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Risorgimento Firenze

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letteratura

Schermi multipli e Plurime visioni.
La grande madre. L’Italia.

17/08/2016 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

copertina-4

Autore   Tullia Giardina

Editore  Marsilio

Anno      2016

Pag.        278

Prezzo    Euro 28

 

Frutto di un’attenta ricerca di storia culturale, condotta su fonti d’archivio in parte inedite, il volume – realizzato grazie anche al contributo della Fondazione Cesare e Doris Zipelli – analizza l’importante ruolo svolto dal Cinema e dalla Televisione nel costruire e diffondere, attraverso film e sceneggiati di argomento storico, nel più ampio processo di Nation-building e State-formation otto-novecentesco, varie interpretazioni dei concetti di Madre-Patria e di identità nazionale. Filtrando la storia risorgimentale attraverso le suggestioni di alcuni dei maggiori romanzieri e poeti del canone letterario italiano, ma anche tedesco come nel caso di Schiller, si individuano alcuni sistemi simbolici e allegorici originali, funzionali sia all’elaborazione di una «estetica della politica» finalizzata alla nazionalizzazione delle masse nell’ottica crispina della «rivoluzione cinta dal diadema», sia alla decostruzione critica del percorso storico da cui era scaturita l’unificazione nazionale.

 

Tullia Giardina (1962), dottore di ricerca in Storia contemporanea, studiosa di storia culturale e di storia del cinema, ha collaborato alla stesura della sceneggiatura del film I Vicerè (Gremese 2007). È autrice di saggi sull’emigrazione siciliana (L’emigrazione comisana e le Società di Mutuo Soccorso, «NEOS», anno II, 1, 2008), sul rapporto tra storia e cinema (Didattica della storia fra documento, letteratura e cinema, in Cinema, storia, memoria, Centro Studi Cinematografici 2010) e della biografia di suor Maria Giovanna della Croce (La ricchezza del patire, in Un Giardino nella città di Dio, Edizioni Feeria-Comunità di San Leolino 2011).

 

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Ernesta, paladina dei diritti

10/08/2016 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Italia Ebraica agosto 2016

 

Cesare Battisti e Nazario Sauro. Cosa resta della memoria dei due irredentisti a un secolo di distanza dalla loro tragica fine? L’anniversario del loro sacrificio impone di rimettere a fuoco due figure che appartengono alla nostra storia più vicina. Il 12 luglio 1916 Cesare Battisti venne impiccato aTrento al termine di un processo per tradimento sbrigato in sole due ore. Nazario Sauro ne seguì le sorti, a Pola, il 10 agosto di quello stesso anno.

Catturati dagli austriaci, per i due ex sudditi passati a combattere contro Vienna sotto le insegne italiane non ci fu alcuna pietà. Il trentino Battisti aveva quarantuno anni, l’istriano Sauro trentasei. A ricordare le loro storie e i valori per cui lottarono è un libro di grande valore, nelle librerie per il duplice centenario: Impiccateli!, del giornalista e scrittore Paolo Brogi.

Un libro importante anche perché restituisce all’attenzione dell’opinione pubblica la figura della vedova di Battisti, Ernesta Bittanti, e il suo successivo e determinato impegno contro le discriminazioni ebraiche di componenti della Chiesa cattolica e del regime fascista.

 

In quel circolo sul Mugnone c’è anche una donna. E che donna! È Ernesta Bittanti, di quattro anni più grande di Cesare, ardente socialista, una militante di cui innamorarsi e che diventerà presto la sua sposa.

Ernesta è una giovane di origini lombarde, laureata in Storia della letteratura italiana a Firenze, e che Salvemini definisce «assai più colta» di lui. «Fu lei che mi fece conoscere i romanzieri russi. Fu lei che mi fece conoscere la Rivista di filosofia scientifica…».

Figlia di un preside e cresciuta a Brescia, è approdata a Firenze per gli studi dopo un soggiorno con la famiglia in Sardegna. Laureata nel 1896, una delle prime venti italiane a conseguire la laurea (ottenuta in Storia della letteratura con Guido Mazzoni, accademico della Crusca), insegna da quello stesso anno al ginnasio Galileo. A Firenze tra i socialisti si conquista presto un posto di rilievo tanto da essere considerata «un’anziana» e un’autorità indiscussa. Fulminante è l’amore che scocca tra i due.

