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Risorgimento Firenze

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La Sinistra e l’identità

21/09/2018 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

La nostra Penisola presenta un insieme di caratteri che sono soltanto suoi. Questo non significa che tutto sia uguale a se stesso, tutto identico

 

Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera 16 Settembre

 

Ogni volta che decide di suicidarsi la Sinistra sa che può sempre contare su chi è pronto ad aiutarla a infilare il colpo in canna: sono gli intellettuali della sua parte. I quali a propria volta sanno che qualunque cosa dicano o facciano possono sempre contare sul masochistico silenzio della loro vittima. È questa la prima riflessione che viene alla mente leggendo il lungo articolo di Tomaso Montanari «L’identità inventata degli italiani» (Il Fatto, 10 settembre).

E subito dopo non si può non pensare che su certe materie in Italia ogni discussione è impossibile dal momento che invece di sforzarsi di capire le ragioni dell’altro ognuno ripete le proprie come un mantra per il pubblico degli aficionados.

La tesi di Montanari è perfettamente espressa dal titolo dell’articolo: l’identità italiana non esiste. Lo stesso termine identità è a suo avviso un termine maledetto, servendo solo ad alimentare «il veleno della retorica identitaria» e quindi a giustificare il «noi» contro «loro», le dottrine del «respingimento», «i campi di concentramento in Libia», lo «straniero come nemico» nonché ovviamente «i paradigmi culturali (…) connessi ai fantasmi del nazionalismo nazifascista», il «prima gli italiani» e via così sermoneggiando. Tutte infamie imputabili per l’appunto al famigerato concetto di identità.

Peccato che per cercare di aver ragione l’autore ricorra a un espediente alquanto indegno del suo rango intellettuale: quello di fabbricarsi un avversario di comodo da poter facilmente stendere al tappeto. Se identità, egli scrive infatti, significa «uguaglianza assoluta, corrispondenza esatta e perfetta», ebbene, conclude trionfante, allora «bisogna dire con chiarezza: no, questa identità italiana non esiste». Già: il punto è che a mia conoscenza non vi è mai stato nessuno così idiota (meno che meno qualcuno con un minimo di studi alle spalle) che abbia sostenuto l’esistenza di un’identità italiana nel significato che alla parola identità attribuisce Montanari. Quando si parla d’identità italiana s’intende infatti quel significato della parola per cui ad esempio si parla di «carta d’identità»: e cioè, come attesta qualsiasi buon vocabolario (cito dallo Zingarelli): la «qualificazione di una persona, di un luogo, di una cosa per cui essa è tale e non altra». Identità italiana significa insomma che la nostra Penisola presenta un insieme di caratteri che complessivamente presi sono solo suoi e non di altri luoghi della terra. Non significa affatto che in Italia tutto è monotonamente eguale a se stesso, che tutto è identico.

***

Avendo furbescamente stabilito che invece si tratta proprio di ciò il nostro autore ha facile gioco a farsi beffa di una simile castroneria. Non lo sanno forse tutti, infatti, che gli italiani sono il frutto di mille incroci di popoli diversi dalle Alpi alla Sicilia? Che la cultura italiana è sempre stata multiforme e multanime? Che non esiste neppure una cucina italiana? Tutte cose vere che però non dimostrano nulla. Certo, gli italiani — come del resto quasi tutti i popoli d’europa — sono dei sanguemisto, ma fino a prova contraria solo qui e non altrove, solo in questo spazio geografico, Normanni e Bizantini, Arabi ed Ebrei, Greci e Longobardi, Latini e Franchi, le loro lingue e le loro culture hanno avuto modo di mischiarsi e incrociarsi in una maniera così peculiare. Egualmente solo nella Penisola sono nate una miriade di prestigiosissime produzioni letterarie guarda caso scritte tutte in una sola lingua, l’italiano: anche se naturalmente con prospettive e contenuti tra loro diversissimi (come se poi la cultura di Monaco fosse mai stata la stessa di quella di Berlino o a Marsiglia si parlasse la stessa lingua di Parigi). Sta di fatto che nessuna persona sensata definirebbe mai Primo Levi o Giorgio Bassani come degli scrittori ebrei: sono stati due grandi scrittori italiani e basta. Quanto alla cucina è certo innegabile la straordinaria varietà delle cucine locali di questo Paese, ma conosce Montanari un altro luogo nel mondo dove si mangia dappertutto la pasta come da noi? dove si adoperano tanto le verdure come sui nostri fornelli?

