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Risorgimento Firenze

Il sito del Comitato Fiorentino per il Risorgimento.

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Fabio Bertini

Per dare la cittadinanza agli stranieri è forse un problema aspettare i 18 anni ?

02/01/2018 da Fabio Bertini

 

Caro Direttore

Nell’ editoriale di gennaio Il patrio suolo e lo Jus soli fai una presentazione equilibrata delle questioni che poni, attenta a sottolineare le condizioni essenziali per avere la cittadinanza italiana, pur lasciando al lettore il giudizio sul se e sul come questo disegno di legge le garantisca.

Io ho molti dubbi in proposito e francamente non ho ancora capito quale problema costituisca aspettare i 18 anni come prevede la legge attuale.

Non mi sembra che ai minori stranieri attualmente viventi in Italia siano privati di alcunché se non sono cittadini italiani. Un problema specifico è poi quello delle famiglie mussulmane, le cui leggi religiose esigerebbero comportamenti in contrasto con la Costituzione, per esempio sul piano dell’uguaglianza di uomo e donna davanti alla legge

Giorgio Ragazzini

 

 

 

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Sulle False notizie e la Storia.

02/12/2017 da Fabio Bertini

Caro Direttore,

il tuo editoriale (Le False notizie e la Storia) è come sempre attinente e colto e sollecita meditazioni. Quando ancora non si usava in Italia questa espressione, fake news, un po’degradante per il nostro sistema culturale, e si usava il termine false notizie l’espressione era adoperata ampiamente. C’erano i casi storici a cui ti riferisci. Si spargevano false notizie in campo commerciale (il Conte di Montecristo non aveva inventato nulla con le sue notizie distorte sui titoli azionari perché se ne inventavano a bizzeffe), in campo di moralità familiare e, naturalmente, in campo politico. La novità maggiore sta, come osservi giustamente, nella dimensione di massa assicurata da internet cui non si oppone un filtro. Ma il filtro non può che consistere nell’attitudine critica di società che ormai da molto tempo assicurano l’istruzione di base a una parte preponderante della cittadinanza. Si vede che la scuola non abitua alla lettura critica dei testi, per la quale non servono gli strumenti della filologia ma quelli del buon senso. Naturalmente, i giornali e le televisioni potrebbero dedicare apposite rubriche per mettere in evidenza i casi più eclatanti, magari nelle edizioni online. Purtroppo anche i giornali italiani non sfuggono alla mancanza di senso critico anche in questa occasione. Le fake news (ormai rassegniamoci) sono in campo da anni, ma improvvisamente diventano il clou dei salottini televisivi e delle prime pagine. Bene. Anche questo è fake news. Il nostro paese ha gravissimi problemi insoluti, di tipo economico, di tipo sociale e culturale, ma basta un fischio e il dibattito politico in quelle sedi si trasferisce su quello che non è che un piccolo problema di costume. La campagna elettorale ondeggia come i velocisti nelle tappe in linea del giro d’Italia, il gruppone segue  si getta sul capofila. La volata è troppo lunga e molto noiosa. Vedremo cosa accade agli ultimi metri che, come spesso negli ultimi anni saranno confusi e non ci diranno  con chiarezza le cose più importanti: quali sono i riferimenti culturali dei “girini”, le concezioni di destra o di sinistra che concepiscono, i gruppi sociali che si intendono rappresentare. Non stupisce che anche i grandi tifosi del “ciclismo politico” si addormentino sulla poltrona o cambino canale o spengano il televisore, rimpiangendo i tempi di Van Steembergen e De Filippis.

Fabio Bertini

 

 

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Fabio Bertini interviene sull’Editoriale di Agosto

26/09/2017 da Fabio Bertini

Caro Direttore

Condivido l’elegante editoriale del mese di Agosto (L’arte del Buon Governo) che mi pare appropriato e sostanzioso. Ma vorrei cogliere uno spunto su cui rifletto da tempo. Debbo dire che quel “facciamo gli italiani” mi sembra emblematico di un atteggiamento dottrinario della classe dirigente italiana che, compiuto il Risorgimento ad opera di una coralità, non necessariamente maggioritaria, ma rappresentativa di tutte le classi sociali, comprese e non poco le popolari, si arrogò un compito quasi esclusivo di direzione del paese. Come è noto, il sistema elettorale, oltre che esclusivamente maschile, era censitario e assai ristretto, per cui il voto spettava soltanto ad una piccola élite. Tuttavia, è anche vero che il difetto maggiore di quella frase, come sempre accade, consiste nello staccarla dal contesto in cui fu pronunciata, tanto che vi è una grande confusione sul tempo della frase. Chi l’attribuisce a D’Azeglio, chi ad una sintesi di altri, ad esempio Ferdinando Martini, a fine Ottocento, ecc. Ebbene, se non era comparsa prima, la sintesi esisteva già almeno nel 1867, quando, all’inaugurazione di una scuola per adulti, a Patti, in Sicilia, il maestro Pasquale Pizzuto ne prese spunto in un modo che giudico interessante.  Spariti i carnefici del genere umano, che odiavano la luce del progresso e l’istruzione del popolo, il popolo ora libero poteva divenire davvero un essere politico attraverso l’istruzione, liberarsi dal vizio del lotto e dalla superstizione. Era un modo di volere il popolo protagonista e non comprimario. Ma va resa giustizia anche a D’Azeglio. Nel suo pensiero, sugli italiani pesava un retaggio di ignoranza, di vecchi rancori su cui soffiavano le forze anti-unitarie e c’era bisogno di un nuovo spirito che comprendesse il senso del dovere, solo che assegnava a una classe ben definita, i proprietari il diritto della politica. La frase invece andò sempre più identificando i peggiori istinti delle classi dirigenti succedutesi nel potere, andando al di là della cultura dottrinaria che io non condivido ma rispetto, per divenire sempre un giudizio ex cathedra di chi tutto può verso chi non obbedisce abbastanza. In uno scritto del 1919, Antonio Gramsci ironizzava sulla nascita, a Torino, di una “Associazione democratica nell’Evoluzione e nell’Ordine” che, come motto aveva assunto proprio la sintesi del D’Azeglio. E scriveva: “un qualunque cittadino, con la modica spesa di lire 3, può fare Italiani per un intero anno; e se qualunque cittadino è in facoltà di sborsare lire 50, egli farà Italiani vita natural durante”. Risparmio il resto, che forse è intuibile in un paese che aveva già cominciato a darsi per obbiettivo di fare l’italiano nuovo, per cui presto qualcuno si sarebbe messo all’opera alzando il mascellone. 

Fabio Bertini 

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Politiche regionali e Risorgimento

10/09/2017 da Fabio Bertini

Se esiste l’esigenza di alcuni partiti di collegarsi, a fini elettorali, ad un’opinione pubblica meridionale gravata da problemi antichi e nuovi,  è loro dovere di onestà politica farlo identificando la natura dei problemi esistenti, verificando la realtà delle loro proposte, eventualmente le loro responsabilità, contribuendo anzi a un processo educativo che è sempre opportuno promuovere, al Nord, al Centro, al Sud e, visto che siamo cittadini europei, su una scala ancora più larga. La questione vale anche per altre situazioni, in un tempo che vede accendersi a oltre un secolo di distanza, dopo cioè un lunghissimo periodo di tempo in cui le società hanno metabolizzato conflitti atroci e divisioni terribili, la battaglia delle statue. È un brutto segnale perché se ne ricava che il giudizio storico non è considerato uno strumento di comprensione del presente ed eventualmente di virtuosa costruzione del futuro, ma che è impugnato selvaggiamente come una clava e, molto spesso, senza senso di responsabilità.

Appare questo il caso della recente iniziativa della Regione Puglia sulla cosiddetta giornata della memoria che, anche per la data scelta, appare più celebrativa della dinastia uscente dei Borbone che delle vittime meridionali, prime tra tutte quelle  che la dinastia dei Borbone ha prodotto, ad esempio con il bombardamento di Messina e con le stragi di Napoli del 1848, o di quelle che possono essere state prodotte dagli avvenimenti risorgimentali che debbono alle popolazioni meridionali un grandissimo contributo all’unità nazionale. L’Unità italiana deve molto ai patrioti napoletani del 1799  e a quelli del Cilento del 1828, ai moti siciliani di fine ’47 e a quelli che, nel 1860, aprirono la strada al soccorso dei fratelli garibaldini e ad altri meridionali ancora. Deve molto al grande numero di esuli costretti a lasciare le loro case e le loro proprietà per il desiderio di un paese moderno e libero, una corrente di rifugiati cui non risulta corrisponderne  un’altra  in senso opposto di militanti in cerca di riparo politico presso la Corte borbonica. 