Il fidanzamento viene annunciato il 16 ottobre 1896, Battisti ha ventun anni, Ernesta venticinque. Il matrimonio “socialista” è celebrato a Palazzo Vecchio l’8 agosto 1899. Battisti lo definisce, quanto a riti e procedure, una «burattinata municipale». I due contraenti sono – scrive l’interessato – «militanti socialisti in un’epoca in cui la libera unione di due spiriti era valutata nel suo più profondo significato, indipendente dalle sanzioni legali fornite dall’autorità dello Stato (per non dire poi dell’autorità religiosa, radicalmente negata)».

Due spiriti complementari, come sottolineano loro stessi. «Io sono uno spirito irrequieto, capace più

nell’azione che nella critica, più nell’intuizione che nell’analisi» scrive Cesare a Ernesta. «Ma queste sono tutte qualità troppo unilaterali che, abbandonate al loro progressivo sviluppo, potrebbero rendermi utile ed efficacissimo nella propaganda per tre o quattroanni; riuscirebbero ad atrofizzare ogni mia iniziativa nel futuro…”

 

Spostatisi a Trento, si occupano de “Il Popolo”, primo quotidiano socialista del Trentino

E poi «Il Popolo» non si fa mancare in quel primo decennio del nuovo secolo nessuna battaglia democratica, dal suffragio universale al rilancio delle opere di Emile Zola, definito dalla stampa clericale un «maiale» dedito a un «verismo lurido e schifoso».

Il giornale si batte per denunciare la penuria di alloggi e le condizioni socio‐sanitarie dei meno abbienti, difende l’idea di un busto allo scienziato trentino Giovanni Canestrini, un darwiniano inviso alla Curia, indaga sulla miseria delle campagne.

Importante il contributo data da Ernesta Bittanti: a lei si deve la ricerca sugli ebrei “pazzescamente”

accusati nel 1475 di aver ordito un sacrificio umano teso a irrorare col sangue di un bambino le azzime pasquali (scatenando un duro scontro con la destra cattolica devota a san Simonino, il nome del piccolo presunto martire).

Ed è ancora Ernesta a introdurre argomenti «femministi», a battersi contro la pena di morte con articoli che alla luce del futuro martirio di Battisti assumono toni preveggenti («quanto Medio Evo resta da spazzar via» è la conclusione di un articolo di quella campagna…). La Bittanti si occupa della condizione del personale di servizio femminile, proponendo alla Camera del Lavoro di stabilire diritti e doveri della categoria e di istituire una scuola professionale che conferisca al lavoro di domestica la dignità di qualsiasi altra professione. Sua la battaglia avviata per il divorzio, tema già esistente da tempo, ma che Ernesta rilancia nella quietissima Trento in anticipo di una settantina d’anni sul dibattimento del tema in Italia.

È lei, infine, a scrivere il testo dell’Inno al Trentino, musicato da Guglielmo Bussoli.

Donna decisa ed energica, appena avuta notizia del terribile terremoto di Messina parte in treno per portare aiuto, anche se non riesce a giungere a destinazione.

 

Dopo la morte di Battisti

Nel luglio del 1924, nell’anniversario della morte di Battisti, a Firenze si manifestò al grido di «Viva Battisti! Viva l’Italia Libera! Viva Matteotti». Erano i giovani antifascisti del nucleo appena nato di “Italia Libera”. Vi aderivano con Salvemini i fratelli Rosselli, Piero Gobetti, Piero Calamandrei, Leone Ginzburg, Luigi Battisti e Giannantonio Manci, un altro trentino dell’irredentismo.

A Trento, dopo l’uccisione di Matteotti, era stata proprio Ernesta Bittanti a redigere l’appello «Viva

l’Italia», un appello antifascista per la riscossa. E il 22 giugno, mentre si svolgeva un’adunata fascista a Trento, Ernesta era corsa alla Fossa del Castello del Buonconsiglio e aveva coperto il cippo dedicato a Battisti con un velo nero.

«Il nuovo Trentino» scrisse che la vedova «accasciatissima e indignatissima per l’assassinio dell’on. Matteotti s’era proposta di non permettere assolutamente – anche a costo della vita – che i

fascisti si accostassero al cippo del martire».

Nonostante un iniziale favore concesso ai primi fasci di combattimento, presto archiviato però di fronte agli esordi antidemocratici e violenti del movimento fascista, Ernesta Bittanti si posizionò da subito come fiera oppositrice del fascismo e tale restò per il resto della sua vita. Di lì a poco avrebbe respinto con freddezza la richiesta mussoliniana di dedicare il Monumento alla Vittoria di Bolzano a suo marito.

