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Risorgimento Firenze

Il sito del Comitato Fiorentino per il Risorgimento.

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letteratura

LIBIA 1911-1912
Immaginari coloniali e italianità

17/02/2017 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Autore  Gabriele Proglio

Editore Le Monnier

Anno    2016

Pag.      442

Prezzo  Euro 29,00

 

L’Italia va alla guerra per conquistare il suo ‘posto al sole’ senza realmente sapere cosa troverà sull’altra sponda del Mediterraneo. Il volume analizza la propaganda coloniale e, in particolare, la stretta relazione tra la costruzione narrativa della colonia libica e le trasformazioni dell’italianità. All’iniziale studio degli immaginari sulla Libia precedenti il 1911, segue una disamina di quelle voci che si mobilitarono a favore della guerra, partendo dai nazionalisti di Enrico Corradini con i riferimenti all’Impero romano, al Risorgimento, al mito della ‘terra promessa’. L’archivio coloniale è indagato anche attraverso lo studio delle omelie funebri per i soldati caduti durante la guerra, con immagini che vanno dal buon soldato al figlio della patria. Un altro campo d’analisi è quello dell’infanzia: i discorsi dei docenti sul conflitto, del «Corriere dei Piccoli» e della letteratura per ragazzi lavorano per «costruire» i corpi dei piccoli italiani. Non manca, infine, lo studio della letteratura interventista: Gabriele D’Annunzio, Giovanni Pascoli, Filippo Tommaso Marinetti, Matilde Serao, Ezio Maria Gray, Umberto Saba, Ada Negri, Giuseppe Bevione.
Gabriele Proglio è docente di storia contemporanea e studi postcoloniali presso l’Università di Tunisi ‘El Manar’ e Research Fellow presso l’European University Institute nel quadro del progetto ‘Bodies Across Borders: Oral and Visual Memory in Europe and Beyond’, con una ricerca di storia orale sulle diaspore dal Corno d’Africa in Europa. Si occupa di memoria dei colonialismi europei, di condizioni postcoloniali e di migrazioni nel Mediterraneo. È tra i fondatori di InteRGRace, l’Interdisciplinary Research Group on Race and Racisms. Ha pubblicato Memorie oltre confine, la letteratura postcoloniale in prospettiva storica (Ombre corte, 2011). Ha curato Subalternità italiane. Percorsi di ricerca tra storia e letteratura (Aracne, 2014), tre volumi sugli Orientalismi italiani (Antares, 2010-2011) e scritto diversi saggi sulla memoria del colonialismo italiano analizzando campi diversi della produzione culturale (cinema, letteratura, giornalismo). Di prossima uscita sono il volume collettaneo Fortress Europe, Border Lampedusa, per i tipi di Palgrave, e Decolonizing the Mediterranean Area, Colonial Cultural Heritage, between Europe and North Africa per Cambridge ScholarsPublisching. 
Indice
Introduzione. Libia, per nuovi percorsi di ricerca; 1. Immaginari che portano in Libia; 2. Reinventare la nazione; 3. Sacralizzare la patria; 4. La realtà di una finzione: la guerra dei ‘nuovi italiani’; 5. Letteratura e geografia del dominio; Conclusioni; Note; Bibliografia; Indice dei nomi.

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Tutti in moto! Il mito della velocità in cento anni d’arte

09/01/2017 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Palazzo Pretorio/ Museo Piaggio Pontedera

6 dicembre 2016-18 aprile 2017

La grande mostra Tutti in moto! Il mito della velocità in cento anni d’arte, a cura di Daniela Fonti e Filippo Bacci di Capaci, è stata aperta il 9 dicembre 2016  al pubblico, al Palazzo Pretorio di Pontedera, (PALP) riconvertito dopo imponenti lavori di restauro, a nuovo spazio espositivo della città. Promossa dalla Fondazione per la Cultura Pontedera e dal Comune di Pontedera, patrocinata dalla Regione Toscana, la mostra, che proseguirà sino al 18 aprile 2017, è dedicata interamente al mito della velocità e al suo riflesso nelle arti figurative, negli ideali di vita e nel costume sociale degli italiani, dalla fine del XIX secolo agli anni del boom.

Il tema della velocità, spesso associato all’idea del viaggio e alla diffusione dei trasporti su rotaia, affiora nell’arte italiana alla fine dell’Ottocento e finirà per caratterizzarla profondamente in alcune sue stagioni, in conseguenza del rapido evolversi delle scoperte e delle applicazioni industriali ai mezzi di locomozione.

La mostra si apre su un’Italia ancora agreste, segnata dal tempo lento delle stagioni, in cui ci si sposta ancora prevalentemente a piedi o a cavallo, e per mare si va a remi o vela. Poi arrivano le macchine, la velocità, cambia il mondo e cambia il modo di rappresentarlo. In questa trasformazione ci guidano le sale successive del palazzo, ognuna dedicata ad un distinto mezzo di locomozione: il treno, il tram, il piroscafo, la bicicletta, l’automobile, l’”omnibus”, la mongolfiera e poi l’aerostato, sino all’aereo a motore e, in chiusura, alla motocicletta. Oltre centocinquanta opere, tra dipinti, sculture, fotografie e manifesti di altrettanti grandi autori dell’arte italiana – da  Fattori, a Bianchi e Viani, sino a Ziveri, passando per Severini, Baldessari e Carrà, o Boccioni, Balla e Depero – per sintetizzare il riflesso prodotto sull’immaginario collettivo da questi mezzi meccanici in continua evoluzione. Il percorso si conclude con la sensazionale progettazione della Vespa di Piaggio, che compie quest’anno i suoi gloriosi settant’anni.

Proprio al Museo Piaggio, con cui la Fondazione per la Cultura Pontedera avvia una felice collaborazione, la mostra prosegue con un’estensione, che ne riprende i temi principali in una ventina di tele di grande formato. E a conclusione del progetto, ospita l’esposizione Fotografia e velocità, curata da Giovanni Lista, che documenta l’approccio dei Futuristi al dinamismo, all’aerodinamismo e alla velocità come mito della modernità stessa.

