che rende i suoi quadri tanto poetici, affascinanti e amati; una capacità di analisi di ogni sfumatura ambientale così come di ogni elemento architettonico e urbanistico percepito con inusuale empatia. Una miscela geniale di bagliori artificiali e di luce naturale: effetti chiaroscurali che scardinano il concetto di vedutismo tradizionale, applicando un’inedita ottica che raggiunge formule modernissime, in un gioco continuo tra il “sublime” e il “pittoresco”.

Ecco Ippolito Caffi, artista ma anche uomo travolgente: una vita che scorre come in un romanzo tra arte e passione politica.

 

A cura di Annalisa Scarpa

Catalogo Marsilio

Promossa e prodotta da Fondazione Musei Civici di Venezia, Civita Tre Venezie, Villaggio Globale International

Orari

dal 1 novembre al 25 marzo 10.00 – 17.00 (biglietteria 10.00 – 16.00)

dal 26 marzo al 31 ottobre 10.00 – 19.00 (biglietteria 10.00 – 18.00)

Chiuso il 25 dicembre e 1 gennaio

 
BIGLIETTO I MUSEI DI PIAZZA SAN MARCO

Un unico biglietto valido per: Palazzo Ducale e per il percorso integrato del Museo Correr, Museo Archeologico Nazionale, Sale Monumentali della Biblioteca Nazionale Marciana. Ha validità per 3 mesi e consente una sola entrata a Palazzo Ducale e al percorso integrato.

Biglietto intero: 19,00 euro

Biglietto ridotto: 12,00 euro

Ragazzi da 6 a 14 anni; studenti dai 15 ai 25 anni; accompagnatori (max. 2) di gruppi di almeno 15 ragazzi o studenti; over 65 anni; personale del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo (MiBACT); titolari di Carta Rolling Venice; soci FAI

 SPECIALE I MUSEI AL CHIARO DI LUNA

Dal 20 maggio tutti i venerdì, sabato e domenica aperture speciali di Palazzo Ducale e Museo Correr* (compresa la mostra “Ippolito Caffi 1809-1866. Tra Venezia e l’Oriente“) fino alle 23Tra Venezia e l’oriente: l’arte di Ippolito Caffi in mostra al Museo Correr

 

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