A Mussolini, che all’inizio della guerra d’Etiopia chiese l’oro per la patria, Ernesta Bittanti rifiutò poi di consegnare le medaglie del marito.

Nel 1930 la vedova Battisti si trasferì a Milano, dove ebbe frequenti contatti con gli amici antifascisti Guido e Rodolfo Mondolfo, Paolo Maranini, Tommaso Gallarati Scotti, Bianca Ceva, Ferruccio Parri e Aldo Spallicci. Erano gli anni della dura presa di posizione contro il regime fascista, espressa talvolta con gesti simbolici e coraggiosi, come quando, nel 1939, la Bittanti infranse le leggi razziali – che aveva contrastato fin dall’inizio cercando di avviare una protesta tra i

professori universitari – pubblicando sul « Corriere della Sera» un vistoso necrologio per la morte dell’ebreo triestino Augusto Morpurgo.

«L’aver avvicinato il nome di Cesare Battisti alla virtù di italiani ebrei, mi procurò commoventi attestazioni» scrisse poi sul suo diario. Ernesta Bittanti lascerà Milano  lascerà Milano nel 1943, costretta a fuggire in Svizzera per l’incalzare dell’evento bellico.

Il 24 settembre 1943 scriverà al presidente della Confederazione Elvetica ringraziandolo per l’accoglienza, ma esprimendo grande turbamento per notizie, che avrebbe sperato «inconsistenti»: il rifiuto d’asilo a gruppi di ebrei.

Il figlio Gigino non era da meno. Partigiano, perse otto dita delle mani per congelamento durante una delle numerose spedizioni per portare Oltralpe antifascisti in fuga dal regime. Con lui anche la sorella Livia si impegnò in attività clandestine. Luigi avrebbe combattuto in Val d’Ossola e nella primavera del ’45 prese parte all’offensiva della Valtellina. Nel maggio del ’45 rientrò con la famiglia a Trento e fu nominato sindaco della città, il primo del dopoguerra. Nel giugno successivo

fu eletto alla Costituente. Un incidente ferroviario, a Sessa Aurunca, mise fine alla sua vita. Era il dicembre del 1946.

La madre restò sempre fieramente laica: c’è chi la ricorda dritta e impassibile dietro la finestra dalle tapparelle chiuse nella casa di corso Tre Novembre a Trento, mentre la processione della Madonna Pellegrina sostava davanti al suo portone invocando il perdono di Dio per la “senza fede”.

La questione altoatesina fu una sua preoccupazione costante nel dopoguerra: ben ventotto sono i suoi scritti editi sull’autonomia e la questione altoatesina, in aperta polemica con le posizioni di De Gasperi. Era contraria all’istituzione della regione autonoma, secondo lei l’accordo De Gasperi‐Gruber sarebbe dovuto essere applicato solo all’Alto Adige.

Ernesta Bittanti morì undici anni dopo nella sua Trento, il 5 ottobre 1957, disponendo per sé funerali laici.

 

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Esistono un’anima ed un’identità europee?

01/07/2016 da Sergio Casprini

… La nostra è un’Europa sì portatrice di valori fondamentali, ma anche un’Europa che ha perso la sua anima per strada, che fa fatica a spiegare non solo agli altri, ma anche a se stessa le sue ragioni…

Lucrezia Reichlin  Corriere della Sera  25 giugno

In un libro uscito recentemente Italia. L’invenzione della Patria il docente universitario di letteratura italiana Fabio Finotti ci conduce attraverso i diversi significati che l’idea di Patria ha avuto nei secoli in’Italia. Dall’idea di Virgilio che vedeva la Patria come qualcosa da costruire (invece che un dato naturale), all’idea di impero come somma di diversità di Carlo Magno, passando per l’idea romantica di Foscolo e Manzoni e la retorica del fascismo, fino alla nostalgia degli espatriati di Little Italy, questo libro ci ricorda che l’Italia è il frutto di una straordinaria e mutevole invenzione culturale. Un invenzione però che nei secoli è diventata realtà storica in un processo secolare, di guerre e conflitti sociali, dagli anni del Risorgimento fino alla Resistenza. E da allora l’ Unità del nostro Paese e la sua identità nazionale non sono state mai messe in discussione e quando 70 anni  fa in Italia  fu fatto il referendum su monarchia o repubblica con una votazione fino all’ultimo voto incerta, nonostante che dopo l’8 settembre l’idea di Patria fosse entrata in crisi, nessuno mise in dubbio che l’esito del referendum avrebbe potuto pregiudicare il destino della nazione.

