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Risorgimento Firenze

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letteratura

FuturPiaggio – 6 lezioni italiane sulla mobilità e sulla vita moderna’

27/04/2018 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Museo Piaggio Viale Rinaldo Piaggio, 7 – Pontedera (PI)

Il 21 Aprile il nuovo Museo Piaggio si apre con la mostra “FuturPiaggio – 6 lezioni italiane sulla mobilità e sulla vita moderna”, ispirata all’omonimo volume di Jeffrey Schnapp, nato per celebrare i 130 anni di storia del Gruppo Piaggio.

Attraverso un percorso espositivo di grande impatto estetico, esplicitamente ispirato al futurismo e alla celebrazione del motorismo, la mostra immerge il visitatore nello spirito dell’opera di Schnapp (Professore di Letterature romanze e Letteratura comparata al dipartimento di Architettura e Design di Harvard) per celebrare i 130 anni di storia del Gruppo Piaggio. La mostra, che sarà aperta fino al 10 giugno, analizza il concetto di mobilità sviluppato dal Gruppo nel corso della sua lunga storia, gettando uno sguardo sul futuro di quello che oggi è il primo player europeo nella mobilità leggera.

Dopo 18 anni di attività e un successo segnato da 600mila visitatori, il Museo Piaggio si rinnova completamente e cresce da 3.000 a oltre 5.000 metri quadrati, con oltre 250 preziosi pezzi esposti.
Il Museo Piaggio diventa così il più grande e completo museo italiano dedicato al motociclismo, che accoglie esemplari unici che raccontano la storia del Gruppo Piaggio ripercorrendo la storia della mobilità. Perché la memoria storica di Piaggio attraversa l’intera storia dei trasporti: navi, treni, aeroplani, auto, scooter, motociclette sono nate dalla casa madre e dai suoi marchi.
L’aumento della superficie espositiva deriva dalla apertura di due spazi completamente nuovi che, come nella concezione originaria del Museo, sono nati dal recupero e dal restauro di antichi e affascinanti siti industriali. Qui sono accolte le nuove collezioni, una dedicata ai marchi Piaggio e Ape e l’altra alla storia più propriamente motociclistica e sportiva dei marchi Aprilia, Gilera e Moto Guzzi che insieme collezionano lo straordinario palmares di 104 Titoli Mondiali nelle varie specialità del motociclismo sportivo, dal Motomondiale alle Supermoto, dal Trial alla Superbike.

 

ORARI DI APERTURA
MARTEDÌ – VENERDÌ: 10.00 – 18.00
SABATO: 10.00 – 13.00 | 14.00 – 18.00
DOMENICA: Aperto la seconda e la quarta domenica del mese | 10.00 – 18.00
LUNEDÌ: Chiuso

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Libri per tutti. L’Italia della divulgazione dall’Unità al nuovo secolo

19/03/2018 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Autore      Luca Clerici

Editore     Laterza

Anno         2018

Pag.           260

Prezzo       Euro 24,00

 

Subito dopo l’Unità molti studiosi, veri e propri campioni della divulgazione, si impegnano a diffondere il sapere oltre la tradizionale cerchia dei dotti, interpretando al meglio la lezione illuminista.

Sono intellettuali che vogliono ‘insegnare a fare’, diffondere una nuova cultura laica e incidere nella società più di quanto facciano i letterati ‘puri’. Si tratta di figure oggi quasi dimenticate ma famosissime all’epoca: i naturalisti Antonio Stoppani e Michele Lessona, il medico-antropologo Paolo Mantegazza e Luigi Vittorio Bertarelli, che fonda nel 1894 il Touring Club Italiano. In comune hanno una formazione tecnico-scientifica, un’indiscussa fama internazionale e una straordinaria popolarità, grazie a opere di successo. Personaggi abilissimi nel proporsi al pubblico, fascinosi conferenzieri e instancabili ‘operatori culturali’, questi scrittori contribuiscono a diffondere nuovi generi: dal manuale alla guida turistica, all’almanacco popolare, senza dimenticare la cronaca, sia nera sia giudiziaria, seguitissima. I nuovi scrittori si impegnano nelle istituzioni – nell’università, nei comuni, al Parlamento –, contribuendo a formare una moderna e aggiornata opinione pubblica nazionale.

Un’impresa purtroppo destinata a essere abbandonata dalla classe dirigente con il nuovo secolo, allo scoppiare della guerra.

 

Luca Clerici insegna Letteratura italiana contemporanea all’Università degli Studi di Milano. Si occupa di autori, testi e generi degli ultimi tre secoli, concentrandosi sia sui protagonisti della letteratura istituzionale sia sulla produzione popolare e di massa. Ha studiato la cultura della divulgazione e l’editoria libraria dal Settecento a oggi e ha collaborato con riviste e quotidiani nazionali. Tra le sue pubblicazioni: Il romanzo italiano del Settecento. Il caso Chiari (Marsilio 1997, Premio Amantea); Il viaggiatore meravigliato. Italiani in Italia (1714-1996) (il Saggiatore 1999, Premio Chiavari); Apparizione e visione. Vita e opere di Anna Maria Ortese (Mondadori 2002, Premio Elsa Morante e Premio Brancati); Scrittori italiani di viaggio 1700-1861 (Mondadori 2008, Premio Città di Gaeta); Scrittori italiani di viaggio 1861-2000 (Mondadori 2013).