Chi propone l’iniziativa pugliese  postula cifre di vittime che quantifica per sentito dire, incerta tra 20.000 e 100.000, senza sentire il bisogno di un serio approfondimento con storici qualificati che, certamente nella sua terra non mancano. Appoggia il suo teorema su generiche affermazioni contro non meglio identificati diffamatori del Sud e dei meridionali, e promette una rivoluzione culturale, facendo riferimento ai molti libri e saggi che narrano di un Sud evoluto, scoprendo così l’acqua calda perché il Sud era terra di grandi intellettuali, molti dei quali costretti ad andarsene o in galera, come Luigi Settembrini e suo padre. Se poi voleva riferirsi all’economia reale, si tratta di altra cosa. Conclude poi con la stranezza di associare l’anniversario della nascita di Garibaldi allo splendido risultato che consisterebbe nel successo della sua mozione.

A noi pare che la mozione di cui sopra, in Puglia e ovunque  venga riproposta metta alla prova le forze politiche che eventualmente l’appoggiano. Impone loro, prima di ogni altra cosa la verifica delle radici che rappresentano anche quando abbiano mutato il nome nel corso del tempo, perché gli alberi che non hanno radici sono destinati a cadere. Impone un dovere di serietà verso la storia che è molto più complessa di quanto la mozione pugliese faccia apparire e non è fatta a colpi di slogan, ma di documentazione e coscienza critica. Non esiste una storiografia ufficiale, mentre è doverosa una storiografia seria e onesta.

La storia è compito di chi la studia, ma non si esaurisce in se stessa perché ha bisogno anche di una riflessione onesta e sensata dei cittadini, di uno scambio civile. Questo racconta l’esperienza dei comitati e delle associazioni risorgimentali che si ritrovano nel Coordinamento nazionale, al Nord, al Centro e al Sud, e che si riconoscono nei valori di democrazia, libertà, giustizia sociale. Sono i valori affermati dal Risorgimento, sottratti all’Italia dal fascismo e recuperati dalla Resistenza nelle cui fila non poche unità si richiamavano a simboli e personaggi del Risorgimento. L’esperienza ventennale dei Comitati del Risorgimento ci dice che la sinergia di storici e cittadini è importante. Essa richiede non la spinta di interessi contingenti, e men che mai di interessi personali, economici, o elettorali ecc., ma la condivisione di un amore spassionato per quei valori intorno ai quali si trovano cittadini che hanno magari militanze diverse. Essi magari votano in contrapposizione, ma, come fu per i Costituenti del 1946-47, sanno che un paese ha avvenire se poggia su un terreno fecondo di valori e che l’Unità d’Italia nel quadro di una grande e democratica evoluzione europea ne è la base fondamentale. Le prese di posizione di importanti società storiche italiane, la Giunta Centrale per gli Studi storici; la Società Italiana degli Storici Contemporanei; la Società Italiana per la Storia dell’Età Moderna; la Società Italiana di Storia Internazionale;  la Società Italiana delle Storiche; la Società Italiana degli Storici Medievisti;  la Consulta Universitaria per la Storia Greca e Romana, ci confortano in una sensibilità che riconduce la storia al suo dovere civile e, nello stesso tempo, ci spinge a sollecitare gli storici ad approfondire il rapporto con i cittadini come avviene nei nostri organismi associati.

 

Per il Coordinamento Nazionale Associazioni Risorgimentali

Il Presidente

Fabio Bertini

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In memoria di Carlo Azeglio Ciampi

16/09/2016 da Fabio Bertini

Carlo Azeglio Ciampi ebbe, dal Comitato Livornese del Risorgimento, il 6 aprile del 2011, la massima onorificenza, il Bartelloni d’oro. Come quella d’argento, la targa era stata ideata per premiare coloro che più avevano contribuito a raccordare la società civile e i valori del Risorgimento particolarmente importanti, quelli che, conquistati negli anni difficili della cospirazione e delle persecuzioni, costituivano l’aspirazione massima della parte più avanzata del popolo. Se poi i valori caratterizzanti una democrazia moderna avevano faticato ad affermarsi nell’Italia unita, via via contrastati dalle tendenze retrive della nostra società ma crescenti, fino alla vittoria del fascismo che aveva riportato indietro il terreno conquistato, la Resistenza e la guerra di liberazione avevano invertito nuovamente la tendenza aprendo la via al disegno democratico della costituzione repubblicana. Ciampi, di cultura azionista, giovane soldato del Corpo Italiano di liberazione, professore di liceo in una stagione in cui nella scuola  prestava la sua opera una generazione straordinariamente viva intellettualmente, aveva portato nella Banca d’Italia il suo profondo senso delle istituzioni, un fondamento solido che l’accompagnò poi nelle responsabilità politiche, di ministro, di presidente del Consiglio, di Presidente della Repubblica.  Il Risorgimento costituiva gran parte di quel fondamento, e Ciampi, divenuto presidente, volle manifestarlo con grande chiarezza proponendo proprio quel filo rosso dei valori tra il Risorgimento e l’età della Resistenza che veniva contrastando una deriva assurda e pericolosa. La messa in discussione del valore dell’Unità, la negazione anche volgare del tricolore, il dispregio del patrimonio di dedizione e sacrificio personale che i morti del prima e del dopo avevano testimoniato, trovarono nella credibilità e nel carisma di Ciampi un argine. Quando ciò accadde i comitati toscani del Risorgimento avevano già avviato la loro opera di riflessione e riconoscimento di quel filo e dei valori che vi si collegavano. Ecco perché il Bartelloni d’oro  livornese, idealmente consegnato da tutto l’insieme dei risorgimentali toscani, era ampiamente giustificato. E lo era anche per un altro motivo. Venendo a Livorno, il 24 gennaio del 2004, per inaugurare il rinnovato Teatro Goldoni, Ciampi aveva consegnato al Comitato livornese la missione di celebrare adeguatamente la figura di Guerrazzi, di cui ricorreva il duecentesimo della nascita. Il Comitato livornese accolse quell’invito mettendosi alla testa di una grande operazione toscana che vide fiorire ben cinque convegni, collegati tra di loro e pubblicati tutti insieme in un volume edito dal Consiglio regionale toscano. C’era dunque sintonia, sottolineata anche dalla concessione dell’alto patrocinio della Presidenza della repubblica per le nostre manifestazioni. Consegnammo il Bartelloni d’oro a Ciampi, ormai non più presidente, nel suo studio di Palazzo Giustiniani, guidando una delegazione che comprendeva le massime autorità cittadine. Ciampi mostrò di  tenere in grande considerazione il riconoscimento risorgimentale. Lo commentò in quei termini di grande valore della continuità che aveva affermato fino dal primo giorno della sua Presidenza. Fisicamente debole, espose il suo punto di vista con grande lucidità e chiarezza, con quel sottile humour che faceva stile, mostrando, con i ricordi di personaggi e luoghi della sua Toscana, una memoria feconda e – per chi ascoltava – interessante. E seppe lasciare spazio agli interventi, risorgimentale tra i risorgimentali, pieno di idee e di suggerimenti e soprattutto di incoraggiamento ad operare. Per questo oggi lo ricordiamo con grande affetto, con la memoria di un uomo giusto e onesto intellettualmente, capace politicamente perché ha saputo affrontare una delle stagioni più confuse e deludenti della storia repubblicana, tenendo – per così dire – l’idea d’Italia fuori dal basso profilo in cui la concatenazione degli avvenimenti e lo spessore degli uomini tentavano di collocarla.

Fabio Bertini   Coordinatore dei Comitati Toscani per il Risorgimento

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ATTUALITÀ DEL XX SETTEMBRE

24/09/2015 da Fabio Bertini

Firenze, piazza dell’Unità, 19 settembre 2015

copertinaCome si deve ripensare al 20 settembre del 1870 a 145 anni di distanza se non sentendoci saldi dentro la storia di una Repubblica nata dalla Resistenza e dalla guerra di liberazione, cui hanno partecipato tutte le forze antifasciste e antinaziste, unite da un principio di libertà? È questo che ci aiuta a capire come quell’episodio fondante della storia italiana avesse un prima e un dopo o, in altri termini, per capirne l’utilità storica.

Porta Pia aveva un prima e quel prima si chiamava, sopra ogni altra cosa, moti del 1831, moto del 1843, moto europeo del 1848, e, soprattutto, “Repubblica romana” del 1849. E la “Repubblica romana” che cosa aveva significato nella storia europea e italiana, se non l’esempio più mirabile di ciò che può essere uno stato moderno, il più avanzato possibile per l’Europa di allora? Occorre ripensare ai caratteri della Costituzione della Repubblica romana per comprendere la sua grandezza. Libertà, laicità, rispetto dell’uomo e della donna nei loro diritti civili, morali, religiosi, nella Repubblica in pace tra i popoli, fondata sul suffragio universale.