Anche l’Europa come istituzione sovrazionale è stata un’invenzione culturale, di uomini generosi ed idealisti come Altiero Spinelli, Ernesto Rossi con il manifesto di Ventotene ed ancor prima nell’Ottocento come Giuseppe Mazzini con La Giovane Europa, i quali auspicavano un Europa pacificata ed unita dopo le tragedie di guerre nazionalistiche e di conflitti sociali e razziali. Ma in questo caso dietro le idealità ed i valori c’è stata solo la volontà dei singoli governi nazionali a costruire un processo di formazione unitaria sovranazionale, non una mobilitazione di forze politiche e di ceti sociali  a dare corpo, identità ed anima a questo nuova istituzione comunitaria.

Infatti oggi esiste sopratutto l’Europa dell’economia e della finanza, di elites tecnocratiche e delle banche, senza che esista l’Europa della politica – estera, in particolare -, della difesa (non c’è esercito comune) e della cultura (non si è riusciti a mettere insieme una Carta costituzionale che fissasse gli elementi chiave di questa costruzione e la conferma  ne fu il flop della  mancata ratifica da parte della Francia e dell’Olanda nel 2005). Ed infatti  l’Europa si occupa della misura delle vongole che possono essere pescate e non riesce a prendere decisioni comuni sui migranti o sulla Siria e la Libia!

Dov’è quindi un’anima ed un sentimento condiviso di appartenenza ad un’unione comunitaria?

Di certo, l’eredità greca e romana, il Cristianesimo e l’illuminismo, la travagliata storia della resistenza ai totalitarismi novecenteschi ci hanno lasciato alcuni contenuti come la pace, la giustizia sociale, la libertà di pensiero, di espressione, di associazione, di partecipazione democratica. E d’altronde non si può tornare alle ideologie nazionalistiche dell’Ottocento ed alla politica delle cannoniere!. La perdita della sovranità nazionale è accettabile se, e solo se, è fatta in nome di un’istituzione più capace di garantire la sicurezza e il benessere di ciascuno e, soprattutto, più rispettosa e rappresentativa delle culture e delle tradizioni locali di quanto non lo siano gli stati nazionali. Un’Europa dei popoli, piena di ideali di libertà, di rispetto della vita e della giustizia sociale, amante e valorizzatrice delle differenze e delle peculiarità culturali ed economiche di ogni nazione sarebbe una possibile soluzione per uscire dall’impasse in cui si trova oggi l’Unione europea dopo Brexit.

L’americano Joseph Halevi Horowitz Weiler, giurista e docente universitario, rettore dell’Istituto universitario europeo con sede a Firenze, da tempo propone per esempio che l’Unione europea debba essere un sistema fondato su stabili relazioni tra distinti, tra Stati nazionali ciascuno forte di una sua identità, tra popoli ciascuno ricco delle sue culture.

Brexit deve essere giudicato allora non come la catastrofe di un  processo storico unitario ma come un episodio, certamente da non sottovalutare, su cui riflettere per far ripartire un percorso  di rinascita di un’altra idea d’Europa e di formazione di una reale identità ed anima comunitaria!

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Senza la guerra

15/06/2016 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

copertinaSaggi di:Massimo Cacciari; Lucio Caracciolo, Ernesto Galli della Loggia, Elisabetta Rasy

Editore Il Mulino

Anno    2016

Pag.     123

Prezzo  Euro 12,00

 

Moriremo pacifisti?

Dopo il ’45 è sembrato che l’Europa riuscisse a mettere fuori gioco la guerra, sconfessando così gran parte del suo stesso passato. Ora però essa è nuovamente circondata da una conflittualità minacciosa, e per le nostre democrazie si sta forse annunciando un appuntamento fatale con la storia: un appuntamento nel quale mille indizi sembrano indicare che la guerra possa tornare d’attualità. Ma l’Europa saprà ritrovarne le categorie culturali, prima ancora che le armi? Provenienti dal mondo della storia, della geopolitica, della filosofia e della letteratura, quattro autorevoli voci fanno i conti con l’evoluzione dell’atteggiamento europeo sulla guerra: Massimo Cacciari; Lucio Caracciolo, Ernesto Galli della Loggia, Elisabetta Rasy.