Il percorso espositivo

La prima sala racconta il nostro passato, le nostre tradizioni, come eravamo, da dove siamo partiti;
presenta un paese ancora rurale, ma già avviato ad una veloce modernizzazione. A raccontarlo, le tele di Fattori, Guidi, Ferrazzi, Moses Levy, Viani, mentre le sculture di Cambellotti e le opere di Marino Marini ci parlano del mito arcaico che abita ancora le terre italiane.
Il paesaggio urbano intanto si è animato per la presenza del tram,  facilitando gli spostamenti e favorendo l’estendersi delle città, che inesorabilmente ingoiano la campagna. Le strade si disegnano con l’affascinante tracciato lineare delle rotaie (Carlo Levi, Primo Conti), più tardi compenetrate con le insegne stradali nelle opere futuriste, mentre  le stazioni ovunque determinano una nuova polarità urbana e affascinano per le grandi hall vetrate piene di fumo (Boccioni, Moses Levy).  Intanto da diversi decenni il treno ha reso facili gli spostamenti sulle lunghe distanze mentre le locomotive – dipinte fin dalla fine dell’ottocento come enormi e benevoli mostri fumanti,  emergono con possanza dagli schermi dei Lumière come dalle tele dei futuristi (Boccioni, Carrà, Bonzagni,).
Insieme al treno, la nave ha reso più piccolo il mondo, favorendo gli scambi fra continenti diversi. I pittori, dai porti di mare della penisola, registrano il fervore dei cantieri (Viani), ma anche il silenzio metafisico che avvolge i grandi piroscafi dalle prue incombenti sulle banchine (Ram, Thayaht, Trombadori).

Poi ecco l’automobile, “più bella della Vittoria di Samotracia” come proclama Marinetti, che affascina come simbolo assoluto della modernità e si diffonde nelle classi alte della popolazione in coincidenza con l’esplosione del verbo futurista (Cambellotti, Balla, Korompay). Sarà l’ispiratrice di molte tele futuriste (Balla), insieme alla motocicletta, quest’ultima prediletta per l’assimilazione e la compenetrazione fra pilota e motore (Dottori, Sironi, Giannattasio, Pannaggi, Tato e BOT). Nel secondo dopoguerra, poi, con l’approssimarsi della motorizzazione di massa, automobili e moto ispireranno per la loro forma aerodinamica gli scultori della nuova stagione astratta (Franchina).
Segue una sala dedicata alla bicicletta, il mezzo semplice e geniale che ci accompagna dalla metà dell’Ottocento, prima legato al bon ton della borghesia, poi diffuso in ogni strato sociale. Nei quadri di Gentilini e Viviani mantiene intatto l’incanto originario, mentre il senso dinamico generato dal baluginare dei raggi delle ruote affascina ben presto i Futuristi, Severini, Dottori, Cangiullo, Baldessari, Carrà.

È stato certo il Futurismo a dare nell’arte e nella letteratura la spinta fondamentale all’esaltazione del dinamismo e della velocità meccanica. Nel 1929, sulla suggestione delle imprese aeree dei trasvolatori, nasce una nuova corrente pittorica, l’Aeropittura, nella quale si assisterà alla multiforme celebrazione del tema del volo, dalla prima enfatizzazione eroica alla cupa atmosfera delle incursioni di guerra, descritte nelle opere di (Tato, Thayaht, Regina, Depero, Dottori, Crali,  Sironi, Peruzzi, Nomellini, Marinetti, Munari) . La suggestione della velocità si estende in ambito futurista anche ai mezzi navali. Gli artisti restituiscono sulle tele il fascino dei grandi piroscafi che svettano all’orizzonte dei porti italiani e solcano gli oceani, di lì a poco carichi di migliaia di italiani costretti sulle vie dell’emigrazione (Trombadori).

Nella Italia uscita sconfitta dalla guerra, il tram, il treno e la bicicletta sono di nuovo i simboli di un paese che prova a ritrovare unità e dignità nello sforzo della ricostruzione, un’Italia alla quale l’industria riconvertita alla pace regalerà, con la Vespa, il sogno di una gioia ritrovata e della speranza nel futuro.

Il percorso espositivo sarà integrato da manifesti cinematografici degli anni Trenta/Sessanta che integrano il racconto proposto dalle opere d’arte e dal documentario curato da ArtDocFestival, dal titolo Tutti in moto!, che illustra in modo vivace, con un montaggio di frammenti di film d’epoca e fotografie d’archivio, la diffusione dei nuovi mezzi di trasporto nel nostro paese e il modo nel quale essi furono percepiti dalla sensibilità comune come oggetti sorprendenti ed eccezionali, in grado di modificare profondamente la vita degli italiani e la percezione del paesaggio urbano e agricolo. Un’estensione nel  Museo Piaggio

Tutti in moto! Il mito della velocità in cento anni di arte ha una sua estensione nel Museo Piaggio di Pontedera. Nel suo grande salone longitudinale ci sarà infatti una selezione di circa venti opere che rinviano ai temi generali della mostra di Palazzo Pretorio, tutte di grande impatto visivo per i nomi degli autori e per i grandi formati delle tele, mentre la sala conclusiva ospiterà l’esposizione di una mostra originale, Futurismo, velocità e fotografia, curata da Giovanni Lista, illustre studioso delle avanguardie storiche. Attraverso circa cinquanta fotografie di grandi autori, la mostra documenta il carattere molteplice dell’approccio estetico e formale dei Futuristi al dinamismo, all’aerodinamismo e alla velocità come esperienza e come mito della modernità.

La mostra sarà corredata da un catalogo, a cura di Daniela Fonti e Filippo Bacci di Capaci, con testi di Daniela Fonti, Giovanni Lista, Giancarlo Carpi, Rossella Caruso, Susanna Ragionieri, Umberto Sereni, Claudia Terenzi (Bandecchi & Vivaldi).                                                                                        Fondazione per la Cultura Pontedera si avvale della collaborazione di Museimpresa – Associazione Italiana Archivi e Musei d’Impresa, Fondazione Piaggio, Fondazione Guggenheim – Venice, Futur-ism – Associazione Culturale, Museo dell’Aeronautica Gianni Caproni, Fondazione Spadolini Nuova Antologia, Wolfsoniana Palazzo Ducale – Fondazione per la Cultura Genova, “Il Divisionismo” – Pinacoteca Fondazione Cassa di Risparmio di Tortona, Galleria comunale d’arte moderna e contemporanea di Roma, Museo Fondazione Primo Conti – Fiesole, Fondazione Carlo Levi – Roma, Fondazione Marino Marini – Pistoia, Archivio Mario Sironi, Archivio opere Lorenzo Viani, Enrico DEi – Viareggio, Associazione per il patrocinio e la promozione dell’opera di Mario Sironi, Associazione per il patrocinio e la promozione delle figura e dell’opera di Ernesto e Ruggero Alfredo Michahelles, Archivio Romana Severini – Roma, Archivio Severini Franchina – Roma, Archivio dell’opera di DuilioCambellotti – Roma, Raccolta museale “Regina” – Comune di Mede, Comune di Pisa,  Camera di Commercio Industria Artigianato Agricultura di Lucca e della disponibilità di molti generosi collezionisti.