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Romanzo di uno scandalo. La Banca Romana tra finzione e realtà

03/03/2018 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

  • Autore  Clotilde Bertoni
  • Editore  Il Mulino
  • Collana  Saggi
  • Anno      2018
  • Pagine    382
  • Formato  Brossura
  • Prezzo     Euro 29,00

 

Scoppiato alla fine del 1892, il caso politico-finanziario della Banca Romana resta uno dei più memorabili scandali istituzionali di tutti i tempi. Portò a galla le magagne di un’intera classe dirigente, minacciò di travolgere personaggi del calibro di Crispi e Giolitti, culminò in un processo oscillante tra il melodramma e la farsa, concluso da un verdetto surreale. D’altra parte, fu denunciato da una minoranza parlamentare agguerrita, mobilitò l’opinione pubblica, mise in luce non solo le debolezze ma anche le risorse della democrazia rappresentativa. Zeppo di figure pittoresche, coincidenze spiazzanti e misteri irrisolti, attirò l’interesse sia di autori come Zola e Pirandello sia di scrittori e giornalisti ormai dimenticati, alimentando una consistente ed eterogenea produzione narrativa. Questo libro inquadra il contesto europeo in cui la vicenda si situa, ne ricostruisce il corso attingendo a fonti d’epoca, e propone un’analisi delle principali opere a essa ispirate, da quelle contigue ai fatti fino ad alcune rievocazioni dei giorni nostri.

Clotilde Bertoni è Professore associato di Letterature Comparate e Teoria della Letteratura all’università di Palermo. Allieva di Mazzacurati, si è laureata in Lettere presso l’Università degli Studi “Federico II”. Ha conseguito presso il British Council di Napoli, il Certificate of Proficiency in English, rilasciato dall’Università di Cambridge, e presso l’Istituto Francese di Napoli, il Diplome Supérieur d’Etudes Françaises, rilasciato dall’Università di Grenoble. Nell’Anno Accademico 1987-88 è stata borsista presso l’Istituto Italiano di Studi Storici. Nel 1992 ha conseguito il titolo di dottore di ricerca presso l’Università degli Studi di Bari. E’ stata Visiting Research Fellow presso l’Università di Leicester. Nel 1993 ha conseguito presso l’Università di Bari una borsa di studio post-dottorato. Nel 1996 ha vinto un concorso di ricercatore di Letterature Comparate presso la Facoltà di Scienze della Formazione di Palermo. Nel gennaio 2002 ha ottenuto un’idoneità di professore di II fascia di Teoria Letteraria e Letterature Comparate. Nel dicembre 2002 ha preso servizio come professore di II fascia di questo raggruppamento presso la Facoltà di Scienze della Formazione di Palermo. Collabora alla Scuola Europea di Letterature Comparate Synapsis.Fa attualmente parte del direttivo dell’Associazione italiana di Letterature Comparate.

 

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Un orgoglio tutto italiano

24/01/2018 da Sergio Casprini

Lorenzo Tomasin  Sole 24 ore 21 gennaio

 Che cos’è la storia della lingua? A un italiano colto, anche non laureato in Lettere, la domanda pare abbastanza facile, visto che pure chi voglia avvicinare questa materia per diletto o curiosità si orienta facilmente in biblioteca o in libreria tra volumi piuttosto noti, dalla Storia della lingua italiana di Migliorini, che ha già più di mezzo secolo, fino a vari altri vademecum di una disciplina che nella patria di Dante non ha bisogno di presentazioni. Forse non tutti sanno, però, che l’idea di fare della storia della lingua non un’appendice di altre branche, ma un tronco autonomo e molto ramificato degli studi, è un’idea non esclusiva, ma certo molto tipica dell’Italia, per ragioni che hanno che fare sia con la storia, sia con la lingua di questo Paese, l’una e l’altra inconfondibilmente e talora drammaticamente uniche nel loro genere. Sicché quella storia della lingua di cui in Italia siamo abbastanza abituati a sentir parlare è una disciplina che non sempre trova piena corrispondenza nelle storie delle altre lingue, anche delle grandi lingue europee vicine e per varie ragioni sorelle. Molte di esse non possono contare sull’autonomia, sulla vastità e insieme sull’alta frequentazione della loro storia: in Italia, è un affollato crocevia culturale. Se si parla di tedesco o di francese, d’inglese o di spagnolo, lo storico della lingua è una figura ben inquadrabile nel panorama degli studi, ma accampato su un pendìo incostantemente frequentato, che egli stesso raggiunge in molti casi come un alpeggio temporaneo, e da cui riparte di solito in direzione di studi più nettamente linguistici o più propriamente storico-letterari. Un linguista prestato alla storia (e a quella letteraria in particolare), o un letterato con passioni linguistiche. Le eccezioni ci sono, e numerose. Ma la regola è questa quasi ovunque. Non in Italia, però.