Massimo Cacciari ha pubblicato per il Mulino «Io sono il Signore Dio tuo» (con P. Coda, 2010) e «Ama il prossimo tuo» (con E. Bianchi, 2011). Lucio Caracciolo, fondatore e direttore di «Limes», ha pubblicato fra l’altro «America vs America» (Laterza, 2011). Ernesto Galli della Loggia ha pubblicato per il Mulino «L’identità italiana» (nuova ed. 2010), «Tre giorni nella storia d’Italia» (2010) e «Europa perduta?» (con G. Amato, 2014). Elisabetta Rasy, giornalista e scrittrice, è autrice di numerosi saggi e romanzi; l’ultimo è «Non esistono cose lontane» (Mondadori, 2014).

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27 aprile 2016 – 27 aprile 1859. Ricorrenza dell’Indipendenza della Toscana

26/04/2016 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Comitato Fiorentino per il Risorgimento
Circolo Piero Gobetti di Firenze
Coordinamento dei Comitati Toscani per il Risorgimento27 aprile

27 aprile 2016  – 27 aprile 1859. Ricorrenza dell’Indipendenza della Toscana

Il contributo degli stranieri all’Unità d’Italia

 

Programma

 

Mercoledì 27 aprile ore 9,30

Manifestazione in Piazza Indipendenza davanti al villino Trollope 

Saluti istituzionali

Sergio Casprini
Comitato Fiorentino per il Risorgimento

 “Teodosia Garrow-Trollope
Che scrisse in inglese con animo italiano
Delle lotte e del trionfo della libertà”

 Omaggi floreali ai Monumenti di Bettino Ricasoli e di Ubaldino Peruzzi

 *****

 Mercoledì 27 aprile ore 16,30

Convegno alla Fratellanza Artigiana

Via Pandolfini 17

 Presentazione della ricerca promossa dal Circolo Piero Gobetti di Firenze sulle  presenze degli stranieri a Firenze e in Toscana

 

Presiede

Giovanna Lori
Circolo Gobetti

 

Intervengono

Fabio Bertini
storico

Grazia Gobbi Sica
Architetto

Gigliola  Mariani  Sacerdoti
Linguista e storica  della Letteratura anglo-americana

Massimo Tarassi
Storico

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Massimo d’Azeglio a 150 anni dalla morte

07/04/2016 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Roberto Russo Mondolibri 15 gennaio

Il 15 gennaio 1866 moriva a Torino Massimo Taparelli marchese d’Azeglio, più noto come Massimo d’Azeglio, politico, patriota, pittore e scrittore che sempre a Torino era nato il 24 ottobre 1798. Sua è la celebre frase: “S’è fatta l’Italia, ma non si fanno gl’Italiani” (la troviamo ne  I miei ricordi).

Cresciuto alla scuola alfieriana la cui eredità era particolarmente viva nei circoli dei giovani intellettuali piemontesi cui apparteneva anche il cugino Cesare Balbo, Massimo d’Azeglio venne in seguito a contatto con i cenacoli romantici milanesi, dominati dalla figura del Manzoni (di cui sposò la figlia Giulia) e qui acquistò fama come autore di romanzi storici. Ettore Fieramosca o La disfida di Barletta (1833) – opera che tratta dell’amore del Fieramosca per Ginevra, a lui contesa dal duca Valentino – e il meno riuscito Niccolò de’ Lapi (1841), che prende spunto dall’assedio di Firenze del 1549-1530, risultano ispirati dalla volontà di esaltare gli spiriti patriottici rievocando gli episodi storici in cui maggiormente rifulsero il coraggio e l’ardimento degli italiani, ma l’intento oratorio lascia spazio a una vena sottile di ironia che tende ad alleggerire anche le situazioni più cupe e romanzesche; in questi romanzi è notevole lo stile piano e discorsivo, lontano da ogni impennata retorica, la lingua sciolta e vivace, priva di vezzi letterari e tesa a realizzare un tono medio accessibile a vasti strati di pubblico.

Un terzo tentativo di romanzo storico, La lega lombarda, a cui Massimo d’Azeglio lavorò tra il 1843 e il 1847, rimase interrotto dopo i primi capitoli.

Massimo d’Azeglio politico

Politicamente Massimo d’Azeglio fu esempio tipico di moderato liberale, gradualista, legalitario e federalista: espresse tali idee nello scritto Gli ultimi casi di Romagna (1846) in cui denunciò il malgoverno papale, deprecando insieme i tentativi insurrezionali del 1845 e nella Proposta di un programma per l’opinione nazionale italiana (1847) che risentiva delle speranze suscitate da Pio IX.