Qui insomma non si tratta di stabilire l’esistenza di un identico bensì di un unicum.

Non si tratta di affermare una qualunque purezza — come invece tenta continuamente di insinuare Montanari per poter vestire i comodi panni del Catone antirazzista — bensì di mettere a fuoco una singolare complessità. Non si tratta di biologia, insomma, si tratta di storia. L’identità è un fatto storico, il frutto di una storia. Per questo essa è unica e irripetibile: perché tale è ogni storia. Sicché proprio da un punto di vista storico mi sembra velleitario, ad esempio, il tentativo di Montanari di contestare la centralità che nell’identità italiana hanno le sue «radici cristiane», e di farlo portando come prova decisiva null’altro che una frase contro le patrie di don Milani. Allora è solo una caso, mi chiedo, è solo un caso, che so, lo sterminato numero di chiese presenti nella Penisola? È solo un caso se fino a ieri il nome femminile più diffuso fosse Maria? È solo un accidente insignificante la presenza a Roma della Santa Sede?

***

La denunciata «mancanza di un’identità unitaria» non vuol dire affatto la mancanza di un’identità (e magari anche di un’identità fortissima). Se ciò fosse vero, del resto, nessun Paese almeno in Europa ne potrebbe allora vantare una, dal momento che né Spagna né Francia né Germania, tanto per citarne qualcuno, possiedono certo un’identità molto meno variegata di quella italiana. Non solo, ma resterebbe inoltre da spiegare un non piccolo mistero storico che mi piace porre in una forma adeguatamente retorica e tale da suscitare, immagino, il sano disgusto di Montanari: che cosa dobbiamo pensare delle migliaia di donne e uomini che negli ultimi due secoli si sono fatti ammazzare sui campi di battaglia, sulle forche e dai plotoni d’esecuzione gridando «Viva l’italia»? Che cosa sono state? Vittime di un inganno, di un’illusione di «un’idea di nazione chiusa e guerresca», «di un bieco nazionalismo»? Di che cosa?

***

In realtà ciò che a Montanari veramente interessa in questa discussione è adoperare la storia, il passato dell’Italia, per un fine esclusivamente e schiettamente politico: e cioè sostenere la necessità della porta aperta nei confronti degli immigrati, dal momento che come scrive «tutti siamo provvisori, migranti e stranieri», che «il nostro noi si è formato grazie ad una somma di “loro” accolti e fusi in questa terra» , e che dunque «l’Italia è sempre stata multietnica e dunque multiculturale». Affermazioni che contengono però una serie di forzature un po’ troppo disinvolte, che specialmente uno studioso dovrebbe avere qualche ritegno a permettersi. I popoli che Montanari descrive ad esempio come «accolti e fusi in questa terra» nel corso dei secoli lo furono sì, ma dopo invasioni, guerre, soprusi e miserie devastanti che spesso durarono molto a lungo: il che non mi sembra un particolare irrilevante. Parlare poi di Enea, per fare un altro esempio, come di «un rifugiato, richiedente asilo e migrante troiano» significa, a parte la ridicolaggine del lessico, falsare anche la realtà di un mito che, almeno nella versione virgiliana, lungi dal consegnarci una simile immagine idilliaca ci parla invece di guerre feroci che sarebbero state scatenate proprio dall’arrivo di Enea sulle coste del Lazio. A volerlo prendere sul serio un precedente per nulla rassicurante, si dovrà ammettere.

Alla fine comunque, fatta piazza pulita di una parte della storia e manipolatane il resto, la strada è aperta perché il nostro autore possa proclamare quale unica identità italiana possibile quella di un «patriottismo costituzionale ispirato da una costituzione cosmopolitica come quella che avrebbe potuto darsi l’unione europea».

E così la Sinistra è servita: se lo desidera ha la ricetta perfetta per assaporare il bis della catastrofe elettorale del 4 marzo.