Per spiegare che cosa sia e come si racconti la storia della lingua italiana disponiamo ora, grazie a Luca Serianni (che della materia è riconosciuto maestro), di un nuovo e chiaro riferimento. Il volume Per l’italiano di ieri e di oggi non è l’ennesimo esempio di una categoria editoriale ormai superata, quella della raccolta più o meno artificiosa e posticcia di saggi già editi. Esso è piuttosto il simbolico culmine o una sorta di riassunto della carriera d’insegnamento da poco conclusa da Serianni alla “Sapienza”. Ci si ritrova qui il profilo di uno storico della lingua italiana quale oggi è o dovrebbe essere in forma esemplare e completa. In comune con il collega di letteratura questo tipo di studioso ha un passaporto che gli consente – anzi gl’impone – di attraversare la storia culturale italiana in tutta la sua traiettoria, da Dante all’editoria digitale. Non è un vero storico della lingua, in effetti, chi non può contare – anche senza arrivare alla vastità onnicomprensiva di questo libro – su un’ampiezza d’orizzonti cronologici che si ribella alle angustie di una storiografia sempre più corta, che confonde lo specialismo con la pigrizia. Come il linguista “puro” (quale per avventura non è, né vuol essere), lo storico della lingua può entrare in questioni di fonomorfologia, sintassi, lessico e testualità trattandone con o senza l’appoggio di testi (mettiamo: Interpretare e produrre un testo argomentativo). In comune con il filologo ha, comunque, un’attenzione assidua per la produzione scritta, non importa se letteraria (Carducci gli interessa quanto il barocco Paolo Zazzaroni, Metastasio quanto Fedele d’Amico) o non letteraria (le lettere di Canova lo sollecitano come le pagine di un giornale). Al classicista lo lega una padronanza assoluta del latino (senza cui è impossibile parlare sensatamente d’italiano, non importa se d’oggi o di ieri). Al musicologo, l’interesse per una cultura in cui note e parole s’intrecciano da secoli (Maschile e femminile nella librettistica verdiana). Al pedagogista lo avvicina la cura per l’insegnamento scolastico. Movendosi con la dovuta cautela, lo storico della lingua – quello di valore – ha la competenza e quindi il diritto, che Serianni sa esercitare con misura e raziocinio, di parlar dei problemi di lingua ovunque si affaccino in una società, l’italiana, che di lingua dibatte incessantemente da secoli. Gli si potrà concedere anche di osare una traduzione di un’ode di Orazio? Sì, se si tratta appunto di Luca Serianni, e proprio perché l’esercizio è mirato a dar sostanza a una proposta di ripensamento dei programmi di latino e italiano per i licei. Non per mortificarli una volta di più, ma per contaminarli allargando lo sguardo degli studenti, come lo storico della lingua fa quasi per istinto, al passato e insieme al presente e al futuro dell’italiano.

 

                                                                                                    

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Ama l’italiano

19/01/2018 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Autore Annalisa Andreoni

Editore Piemme

Anno     2017

Pag.       204

Prezzo   Euro 17,50

 

Elegante, musicale, armoniosa, dolce, piacevole, seducente: per chi ci guarda da fuori, la nostra è la lingua più bella del mondo, tanto da farne la quarta più studiata tra le lingue straniere.
Gli italiani, invece, tendono a darla per scontata, ignorando forse che le parole che ancor oggi utilizziamo hanno una storia antica e nobile. È un gran privilegio parlare d’amore, sognare e persino imprecare con le stesse parole di Dante e degli altri grandi della nostra letteratura. Dovremmo emozionarci sapendo di poter passare con facilità da un sonetto di Petrarca a una poesia di Alda Merini, da Ariosto al Fantozzi di Paolo Villaggio, dai poeti siciliani ai testi di Vasco Rossi.

Le altre lingue europee non offrono questa opportunità.

Avere come strumento per esprimersi l’idioma che ha segnato nel mondo la musica, le arti, la scienza, il canto dovrebbe riempirci di ammirazione e orgoglio, e darci la misura delle nostre potenzialità.

Da un’italianista appassionata, una dichiarazione d’amore in otto passeggiate tra i tesori della nostra lingua, da Boccaccio alla “supercazzola” di Amici miei, da Galileo a Benigni, per innamorarsi, o reinnamorarsi, della “lingua degli angeli“, nella definizione di Thomas Mann. L’italiano ricambierà, regalando godimento, fascino, sicurezza in sé stessi e nelle proprie idee. E tutte le parole per le cose più belle della vita.

Annalisa Andreoni Toscana, insegna letteratura italiana all’Università IULM di Milano. Studiosa della modernità letteraria, condirige la Nuova Rivista di Letteratura Italiana, scrive di letteratura e cultura sull’Huffington Post e tiene il blog culturale Generazione Goldrake. Autrice di molte opere universitarie, con il libro Ama l’italiano si rivolge a tutti i lettori.

 

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Fardelli d’Italia e qualche lampo

07/12/2017 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Aldo Cazzullo Corriere della Sera 2 dicembre

«Mia nonna girava per casa con una fettuccia nera legata alla vita a mo’ di cintura dalla quale pendeva un anello con appese due chiavi, nere anch’esse, credo di ferro, di quelle che servono a poco, bastava una forcina per capelli a far girare la rudimentale serratura. Quelle chiavi erano il segno del suo potere, il solo e povero potere di cui disponesse: l’amministrazione della dispensa».

Scrive Corrado Augias di non aver mai saputo con certezza quel che la nonna custodisse con tanta cura, ma di poterlo immaginare benissimo, «poiché le dispense di quelle case erano tutte uguali: una bottiglia d’olio, un po’ di formaggio, dei dadi da brodo, un paio di vasetti di marmellata, forse del miele, qualche scatola di fiammiferi, delle spezie, qualche cartoccio di spaghetti… Il fornaio li vendeva sciolti, le rassicuranti confezioni sigillate da mezzo chilo erano di là da venire. Gli spaghetti erano così lunghi che prima di metterli a bollire bisognava spezzarli con le mani, un crepitio secco che ho sempre immaginato simile a quello provocato dai cavalli normanni di Pascoli quando “frangean la biada con rumor di croste”».