PALP Palazzo Pretorio Pontedera

Piazza Curtatone e Montanara, Pontedera (Pi)
Orario: da martedì a domenica 10-19, lunedì chiuso
e.mail info@pontederaperlacultura.it – www.pontederaperlacultura.it
Museo Piaggio

Viale Rinaldo Piaggio 7, Pontedera (Pi)
Orario: da martedì a venerdì 10-18, sabato 10-13 e 1-18, domenica 10-18, lunedì chiuso
e.mail : museo@museopiaggio.it – www.museopiaggio.it
Info: Tel. +39 0587 27171

PREZZI BIGLIETTI MOSTRA presso Palazzo Pretorio  

INTERO € 7,00  

RIDOTTO € 5,00  (soci Vespaclub, dipendenti Piaggio, over 65, studenti fino a 25 anni, invalidi, Soroptimist, Rotary Club, CREC, UTE, soci Unicoop Firenze)

SCUOLE € 3,00   (gruppi scolastici di ragazzi 6-18 anni, comprensiva visite Museo Piaggio)

PREZZI BIGLIETTI MOSTRA presso MUSEO PIAGGIO 

INTERO € 5,00  

RIDOTTO € 3,50  (soci Vespaclub, dipendenti Piaggio, over 65, studenti fino a 25 anni, invalidi, Soroptimist, Rotary Club, CREC, UTE, soci Unicoop Firenze)

SCUOLE € 1,50   (gruppi scolastici di ragazzi 6-18 anni)

PREZZI BIGLIETTO UNICO PALP+MUSEO PIAGGIO

INTERO € 10,00

RIDOTTO € 8,00 (soci Vespaclub, dipendenti Piaggio, over 65, studenti fino a 25 anni, invalidi, Soroptimist, Rotary Club, CREC, UTE, soci Unicoop Firenze)

SCUOLE € 3,00 (gruppi scolastici di ragazzi 6-18 anni)

GRATUITO (bambini fino a 6 anni, 1 accompagnatore per gruppo, 2 insegnanti per scolaresca)

 

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Un Paese senza élite

23/12/2016 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Claudio Giunta  Sole 24  Ore 18 dicembre

Compie centocinquant’anni quest’anno un saggio che non molti hanno letto, ma che chi ha letto non ha dimenticato, anzi lo riapre ogni tanto per prendere esempio e ispirazione: Di chi è la colpa? di Pasquale Villari.

In novant’anni di vita, Villari (1826-1917) riuscì ad essere molte cose: uno dei più autorevoli storici della sua generazione (uno storico-narratore ma anche uno storico da archivio: con, tra l’altro, i due volumi su Savonarola e i suoi tempi, coi tre volumi su Machiavelli e i suoi tempi), un uomo politico (fu deputato, senatore e ministro dell’Istruzione nel biennio 1891-92), ma anche e soprattutto quello che oggi si chiamerebbe un intellettuale militante, specialmente attento – lui esule napoletano a Firenze – ai problemi del Mezzogiorno (i suoi Scritti sulla emigrazione si leggono ancora con piacere, per la capacità che aveva di intrecciare all’analisi la vivida descrizione dei luoghi e delle persone, e di far sentire la voce dei testimoni: chi cerca antesignani del saggio-reportage che va di moda oggi leggerà con interesse le sue pagine).

Nell’estate del 1866 l’Italia era scesa in campo contro l’Austria al fianco della Prussia di Bismarck. La Prussia attaccò da nord, sbaragliando i nemici nella battaglia di Sadowa; sul fronte meridionale, l’Italia venne invece sconfitta dagli austriaci tanto sulla terra (a Custoza) quanto sul mare (a Lissa). Ma la vittoria prussiana costrinse gli austriaci alla capitolazione e l’Italia ricevette, secondo i patti, il Veneto. Fu insomma un successo, ma un successo umiliante, e nel saggio Di chi è la colpa?, pubblicato sul «Politecnico» nel settembre 1866 e poi più volte ristampato nelle Lettere meridionali, Villari si domanda appunto chi siano i colpevoli di questa umiliazione. La risposta fece rumore, a giudicare dal ricordo di Giovanni Bonacci che si legge nella premessa alla ristampa del 1925 di un altro saggio di Villari, L’Italia e la Civiltà: «Nel 1866, il notissimo farmacista Erba chiese il permesso di ristampare l’articolo Di chi è la colpa? nella carta da involgere le boccette del suo rinomato sciroppo, e pel rumore suscitato dallo stesso articolo al Villari fu offerta a Bologna la candidatura politica contro Minghetti».

La colpa – osserva Villari all’inizio del suo discorso – sarebbe dei capi, dei governanti, di coloro che hanno «sempre tenuto il mestolo in mano, e a danno del Paese». Ma è una risposta che non risolve il problema, lo rinvia soltanto. Intanto perché l’Italia ha avuto libere elezioni: dunque, si domanda Villari, come mai il Paese s’è lasciato «cosi lungamente governare da tali uomini?». E poi perché le sconfitte dell’estate, al di là delle carenze di Cialdini, La Marmora e Persano, non erano dipese tanto da mancanza di leadership quanto da mancanza di organizzazione e di pratica della guerra: «In un punto mancò il cibo, in un altro la munizione, un ordine non giunse a tempo, un altro fu male eseguito, il volontario fu sprovvisto d’ogni cosa». Di chi è davvero la colpa, allora? Domanda che, allora come oggi, ne poteva implicare un’altra più grande: di chi è la colpa, se gli italiani sono così?