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Soltanto Bontempelli disse no alla cattedra di un ebreo espulso

07/09/2018 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Unico tra ben 896 professori universitari, rifiutò di sostituire un collega estromesso per via delle leggi razziali. Paradossalmente dopo la guerra fu sanzionato come fascista

Gian Antonio Stella Corriere della Sera 29 agosto

E solo Massimo Bontempelli disse no. Ottant’anni dopo, a rileggere la storia infame dei «Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista» firmati dal re Vittorio Emanuele III nella tenuta di San Rossore il 5 settembre 1938 («la data della vergogna per la cultura italiana», ha scritto lo storico Giovanni Belardelli) spicca il silenzio assordante degli 895 docenti universitari su 896 che dissero sì. E accettarono servili e contenti (quando non sgomitarono per contendersi il bottino) quelle cattedre regalate loro grazie alla espulsione dei professori ebrei.

Una pagina nera. Diventata nerissima quando, a guerra finita, i docenti espulsi, costretti all’esilio o scampati ai campi di sterminio, chiesero di riavere il loro posto. E si trovarono davanti a una montagna tale di ostacoli burocratici, accademici e politici (dice tutto il titolo del decreto del 27 maggio 1946: «Riassunzione in ruolo di professori universitari già dispensati (sic!) per motivi politici e razziali») che molti preferirono nauseati lasciar perdere, altri rimasero là dove si erano rifugiati e qualcuno si uccise per il doppio rifiuto. Come il biologo Tullio Terni, che si tolse la vita con una fiala di cianuro il 25 aprile 1946, primo anniversario della Liberazione. Alla vigilia di quel decreto firmato dal diccì Guido Gonella che, scrivono Francesca Pelini e Ilaria Pavan nel libro La doppia epurazione (il Mulino, 2009), non voleva «turbare gli equilibri dati al momento della fine del conflitto».

Equilibri che chi aveva approfittato della «manna» (così la chiamò Ernesto Rossi) dell’espulsione di tutti quei docenti e di altri 727 studiosi ebrei buttati fuori dalle accademie e dalle istituzioni culturali, ringhiosamente difese, rivolgendosi perfino alla magistratura neo-democratica per non restituire il posto arraffato grazie alle leggi fasciste. Una vergogna tale, ricorderà Giorgio Israel ne Il fascismo e la razza. La scienza italiana e le politiche razziali del regime (il Mulino, 2010), che dopo decenni era «assai facile trovarsi di fronte a reazioni virulente per aver soltanto osato ricordare i trascorsi razzisti di alcuni maestri di cui ancora oggi gli allievi, o gli allievi degli allievi, coltivavano un’adorazione intatta!».

Basti ricordare, come fece anni fa sul «Corriere della Sera» Paolo Mieli, il matematico Mauro Picone, che in una lettera del 1939 scriveva: «Urge che gli scienziati di razza ariana collaborino il più attivamente possibile per mostrare come la scienza possa egualmente progredire anche senza l’intervento giudaico» e solo sette anni dopo, ricordando il matematico Guido Fubini morto esule nel 1943 a New York, «ebbe la sfrontatezza di scagliarsi contro “gli stolti, infami provvedimenti razziali”, da lui a suo tempo applauditi e ora definiti “eterna vergogna”».

«La reintegrazione dei docenti ebrei», ha scritto Pierluigi Battista ricordando l’esempio pisano, «fu registrata con estrema freddezza dalle autorità accademiche che affrontarono la questione con il distaccato stile burocratico di chi doveva risolvere una complicata e molesta incombenza». Una vergogna rimasta a lungo velata, fino ai libri di denuncia come L’università italiana e le leggi antiebraiche di Roberto Finzi (Editori Riuniti, 1997) e altri ancora.

Ecco, in questo impasto di orrori, furbizie, omertà, complicità e ipocrisie che infettarono l’università italiana a cavallo tra il «prima» e il «dopo» le leggi razziali, la guerra perduta e la lotta di Liberazione, Massimo Bontempelli pagò dazio due volte. Prima perché marchiato dai fascisti come «idiota e carogna», poi perché bollato dagli «antifascisti» (compresi certi convertiti dell’ultima ora) come un «voltagabbana» dal passato destrorso.