Il nuovo, bellissimo libro di Corrado Augias, Questa nostra Italia (Einaudi), è così: un lessico famigliare in cui fa irruzione quella che l’autore ritiene la vera unificatrice del Paese, la nota che definisce l’identità nazionale: la lingua, la letteratura. E la bellezza, che può prendere l’aspetto di un paesaggio marchigiano o di una poesia di Leopardi. Oppure, se si preferisce leggerlo nell’altro senso, il libro di Augias è una biografia letteraria d’Italia, in cui fanno irruzione le note sulla propria vita: il padre ufficiale dell’Aeronautica testimone della morte di Italo Balbo nel cielo di Tobruk, il servizio militare svolto accanto a una recluta burlona di nome Cesare Previti, le due fondazioni di «la Repubblica» e di Raitre, i periodi a Parigi e a New York, il dialogo faticoso e gratificante con i lettori, il tono alto ed educato del vivere e dello scrivere con una fascinazione rivendicata per il materiale e il mostruoso, il cibo e il circo, la cupezza e l’orrore, il Telefono giallo e il Grand Guignol, i popolani drogati di vino e polenta fatta con farine adulterate che «gridavano una gioia in realtà molto vicina alla disperazione» e lo zio tornato dalla Grande Guerra accecato dai gas: «Temevo e desideravo il momento in cui si sarebbe tolto i grandi occhiali neri che gli nascondevano le orbite, ma non accadde mai».

Coerentemente, quello di Augias non è un libro ottimista. A tratti è dolente, quasi rassegnato al meno peggio. La lettura si fa allora di struggente malinconia, di rimpianto per quello che poteva essere e non è stato: l’agonia di Gobetti nell’esilio parigino, i dolori del giovane Leopardi, di cui scrive la sorella Paolina: «A dì 14 giugno 1837 morì nella città di Napoli questo mio diletto fratello divenuto uno dei primi letterati di Europa. Fu tumulato nella Chiesa di San Vitale, sulla via di Pozzuoli. Addio caro Giacomo: quando ci rivedremo in paradiso?». E poi l’incredulità di fronte alla memoria nostalgica o indulgente per il fascismo, e l’oblio invece riservato ai «giovani messi al muro, chiusi vivi in una bara, impiccati col fil di ferro nei loro poveri abiti, le mani legate dietro la schiena, un cartello al collo “TRADITORE”, “BANDITO”… Nel lampo di pochi anni, quegli slanci, le parole, l’angoscia, l’ultimo grido — “Viva l’Italia!”, “Mamma!” — sarebbe diventato sempre più fievole, perduto nel frastuono».

Il libro è un viaggio nell’Italia dei romanzi, della politica, dell’arte: Venezia, la sola nazione d’Europa a non aver mai bruciato un eretico; l’Istria, «una terra magnifica per natura, italiana anzi veneta per lunga tradizione»; Genova, «Superba per uomini e per mura» come la intuì Petrarca (anche se è difficile considerare genovese Umberto Terracini, nato sì a Genova ma da due famiglie piemontesi e trasferitosi a Torino a 4 anni); la «scontrosa grazia» del Friuli; «la fosca turrita Bologna» carducciana; il bellissimo ritratto morale di Michelangelo e di altri grandi toscani. E poi le antinomie tra le grandi città: «A Napoli non mancano le tragedie ma il colore dominante è quello della commedia, della beffa, dell’oltraggio. A Palermo è l’inverso. La commedia è presente ma a dominare è il cupo incombere della tragedia». Roma «capitale di una burocrazia neghittosa, grande produttrice di intralci e di lungaggini, di una politica inconcludente, di una popolazione anarco-indolente che fa da specchio ad amministrazioni spesso inefficienti… L’immagine di Milano riflette invece una borghesia industriosa, compiaciuta della sua agiatezza però attenta a non mostrarne più del dovuto». Una città borghese.

Il finale non è lieto. Augias ricorda con un sorriso amaro che Nievo aveva inizialmente pubblicato Le confessioni d’un italiano col titolo Le confessioni di un ottuagenario: «Titolo simpaticamente vicino per chi ottuagenario lo è davvero, ha alle spalle una lunga sequenza d’anni dalla quale arrivano, anche nei momenti meno opportuni e di notte, mormorii frammisti a qualche grido, brividi, lampi di luce, talvolta di spavento». E l’animo italiano? C’è, ma è sommesso, balena qua e là, ma è sopraffatto dai localismi e dai rancori, che tendono a crescere anziché diminuire. «Non è bastata nemmeno l’epica di due guerre combattute sotto la stessa bandiera con sofferenze inenarrabili», comprese quelle di un altro zio, tornato dalla Russia a piedi. «Se nemmeno quell’immensa fatica è servita a costruire un immaginario condiviso, vuol dire che per il momento non c’è granché d’altro da fare». E ha ragione quindi Carlo Porta, di cui si cita l’invettiva

A certi forestee che viven in Milan e che ne sparlen:

O Italia desgraziada
cossa serv andà a toeulla cont i mort
in temp che tutt el tort
de vess inscì strasciada
l’è tutt de Tì, nemisa toa giurada!
(…)
Mej i Turch coj soeu pal
che l’invidia e i descordi nazional.

O Italia disgraziata
cosa serve prendersela con chi è
morto
mentre il torto
di essere così stracciata
è tutto tuo, di te stessa nemica
giurata!
(…)
Meglio i Turchi con i loro pali
che l’invidia e le discordie nazionali.