Dopo la disfatta di Novara (1849) fu nominato Primo Ministro del Regno di Sardegna e in seguito capeggiò il governo piemontese per quasi quattro anni, riuscendo a evitare il prevalere del municipalismo, ridando slancio alle istituzioni parlamentari, e attuando importanti riforme, come, nel campo ecclesiastico, quelle sancite dalla legge Siccardi (leggi di separazione fra Stato e Chiesa, del Regno di Sardegna, che abolirono i privilegi goduti fino ad allora dal clero cattolico, allineando la legislazione piemontese a quella degli altri stati europei).

Con l’avvento di Cavour venne superato dal corso degli eventi: vide di mal occhio l’annessione del Regno di Napoli, espose in Questioni urgenti (1861) la sua avversione all’idea di Roma capitale.

Gli ultimi scritti e i quadri

La sua ultima opera, I miei ricordi, apparsa postuma nel 1867, è uno degli esempi migliori della memorialistica risorgimentale. Infatti, quando Massimo d’Azeglio non si lascia prendere la mano dai suoi propositi educativi o dalla volontà di giustificare il suo operato di uomo politico, ma rievoca gli anni della sua giovinezza e l’ambiente torinese, nascono pagine ariose e vivaci, caratterizzate da un senso di verità molto forte cui contribuiscono gli inserti dialettali, che bene s’innestano in uno stile tendente al parlato che ebbe una notevole influenza sulla letteratura piemontese del secondo Ottocento.

La sua opera pittorica, soprattutto di paesaggi delicati e malinconici d’ispirazione romantica, è in gran parte conservata nel Museo civico di Torino.

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I PIU’ PERICOLOSI NEMICI DELL’ITALIA  tratto da I miei ricordi di Massimo d’Azeglio (ed. Rizzoli, Milano 1965, pagg. 17-18)

Livio Ghelli Comitato Fiorentino per il Risorgimento

“L’Italia da circa mezzo secolo s’agita, si travaglia per divenire un sol popolo e farsi nazione. Ha riacquistato il suo territorio in gran parte. La lotta collo straniero è portata in buon porto, ma non è questa la difficoltà maggiore. 
La maggiore, la vera, quella che mantiene tutto incerto, tutto in forse è la lotta interna. 
I più pericolosi nemici d’Italia non sono i Tedeschi, sono gl’Italiani. 
E perché? 
Per la ragione che gl’Italiani hanno voluto far un’Italia nuova, e loro rimanere gl’Italiani vecchi di prima, colle dappocaggini e le miserie morali che furono ab antico la loro rovina; perché pensano a riformare l’Italia, e nessuno s’accorge che per riuscirci bisogna, prima, che si riformino loro, perché l’Italia, come tutt’i popoli, non potrà divenir nazione, non potrà esser ordinata, ben amministrata, forte così contro lo straniero come contro i settari dell’interno, libera e di propria ragione, finché grandi e piccoli e mezzani, ognuno nella sua sfera, non faccia il suo dovere, e non lo faccia bene, od almeno il meglio che può. 
Ma a fare il proprio dovere, il più delle volte fastidioso, volgare, ignorato, ci vuol forza di volontà e persuasione che il dovere si deve adempiere non perché diverte o frutta, ma perché è dovere; e questa forza di volontà, questa persuasione, è quella preziosa dote che, con un solo vocabolo, si chiama ‘carattere’, onde, per dirla in una parola sola, il primo bisogno d’Italia è che si formino Italiani, che sappiano adempiere al loro dovere; quindi che si formino alti e forti ‘caratteri’. 
E purtroppo si va ogni giorno più verso il polo opposto.”

 

 

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Scritti politici e d’attualità

05/04/2016 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

copertinaa cura di  Attilio Motta

Autore  Ippolito Nievo
Editore  Marsilio
Anno     2016
Pag.       656
Prezzo   Euro 38,00

Arruolatosi tra i garibaldini nella primavera del 1859, Ippolito Nievo viene sorpreso dall’armistizio di Villafranca, che prevede la liberazione della Lombardia ma non dell’amato Veneto. Per questo scrive «in fretta» e pubblica anonimo il pamphlet Venezia e la libertà d’Italia, accorato tentativo di opporsi a un destino amaro che riapriva la ferita di Campoformio. Qualche mese dopo, momentaneamente archiviata ogni prospettiva di ripresa della guerra, torna a riflettere sul Risorgimento con un breve saggio rimasto inedito, Rivoluzione politica e rivoluzione nazionale, in cui analizza criticamente le ragioni dello scarso coinvolgimento popolare nel processo unitario. Oltre a questi due testi, il volume raccoglie una settantina di articoli d’attualità con cui, nel “decennio di preparazione” (e in particolare tra il 1857 e il 1859), Nievo contribuisce alla crescita di una coscienza nazionale dalle colonne delle riviste umoristico-satiriche, e in cui l’intrattenimento si alterna ad affondi politici nascosti, a causa della censura, dietro il velo dell’allusività.