Nelle prime pagine del saggio, Villari elogia l’esercito del Regno appena nato per aver saputo avvicinare in pochi anni, rendendoli solidali, uomini che erano a malapena in grado di intendersi perché parlavano dialetti diversi. Questi soldati sono stati eroici: «Noi li abbiamo visti sugli alberi del Re d’Italia continuare il fuoco, mentre la nave rapidamente affondava». Ma gli eroi non bastano, perché «la guerra è l’arte di ammazzare, non di farsi ammazzare». E la guerra moderna è soprattutto, ormai, un gioco di tecnica e strategia, in cui contano la velocità delle comunicazioni, l’efficienza dell’approvvigionamento, le risorse dell’ingegneria e della meccanica. In tutti questi settori, l’Italia appena unificata ha un ritardo pauroso rispetto a tutte le nazioni europee, e il fallimento nella guerra si deve anche a questo ritardo, cioè all’arretratezza del sistema produttivo italiano. Ma c’è soprattutto un’insufficienza nella formazione dei soldati, e più largamente nell’educazione e nell’istruzione dei cittadini. «Quando – scrive Villari – le ciurme della nave americana o inglese sono in riposo, voi trovate i marinai occupati a leggere. I nostri son costretti a dormire o giocare. Quando i coscritti prussiani si presentano al Consiglio di leva, la prima cosa si esamina se sanno leggere e scrivere. E quando un Municipio presenta più di un analfabeta, si apre un’inchiesta per esaminare la cagione del fatto strano». Né le cose vanno meglio se dalle reclute si volge lo sguardo agli ufficiali: «Quando in tempo di pace gli ufficiali francesi o prussiani sono di guarnigione, voi li trovate occupati nei disegni, nelle scienze militari, nella storia, e molte opere celebrate di geografia, di storia, di letteratura escono dalla loro penna. Osservate le carte geografiche dello Stato Maggiore austriaco o prussiano; sono lavori ammirabili per esattezza scientifica […]. Che cosa siamo noi che, facendo la guerra nel proprio Paese, abbiamo più volte sbagliate le strade?».

Questo è il popolo italiano. E l’élite, la classe dirigente? L’Italia, sostiene Villari, non possiede un’élite degna di questo nome. I dirigenti sono in parte vecchi amministratori degli Stati pre-unitari, uomini quasi tutti anziani, spesso corrotti, disabituati alla libertà. In parte sono giovani liberali senza cultura e senza esperienza, in nessun modo in grado di amministrare una nazione di 22 milioni di abitanti. In parte, infine, sono burocrati piemontesi abituati a governare un piccolo Stato di nessuna importanza nello scacchiere internazionale, e ora promossi alla guida di una delle maggiori nazioni europee. «Quando – scrive Villari – gl’impiegati dei caduti governi e i liberali delle nuove province si unirono ai Piemontesi, questi dettero uno straordinario contingente burocratico a tutta Italia. Si trattava d’attuare le leggi e la politica del Piemonte, e i suoi uomini avevano una reputazione d’onestà, di capacità ed attività superiore agli altri. E cosi il buon maestro elementare di Torino diveniva, nell’Italia meridionale, un cattivo ispettore, un pessimo direttore. E questo lavoro si eseguì sopra una larghissima scala: il Capo-Sezione fu subito Capo di Divisione, e questi volle essere Prefetto, e il maestro elementare insegnò nel liceo. Quindi, nel medesimo tempo, si vide sgovernata l’Italia, peggiorato il Piemonte, e buoni impiegati divenire mediocri o pessimi».

Vince la guerra chi, come i prussiani, può contare su un sistema produttivo efficiente e dinamico; ma – argomenta Villari – possiede un sistema produttivo simile soltanto chi ha una burocrazia efficiente (e l’Italia ha invece il moloch insieme pletorico e inadeguato che si è descritto) e un sistema educativo solido e aggiornato ai tempi. L’educazione italiana non ha saputo veramente arrivare al popolo, e si è fondata troppo a lungo sulla retorica e sulla propagazione di un vacuo umanesimo; le pagine che Villari dedica alla scuola e all’università sono tra le più acute del saggio, e culminano in questa sintesi memorabile: «Non è il quadrilatero di Mantova e Verona che ha potuto arrestare il nostro cammino; ma è il quadrilatero di 17 milioni di analfabeti e 5 milioni di arcadi».

Di vacuo umanesimo traboccano le scuole ancora oggi, ma non è solo per questa ragione che il saggio di Villari merita di essere letto. I lamenti degli intellettuali italiani sull’indole dei loro compatrioti sono quasi sempre stucchevoli (lo sono persino certi passaggi del capolavoro che è il Discorso sui costumi di Leopardi). Ma Villari non ragiona da moralista bensì da storico e sociologo, e soprattutto da uomo che conosce bene la pubblica amministrazione, e le sue osservazioni non vertono quasi mai sul carattere degli italiani ma sul modo in cui gli italiani vivono e dovrebbero vivere: sul popolo più che sugli individui. Tra le poche eccezioni, tra i pochi giudizi sul particolare e non sul generale, c’è questo paragrafo sul «mal volere» che sembra proprio scritto oggi, e che spero invogli molti lettori ad andare in biblioteca o a cercare il pdf delle Lettere meridionali in rete:

«Avete voi mai conosciuto un Paese dove la calunnia sia così potente e cosi avida, dove in così breve tempo si sia lacerato un ugual numero di riputazioni onorate? Si grida per tutto che ci vogliono uomini nuovi, perché gli uomini vecchi sono già consumati; ma non appena si vedono i segni di un qualche giovane di vero ingegno che sorge, un mal volere, direi quasi, un odio infinito, s’accumula contro di lui e lo circonda. La mediocrità è una potenza livellatrice, vorrebbe ridurre tutti gli uomini alla sua misura, odia il genio che non comprende, detesta l’ingegno che distrugge l’armonia della sua ambita uguaglianza».