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L’antifascismo e il merito. Alfabeto di un’istituzione: la scuola Normale di Pisa

20/10/2017 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Pier Luigi Vercesi   Corriere della Sera 18 ottobre

Provvide Benito Mussolini a fornire la migliore attestazione d’indipendenza intellettuale alla Scuola Normale superiore di Pisa: «Un nido di vipere» da «tollerare per non far morire di crepacuore» Giovanni Gentile, il filosofo che riformò la scuola italiana. L’antica istituzione non era un cenacolo anti-regime, era semplicemente un’isola dove i clamori della piazza restavano fuori; studenti e professori cercavano di mantenere un’autonomia di pensiero «giustificata» dall’assoluta dedizione agli studi. La Normale, in epoca fascista, era l’unico luogo in Italia dove partire volontari per una guerra voluta dal Capo poteva costare l’espulsione. Ovvio che Mussolini la definisse: «Una locanda i cui dozzinanti pensano di considerare cultura minore quella della rivoluzione», riferendosi, naturalmente, a quella fascista.

La Scuola era nata da un’altra rivoluzione, quella francese: doveva essere una succursale dell’École normale supérieure di Parigi e formare insegnanti. La definizione «Scuola Normale» derivava appunto dalla sua funzione, vale a dire trasmettere agli studenti «norme» che li rendessero idonei all’insegnamento nella scuola secondaria, ovvero «superiore». Il decreto di fondazione porta la data del 18 ottobre 1810, ma l’attività didattica cominciò solo nel ’13, quando la stella di Napoleone era già al tramonto. Operò per un solo anno, salvo rinascere, nel 1846, per decisione del granduca Leopoldo II, e assumere una valenza nazionale con l’Unità d’Italia. Da allora di strada ne ha fatta, se tra i suoi allievi si contano tre premi Nobel (Enrico Fermi e Carlo Rubbia per la Fisica e Giosuè Carducci per la Letteratura) e due presidenti della Repubblica (Giovanni Gronchi e Carlo Azeglio Ciampi), nonché molte delle più brillanti intelligenze italiane.

La Normale, in estrema sintesi, è un grande collegio universitario dove vigono regole severe sul rendimento, la vita comunitaria di studio e lo sviluppo delle capacità analitiche e critiche verificate attraverso una tesina discussa ogni anno. È una scuola competitiva ed elitaria. Era e resta uno dei rari templi italiani del tanto sbandierato merito che tutti evochiamo a parole. L’ammissione avviene per test che privilegiano la capacità di affrontare problemi complessi piuttosto che il mero accumulo di nozioni. Si ispira al proposito originario di selezionare un cenacolo intellettuale «né di ricchi, né di poveri: tutti uguali, perché tutti liberi da cure materiali» — la Scuola provvede al mantenimento degli studenti. L’aspetto elitario non è dunque basato sul censo o sul conto corrente dei genitori, ma sul privilegio di far parte, per qualche anno della propria vita, di una comunità dove ci si può permettere di faticare esclusivamente per la propria formazione intellettuale. I normalisti sono orientati agli studi umanistici o scientifici puri, non a quelli applicati; chi ambisce a futuri lavori ben retribuiti, non passa per questa strada. Raccontata così, la Normale sembrerebbe un’isola alla deriva in una società dove l’ignoranza è sbandierata come un «valore», tutti possono fare tutto anche senza conoscenze e competenze, la politica si impone per slogan e cavalcando paure indotte, la propria realizzazione si misura in euro. Al contrario, è una diga necessaria al declino del Paese.

Come scriveva Hannah Arendt nel suo Origini del totalitarismo: non rispondere in maniera adeguata, quando i tempi lo richiedono, significa mostrare una mancanza di immaginazione e di attenzione pericolose. Ci è parso di individuare un pensiero simile nella prolusione del prof. Vincenzo Barone, direttore della Normale, il quale osserva: «In Italia c’è un problema. L’appiattimento. Si preferisce sacrificare le eccezioni ad alto rendimento per non discriminare la media generale, in nome di un presunto principio di equità che forse nasconde una incapacità congenita di valorizzare ciò che è diverso. Ma privilegiare la media significa condannare il Paese alla mediocrità». Così il nuovo anno accademico viene inaugurato con un dibattito dal titolo: «Insieme diversi: l’era delle differenze, il tempo dell’inclusione». Perché è l’ignoranza che spinge ad escludere, dall’alto e dal basso. Se l’élite aiuta a includere, ben venga.

È una scuola competitiva ed elitaria. Era e resta uno dei rari templi che premiano le capacità

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il mito del Grande Uomo

12/10/2017 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Emilio Gentile   IL sole 24 Ore  8 ottobre

 

La storia universale, la storia di quanto l’uomo ha compiuto in questo mondo altro non è, in sostanza, se non la storia dei grandi uomini che hanno operato quaggiù. Furono questi Grandi, i condottieri dell’umanità; gli ispiratori, i campioni e, in un senso vasto, gli artefici di tutto quello che la moltitudine collettiva degli uomini è riuscita a compiere e conseguire». Così esordiva il filosofo scozzese Thomas Carlyle iniziando a Londra nel 1840 un ciclo di conferenze sul tema «L’eroe, il culto dell’eroe e l’eroico nella storia». Sette anni dopo, due giovani Karl Marx e Friederich Engels che vivevano a Londra affermavano che «la storia di ogni società fino a questo momento, è storia di lotte di classi», assegnando alle masse proletarie la missione di «fare la storia» per emancipare l’umanità e creare, con il comunismo, una società senza classi di liberi e di eguali.