Nato a Como nel 1878, studente anarchico («fui orgoglioso di portare qua e là pacchi di manifesti sovversivi»), laurea in Filosofia con una tesi sul libero arbitrio e in Lettere con una sull’endecasillabo, docente, poeta, interventista, corrispondente di guerra, collaboratore del Fascio politico futurista di Filippo Tommaso Marinetti, tessera del Partito fascista fatta insieme col suo amico Luigi Pirandello (dirà: «Mai fatto vita di partito; anzi fino al 1948 non ero mai stato iscritto ad alcuno: il fascista non conta, non era un partito, era un’anagrafe»), cominciò a staccarsi dal regime nel 1936, dopo la guerra d’Abissinia. La prova? «Molti episodi documentatissimi», scriveranno anni dopo vari intellettuali (dal critico Luigi Baldacci al poeta Eugenio Montale, dal musicista Goffredo Petrassi al pittore Renato Guttuso) indignati per una feroce critica a Bontempelli di Mario Picchi, che sull’«Espresso» aveva scritto d’una «miserabile coscienza morale» per poi rincarare: «Artista piccolino, fascista grandicello».

«Bontempelli è stato vittima d’un trattamento disonesto e di un abuso», scriverà Carlo Bo. «Eppure nei famosi vent’anni del periodo fra le due guerre è stato uno degli spiriti più vivi e attenti ai moti della società italiana».

Certo è che diede prova d’aver la schiena dritta almeno in due momenti chiave. Il primo, dicevamo, quando fu l’unico (unico!) docente a rifiutare il dono di una cattedra «per chiara fama» rapinata a un ebreo, nel suo caso il grande Attilio Momigliano. Il secondo quando, nel novembre di quel 1938, ricordò Gabriele d’Annunzio, davanti ai gerarchi convenuti a Pescara, denunciando «il nuovo costume intonato al feticismo della violenza». Denuncia che gli costò non solo gli insulti di Achille Starace («Ho tolto la tessera all’accademico Bontempelli perché più idiota e carogna di così si muore»), ma l’ostracismo totale: vietata la ristampa dei suoi libri, vietato chiedergli conferenze… Più l’imposizione del domicilio coatto: Venezia. Ma solo per sopire lo scandalo. «Fu il periodo più bello della sua vita», scriverà Bo nel suo ricordo dopo la morte, definendolo «un prosatore stupendo» e «il più libero e nello stesso tempo più depurato del secolo». «Nel palazzo sul Canal Grande che lo ospitava diventò per la parte più responsabile della cultura italiana un riferimento, un piccolo faro d’indipendenza». Cosa che non gli bastò, anni dopo, a evitare l’umiliazione più grande della sua vita.

Scampato dopo l’8 settembre 1943 alla condanna a morte decretata contro di lui dai nazisti per un libro del 1919 contro la Germania, sopravvissuto alla guerra, candidato a Siena col Fronte delle sinistre alle elezioni del 1948, Massimo Bontempelli fu eletto al Senato, ma subito trascinato davanti alla Giunta per le elezioni. Gli rinfacciarono d’aver firmato nel 1935 un pezzo intitolato Milizia santa su un’antologia (Oggi) di letture per le scuole medie contenente, come tutti i libri dell’epoca, parole d’esaltazione per il regime e il Duce. Antologia, tra l’altro, che lo scrittore aveva delegato, secondo il critico Franco Petroni, «a un perseguitato dal fascismo, che aveva bisogno di fare un po’ di soldi e non poteva firmare col proprio nome».

Un peccato secondario, rispetto a quelli dei tanti razzisti riciclati come il fisiologo Sabato Visco, che era stato «capo dell’ufficio per gli studi e la propaganda sulla razza del Minculpop», o il giurista Gaetano Azzariti, già a capo del Tribunale della razza (e destinato perfino alla presidenza della Corte costituzionale), o l’ex segretario di redazione della «Difesa della razza» Giorgio Almirante (eletto in quella stessa tornata) e altri ancora.

Eppure fu lui, che Bo definiva «tutto fuor che uno scrittore impegnato e questo perché la sua fantasia non accettava nessun legame con la realtà», ad essere buttato fuori dal Senato come fascista. Il solo che, dopo quelle leggi infami sull’università, aveva avuto il fegato e la dignità di dire no.

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La bellezza salverà il mondo… ma non Firenze e i fiorentini!