Quale stupore doveva provare l’anima repubblicana davanti al tradimento perpetrato non dallo zar o da qualsiasi altro impero assoluto, ma dalla Francia, repubblica considerata madre e sorella! Quale sensazione di vergogna per il valore tradito e venduto del principio supremo della Repubblica democratica! Ma era stato capito quale fosse il nemico? Neppure l’Assemblea francese aveva compreso il senso dell’intervento di Bonaparte che stava a cuore al signor de Montalembert, suo grande elettore cattolico, e a quei cattolici francesi che mascheravano dietro la difesa del Pontefice il loro vero intento, la battaglia contro ciò che chiamavano “spettro rosso” e ”Anarchisme”, ed era la democrazia politica e sociale.

Quell’alleanza reazionaria il 2 dicembre 1851 avrebbe ucciso anche in Francia ogni residuo di idea repubblicana per fondare un nuovo modello di autocrazia, fondato sul populismo e sul militarismo, ma occorreva un pegno, una cambiale sottoscritta dal Bonaparte con il cattolicesimo reazionario che doveva essere continuamente rinnovata e garantita. Il duro giudizio di Mazzini sul signor de Montalembert, dall’esilio inglese, dimostrò come quell’alleanza contraddicesse la stessa natura cristiana della Chiesa. Quell’alleanza umiliava anche il pensiero sociale e politico liberale cristiano che aveva offerto all’Europa e al Risorgimento italiano un’alternativa alla conservazione e sincere e convinte energie. Lamennais aveva impostato un pensiero cristiano e sociale. Il bisogno di modernità che esisteva nella parte migliore della classe dirigente del paese aveva visto nel Primato degli Italiani di Gioberti, la strada possibile per un ingresso non traumatico dell’Italia nell’era moderna europea.

Era anche merito di quel filone di pensiero e di azione se la breve stagione riformista di Pio IX fu coinvolgente per popolazioni e classi dirigenti moderate, e per una generazione di giovani come Giuseppe Montanelli, che pensò di vedere in Pio IX il portatore di uno stendardo liberale e nazionale e, come lui, tanti di coloro che, nelle guardie civiche, nei novi organismi rappresentativi, nelle piazze e nelle fila dei volontari si riversarono con entusiasmo, convinti che non vi fosse antinomia tra la fede e la libertà

Altra cosa la difesa delle prerogative del clero e del potere temporale in cui non si riconoscevano neppure tanti sacerdoti, come ve ne furono in tutti i circoli politici democratici e popolari, in tutte le colonne di volontari, in tutte le fasi della bella vicenda rivoluzionaria e patriottica del 1848-49.

Su tutto questo si abbatté l’allocuzione del 29 aprile 1848 che segnava la più grande delle contraddizioni: tutto era cominciato dall’occupazione austriaca della pontificia Ferrara nel luglio del 1847, contro cui Pio IX aveva protestato e, improvvisamente, si ritirava dalla guerra all’Austria perché “padre di tutti i popoli cattolici, non poteva muovere guerra a uno di essi”. Ed era quella la missione del “principe” di uno stato italiano, Pio IX quale teneva ad essere?

La Repubblica romana era stato il punto d’arrivo di tanti indirizzi e sentimenti e conteneva anche un’aspirazione ideale alla riforma della Chiesa necessaria per la salvezza stessa del Cattolicesimo millenario. “Il gesuita moderno” di Gioberti, Le “cinque piaghe della Chiesa” di Rosmini, gli scritti dell’abate Raffaele Lambruschini per la “conversione della Chiesa” erano tutte voci da dentro il corpo della Chiesa. Nel campo laico l’esigenza di una riforma della Chiesa era fondamentale negli scritti di Mazzini e si accompagnava a quel principio della libertà religiosa che si espresse nella costituzione della Repubblica romana, così come il principio della libertà religiosa fu fondamentale nel pensiero di Cavour.

Cavour che aveva guardato con sospetto, a differenza di tanti moderati italiani, al colpo di stato di Luigi Napoleone contro la democrazia francese, non certo perché difendesse i “rossi”, ma perché agiva e pensava da “liberale autentico”, e comprese subito come nell’operazione bonapartista fossero contenuti i germi di un regime autoritario e dannoso per le libertà. Libertà religiosa e centralità del Parlamento furono, per Cavour, un indissolubile diade per un’idea di stato progressivo e graduale, certamente diverso dalla concezione repubblicana e popolare di Mazzini, ma con al centro il condiviso principio di libertà, con quei punti saldi che sintetizzò nella celebre espressione “libera Chiesa in libero stato”. Quell’espressione fu detta il 27 marzo del 1861, come impegno e promessa per l’indipendenza del Pontefice, e fu ripresa dalla Camera, quale base per il possibile accordo con la Francia. Ma, non a caso, fu impugnata immediatamente con una lettera aperta e con toni sdegnati dal signor de Montalembert.

Il perverso legame reazionario tra Napoleone III e i cattolici oltramontani, affamati di rivalsa contro tutto il ‘700 dall’Illuminismo, alla Rivoluzione francese, alla massoneria, alle costituzioni, impediva che “Libera Chiesa in libero stato” costituisse la formula della coesione nazionale italiana senza abbandono della tradizione, nel più pieno rispetto di tutte le fedi religiose e della libertà di pensiero.

Libertà di pensiero e libertà di associazione, liquidate come lo “spettro rosso” dai conservatori francesi ed europei erano pericolose per chi aveva già intrapreso la via dell’imperialismo e del colonialismo. Dopo il 1859, Roma era il baluardo estremo e la ragione sociale di quell’alleanza che, sotto il pretesto della difesa di un principio solo apparentemente spirituale, nascondeva il manifesto della reazione, l’avversario di quella repubblica universale che la democrazia aveva perseguito anche nel decennio più buio di separazione tra il 1849 e il 1859.

Libertà dei popoli, libertà delle nazioni, libertà degli individui, libertà religiosa, tolleranza, unità morale e politica dei cattolici, come di tutte le fedi organizzate, libera espressione del pensiero in tutte le sue forme, libertà della scienza, giustizia sociale e pace tra popoli liberi avrebbero potuto coesistere. La Repubblica romana aveva fatto intravedere che si trattava di un progetto possibile e ed era questa la ragione che ne aveva decretato la condanna.

Roma era stata ed era il simbolo e la posta del possibile sogno di nuova umanità che l’Ottocento aveva provato ad affiancare al sogno del progresso scientifico e tecnologico. L’alleanza reazionaria si nutrì anche delle divisioni italiane. Da una parte le ragioni diplomatiche che suggerivano prudenza, dall’altra l’impeto e la passione di una riscossa da compiere. Quel contrasto produsse pagine dolorose: la vergognosa pagina di Aspromonte nel 1862, l’umiliante arresto di Garibaldi a Figline Valdarno nel 1867, e vi furono ancora martiri e protagonisti del Risorgimento italiano. Quel contrasto spaccò e divise le fila stesse della democrazia e divise il mondo dei liberali, dove vi fu chi, come Bettino Ricasoli, continuò a proporre un progetto di soluzione che comportava la riforma della Chiesa. Ricasoli riprendeva e sviluppava l’antico desiderio dei cattolici liberali di una Chiesa manzonianamente provvida, semplice, pentecostale, china sui fedeli e non assisa su un trono. Perché anche i cattolici furono divisi nell’intimo della coscienza da quello iato tra potere spirituale e potere temporale che avvertivano pericoloso e fuorviante.

Dal liberalismo al conciliatorismo, si sviluppò il filo di un ragionamento pacato che le ragioni dell’alleanza conservatrice impedivano. Quando, nell’estate del 1870, una vera e propria crociata a sostegno dell’”infallibilità dommatica” e del Concilio chiamò a raccolta i sacerdoti italiani per un’adesione e una sottoscrizione in denaro, vi furono tanti che risposero con lettere fiammeggianti contro lo Stato italiano e dettero forti somme, ma vi furono anche parroci che non risposero, parroci che risposero tiepidamente e con offerte miserabili, altri che si limitarono ai pochi centesimi, senza una riga di sostegno. Perché grande era il dramma e tanti erano stati i parroci che avevano cooperato al movimento nazionale, come, peraltro tanti erano coloro che l’avevano osteggiato.