Negli ultimi centosettantasette anni, il corso della storia sembra aver dato più spesso ragione a Carlyle che ai fondatori del comunismo. Può darsi che nell’epoca contemporanea siano le masse a fare la storia, come sosteneva Marx. Ma persino i movimenti che hanno avuto origine dalle sue teorie, a partire dallo stesso “marxismo”, sono stati identificati con un singolo individuo: leninismo, stalinismo, maoismo, castrismo. Lo stesso Lenin dopo la rivoluzione di ottobre, asseriva che per realizzare il socialismo era necessaria «la sottomissione senza riserve delle masse alla volontà unica» di uno solo [il corsivo è di Lenin]. E toccò a Lenin, dopo la morte, di esser trasfigurato in un eroe di Carlyle, ed essere esposto imbalsamato alla venerazione perpetua delle masse. E la stessa trasfigurazione volle imporre Stalin per la sua persona, da vivo e da morto.

Nel mondo attuale, nonostante il quotidiano spettacolo di masse in movimento, risuona ovunque l’invocazione dell’uomo forte; e nuovi uomini forti si esibiscono nell’esercizio del potere, promettendo di guidare le masse disorientate verso la salvezza. Anche se in tempi recenti e meno recenti, sono state le donne, da Indira Gandhi a Margaret Thatcher, ad assumere il ruolo attribuito all’uomo forte, quello, cioè, di governare con autorità, decisione, energia, ed efficacia di risultati, rimanendo per anni al potere col consenso dei governati. Oggi, fra i governanti delle democrazie occidentali, il primato di longevità al potere spetta ad Angela Merkel.

Il culto del grande uomo, nella storia contemporanea, ha avuto origine dal «romanticismo dello straordinario», come lo definisce Jean-Baptiste Decherf, psicoanalista e docente della facoltà parigina di Scienze politiche, nella sua indagine sul «grande uomo e il suo potere». Egli dimostra che è stata soprattutto la cultura romantica a coltivare l’esaltazione del grande uomo come personalità eccezionale, che giganteggia sopra l’anonima mediocre comunità dei mortali, suscitando nelle masse il «fanatismo dell’uomo per l’uomo», come lo definiva Gustave Flaubert nel 1846.

Alla genesi del fenomeno moderno del grande uomo, il «romanticismo dello straordinario» contribuì con la trasfigurazione eroica di Napoleone. Duecentoundici anni fa, il 13 ottobre 1806, Hegel vide lo Spirito del Mondo passare a cavallo sotto la sua finestra, incarnato nella piccola figura di un potente imperatore, assurto alla gloria del potere per virtù della sua possente volontà di dominio. Da Napoleone, personalità «cosmico-storica», come la definiva Hegel, ha avuto inizio nell’epoca delle masse il nuovo culto dei grande uomini, altrimenti denominati uomini rappresentativi, uomini provvidenziali, capi carismatici, individui storici.

Da Napoleone a De Gaulle, la Francia è stato il Paese europeo dove si sono più spesso avvicendati capi con l’aureola dei grandi uomini. E francesi sono gli studiosi che per primi hanno analizzato, oltre cinquanta anni fa, il fenomeno della “personalizzazione del potere”, erroneamente ritenuto un prodotto della attuale crisi delle democrazie (La personalisation du pouvoir, Presse Universitaire de France, Paris 1964). Come francesi sono gli studiosi ai quali si devono le più recenti riflessioni sui grandi uomini (George Minois, Le culte des grand hommes. Des héros homériques au star system, Audibert, Paris 2005 ; Didier Fischer, L’homme providentiel de Thiers à de Gaulle, L’Harmattan, Paris 2009; Jean Garrigues, Les hommes providentiels, Seuil, Paris 2012).

 

Decherf concentra la sua attenzione sul contributo che la letteratura, la storiografia, la filosofia, la psicologia hanno dato alla elaborazione retorica e simbolica del «romanticismo dello straordinario», come cultura dell’immaginario per la costruzione del grande uomo. A tale cultura hanno consapevolmente attinto i capi, sia democratici sia totalitari, che nel corso del Novecento hanno suscitato fra le masse, o imposto alle masse, per produrre la trasfigurazione eroica della loro personalità, come incarnazione mistica di una collettività, avvolgendo la realtà della politica in un’esaltazione onirica capace di condizionare il pensiero e il comportamento della masse.

Mussolini, secondo Decherf, è stato il primo capo contemporaneo ad avvalersi del «romanticismo dello straordinario», attraverso la istituzione del culto del duce nella religione politica del fascismo. E lo studioso francese ha studiato il caso di de Gaulle come ultimo esempio di trasfigurazione onirica della realtà, attraverso il «romanticismo dello straordinario», da parte di un capo che si considerava incarnazione mistica della nazione.

Cosa resta oggi del «romanticismo dello straordinario»? Potrebbe un Hegel del Ventunesimo secolo osservare lo Spirito del Mondo passare sotto la sua finestra incarnato in Angela Merkel? La domanda è solo apparentemente stravagante. Stiamo infatti vivendo in un’epoca di acque tempestose, dove le masse invocano nuovi capi, ai quali affidare il comando della nave, affinché le porti in acque tranquille. Anche se oggi, al «romanticismo dello straordinario», si è sostituito il cinismo dello straordinario.