Attilio Motta (Lecce 1971) è ricercatore di letteratura italiana all’Università di Padova. Si è occupato fra l’altro del dibattito sul romanzo nel Settecento italiano, del ripiegamento memorialistico degli intellettuali contemporanei (L’intellettuale autobiografico, Manni 2003) e dei Cantari della Reina d’Oriente di Antonio Pucci, di cui ha curato, con William Robins, un’edizione critica (Commissione per i testi di lingua 2007). Su Nievo ha pubblicato alcuni studi sugli scritti giornalistici e sull’esilio nelle Confessioni.

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Libere di sapere. Il diritto delle donne all’istruzione dal Cinquecento al mondo contemporaneo

15/03/2016 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

copertina-4Autore    Alessia Lirosi

Editore   Edizioni di storia e letteratura

Anno       2015

Pag.         320

Prezzo     Euro 18,00

La storia del diritto delle donne all’istruzione e il secolare pregiudizio riguardante le capacità razionali del cosiddetto ‘sesso debole’ non sono mai stati finora oggetto di una trattazione sistematica. Partendo dalla questione della formazione femminile nella storia dell’Europa e soprattutto in quella italiana tra XVI e XX secolo, la prospettiva si allarga a tutto il contesto mondiale, prendendo in esame le principali conferenze e i documenti internazionali e regionali sul tema, dalla Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 alla Piattaforma di Pechino del 1995.

Alessia Lirosi è attualmente è Direttore Responsabile della newsletter semestrale cartacea per i donatori della sede italiana della Ong americana World Vision; la sua monografia Libere di sapere. Il diritto delle donne all’istruzione dal Cinquecento al mondo contemporaneo (Edizioni di Storia e Letteratura, Dicembre 2015)  ad aprile 2015  ha vinto il concorso bandito nell’ambito del « Fondo XXVnnale » dell’Associazione Femminile Internazionale Soroptimist.                                                                                                                                                                                    Tra le sue pubblicazioni ricordiamo la monografia I monasteri femminili a Roma tra XVI e XVII secolo, il volume è stato oggetto di una lezione seminarile che ha avuto luogo all’ Università La Sorbona di Parigi e verrà tradotto e pubblicato in inglese dalla Truman State University Press – USA.

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Italia. L’invenzione della Patria

10/03/2016 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

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Autore     Fabio Finotti

Editore    Bompiani

Anno        2016  

Pag.          570

Prezzo      Euro 28,00

  

In un momento storico in cui i flussi migratori invitano a ripensare il ruolo e l’identità dei paesi europei, Fabio Finotti ci conduce attraverso i diversi significati che l’idea di “patria” ha avuto nei secoli, a partire dal laboratorio in cui queste diverse concezioni si sono confrontate: l’Italia. Dall’idea di Virgilio che vedeva la patria come qualcosa da costruire (invece che un dato naturale), all’idea di impero come somma di diversità di Carlo Magno, passando per l’idea romantica di Foscolo e Manzoni e la retorica del fascismo, fino alla nostalgia degli espatriati di Little Italy, questo libro ci ricorda che l’Italia è il frutto di una straordinaria e mutevole “invenzione culturale”.

 

Fabio Finotti è  docente presso la Penn University di Philadelphia, dove è direttore del Center for Italian Studies.

E’ anche docente di Letteratura italiana nelle università di Trieste e Pola. I suoi interessi si concentrano sulle strategie intertestuali e retorici della letteratura italiana. La sua ricerca esplora le relazioni tra le diverse tradizioni, codici, i media, generi e strutture sociali nazionali. È autore di diversi libri, tra cuiSistema letterario e Diffusione del Decadentismo (1988); Critica letteraria e linguaggio religioso (1989); Una ferita non chiusa. Misticismo, filosofia, letteratura in Prezzolini e nel primo Novecento (1992); . Retorica della diffrazione. Bembo, l’Aretino, Giulio Romano e Tasso: letteratura e scena cortigiana (2004), così come molti articoli sulla teoria letteraria e sulla letteratura italiana, da Dante a XX secolo. . Tra le sue recenti pubblicazioni:Melchiorre Cesarotti e le Trasformazioni del Paesaggio Europeo, ed. di F. Finotti. Trieste: EUT, 2010; Melchiorre Cesarotti, “Sulla tragedia è sulla poesia”, ed. di F. Finotti. Venezia: Marsilio, 2010.