Il dramma di quelle divisioni diveniva il dramma di un popolo cui l’alleanza reazionaria sottraeva il beneficio di confrontarsi alla luce della libertà. Per questo la presa di Porta Pia fu un’operazione chirurgica necessaria come l’estirpazione di un cancro che, pervadendo l’organismo, ne rovina per metastasi ogni parte. Per questo il XX settembre diveniva una data epocale, per l’Italia e per l’Europa. Era come se, tra l’entrata in guerra della Francia contro la Prussia e la presa italiana di Roma si fosse svolto un solo evento che liberava chirurgicamente l’Europa e consentiva una lunga e faticosa convalescenza, piena di insidie e di ricadute.

Ma – si è detto – Porta Pia aveva un dopo. Si apriva allora la questione romana che, per larga parte conservava ancora le ragioni della scellerata alleanza, e contrapponeva drammaticamente l’Italia dell’integralismo cattolico da quella del liberalismo cattolico, l’Italia dei cattolici da quella delle altre grandi religioni, l’Italia della fede da quella libero pensiero. E ciò avveniva sullo sfondo di uno stato ancora limitato nella sua vera capacità di essere uno stato liberale. L’autoritarismo di una parte delle classi dirigenti che avevano dimenticato Cavour, il nazionalismo imperialista di una parte dei democratici che avevano dimenticato Mazzini e Garibaldi, offrivano nuove armi all’alleanza con la parte illiberale del cattolicesimo. Ne furono vittime la società italiana nel suo insieme, la pluralità dei partiti, il libero pensiero, la massoneria, la giustizia sociale in tutte le sue espressioni.

Dalla memoria di Cavour, di Garibaldi e di Mazzini, come dalla continuità dei cattolici liberali con le ragioni risorgimentali della propria storia, dall’idea di cittadinanza delle altre fedi e del pensiero libero e laico, doveva venire l’antidoto che, riprendendo l’idea costituzionale della Repubblica romana consentiva il ritrovarsi di forze così diverse nella lotta di liberazione e nel farsi della Costituzione italiana. Non mancavano certamente i residui del male passato e forse nella Costituzione stessa rimase qualche scoria, ma non al punto di impedire lo sviluppo democratico che il paese aspettava da un secolo.

In fondo anche la Chiesa aspettava da se stessa una liberazione da quei datati e arcaici vincoli e la ebbe, non tanto con la Conciliazione che combinava la feconda seminagione delle Guarentigie con le ragioni dell’alleanza reazionaria, quanto con il discorso di Giovan Battista Montini del 10 ottobre 1962, in Campidoglio. Quel discorso riconosceva l’incommensurabile vantaggio che la Chiesa aveva avuto con lo storico giorno di Porta Pia, con quel XX settembre che è data fondamentale per l’Italia e per l’Europa, e tutti noi che della nostra libertà di pensiero siamo gelosi, come lo siamo con Cavour della democrazia parlamentare, con Mazzini e Garibaldi del principio repubblicano, e, con loro, dell’unità nazionale.

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Intervento di Fabio Bertini, coordinatore dei Comitati Toscani alla manifestazione nazionale il 24 maggio a Curtatone

03/07/2014 da Fabio Bertini

Curtatone_-_Monumento_ai_cadutiSono venuto, insieme a Ugo Barlozzetti del Comitato di Firenze e a Libero Michelucci, del Comitato di Livorno, a rappresentare i Comitati Toscani per la Promozione dei Valori Risorgimentali. Ma mi è stato chiesto dall’amico Luigi Lonardi, che guida il Coordinamento nazionale del Risorgimento, di portare un saluto a nome di tutti i soggetti italiani che ne fanno parte. È un grande onore che assumo volentieri in questo luogo sacro dell’identità nazionale perché testimone dello slancio e del sacrificio di tanti che avevano capito i valori dell’unità e dell’indipendenza nazionale, della libertà e dei diritti, dell’onesto bisogno dei popoli a determinare il proprio sviluppo. Chi combatté qui aveva imparato ad amare la letteratura nazionale, il verso di Dante e le parole di Ugo Foscolo, aveva chiaro il significato del tricolore dei primi martiri, cantava quegli inni della nazione tra i quali stava emergendo il canto degli italiani del ventenne Goffredo Mameli, destinato nel giro di un anno ad essere egli stesso uno dei martiri. Aveva questa grande idea d’Italia e pensava europeo.

Noi non abbiamo mai perseguito in questi anni la retorica. Abbiamo scelto invece di approfondire la conoscenza storica per dare sostanza alla nostra fede nei valori. È per questo che quando il Comune di Curtatone ci invitò a partecipare a un memorabile convegno lavorammo con entusiasmo e senza prevenzione, come sempre abbiamo fatto. Ed ogni volta che andiamo a fondo della realtà storica ci confermiamo nell’idea che è giusto riconoscere il valore di quella lotta che, insieme, compirono donne e uomini di allora. Lottarono consapevolmente perché nascesse, dai tanti stati divisi e soggetti uno stato nuovo e moderno all’altezza dell’Europa più avanzata.

E ci confermiamo anche nell’idea che ciò che accadde qui niente aveva di velleitario o di retorico, ma che era parte della coscienza europea di un mondo in evoluzione. Studiando, abbiamo compreso che, a Curtatone e Montanara, protagonista fu il popolo.

Non si trattò della minoranza elitaria di un pugno di studenti, ma i coraggiosi studenti furono parte delle schiere di volontari civici toscani e napoletani, a fianco dei militari restati a combattere nonostante il passo indietro dei principi.

Erano fratelli degli esuli e dei volontari venuti a battersi sotto la bandiera piemontese da tutta Italia e di coloro che avrebbero continuato fino alla fine a difendere la libertà italiana sotto le bandiere repubblicane nel 1849.

Nell’immediato gli italiani furono sconfitti, come gli altri protagonisti della “primavera dei popoli”, ma furono i veri vincitori della storia. Nell’esilio e nei cuori di chi rimase, il sacrificio di Curtatone e Montanara, il sacrificio di Mameli e dei tanti che non si erano tirati indietro, alimentarono lo spirito della resistenza e della fiducia negli anni cupi della reazione. Come accadeva a tanti giovani ungheresi, polacchi, slavi, francesi, tedeschi, austriaci stessi, gli italiani amarono il principio della Repubblica universale, il concetto che significava unione nella pace delle nazioni libere, indipendenti e sorelle nei valori della libertà, della pace, del progresso e della giustizia sociale. Ebbero, insomma, chiara idea di un’Europa tutta da fare, di quella Europa che, se vorrà esistere davvero con piena maturità, dovrà guardare ai grandi valori dell’Ottocento europeo di cui il Risorgimento italiano fu parte essenziale, valori talmente radicati che seppero vincere nel Novecento la violenza dei totalitarismi e darci la democrazia. La democrazia, quel valore delicato e forte che permea la nostra Costituzione repubblicana, un valore da sostenere e proteggere oggi più che mai. Ed è quanto ci ispira oggi il ricordo di quella straordinaria giornata del 29 maggio 1848 che noi oggi ricordiamo insieme. Possa tornare in questi nostri tempi così miseri la capacità di sacrificare se stessi per gli ideali più nobili della convivenza in Italia e in Europa.

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Calamandrei, la Costituente e un paese che meritava la democrazia

19/02/2014 da Fabio Bertini

Conferenza  di Fabio Bertini, Coordinatore dei Comitati Toscani per Il Risorgimento presso la Biblioteca Ragionieri di Sesto fiorentino il 10 febbraio 2014

imagesLTMSKAJ7La legge Acerbo che istituiva il “premio di maggioranza”e le elezioni politiche del 1924, poi la crisi Matteotti, condussero all’antifascismo forze liberali che avevano stentato a comprendere fin dall’inizio la natura del regime fascista. La fondazione, da parte di Giovanni Amendola della Unione Nazionale delle Forze democratiche e liberali ebbe appunto questo significato, espresso sulle pagine de «Il Mondo». Tra coloro che aderirono, al manifesto di fondazione, l’8 novembre del 1924, in piena crisi Matteotti, vi furono alcuni giovani, e tra questi Piero Calamandrei, Corrado Alvaro, Alberto Cianca, Nello Rosselli, ed altri.

Calamandrei appariva allora un rappresentante tipico di certa intellettualità borghese, figlio di un padre repubblicano e mazziniano e, forse proprio per questo interventista e volontario in guerra, aveva iniziato poi la sua carriera accademica e scientifica nel campo del diritto. L’approccio alla politica era avvenuto, intorno al 1919, all’ombra di Gaetano Salvemini, intorno all’”Unità” e, l’anno seguente, al Circolo di cultura politica di Borgo Santi Apostoli. Si aggiunse, anche un’altra organizzazione, “Italia libera”, costituita dagli ex-combattenti antifascisti, di cui Calamandrei fece parte dal gennaio del 1925. Quando Benedetto Croce propose il manifesto degli intellettuali antifascisti, contro il manifesto di Gentile, nel 1925, Calamandrei fu tra i firmatari.