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60 anni di umanesimo scientifico

24/04/2017 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Armando Massarenti    Il sole 24 ore 16 aprile

E’ il 25 aprile 1945. Ludovico Geymonat vuole che nel colophon dei suoi Studi per un nuovo razionalismo, usciti per un piccolo editore (Chiantore), ci sia scritta, ben chiara, proprio quella data. La Liberazione doveva essere anche una liberazione da una morsa culturale in cui è stretto un Paese che ha abbracciato l’idea che i protagonisti della rivoluzione conoscitiva del Novecento non siano Einstein o Gödel o Freud, ma i pensatori del neoidealismo italiano. Un’idea che, secondo Geymonat, avrebbe condannato l’Italia a un eterno sottosviluppo, di cui auspicava la fine insieme a quella del regime fascista. Il suo ambizioso programma filosofico prevedeva la ricollocazione della scienza al centro di una concezione unitaria della cultura, non divisa assurdamente in umanistica da un lato e scientifica dall’altro l’una contro l’altra armate. Pochi tra i protagonisti della scena intellettuale del secondo dopoguerra ebbero la lucidità di Geymonat, che era ben consapevole del carattere rivoluzionario delle sue idee. Tra questi vi era Paolo Boringhieri (1921-2006). Figlio di una famiglia svizzera, ingegnere appassionato di filosofia, convinto che la modernizzazione della società italiana passasse attraverso la diffusione delle conoscenze scientifiche, arrivò a conclusioni simili a quelle geymonatiane per vie assai diverse.

La storia della gloriosa casa editrice che porta il suo nome (cui si è aggiunto nel 1987 quello di Giulio Bollati) rappresenta anch’essa una reazione a quella temperie culturale ed è uno degli episodi più emblematici dell’atteggiamento adottato persino dal meglio della cultura italiana del tempo – salvo pochissime eccezioni – nei confronti della scienza. Il neoidealismo di Croce – proprio perché espressione di un grande intellettuale che pure si era battuto per la libertà – attecchì nel dopoguerra, con la sua impronta storicista e letterario-umanistica, anche tra gli intellettuali della sinistra e del Pci. La casa editrice Einaudi in realtà si era dotata di una divisione dedicata alle scienze, le Edizioni Scientifiche Einaudi, ma non con molta convinzione. Dal 1949 Boringhieri ne fu nominato responsabile, e lavorò in quella sorta di sede distaccata dell’editore di via Biancamano che era la «repubblica autonoma di via Brofferio». Nell’estate del 1956, annunciando la pubblicazione dell’autobiografia scientifica di Max Planck, Boringhieri la presentò nel Notiziario per le librerie con parole che dichiarano un preciso impegno programmatico: «Il nuovo umanesimo, l’umanesimo scientifico dell’epoca moderna, non può più permetterci di conoscere quello che dicono e pensano i filosofi, politici, artisti, ignorando quello che dicono e pensano gli scienziati».

Meno di un anno dopo, il 1° aprile del 1957 – e la data sembra quasi uno scherzo – Boringhieri, in seguito a una prima crisi finanziaria della Einaudi, ne rileva cinque collane che egli stesso aveva contribuito ad accrescere: la collana «azzurra», «Biblioteca di cultura scientifica», per i testi sulle scienze più dure; la collana «viola», «Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici»; la collana «marrone», «Biblioteca di cultura economica»; i manuali universitari; e infine una collana di testi pensati per l’industria. In tutto sono 146 titoli, un buon punto di partenza per un progetto editoriale che, da costola minore di un grande editore di cultura, vuole assumere una forte caratterizzazione autonoma, che in effetti avrebbe poi conquistato nei decenni successivi con imprese editoriali memorabili, di lungo periodo ed economicamente sostenibili. Basti pensare alle edizioni delle opere complete di Freud e di Jung: due imprese titaniche, finanziate in proprio, senza alcun apporto esterno, e di notevole successo commerciale. Altrettanto coraggiosa e lungimirante fu la Storia della tecnologia (1961-1984). Ma a Boringhieri si deve soprattutto, com’è noto, la pubblicazione sistematica delle opere di Einstein, vera e propria icona della scienza del Novecento, di cui si accaparrò i diritti, e di tutti i protagonisti della fisica, Bohr, Fermi, Heisenberg, Pauli, Dirac, Born, Schrödinger, Oppenheimer, Feynman; di classici della scienza come Galileo, Eulero o Buffon, nonché dei principali protagonisti della biologia (L’origine delle specie di Darwin, pubblicata nel 1959 per il centenario) , dell’etologia (Lorenz, Frisch, Eibl-Eibesfeldt, Mainardi) della logica e della matematica (Frege, Turing, Riemann, Wittgenstein, Kripke, i cinque volumi delle opere complete di Gödel) , dell’etnografia contemporanea (De Martino), della storia delle religioni e dei miti (Eliade, Kerényi, Jesi).

Nella plaquette preparata per festeggiare i sessant’anni della casa editrice se ne descrive bene lo spirito iniziale: «L’idea originaria di Paolo Boringhieri, sviluppata già a partire dal dopoguerra, è precisa: nel panorama editoriale italiano manca una casa editrice con una chiara progettualità, che prenda sul serio, in tutta la sua portata rivoluzionaria, il cambiamento culturale favorito dal tumultuoso avanzamento delle scienze nel Novecento». Anche le scelte riguardanti le scienze umane sono ben calibrate, scevre da irrazionalismi e da filosofie alla moda.