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Lezione di italiano

16/12/2016 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Autore    Francesco Sabatini

Editore   Mondadori

Anno       2016

Pag.         224

Prezzo     18,50

 

 

 

«La lingua è dentro di te.» L’italiano è la grande lingua di cultura consegnataci dalla storia per nostro uso e consumo. E anche lo strumento cognitivo di cui si è dotato il nostro cervello, dalla nascita in poi, se ci siamo formati qui. Non si può più parlare di lingua ignorando come la natura, che ci ha portato a essere Homo sapiens, ha predisposto aree e funzioni del cervello che elaborano la grammatica. Sì, la grammatica che si forma silenziosamente in noi entro i primi anni di vita nella sfera della lingua orale e che poi bisogna scoprire a scuola: per insegnare agli occhi quello che l’orecchio già sa! Cioè, per imparare a leggere e scrivere, e non solo a livelli di base. «Leggere e interpretare testi di vario tipo; capire che cos’è, precisamente, una ‘frase’ e cioè incontrare faccia a faccia la grammatica; regolarsi nella varietà di ‘stili’ dell’italiano; fronteggiare l’azione dei media, che in vari modi spesso ci alienano dalla nostra lingua; liberarsi da alcune preoccupazioni eccessive nell’uso normalmente comunicativo di essa; distinguere tra errore e divergenza stilistica.» Tutti usiamo la lingua, ma pochi lo fanno con consapevolezza. Perdendo la possibilità di sfruttare altre parti del suo immenso potenziale. Francesco Sabatini, presidente onorario dell’Accademia della Crusca, conosciuto dal pubblico televisivo per la sua grande capacità divulgativa, ci insegna a farlo in questa appassionante e innovativa Lezione di italiano.

 

 

Francesco Sabatini ha conseguito la laurea in Letteratura Italiana presso l’Università di Roma nel 1954 e dal 1971 è Professore ordinario della stessa materia. Ha insegnato nelle Università di Lecce, Genova, Napoli, Roma e attualmente è titolare di Cattedra alla Università “Roma Tre”. Dal 1977 al 1981 ha ricoperto l’incarico di Presidente della Società di Linguistica Italiana e nel 1999 quello di Presidente dell’Associazione per la Storia della Lingua Italiana. Socio dell’Accademia della Crusca dal 1976, Accademico dal 1988, dal marzo del 2000 è presidente della stessa prestigiosa Accademia. Autore di molteplici volumi, tra i quali ricordiamo il Dizionario Italiano (con Vittorio Coletti) e L’Europa dei Popoli (con il demografo Antonio Golini), il professor Sabatini ha pubblicato circa un centinaio di saggi, che abbracciano diversi campi culturali. Tra le numerose onorificenze conseguite citiamo: il Premio Città di Bologna per la Filologia nel 1970 e la Medaglia d’oro del Presidente della Repubblica per la Cultura, l’Arte e la Scuola nel 1988

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Il grande racconto delle città italiane

12/12/2016 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Autore Attilio Brilli
Editore Il Mulino
Anno 2016
Pag. 624
Prezzo 50,00
«Qui in Italia le città sono tutte capitali» Lord Byron
La forma di una città cambia più in fretta – ahimè – del cuore degli uomini»: già Baudelaire avvertiva come ogni inevitabile trasformazione del paesaggio urbano si accompagni a struggimento e perdita. Ma forse non è impossibile ritrovare il senso di un’armonia fra noi e i volti delle città italiane maggiormente rappresentative di quella luminosa civiltà che, nelle epoche passate, è stata un faro per il mondo intero. Guardiamole con occhi nuovi, come fanno queste pagine, e lasciamo che a venirci incontro siano immagini originali e inedite, consegnate a noi dalle testimonianze letterarie o artistiche di visitatori illustri che ne hanno saputo cogliere lo spirito autentico. Da arcaiche forme insediative risalenti alla notte dei tempi, quelle città sono diventate nel corso dei secoli capitali di signorie e di principati generatori entrambi di un’autonoma, altissima civiltà; e prima ancora sono state orgogliosi, liberi comuni o repubbliche marinare gelose del loro prestigio e della loro indipendenza. I luoghi che visiteremo grazie a questo libro esigono di essere considerati alla stregua di creature viventi, con le fisionomie, i caratteri, le personalità loro. Saranno occasione di conquista e scoperta personale, da cui usciremo profondamente arricchiti.

Attilio Brilli è fra i massimi esperti di letteratura di viaggio. I suoi libri sono tradotti in varie lingue. Per il Mulino ha da ultimo pubblicato: «Mercanti avventurieri. Storie di viaggi e di commerci» (2013), «Gerusalemme, La Mecca, Roma. Storie di pellegrinaggi e di pellegrini» (2014), «Il grande racconto del viaggio in Italia. Itinerari di ieri per viaggiatori di oggi» (2014) e «Il grande racconto dei viaggi d’esplorazione, di conquista e d’avventura» (2015).

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Le Comunità Toscane al tempo del Risorgimento. Intervista a Fabio Bertini

05/12/2016 da Sergio Casprini

Mercoledì 7 dicembre 2016 ore 17.00 alla Sala Gonfalone, Palazzo del Pegaso, via Cavour 4, Firenze alla presenza  di Eugenio Giani Presidente del Consiglio regionale della Toscana e di Monica Barni Vicepresidente della Giunta regionale della Toscana sarà presentato il libro:

Le Comunità Toscane al tempo del Risorgimento (Dizionario storico a cura di Fabio Bertini)

Per l’occasione abbiamo intervistato il curatore, lo storico Fabio Bertini, Presidente del Comitato Nazionale per il Risorgimento

  1. Professore Bertini  può raccontare in breve la storia dei Comitati per il Risorgimento, da quelli territoriali a quello nazionale?

La prima esperienza di Comitato  partì ufficialmente  a Livorno nel 2000, iniziata da pochissime persone qualche mese prima. La poca memoria del Risorgimento portava al declino di valori come l’Unità nazionale e si perdeva il ricordo di un periodo in cui si erano affermate le idee di libertà, costituzione liberale, democrazia, giustizia sociale, mentre, per diffusa consuetudine, il Tricolore e l’Inno di Mameli venivano associati a ideali che non corrispondevano al tempo e al modo della loro creazione. Si trattava di restituire loro verità e valore, riconoscendo anche al Risorgimento la dimensione di fenomeno europeo di progresso, e quanto disse e fece il presidente Ciampi, in quei mesi andava nella stessa direzione. L’attività aveva come base la divulgazione nelle scuole e la ricerca storica e questo programma, mentre trovava molti proseliti a Livorno,  fu condiviso nel corso degli anni da molti amici in Toscana, dapprima a Firenze e in altri centri della provincia, poi altrove. Oggi i comitati sono 14 e probabilmente aumenteranno, ed esiste un Coordinamento Regionale. Contemporaneamente, gli incontri in occasione di cerimonie pubbliche così create ci portarono a contatto con altre realtà attive, del Nord e del Centro Sud, suggerendo l’idea di iniziative comuni, prima tra tutte quella di un Coordinamento nazionale che fu fondato a Gavinana nel 2004 e che ha anch’esso avuto nuove adesioni.