Scatenatasi la violenza fascista a Firenze, con un occhio particolare al “Circolo di cultura” e a “Italia libera”, partito Salvemini per l’esilio, molti dei militanti di quelle esperienze collaborarono alla fondazione del «Non Mollare!», nato nel 1925 come giornale clandestino e al quale Calamandrei collaborò.

Poi il trionfo fascista costrinse Calamandrei a chiudersi negli studi universitari o a cercare qualche evasione in divertissments letterari. In una specie di limbo, il professore e giurista si limitò, pur con grande successo, all’attività universitaria e alla pubblicazione di libri senza problemi. Giurò come professore universitario, mentre altri si sottrassero, in un clima di cui occorre rendersi conto, come fu all’Università di Torino:

«Tre professori del nostro Ateneo si sono rifiutati di compiere questo solenne atto di adesione al Regime […]. Il risentimento degli studenti non è causato dal mancato giuramento dei tre professori […]. L’impeto di sdegno che ha scosso la massa degli iscritti al G.U.F. è dato dal fatto che i tre suddetti professori […] mentre sarebbe stato loro preciso dovere di coscienza dimettersi all’indomani della Marcia su Roma. Per nove anni essi hanno portato il seme subdolo e velenoso della loro parola fra la goliardia mussoliniana»

Il silenzio consentì a Calamandrei di operare in relativa tranquillità, collaborando anche a opere di grandi rilievo per il regime, come accadde con la partecipazione all’elaborazione del nuovo Codice di procedura civile del 1940, sotto la guida di Dino Grandi.

Quella parentesi si chiuse con l’adesione a “Giustizia e Libertà” del 1941, seguita poi dalla nascita del Partito d’Azione, nel 1942. Calamandrei si ricongiungeva dunque con un filone di pensiero repubblicano e mazziniano, e ad una visione del mondo liberale e socialista insieme che avevano messo a fuoco i fondatori del nuovo azionismo, Guido Calogero e Aldo Capitini.

Caduto il fascismo, il 25 luglio, Calamandrei ebbe i primi incarichi dal Governo Badoglio. Il 4 agosto, venne nominato commissario del Sindacato Nazionale Avvocati e Procuratori. «La Stampa» lo presentava come chi aveva tenuto ad essere sempre un uomo libero che non aveva mai chiesto la tessera fascista e che, negli ultimi tempi, per protesta, aveva messo a disposizione del Ministero la sua cattedra.

A fine agosto veniva nominato rettore dell’Università di Firenze, ma dopo l’8 settembre dovette fuggire e rifugiarsi in Umbria. Tornò alla liberazione di Firenze, e ridivenne Rettore. Fondò subito, con Tristano Codignola, «Il Ponte», rivista azionista.

Nel primo numero, l’editoriale di apertura fissava la linea politico-morale dell’impegno:

«Il nostro programma è nel simbolo, una trave tra i due tronconi di un ponte rimasti in piedi, per contribuire a ristabilire nel campo dello spirito, al disopra della voragine scavata dal fascismo, la continuità tra il passato e l’avvenire, e ricostruire l’unità morale dopo la disgregazione delle coscienze, la tra l’intelletto e il sentimento, tra il dovere e l’utilità, tra il pensiero e l’azione, tra le parole e i fatti».

«Il Ponte» operava in un contesto difficile, alla luce di un decreto del 16 marzo 1946, la “Costituzione provvisoria”, in nove articoli, che prevedeva il referendum e la Costituente, ma intanto delegava il potere legislativo al Governo. Nel libretto Costruire la democrazia. Premesse alla Costituente, Calamandrei indicava la missione fondamentale del giurista nel lavorare per una nuova legalità democratica contrapposta alla “illegalità” totalitaria.

Una volta svoltesi le elezioni, dominate dai partiti di massa, in cui il Partito d’Azioone ottenne pochissimi voti, mentre otteneva un buon successo il partito dell’”Uomo qualunque”, le difficoltà della missione furono evidenti.

Tra i pochi azionisti eletti, Piero Calamandrei fu il portavoce dell’idea azionista di una repubblica presidenziale e federalista. A quale tipo di federalismo pensava l’avrebbe spiegato nel 1950:

«Il federalismo, prima che una dottrina politica, è la espressione di questa raggiunta coscienza morale della interdipendenza della sorte umana, che intorno a un unico centro si allarga con cerchi sempre più larghi, dal singolo al comune, dalla regione alla nazione, dall’unione supernazionale alla intera umanità».

Tra le altre battaglie, quella, da componente della Sottocommissione per l’ordinamento costituzionale dello Stato, sul modello di repubblica era fondamentale. La domanda era: presidenziale o parlamentare?

I modelli principali erano due:

1) il sistema americano di tipo presidenzialista (grande potere del Presidente, eletto direttamente dal popolo, con diritto di veto e di nomina di un proprio governo, d bilanciato dal forte potere dei governatori degli stati e dalla autonomia legislativa del Congresso; indipendenza del potere giudiziario e suo controllo sulla legittimità costituzionale delle leggi). Il limite consisteva nel condizionamento che i due partiti esistenti e il Congresso ricevevano dai gruppi di interesse.

3) Il modello inglese, di tipo parlamentare (Ruolo istituzionale e rappresentativo del Re; Camera dei Comuni luogo fondamentale del confronto politico; Primo Ministro eletto dal popolo come leader di un partito, dotato di potere di scioglimento delle Camere). Negli ultimi decenni, si ra manifestata la tendenza ad avvicinare il sistema ad una forma di presidenzialiso del Primo ministro.

Nella discussione decisiva, tra il il 3 e il 5 settembre del 1946, con varie e diverse ragioni, quasi tutti i deputati si dichiararono per il presidenzialismo, come lo proponeva l’ordine del giorno Perassi, con “dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di Governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo”.

A favore dell’ordine del giorno, e dunque del modello parlamentare, parlarono i liberali della Unione Democratica Nazionale Luigi Einaudi e Aldo Bozzi, il democristiano Gaspare Ambrosini, il comunista Vincenzo La Rocca.

In generale, il presidenzialismo veniva avversato per i rischi di “bonapartismo” che implicava ed era altrettanto condiviso il pericolo di un Presidente eletto direttamente dal Popolo, per lo strapotere che avrebbe assunto sul Parlamento. Si conveniva, comunque, su alcuni poteri del Presidente della Repubblica, e soprattutto la nomina del primo ministro e lo scioglimento delle camere, e sul dovere del Primo ministro di chiedere la fiducia alle Camere.

Piero Calamandrei fu l’unico che si esprimesse per la repubblica presidenziale, mentre sollevava un altro problema di grande rilievo: “La stabilità è il problema fondamentale della democrazia. Se un regime democratico non riesce a darsi un governo che governi, esso è condannato”.

A chi associava il presidenzialismo al pericolo della dittatura, rispondeva ricordando che, in Italia, il fascismo era sorto in un regime parlamentare, favorito dalla mancanza di maggioranze solide.  Il problema era come far funzionare un governo a lungo, in una realtà come quella italiana con molti partiti, senza il problema delle continue crisi di governo. In sintesi, il progetto di Calamandrei proponeva un sistema simile a quello americano, e cioè un presidenzialismo collegato al federalismo, con piene garanzie sui diritti di libertà, sulla indipendenza della magistratura, sulla autonomia della Corte costituzionale.

L’intervento sollevò qualche idea, compresa quella, isolata, di abolire il sistema proporzionale, e fu invece contrastato dal comunista Amendola, che spiegava l’avvento del fascismo con la crisi economica e sociale del primo dopoguerra e con l’appoggio dato a Mussolini da una parte della classe dirigente, mentre attenuava la paura delle crisi di governo e ricordava la funzione clientelare e corruttrice del sistema uninominale.

Il voto premiò, con 22 voti contro sei astensioni, l’ordine del giorno Perassi, e dunque la forma parlamentare. Nonostante la sconfitta, Calamandrei si dimostrò aperto e realista, fiducioso che si potesse generare una repubblica parlamentare che tenesse conto dei problemi che aveva indicato.

Intanto, Calamandrei si rendeva conto di come fosse già in atto il calo della tensione antifascista, e come fosse forte il vento di rivincita contro l’idea stessa della Resistenza. Scriveva sul «Ponte», nel 1946:

«Il miracoloso soprassalto dello spirito che si è prodotto […] ha ormai ed avrà nella storia del mondo un nome, “resistenza”. […] che è stata, nei migliori, riacquisto della fede nell’uomo e [nei] valori razionali e morali […]. Il necessario opposto dialettico della resistenza [è la] “desistenza”, malattia profonda di cui il fascismo non è stato che un sintomo acuto [e che oggi riaffiora]. Oggi ci sembra di avvertire d’intorno a noi e dentro di noi i sintomi di un nuovo disfacimento […].Se io mi sorprendo a dubitare che i morti siano morti invano, che gli ideali per cui son morti fossero stolte illusioni, io porto con questo dubbio il mio contributo alla rinascita del fascismo».