I primi volumi di Boringhieri, rilevati con l’acquisizione del 1957, arrivarono in libreria con il logo dello struzzo einaudiano ancora in copertina. E a rivedere oggi quelle copertine appaiono bellissime, e i loro temi per niente strani: forse perché da più di un ventennio, sull’onda dei successi internazionali della divulgazione di qualità, l’Einaudi pubblica molti libri di scienza, tra cui anche veri best-seller. Così si sono rimescolate le acque, e quell’idea di unità della cultura non si può dire che, magari con qualche ambiguità, non abbia fatto strada. Anche nella direzione opposta, se è vero che nel 1987, quando Bollati entrò e aggiunse il suo nome alla casa editrice, dichiarando di non voler tradire lo spirito di Boringhieri, ne volle allargare i temi di interesse. Nel 1991 in un’intervista commentò così queste sue scelte: «La nostra casa continua, vuole rafforzare e rinnovare il programma scientifico portato avanti da Paolo Boringhieri, ma vi ha aggiunto la letteratura e ha accentuato la militanza culturale nell’attualità. Il virus dell’antica Einaudi continua a proliferare». Sono gli anni in cui la casa editrice punta anche sulle scienze sociali e sulla ricerca storiografica, e in quest’ultimo contesto è d’obbligo ricordare un libro chiave come Una guerra civile di Claudio Pavone.

Se l’intento era conferire valore e bellezza a discipline che, negli schemi neoidealisti, sembravano aride o ancillari, bisogna dire che l’operazione è magnificamente riuscita; e continua oggi, dopo che nel 2009 la casa editrice è stata acquisita dal gruppo GeMS, che prosegue la tradizione di alta divulgazione scientifica (Lederman, Stewart, Al-Khalili) e che nel 2010 è riuscita a trasformare in best-seller Il libro rosso di Jung, un volumone dal costo di 190 euro. Una continuità che si racchiude nella saggezza e lungimiranza con cui Boringhieri scelse il suo magnifico logo. Il 9 febbraio 1958 scrive a Mazzino Montinari per chiedergli una buona riproduzione di una figura che proviene da un incunabolo di teoria musicale scritto da Franchino Gaffurio, maestro di cappella del Duomo di Milano, amico di Leonardo da Vinci. Nel suo Practica musicae, del 1496, la scala tonale coincide con l’ordine del cosmo, racchiuso nel celum stellatum. Musica, teologia, filosofia, cosmologia e matematica, si concentrano in un unico simbolo: quale migliore rappresentazione per l’«umanesimo scientifico» della casa editrice! La quale, peraltro, si è sempre avvalsa dei migliori designer – Enzo Mari in primis – per dare un’impronta di assoluta modernità alle proprie collane. Tra queste non va dimenticata l’«Enciclopedia di autori classici», curata da Giorgio Colli a partire dal 1958, straordinaria per la nonchalance con cui inseriva libri di scienza tra classici di letteratura e di filosofia. Si inizia con Nietzsche (Schopenhauer come educatore: e qui verrebbe da raccontare la storia di un altro editore nato da una costola dell’Einaudi, Adelphi) e il secondo volume è dedicato alla disputa tra Leibniz e Newton sulla nascita del calcolo infinitesimale; seguono Voltaire, Holderlin, Bayle, Goethe, il Pascal scienziato del Trattato sull’equilibrio dei liquidi. E ancora: Leopardi, Hume, Stendhal, Adam Smith, Spinoza, Eschilo, Darwin, Einstein, fino alle opere della tradizione orientale, per disegnare un’idea di classicità non comune, in cui le Opere di Ippocrate, Il chimico scettico di Robert Boyle e le Osservazioni su Diofanto di Fermat hanno pari dignità e pari diritto di presenza del Simposio di Platone, dell’Etica di Spinoza e delle Ultime lettere di Dostoevskij…

A volte basta leggere in fila i titoli di un catalogo per sentirsi partecipi di un mondo pieno di intelligenza e di bellezza.

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La politica nell’età contemporanea

20/03/2017 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Autori     Massimo Baioni, Fulvio Conti

Editore   Carocci

Anno       2017

Pag.         252

Prezzo     Euro 22,00

 

Come è cambiato il modo di interpretare e raccontare la storia politica  dell’età contemporanea? Quale uso hanno fatto gli storici dei nuovi  strumenti di analisi elaborati dalle altre scienze sociali?  Il libro risponde a queste domande. Individuati alcuni temi cruciali  della dimensione politica, invita a considerarli nella lunga prospettiva  storica, a misurarne evoluzioni e mutamenti nel tempo e nello spazio,  a dar conto della fertile contaminazione con altre discipline (sociologia,  antropologia, storia dell’arte, letteratura, scienza politica).  Questa la varietà di angolazioni che oggi è necessario prendere  in considerazione per esplorare la sfera politica. Coniugando rigore  scientifico e agilità narrativa, il volume offre un panorama  dei nuovi temi di ricerca della storia sociale e culturale della politica:  le generazioni, la violenza, le rappresentazioni artistiche, i rituali  e i simboli, le forme della comunicazione, la musica, lo sport,  i sentimenti e le emozioni.

Massimo Baioni Insegna Storia contemporanea all’Università di Siena (sede di Arezzo). Pubblicazioni edite da Carocci : Risorgimento in camicia nera Studi, istituzioni, musei nell’Italia fascista
Edizione: 2006 Collana: Comitato di Torino per la Storia del Risorgimento Italiano

Fulvio Conti Insegna Storia contemporanea all’Università di Firenze. Pubblicazioni edite da Carocci : Breve Storia dello Stato sociale Nuova edizione 2016
 

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