  1. Recentemente è stato pubblicato un dizionario storico, Le Comunità Toscane al tempo del Risorgimento, che lei ha curato in qualità di storico,  può spiegare  come è nato?

L’idea del Dizionario storico delle Comunità toscane nel Risorgimento è nata dagli approfondimenti compiuti con la ricerca storica su quegli anni, cruciali per la storia del nostro Paese. Il Risorgimento è parte del grande fenomeno europeo di trasformazione che si svolse tra il Settecento e l’Ottocento. In Toscana prende avvio con le riforme di Pietro Leopoldo e si sviluppa con moltissime modalità, pur essendo riconducibile a un solo grande fenomeno toscano, nazionale ed europeo. Studiando il Risorgimento toscano, ci si rese conto che tutti i comuni, grandi e piccoli, avevano attraversato quel periodo subendo trasformazioni, che avevano generato valori ed ideali, generose partecipazioni, contrasti e divisioni. Generalmente avevano fornito quadri intellettuali e militanti alle imprese risorgimentali e, di questo, il Dizionario cerca di rendere conto per ciascuna delle Comunità di allora – il quadro ne riguarda ben 322, molti più degli attuali 278 comuni – ma non si limita a questo. Descrive il concorso di uomini e donne alla dialettica civile, sociale ed economica di ognuno di quei luoghi, un insieme di cui danno conto cento pagine di indice dei nomi.

  1. Quali sono il senso  ed il valore di questa pubblicazione e a quali lettori è destinata?

Il valore del Dizionario consiste nel restituire a ciascuna delle Comunità, alcune delle quali non sono più in Toscana, elementi approfonditi della propria memoria storica. Comunità anche piccole sono descritte per parecchie pagine e contenendo nomi, fatti, periodizzazioni e problemi, possono offrire una base non schematica di ulteriore ricostruzione da parte degli storici locali, una schiera particolarmente brava, appassionata e competente di studiosi non necessariamente accademici. Per le Comunità maggiori, e non solo per esse, la ricostruzione muove da fenomeni assai più remoti nel tempo, nell’intento di comprendere le radici dell’identità cittadina e territoriale che continua a caratterizzarle. Le ricostruzioni evitano accuratamente leggende e retorica, restando ancorate alle cose documentabili o consolidate dalla letteratura esistente, tanto che ogni scheda di comunità è provvista di propria bibliografia, con rimando ad altre cento pagine di Bibliografia generale, sulle 1529 che compongono l’intero volume edito dall’Editore De Batte di Livorno. Va infine ricordato il generoso sostegno a  questa ricerca da parte della Regione Toscana.

Intervista a cura di Sergio Casprini

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LE MINORANZE LINGUISTICHE NELL’ITALIA DI IERI E DI OGGI

21/10/2016 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Lettere a Sergio Romano Corriere della Sera  16 ottobre

Risulta strano, al giorno d’oggi, capire le motivazioni del tentativo di sradicazione dell’identità culturale delle popolazioni in molte regioni bilingui a seguito (dopo il 1918) dell’annessione all’Italia. Leggendo la storia familiare di Lilli Gruber (Eredità), ci si rende conto che non solo i nomi dei luoghi vennero cambiati: una sua prozia, Hella, fu registrata come Elena e condannata a 5 anni di confino in Basilicata per aver insegnato il tedesco a figli di parenti e amici. Raul Pupo, nel libro Il lungo esodo, riporta un manifesto affisso nei locali pubblici dell’Istria: «Si proibisce in modo più assoluto che nei ritrovi pubblici e per le strade si canti o si parli in lingua slava». Pure la famiglia di mia nonna (a casa parlava il dialetto istro-veneto e scriveva un perfetto italiano, imparato nelle scuole dell’Impero) dovette italianizzare il cognome da Ivancich in «Iviani», e i suoi cugini «Martinolich» furono registrati come «Martinoli».

Franco Cosulich

 

Nella politica linguistica italiana durante il regime fascista vi furono uno spropositato eccesso di retorica nazionalista e uno sgradevole odore di razzismo. La manipolazione dei cognomi e dei toponimi, a cui dettero la loro collaborazione alcuni esponenti del mondo accademico, fu una operazione maldestra e incivile. Ma per meglio collocare il fenomeno in una prospettiva storica, credo che occorra ricordare quale fu il ruolo della lingua nella trasformazione dello Stato dinastico in Stato nazionale fra il XIX e il XX secolo. Tutti i movimenti risorgimentali furono accompagnati dalla riscoperta delle origini culturali dei singoli popoli. In una delle sue odi più famose («Marzo 1821») Alessandro Manzoni definì l’Italia «una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor». Dopo avere insegnato Dante e Petrarca a Zurigo, Francesco De Sanctis scrisse una Storia della letteratura italiana, pubblicata nel 1870, che divenne una sorta di manuale culturale delle università italiane nelle generazioni successive e un canone per l’insegnamento nelle scuole medie. Il fenomeno non fu soltanto italiano. L’unificazione linguistica degli Stati europei fu considerata particolarmente necessaria là dove esistevano numerosi dialetti e antichi linguaggi con forti radici locali. L’inglese scalzò il gaelico dall’Irlanda e dalla Scozia. Il basco e il catalano furono retrocessi a modeste parlate locali in un Paese dominato dal castigliano. Nonostante il successo internazionale di Frédéric Mistral (premio Nobel per la letteratura nel 1904), il provenzale dovette lasciare il passo al francese anche nelle terre occitane in cui era parlato da molti secoli. Il problema della unità linguistica divenne particolarmente delicato dopo la Grande guerra e la dissoluzione degli Stati multinazionali. Fra i 14 punti del presidente americano Woodrow Wilson vi era quello dell’autodeterminazione dei popoli. Le potenze vincitrici si divisero le spoglie degli Imperi defunti, ma dovettero fare i conti con le loro nuove minoranze e le trattarono spesso con sospettosa diffidenza. Temevano che non appena fossero state ufficialmente riconosciute e autorizzate a usare la loro lingua nei rapporti con le istituzioni e nelle aule di giustizia, avrebbero generato una classe dirigente e ciascuna di esse sarebbe divenuta uno Stato nello Stato. Il risultato di questa diffidenza furono i tragici esodi di popolazioni alla fine della Seconda guerra mondiale. Oggi, caro Cosulich, il clima politico e culturale è cambiato. Esistono ancora minoranze che si considerano discriminate e chiedono maggiore autonomia, se non addirittura indipendenza; ma esiste anche, fortunatamente, una Unione Europea a cui tutte, anche quelle più agitate e bellicose, non intendono rinunciare.