Quel rapido declino dei valori, insieme alla gravità della crisi economica, era lo sfondo difficile per un lavoro costituente che costituiva l’architrave del futuro repubblicano. A fine febbraio del 1947, il profilo della Costituzione, dal punto di vista dell’equilibrio tra i poteri era abbastanza identificato nel modello parlamentare: Un presidente della Repubblica eletto dal Parlamento con alcuni poteri (nomina del Primo ministro; scioglimento delle Camere; facoltà di solelcitare le camere); Un Governo, sottoposto alla fiducia delle due Camere (nel loro insieme: “Assemblea Nazionale”). Alcuni limiti al meccanismo della sfiducia tenevano conto del problema della stabilità sollevato da Calamandrei, anche se la natura politica del Governo non poteva promettere ferree prescrizioni. Lo stesso Calamandrei non parve troppo rassicurato.

Il 4 marzo del 1947, cominciava l’esame, da parte dell’Assemblea Costituente, della carta costituzionale preparata dall’Assemblea. Tra le questioni agitate in quei giorni, vi era la pressante richiesta delle destre che la Costituzione venisse poi sancita da un referendum, il cosiddetto “secondo referendum” e contro questa ipotesi si schierò anche Calamandrei .

Affrontando il dibattito sullo schema costituzionale, Calamandrei denunciò il “compromesso tripartitico” che era alla base del testo e rilevò alcune incongruenze: il fondamento del lavoro dell’articolo 1, altre parti riguardanti il rapporto tra cittadinanza e lavoro e altre simili enunciazioni ideali (“quale sorte civile per chi vive di rendita?”; “come assolvere promesse che possono essere a vuoto nella realtà?”). Attaccava il testo costituzionale sui rapporti tra Stato e Chiesa, dicendo che il Concordato sanciva norme in chiara antitesi con articoli della Costituzione e si dichiarava favorevole all’autogoverno della magistratura, chiedeva maggiore certezza sulla rigidità della Costituzione, dubitava che la responsabilità assegnata ai partiti garantisse dalla vaghezza una piena attuazione dei principi.

Gli rispose il leader socialista Pietro Nenni, con una frase abbastanza “giacobina”: “Esistono partiti i quali hanno la forza di far sì che un giorno tutto quanto è scritto nella Costituzione divenga realtà” .

Nella lotta contro l’ingresso in costituzione dei patti lateranensi nella Costituzione, fu affrontato dal segretario comunista Togliatti, che pure aveva contro il parere di molti suoi compagni.

Quello della laicità diveniva un campo di impegno fondamentale, per Calamandrei, come fu evidente nella discussione sul divorzio, che affrontava da giurista, ma anche da politico, denunciando le resistenze confessionali che attribuiva alla democrazia cristiana come portavoce della Chiesa.

Una serie di nodi politici si andavano, intanto, aggrovigliando. Al clima di continuo logoramento della coalizione di governo, ormai definibile davvero ibrida, si sovrapponevano il travaglio socialista, dopo la scissione saragattiana, ed il continuo travaglio degli azionisti. All’inizio di luglio del 1947, la riunione del Comitato centrale del Partito d’Azione dimostrava la contrapposizione di due frazioni, una incline alla confluenza in uno dei due partiti socialisti, una che guardava ai repubblicani.

Il cambiamento di nome dell’organo di partito, “Italia liberale” in “Italia socialista”, dimostrava la tendenza della sua redazione (Codignola, Foa, Garosci e Vittorelli), così come le dimissioni dalla segreteria di Riccardo Lombardi. L’iniziativa del gruppo intorno di “Italia socialista”, si organizzò nel “Movimento di Azione Socialista Giustizia e Libertà”, in cui entrò Calamandrei.

Tutto questo non cambiava, negli ultimi mesi costituenti, l’impegno laico di Calamandrei, animatore con il comunista Concetto Marchesi di una battaglia per la revisione delle nomine universitarie fatet “per chiara fama” dal fascismo, contro le resistenze del Ministro della Pubblica Istruzione, Gonella.

Una volta approvata la decisione del Comitato centrale del Partito d’Azione per la fusione con i socialisti, il “Movimento socialista Giustizia e Libertà” si volse verso il Partito di Saragat anche se Calamandrei, con Codignola, operò quasi da indipendente. Partecipò però ai lavori di “Europa socialista”, presieduti da Ignazio Silone il 27 ottobre 1947, su “L’unità europea e la pace nel mondo”. Guardava, insomma, al socialismo autonomista, a cui si avvicinava un’altra corrente in fuga dal partito socialista di Nenni, quella guidata da Ivan Matteo Lombardo.

L’unione delle forze socialiste autonomiste era il percorso scelto da Calamandrei e dai suoi compagni d’avventura del “Movimento socialista Giustizia e Libertà”, primo tra tutti Tristano Codignola.

Tutto questo però non significava “americanismo” o assoluta separazione dalle linee del Blocco Popolare, se Calamandrei con una lunga serie di intellettuali firmava a Firenze, in Palazzo vecchio, ai primi di novembre del 1947, l’appello contro la bomba atomica. A sua volta, questa partecipazione non significava confusione con i comunisti, come dimostrò la discussione con Palmiro Togliatti in sede di Costituente, il 27 novembre del 1947, quando Calamandrei sosteneva la necessità di una unica Corte di cassazione e Togliatti la pluralità perché più aperta alla coscienza popolare.

Una volta che, l’8 febbraio del 1948, Ivan Matteo Lombardo ebbe lasciato definitivamente il Partito socialista, altri spezzoni autonomisti, compreso Silone, lo seguirono nella “Unione dei Socialisti” che si avvicinava al Partito di Saragat. Vi entrò anche il “Movimento Socialista Giustizia e Libertà”, che pure manteneva una sua identità. Tutti gli spezzoni, poi, costituirono, insieme al Partito di Saragat, il cartello elettorale “Unità socialista”, alle elezioni del 1948.

Eletto alla Camera come deputato di “Unità socialista”, Calamandrei confluì poi, dopo qualche mese, nel Partito Socialdemocratico Italiano, denominazione assunta dal partito di Saragat, ma finì per rappresentare una minoranza insofferente. Cominciò a soffrire la delusione che riguardò altri ex azionisti, come il repubblicano Parri e come altri, cui non bastava più l’anticomunismo della prima scelta, perché il problema era un altro era l’evidente vischiosità con cui si attuava la Costituzione.

Così le posizioni di Calamandrei andarono sempre più assumendo un carattere autonomo rispetto alle forze della maggioranza. Intervenendo, nel 1949, sulla ratifica del Patto Atlantico, a nome – disse – dei socialisti indipendenti dei quali son rimasto l’unico rappresentante nel gruppo di “Unità socialista”, si pronunciò contro, pur rivendicando ragioni diverse da quelle dei comunisti e socialisti nenniani:

«Mentre essi muovono da una concezione politica che logicamente li porta, nell’urto fra i due blocchi contrapposti, ad opporsi a questa scelta […] non sono favorevole al Patto Atlantico proprio perché esso forza l’Italia a questa scelta preventiva che io ritengo pericolosa e non necessaria in questo momento».

Rammentato il dovere della resistenza di ricordare il debito vero i russi, gli americani e gli inglesi per la loro resistenza al fascismo, spiegava le ragioni dei “socialisti federalisti”, cioè “sue” nell’opposizione sia a un Europa imbrigliata dai blocchi e dunque impedita a coltivare un programma di unione e giustizia sociale, sia ad un’Italia ridotto alla funzione territorialmente pericolosa di alleato subordinato. E diceva: «Abbiamo udito in fondo alla nostra coscienza una voce che ci mette tranquilli. E la voce ci ha detto: No».

Nel febbraio del 1950, parlando a un congresso sulla scuola, diceva:

«Ci siano pure scuole di partito o scuole di chiesa. Ma lo Stato le deve sorvegliare, le deve regolare […]. Un partito al potere che volesse istituire, senza parere, una larvata dittatura, comincerebbe a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle per favorire le scuole del suo partito, rese facili negli esami e compiacenti culturalmente».

Nel 1953, quando De Gasperi tentò la via della legge elettorale maggioritaria, Calamandrei contribuì con altri al piccolo movimento di “Unità Popolare” che contribuì all’insuccesso della manovra democristiana.