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L’Italia prima dell’Unità d’Italia. La lezione di Giuseppe Galasso

18/02/2016 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

«Dalla Monarchia alla Repubblica»: in libreria il settimo e ultimo volume
con gli scritti dello studioso napoletano sulle vicende del nostro Paese

Antonio Carioti Corriere della Sera 8 febbraio

Si può considerare la nazione italiana come un «soggetto storico» costituitosi diversi secoli or sono, che quindi «non è nato nel Risorgimento, né è stato un suo frutto a posteriori»?Giuseppe Galasso risponde risolutamente di sì. E lo scrive a chiare lettere nella prefazione del settimo volume, intitolato Dalla Monarchia alla Repubblica (pp. 318, e 45), che conclude la serie «L’Italia nuova», in cui le Edizioni di Storia e Letteratura hanno raccolto i numerosi scritti dedicati dallo storico napoletano alle vicende del nostro Paese dai moti risorgimentali all’epoca repubblicana.

Cinque dei libri in questione erano già usciti a suo tempo nei quaderni di storia dell’editore Le Monnier, quest’ultimo e il precedente, dal titolo Risorgimento tra realtà, pensiero e azione (pp. 312, e 38), sono nuovi e contengono diversi scritti inediti. Comunque l’intera opera, pur nella sua complessa vastità, ha un evidente trama unitaria, che consiste appunto nel richiamo al retroterra secolare della costruzione nazionale italiana e nella conseguente critica rivolta all’idea di una strutturale arretratezza o anomalia del nostro Paese rispetto al resto dell’Europa. Se lo Stato italiano si è formato in ritardo rispetto ad alcune grandi monarchie occidentali (Francia, Inghilterra, Spagna), si evince da queste pagine, la nazione aveva già una sua identità specifica, che trovò nel 1861 il suo sbocco politico.

Date queste premesse, ovviamente Galasso non concede grande credito alle visioni riduttive o negative del Risorgimento, né più in generale alla moda sempreverde dell’autofustigazione nazionale. E dissente quindi da chi vorrebbe far ricadere sui padri della patria ottocenteschi responsabilità preminenti per difficoltà del giorno d’oggi addebitabili piuttosto a coloro che hanno retto le sorti del Paese in tempi assai più prossimi. Significativo a tal proposito l’elogio che l’autore dedica allo Stato unitario, cui attribuisce il merito di aver determinato «un deciso ammodernamento, potenziamento e liberalizzazione nelle strutture e nella prassi della vita pubblica e del rapporto fra pubblica amministrazione e cittadinanza». Insomma, l’apparato pubblico allestito dalla Destra storica e sviluppato dai suoi successori aveva difetti, anche gravi, ma un paragone con le situazioni precedenti torna a suo vantaggio. Allo stesso modo Galasso sottolinea che l’Italia liberale, al suo apparire nel 1861, venne giudicata da molti un edificio precario, che avrebbe potuto sfaldarsi in breve tempo. Il fatto che invece abbia resistito e si sia consolidata non si può dare retrospettivamente per scontato, vista l’enormità dei problemi sorti dalla realizzazione del processo risorgimentale. E nel frattempo il Paese ha conosciuto, a partire dalla fine dell’Ottocento, diverse straordinarie ondate di crescita industriale, che ne hanno trasformato il volto.

Non sono mancate le cadute anche rovinose, in particolare con la dittatura fascista e il disastro della Seconda guerra mondiale, ma nel complesso, scrive Galasso, «l’Italia è uscita da un vero proprio stato di minorità rispetto all’Europa avanzata e ne è diventata una parte cospicua e imprescindibile». Attenzione però a non attribuire una sorta di ottimismo panglossiano, tendente ad assolvere in blocco le classi dirigenti italiane, a un autore avvertito come Galasso. In realtà molti degli scritti contenuti in queste raccolte illustrano ampiamente quanto faticoso e contraddittorio sia stato il cammino della nostra compagine nazionale. E poi, se è vero che abbiamo fatto notevoli passi avanti dall’epoca degli Stati preunitari, nulla garantisce che in futuro ce la caveremo sempre

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