Sergio Romano

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L’istituto di Studi Superiori e la cultura umanistica a Firenze

21/09/2016 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

listituto-di-studi-superiori-e-la-cultura-umanistica-a-firenzeA cura di Adele Dei

 

Editore Pacini

Anno     2016

Pag.       1056

Prezzo   Euro 68,00

Cofanetto con 2 volumi cartonati inseriti e con 120 immagini
Questi volumi, che si pubblicano dopo molti anni di lavoro, nascono da un’ampia ricerca interdisciplinare che si è avvalsa di una grandissima quantità di materiali d’archivio conservati in varie sedi della ex Facoltà di Lettere e Filosofia, della Biblioteca Umanistica e dell’ateneo fiorentino e mai esplorati sistematicamente (i corposi faldoni degli Affari Risoluti, i verbali dei Consigli di Facoltà, le schede delle carriere degli studenti, l’Archivio storico dell’università ecc.).

Da quelle carte, in apparenza aride, burocratiche e ripetitive, esce invece la cronaca minuziosa della quotidianità accademica di una delle istituzioni più prestigiose d’Italia. Esaminare quei documenti significa entrare in un mondo variegato e complesso, facendo scoperte impreviste o anche solo incontrando vicende minori, aneddoti curiosi, personaggi di passaggio o di secondo piano eppure tutt’altro che irrilevanti; significa seguire dall’interno la vita culturale di una città come Firenze durante decenni cruciali della sua storia.

Sono molti i nomi inaspettati che escono dagli archivi della sezione di Filosofia e Filologia, e molti gli autografi preziosi nascosti nella corrispondenza ordinaria o fra gli atti amministrativi.
Adele Dei è professore ordinario di Letteratura italiana alla Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Firenze. E’ stata  Direttore del Dipartimento di Italianistica dal 2004 al 2010 ed è attualmente coordinatore del Dottorato internazionale in Letteratura e Filologia italiana.

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Savoia, l’adesione al fascismo non cancella i meriti della dinastia

07/09/2016 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Esce una nuova edizione del saggio «Casa Savoia nella storia d’Italia» in cui
Luigi Salvatorelli demolisce ogni aspetto della Casa Reale. Un giudizio forse eccessivo

 

Giuseppe Galasso Corriere della Sera 22 agosto

 

Il destino dei Savoia tra gli storici ha finito con l’essere infelice quanto il loro destino politico, deciso dal referendum che nel 1946 instaurò in Italia la Repubblica. Non è accaduto spesso che una casa reale, perduto il trono, abbia conservato un aplomb e una dignità regale, quali che ne fossero le prospettive di un ritorno in auge. L’esilio di Umberto II fu dignitoso, in Portogallo, dove cento anni prima si era già ritirato il nonno di suo nonno, Carlo Alberto. Per i figli di Umberto — dalle vicende amorose di Beatrice a quelle di vario genere e di assai dubbia qualità dell’erede Vittorio Emanuele, per non parlare del figlio di quest’ultimo, Emanuele Filiberto, con la sua notorietà televisiva — non è stato così.

Tutto ciò non toglie che la Casa di Savoia resti in Europa una delle famiglie reali, in trono o non più in trono, di più antica ascendenza storica. Per l’Italia, in particolare, essa ha rappresentato per 6 o 7 secoli un protagonista fra gli altri della storia del Paese. In ultimo, dal 1848 in poi e fino al 1946, con l’unificazione e con la loro promozione a re d’Italia, i Savoia divennero addirittura un punto nodale della storia nazionale. Il che indusse buona parte degli storici italiani a costruire un profilo della storia nazionale radicalmente inficiato da un doppio errore di prospettiva.

Il primo era che la storia d’Italia, in particolare dal Mille in poi, si fosse svolta all’insegna univoca ed evidente di un destino fatalmente unitario. L’unità avrebbe rappresentato la logica motrice della storia italiana, i cui vari periodi, manifestazioni e protagonisti dovevano essere rappresentati e giudicati a seconda del loro contributo alla realizzazione della fatale unità del Paese.

Il secondo era che quale interprete del supposto destino unitario si raffigurava, fin da quando se ne può parlare, più o meno dal Mille, per l’appunto la Casa di Savoia. Annidati sulle loro rocche alpine del versante francese e di quello italiano, i conti e poi duchi di Savoia erano venuti facendosi strada nella Valle del Po, dalle Alpi al Ticino, adottando decisamente, dopo una iniziale incertezza e duplicità, la direttrice padana, e quindi italiana, della espansione alla quale miravano. Così, nel Cinquecento avevano trasferito la loro capitale da Chambery a Torino, avevano adottato l’italiano quale lingua ufficiale e diplomatica e avevano continuato la loro marcia padana in uno sforzo consapevolmente volto ad assicurare all’Italia e agli italiani l’indipendenza dagli stranieri, dominanti per secoli nella penisola. Appena poi si era parlato di «risorgimento», i Savoia se ne erano fatti portabandiera e la denominazione di «padre della patria» adottata per Vittorio Emanuele II aveva perciò sancito con un doveroso riconoscimento storico-politico la millenaria missione assolta da Casa Savoia.