Tra le battaglie dell’ultima fase, vi furono l’adesione alla protesta contro il Patto Atlantico, quelle per il riconoscimento dei diritti costituzionali nelle aziende, gli interventi per il processo a Danilo Dolci, gli interventi per il processo a Danilo Dolci, accusato, nel 1956, di aver organizzato un digiuno di protesta con i pescatori, nel 1956, per il caso Aristarco-Renzi sul film Sagapo, per contrastare la proibizione del festival dell’Unità alle Cascine.

Calamandrei era divenuto il “vate” della Resistenza, custode di un’etica e di una “religione laica” in cui credeva profondamente. Parlando al teatro Eliseo di Roma, il 17 gennaio del 1954, rivolto al padre dei Fratelli Cervi disse:

«Con uomini come te il mondo si salva, con uomini come te un mondo si crea. Non bisogna piangere i tuoi figlioli: felici loro che hanno lavorato fino all’ultimo istante per creare un mondo migliore».

E c’era forse in quelle parole anche tutto il rimpianto di non aver combattuto concretamente per la Resistenza. Ma lo faceva, eccome, dal 1944. 8

La Resistenza, come l’antifascismo, anche se non si combatteva più sulle montagne, rimaneva una necessità morale e soprattutto politica in un Paese che faticava a togliersi di dosso il retaggio dell’antico regime e del fascismo.

Quando finalmente cominciò ad operare la Corte costituzionale, Calamandrei parlò di una bonifica da compiere:

«Come in certe zone dove è passata la guerra, il terreno legislativo su cui la democrazia italiana cammina è ancora, dopo un’ decennio, disseminato di mine sotterrate, lasciate dalla fuga del regime precedente. Perché la democrazia si senta sotto i piedi un terreno solido […] occorre prima, come si usa fare sui terreni minati, un’opera coraggiosa e accurata di bonifica costituzionale. La Corte costituzionale, come un posto di guardia collocato al confine tra il vecchio e il nuovo, è stata istituita per questo».

E, a giugno del 1956, quando la Corte costituzionale pronunziò una delle sue prime sentenze contro l’articolo 113 del testo di Pubblica sicurezza (Vietato distribuire o mettere in circolazione, in luogo pubblico o aperto al pubblico scritti o disegni; affiggere scritti o disegni, affiggere giornali, ovvero estratti o sommari di essi, ecc.), considerandolo incostituzionale, scrisse un formidabile articolo, La Costituzione si è mossa:

«Sul cammino della democrazia italiana si drizzano ancora vecchi sbarramenti: uno di essi, forse il più resistente, è la legge di Pubblica Sicurezza del tempo fascista. Ora la Corte Costituzionale ne ha fatto saltare una pietra […]. Altre pietre cadranno […]. La Corte Costituzionale non conosce destra o sinistra: conosce soltanto la strada maestra, la grande apertura che porta diritta verso l’avvenire. Forse questa prima sentenza è la più solenne celebrazione del decennale della Repubblica. Sulle tombe dei morti della Resistenza, questa sentenza, nella sua semplice austerità, è più significativa e più commovente di una corona di fiori».

Calamandrei morì il 27 settembre del 1956. Commemorandolo, Ferruccio Parri, che era stato uno dei comandante partigiani di maggiore responsabilità, disse:

«Nella biografia di Calamandrei il momento della Resistenza è decisivo. Egli la visse e la sentì con una passione più forte, più ansiosa che se avesse potuto parteciparvi. La intese e ne dette l’interpretazione storica con più acutezza e prima di qualsiasi altro».

Su Calamandrei si è polemizzato e discusso in anni recenti, a proposito di una riedizione del suo libro, Uomini e città della Resistenza, in cui si fronteggiavano una prefazione di Carlo Azeglio Ciampi e una introduzione di Sergio Luzzatto. Se la prima riproponeva il mito “resistenziale” di Calamandrei, a tutto tondo, la seconda esprimeva un taglio critico, e, nell’insieme, evidenziava anche la memoria di una sorta di “psico-conflitto” tra il padre Piero che non aveva combattuto la Resistenza e il figlio Franco, che era stato gappista coraggioso.

Ciampi ha mostrato di aver compreso la questione fondamentale. La Resistenza non era finita il 25 aprile del 1945. Del resto, anche nella generazione del figlio (Franco), a molti fascisti era caduto il velo e si erano gettati nella lotta partigiana. Nella generazione del padre (Piero), come era accaduto a lui c’erano i fondamenti antifascisti. Avevano dovuto forse chiudersi nel profondo dell’anima per alcuni, anche se altri non avevano mai ceduto. Ma, siccome il più della Resistenza era da fare dopo il 25 aprile, nella lotta per uno stato democratico davvero, Calamandrei aveva avuto il grandissimo merito di aver agito da partigiano militante, di avere cioè impedito che i valori cadessero nell’oblìo. Dando corpo e anima a questi valori  nel dopoguerra meritava una medaglia d’oro.

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Festa dei comitati toscani a Livorno sabato 11 Maggio

15/05/2011 da Fabio Bertini

Anche quest’anno 2011 ci ritroviamo sotto le mura di San Marco.  Saluto a nome del Comitato Livornese per la Promozione dei Valori Risorgimentali tutti coloro che sono presenti. Mi rivolgo alle autorità civili e militari, ai sindaci, ai rappresentanti delle province, ai gonfaloni, alle associazioni che fanno festa con noi. Celebriamo la capacità di un popolo di sfidare le condizioni più avverse per il proprio miglioramento secondo principi di diritto e di giustizia.

Un saluto particolare voglio fare ai rappresentanti dei Comitati per la Promozione dei valori risorgimentali, per la prima volta presenti con le loro bandiere, ormai radicati in tante realtà toscane e venuti qui a celebrare la prima festa toscana. Un saluto alla memoria dei valorosi componenti del Comitato che non ci sono più, da Mario Landini, a Ugo Canessa, a Alfio Dini, a Paolo Castignoli, a Vittorio Marchi, e un saluto alle giovani e brillanti nuove leve dirigenti del Comitato nostro. E un saluto riconoscente va alle camicie rosse garibaldine che attestano la continuità morale di una storia, il contributo fattivo del popolo italiano, tramite il volontariato, all’affermazione dell’indipendenza nazionale dietro le bandiere della democrazia e della libertà.

In particolare, però, voglio salutare queste centinaia di ragazzi che, ornati dai colori nazionali, celebrano  con noi due straordinarie ricorrenze. Ricordano la data del 10-11 maggio 1849, quando poche centinaia di repubblicani sfidarono un esercito di 12.000 uomini, pagando molti di essi con la vita quell’eroica testimonianza, e celebrano l’altra ricorrenza, quella del 17 marzo 1861 in cui si riconosce la proclamazione dell’Unità nazionale, l’esaltante processo di realizzazione della Nazione cui tanto il popolo aveva dato e che tanta fatica avrebbe richiesto per una vera realizzazione.

Questa grande presenza di studenti e di insegnanti attesta, in primo luogo, il fondamento morale e culturale di una grande realizzazione dello Stato unitario, forse la più importante, quella scuola pubblica che  ha i più grandi meriti ancora oggi, grazie anche alla grandissima e appassionata opera dei tanti colleghi, maestri e professori che dedicano la vita a coltivare il seme fondamentale dell’etica pubblica e del bene comune nelle anime dei loro allievi.

Non è retorico riconoscere in questi ragazzi la più grande risorsa della nostra democrazia, e non sarebbe giusto perché i ragazzi di tutta l’Italia hanno dimostrato di comprendere bene e assai meglio di tanti adulti le ragioni di fondo dell’Unità nazionale, il valore storico dei simboli fondamentali dell’Unità nazionale. Hanno gioito nello sventolare il Tricolore, l’hanno voluto alle finestre, hanno cantato con emozione l’Inno nazionale.

Hanno ben compreso come quei simboli nascessero davvero da giovani come loro o poco più grandi di loro. Il Tricolore che conta i suoi primi martiri a Bologna nel 1794, con i giovanissimi studenti Luigi Zamboni e Giovan Battista de Rolandis; l’Inno nazionale, le cui parole sono state scritte da Goffredo Mameli, morto poco più che ventenne  nella difesa della Repubblica romana, nel 1849, appena dopo che altri giovani, su queste mura si erano immolati per gli stessi ideali.

Ed è forse merito anche dei giovani studenti di tante parti d’Italia se, al culmine di questa fase di intensa celebrazione, anche movimenti che avevano annunciato disprezzo e freddezza verso l’Unità e i suoi simboli, hanno dovuto richiamarli e celebrarli per non restare isolati  dal buon senso e dal sentire profondo di tanta parte della loro base che non può aver dimenticato il contributo di sangue di tutte le terre d’Italia all’indipendenza nazionale.