01/12/2015 da Sergio Casprini

dostoevskij“La bellezza salverà il mondo” afferma il principe Miškin nell’Idiota di Dostoevskij, ma senza addentrarci nei possibili e tanti significati metaforici di questa frase, tratta dal bel romanzo dello scrittore russo, restiamo al significato della bellezza, come bellezza dell’arte e alla sua funzione pedagogica e catartica.

Contemplare un quadro, una scultura, un’architettura provoca a un tempo emozione e pensieri; certo sono quasi sempre opere del passato, a cui si attaglia indiscutibilmente il canone della bellezza, l’arte contemporanea, in cui l’aspetto estetico è meno importante, invece parla più alla testa che al cuore.

Non tutti sanno che Dostoevskij portò a termine il romanzo l’Idiota a Firenze dove alla fine del novembre 1868 si era trasferito con la moglie in un palazzo in Piazza Pitti, proprio quando a Palazzo Pitti abitava il re d’Italia. Erano gli anni di Firenze capitale,

In quell’anno che rimase a Firenze oltre a terminare l’Idiota fece con la moglie lunghe passeggiate tra chiese, musei e palazzi e qui nacque sua figlia, Ljubov, che in russo vuol dire amore. Fu per lo scrittore un periodo sereno nella sua vita, contrassegnata da tormenti e drammi, e nelle passeggiate tra i monumenti cittadini fu certamente coinvolto dalla bellezza dei luoghi e ne fece partecipe i fiorentini, con cui era entrato in confidenza

Negli anni di Firenze Capitale ed in tutto l’Ottocento nella società civile e nel mondo delle arti tra forestieri e residenti nascono infatti reciproche relazioni di cultura e di amicizia, nella condivisione dei valori e degli ideali del Risorgimento.

Oggi invece a Firenze assistiamo ad un quotidiano assalto dei turisti ai monumenti, ad un consumo passivo e compulsivo dei beni artistici, alla scomparsa dei locali storici e delle botteghe artigiane con le vie e le piazze, trasformate in un mercato caotico e vociante di giorno e talora di notte. E questo allarme non proviene da qualche comitato cittadino, nostalgico del bel tempo che fu, ma dall’agenzia dell’Unesco che tutela i siti, patrimonio mondiale dell’umanità, che ha inviato a maggio a Palazzo Vecchio una lettera in cui denunciava il degrado del centro storico.

Ne consegue che in questa inarrestabile invasione di massa dei turisti i fiorentini progressivamente vengono espropriati della loro città e della possibilità di poter fruire della bellezza del patrimonio storico-artistico con cui per anni avevano convissuto e di cui avevano conservato la memoria.

Ne è un esempio la chiesa di Santo Stefano al Ponte, che si trova tra piazza della Signoria e Ponte Vecchio che da più di un anno non è più accessibile come sito storico-artistico ai fiorentini in quanto, essendo sconsacrata e dopo un lungo restauro riportata agli antichi splendori ( la chiesa ha una facciata romanico-gotica ed un interno barocco con pregevoli opere d’arte) la Curia l’ha concessa in affitto ad una società privata che organizza non solo concerti ma anche mostre multimediali di artisti famosi, per cui all’interno della chiesa in una recente esposizione, tra le altre, di quadri di Van Gogh una sinfonia di luci, colori e suoni ha azzerato per i visitatori la percezione dell’architettura e delle sue decorazioni.

Il Museo dell’Opera del Duomo con un rinnovato, moderno ed intelligente allestimento delle sue splendide collezioni invece è accessibile, ma il prezzo d’ingresso è caro, con la giustificazione da parte dei responsabili del Museo che con lo stesso biglietto si possono pure visitare i monumenti di piazza del Duomo, Battistero, Cattedrale e Campanile, ( una visita per altro da fare nell’arco di 24 ore !).

Anche in questo caso i residenti di fatto vengono respinti da una politica meramente commerciale e per niente culturale in una svendita della città al turismo “mordi e fuggi”.

Andrebbe invece ricordato ai nostri amministratori locali che il nostro patrimonio culturale ed artistico, prima che a produrre ricchezza con lo sfruttamento intensivo del turismo, il nostro petrolio secondo la vulgata del Ministero dei Beni Culturali, serve alla formazione di uno spirito civico e a dare ai fiorentini il senso di appartenenza ad una comunità con le sue specifiche radici storiche e artistiche nell’ambito della comunità più ampia del nostro Paese.

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