Contro entrambe queste prospettive insorse nel 1944, in un opuscolo al quale non mancò un largo ascolto, Luigi Salvatorelli (Casa Savoia nella storia d’Italia, ora riedito dalle Edizioni di Storia e Letteratura, con introduzione di Gabriele Turi). Nelle sue pagine i Savoia sono rigorosamente dipinti come una dinastia di mediocri personalità, caratterizzate da un’insaziabile avidità di nuovi domini, da un mai smentito opportunismo nel cercare di soddisfarla, da una costante meschinità dei calcoli politici ispirati da un tale criterio di azione, dalla più completa indifferenza alle direzioni geografiche e a ogni possibile motivazione ideale o anche soltanto ideologica dei loro disegni espansivi. Collocati sul crinale delle Alpi, e legati all’ambito franco-borgognone, si erano concentrati sull’Italia solo perché il consolidamento della monarchia francese e la stabilizzazione della confederazione svizzera avevano drasticamente sbarrato ogni varco per un’espansione oltralpe.

Per Salvatorelli, insomma, nulla, invero, i Savoia avevano avuto a che fare con le ragioni intime e, per così dire, sorgive della storia d’Italia; con il travagliato processo di maturazione ideale e culturale, prima ancora che politico, al quale diamo il nome di Risorgimento, e nel quale essa si era inserita solo in ultimo, secondo le sue tradizioni di opportunismo, ma senza un’adesione intima o un impulso proprio e genuino. Molte delle deficienze e delle meschinità della storia dello Stato unitario nato dal Risorgimento erano dipese da questo rapporto surrettizio fra la nuova Italia e la vecchia dinastia. La finale acquiescenza, solidarietà e complicità col fascismo, che aveva sovvertito il regime liberale e calpestato le già faticate e faticose libertà fino ad allora conquistate, aveva costituito la prova del nove dell’egoismo dinastico e, insieme, della inguaribile meschinità storico-politica dei Savoia, di cui Vittorio Emanuele III era stato il degno rappresentante.

Come già detto, Salvatorelli aveva scritto in un momento di grande, accesa passione politica. La liquidazione dei Savoia rappresentava un obiettivo politico a sé, al di là della stessa scelta di allora fra monarchia o repubblica. Un discorso sui Savoia nella storia d’Italia poteva essere un buon contributo per orientare su una larga base storica la scelta degli italiani nel 1946.

La genesi politica dell’opuscolo e gli intenti polemici di Salvatorelli rendono, quindi, conto dell’asprezza dei suoi giudizi, per cui sembra quasi, a volte, che sul trono sabaudo non si succeda via via una serie di sovrani fatalmente diversi ma segga sempre lo stesso Savoia. Molti episodi e aspetti delle vicende sabaude non ricevono un apprezzamento persuasivo. In linea generale, appare difficile accogliere il giudizio di sostanziale estraneità dei Savoia alle radici e alle logiche della storia d’Italia. Già almeno dal secolo XIII in poi l’Italia appare il teatro principale della loro storia, ed è semmai il trasferimento della loro capitale a Torino tre secoli dopo ad apparire un atto tardivo rispetto a un orientamento emerso già da tempo, per quante incertezze o ritorni si siano poi avuti nel seguirlo e realizzarlo. E, in sostanza, è facile constatare che le mende rintracciate nei Savoia si ritrovano pure in qualsiasi altra dinastia o Stato italiano prima dell’unificazione. Invece, la scelta costituzionale del 1848, con l’accettazione di una prassi politica molto lontana da quelle anteriori, fu solo dei Savoia, né la finale, tenace adesione e complicità fascista può portare a una totale vanificazione del precedente ruolo dei Savoia nella storia italiana, in particolare del Risorgimento.

Con tutto ciò l’opuscolo del Salvatorelli non rimane soltanto un documento della battaglia politica combattuta in Italia fra il 1943 e il 1946 pro o contro la monarchia. L’autore era troppo storico di vocazione e buon conoscitore della storia italiana per fare delle sue pagine tutte solo un atto di accusa. Il suo rifiuto di vedere la storia d’Italia come marcia progressiva e univoca verso un fatale destino di unità è irrefutabile, e bisogna dire che tuttora non tutti gli storici italiani mostrano di averlo davvero e in tutto assimilato. E altrettanto irrefutabile è la sua demitizzazione della storia sabauda, con la congiunta riduzione delle sue dimensioni a quelle di uno Stato italiano, giunto solo nel Seicento a un ruolo comparabile a quello che da secoli esercitavano Milano e Roma, Firenze e Napoli, Genova e Venezia, e con una tradizione dinastica non illustrata da personalità di particolare fascino storico e personale né prima né dopo l’unità italiana.

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Carducci

26/08/2016 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Carducci_piccoloAutore  Francesco Benozzo

Editore Salerno

Anno     2015

Pag.      304

Prezzo   Euro 16,00

 

Poeta, professore, filologo, uomo pubblico dell’Italia risorgimentale, Carducci resta ancora oggi un personaggio più frainteso che letto.

Un poeta europeo, unico tra i nostri scrittori dell’epoca a essere tradotto subito in diverse lingue, fu preferito come premio Nobel a nomi quali Mark Twain e Rainer Maria Rilke.

La figura complessa e per molti versi affascinante di Giosuè Carducci (1835-1907) viene attentamente delineata in queste pagine a partire da un’analisi puntuale dei suoi scritti e della sua biografia, dagli anni giovanili passati in Lunigiana e Maremma fino all’approdo, ancora giovanissimo, a Bologna, dove insegnò Letteratura italiana e Filologia romanza all’Università. Poeta, professore, filologo, uomo pubblico dell’Italia risorgimentale, egli resta ancora oggi un personaggio più frainteso che letto. Nel libro viene approfondito in particolare il rapporto tra la sua indole rivoluzionaria, sdegnosa e solitaria, e la società di transizione tra Ottocento e Novecento, che egli visse e interpretò in tutte le sue laceranti contraddizioni, e di cui la vastissima produzione poetica e saggistica rappresenta una specie di mappa aperta e per certi versi ancora largamente incompresa. Lontano dagli stereotipi critici che hanno appiattito e museificato, a partire dalle antologie scolastiche, l’immagine di Carducci, l’autore restituisce qui il profilo di un poeta e prosatore sfaccettato e inquieto, non di rado notturno e umbratile, irriducibilmente anarchico e libertario, e sempre attuale in quanto fieramente inattuale: un poeta europeo in bilico tra slanci polemici e rèverie crepuscolare, a cui Nietzsche pensò di affidare la diffusione dei propri scritti polemici e anticlericali.

 

Francesco Benozzo insegna Filologia romanza all’Università di Bologna. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo, Il giro del mondo in ottanta saggi, Roma, 2015.

 

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