Quanto dobbiamo  all’opera compiuta in tempi difficili dal nostro presidente Ciampi, di divulgazione dei valori del Risorgimento, dell’Unità nazionale e dell’Europa da sviluppare secondo quei valori?  Alla sua opera questo Comitato, insieme alle massime espressioni della Città, ha dato il suo più grande riconoscimento, conferendogli il 14 marzo a Roma, il Bartelloni d’oro. E l’incontro è stato occasione, non solo di un’appassionata testimonianza di ricordo e d’amore del Presidente verso la sua Città, quanto anche di una nuova e fresca lezione sul senso attuale del Risorgimento nella prospettiva nazionale ed europea.

Questa nostra fase storica, dal punto di vista dei valori affermati dal Risorgimento e dal grande fermento europeo in cui si inserì il Risorgimento italiano, appare complessa e qualche volta contraddittoria. Noi vediamo come l’idea nazionale, affermata nei suoi valori di libertà, di eguaglianza, di piena cittadinanza, in Italia, ma perseguita anche in altri paesi europei nel grande movimento del 1848 e 1849,  soffra molto oggi. Vediamo come l’idea delle nazioni libere e sorelle, nella repubblica universale, generose nell’Europa dei popoli disegnata da Mazzini, soffra invece di un ripiegamento che la riconduce ai disgraziati tempi del nazionalismo aggressivo e conservatore e riesca perfino ad offrirne una versione moralmente ancora peggiore. Basti pensare al mutamento costituzionale in corso in Ungheria, per rendersi conto del grave pericolo che l’Europa corre proprio quando forse altri popoli dell’Africa mostrano una propensione irresistibile verso l’idea di libertà.

Sono fenomeni inquietanti e difficili, di fronte ai quali la saldezza della convinzione nei valori affermati dal Risorgimento è una vera e propria barra di timone da tenere salda.

I valori affermati dalle lotte e dal sacrificio del Risorgimento, la libertà naturale, l’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge, indipendentemente dalla fede, dallo status sociale e dal sesso, hanno rappresentato un’aspirazione sognata sotto i regimi assoluti che precederono l’Italia. Sono stati difficili da realizzare davvero compiutamente e spesso messi in pericolo, come avvenne quando la dittatura fascista tolse agli Italiani la libertà di stampa e di associazione, limitando la cittadinanza e il diritto all’appartenenza religiosa, fino a farne una condizione di pericolo e di insicurezza. Riconquistare quei diritti fu duro e richiese il lungo impegno sotterraneo dell’antifascismo, la mobilitazione delle migliori forze militari dopo l’8 settembre e lo svilupparsi del grande movimento per la resistenza e la guerra di liberazione cui tutte le classi sociali contribuirono generosamente con il medesimo coraggio dei loro antenati.

Poiché la Costituzione italiana, con la suprema sintesi degli ideali, dei diritti individuali della cultura liberale, delle visioni sociali  religiose e laiche, rappresentò la svolta verso un Paese davvero democratico, giusto e capace di progresso, essa mantiene intatto il suo valore e bisogna celebrarne ancora una volta il più grande riconoscimento.

Non occorre andare lontano nel tempo, per rendersi conto di quanto questo sia vero. Basta aver presente la lezione offerta a Firenze, pochi giorni fa, dal presidente Napolitano, quando ha richiamato il ruolo centrale del Parlamento nella vita di un Paese. Fu davvero questo il vero e proprio valore aggiunto dell’opera politica di Cavour nel suo Piemonte, ereditata a lungo dallo Stato italiano.

Con la Costituzione repubblicana il Parlamento fu riconosciuto il perno centrale politico e morale della Nazione, il vero baricentro della democrazia.  Il paese vive bene  se il Parlamento è reale espressione delle sue cittadine e dei suoi cittadini, se è tempio dell’etica pubblica. È anche per questo che riconosciamo il debito da onorare verso quegli eroici combattenti politici e militari che tutto dettero al Paese che voleva nascere. Dettero la propria personale libertà, il sacrificio della ricca o povera economia del loro avere o del loro laboratorio e della loro famiglia, la vita. Come i grandi eroi del piccolo esercito della repubblica di Livorno, composto di livornesi, di toscani, di altri italiani, di stranieri,  che il 10-11 maggio del 1849, mostrò anche qui, come a Milano, a Roma, a Brescia, a Messina, ad Ancona, in tanti altri luoghi, quanto possa la virtù cittadina quando sono in gioco le grandi e oneste speranze di crescita dell’umanità.  Lasciatemi citare qui uno di essi, per l’alto onore che ci fa il Comune di Sassuolo venuto fin qui, il suo glorioso cittadino Giuseppe Piva, il “cannoniere dei Lupi”, il primo a sbarrare la strada agli Austriaci.

Viva sempre la memoria di quegli eroi! Viva sempre l’Italia democratica e repubblicana in un’Europa custode della libertà, della democrazia, dell’equità sociale!

Fabio Bertini


 

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CIAMPI, MAZZINI E GLI OCCHIALI DI CAVOUR

11/04/2011 da Fabio Bertini

Se qualcosa ha caratterizzato particolarmente il Settennato di Carlo Azeglio Ciampi, è stato il suo richiamo al Risorgimento, inteso non come vicenda storica chiusa in sé, ma come fecondo terreno di coltura dei valori con cui si è misurata la storia di oltre duecento anni della nostra penisola. Un “filo rosso”, come egli stesso ha definito la continuità, ha legato e lega i primi fermenti per la libertà, dalle lotte e dai sacrifici di un popolo per legarla all’indipendenza e all’Unità, alla tensione verso una reale democrazia, alla necessità di ritrovare il patrimonio di conquiste civili e di cittadinanza sottratto dal fascismo, e dunque a quel binomio Resistenza-guerra di liberazione, popolo-forze armate schierate con la libertà, che condusse al completamento di un antico progetto di repubblica democratica codificato dalla Costituzione.

Se quell’insieme ideale esaltato nel Settennato, il novantunenne Presidente emerito lo riconosce ancora fattore fondamentale per un rilancio della tensione etica, morale e politica del nostro Paese. Lo ha fatto comprendere, il 7 aprile di questo 2011 del 150°, nel suo Ufficio a Palazzo Giustiniani, quando ha ricevuto la delegazione venuta a porgergli il massimo riconoscimento del Comitato Livornese per la Promozione dei valori Risorgimentali, il “Bartelloni d’Oro”.

La motivazione incisa sulla targa del premio recava:

“Medaglia conferita a Carlo Azeglio Ciampi Presidente emerito della Repubblica Italiana per  la grande lezione offerta al Paese sui valori del Risorgimento e sul loro valore fondativo per l’identità nazionale affermatasi con l’Unità, riconquistata con la Resistenza e definitivamente scritta con la Costituzione Repubblicana, per l’esempio di senso dello Stato offerto alle istituzioni, e per il solido legame con la comunità di Olivorno, città votata da sempre al dialogo internazionale, alla pace, alla democrazia, alla tolleranza” .

Idealmente, il Comitato di Livorno sentiva di rappresentare tutti i Comitati fratelli e il loro Coordinamento, della cui esistenza il Presidente ha appreso con compiacimento. Con il Comitato erano il Prefetto di Livorno, i rappresentanti del Comune e della Provincia, il rappresentante dell’Accademia Navale, il Presidente dell’Associazione Mazziniana labronica, il Direttore de “Il Tirreno” e l’Amministratore di “Tele-Granducato”, presente con una équipe. E, se la conversazione ha attraversato notizie e memorie della città, i ricordi di un giovane Ciampi soldato del Corpo italiano di liberazione, del poco più che adolescente professore di liceo, ha avuto anche una dimensione politica più ampia nel riferimento ai momenti cruciali dell’opera da ministro per l’euro, interpretato, allora e oggi, come formidabile strumento di coesione nazionale ed europea, contro tutte le forze che individuavano nella possibile emarginazione italiana un punto di partenza per la disgregazione dell’Unità nazionale. Fu anche quello un momento di richiamo ai valori fondamentali della nostra storia che, nella conversazione, hanno più volte portato a rievocare il valore dei padri della Patria che, pur nella diversità degli ideali di riferimento, avvertirono l’importanza di un terreno fondativo comune. Così, alla memoria di Mazzini legata al principio repubblicano, si è unito il ricordo della statura politica del liberale  Cavour che un paio di occhiali dello Statista, gelosamente custodito da Ciampi, ha reso tangibile. In quei ricordi si è ritrovato il senso di un patrimonio condiviso delle diverse anime del Risorgimento, un insieme talmente indispensabile da renderlo oggi struggente necessità, perché prevalga il ritorno al primato nella politica dell’onestà intellettuale e del senso dello Stato.

Fabio Bertini

 

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