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Risorgimento Firenze

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I luoghi

Villa La Casaccia a Bellariva

16/12/2020 da Sergio Casprini

Lungarno Cristoforo Colombo n.1/3  Firenze

Le rive dell’Arno fin dal Quattrocento, fuori dalle mura in aperta campagna, accolsero le nobili famiglie fiorentine per i periodi estivi.  In un luogo particolare sulla riva destra del fiume, conosciuto come La Bella Riva, fu costruita Villa della Casaccia.  Già nel 1500 Leonardo da Vinci, durante le ricerche dedicate al corso dell’Arno allo scopo di progettare possibili deviazioni e regimentazioni del fiume, riportava nei suoi manoscritti tracce della Casaccia.

La villa appartenne in origine alla famiglia Alighieri per poi passare, nel Quattrocento, a una compagnia di pittori alla cui testa fu Giuliano di Jacopo, trasformandosi in bottega d’arte. Successivamente fu affittata dai Tommasi, famiglia di pittori livornesi, che qui adunarono e ospitarono noti e meno noti pittori “macchiaioli”, tra i quali spiccano Giovanni Fattori, Silvestro Lega e  Odoardo Borrani. Numerosi i dipinti che hanno per soggetto l’Arno a Bellariva furono creati in quei fervidi anni per la sua luce “speciale”; luce che si rifletteva nelle acque, conferendo al paesaggio una lucente morbidezza..

Odoardo Borrani Pescatore sull’Arno alla Casaccia 1871

Frequentatori della Villa furono anche importanti scrittori come Giosuè Carducci, Enrico Panzacchi e Anna Franchi. Il “Cenacolo di Bellariva”, così fu definita Villa La Casaccia, fu quindi importante luogo di incontro e scambio artistico e culturale.

Anna Franchi 1895 

La villa alla fine del XX secolo, dopo un accurato piano di recupero, è stata completamente rinnovata e ospita oggi un hotel 5 stelle, Le Ville sull’Arno, un  ristorante ed una SPA.

 

 

 

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Villa Albizi o del Teatro a Fiesole

09/12/2020 da Sergio Casprini

Villa Albizi via Vecchia Fiesolana  n. 70 Fiesole

La villa fu costruita nel 1772 su disegno di Zanobi del Rosso, che nel 1765  era stato nominato architetto delle fabbriche reali ai tempi del granducato dei Lorena.  Tra le opere che aveva realizzato vanno ricordati diversi  edifici per lo svago della Corte granducale, tra cui  il Kaffehaus a Boboli uno dei migliori esempi di stile rococò a Firenze. 

In questa villa ebbe la sua residenza l’Accademia dei Generosi, fondata da Giuseppe Nelli e Alberto Micheli  nell’aprile 1771 con l’intento di promuovere la cultura e condividere il piacere delle arti . Con l’aiuto di architetti, pittori e artisti, l’Accademia dei Generosi in pochi anni eresse un vero teatro: la stampa dell’epoca racconta che, in circa venti anni di attività si allestirono spettacoli teatrali e musicali, tra i quali L’idolo cinese di Giovanni Paisiello e l’intermezzo L’amore artigiano (oggi perduto) del giovanissimo Luigi Cherubini, l’Eugenie di Racine, concerti e feste da ballo.

Una scena dell‘Idolo cinese

Agli inizi del Novecento, Luigi Albizzi, proprietario dell’edificio trasformato in residenza agli inizi dell’Ottocento, volle far rivivere l’Accademia dei Generosi e i luoghi che la videro nascere, organizzando concerti e feste da ballo di cui si conservano foto, programmi e inviti. Da un punto di vista architettonico la villa non ha elementi di particolare interesse, eccezion fatta per il piccolo ma curato giardino, che si estende come una terrazza davanti alla facciata.

 Una lapide vicino al cancello di ingresso, fatta apporre da Luigi degli Albizi e dettata da Giovanni Rosadi ricorda come qui, nell’autunno del 1775, fu messa in scena l’opera L’idolo cinese di Giovanni Paisiello, raffigurato sul medaglione in terracotta oggi quasi illeggibile.

 

Giovanni Rosadi, l’autore dell’epigrafe, è stato un politico e avvocato nell’Italia post-unitaria. Laureatosi in giurisprudenza a Pisa, esercitò la sua professione di avvocato a Firenze. Esponente della destra liberale, fu deputato dal 1900 al 1924, anno in cui venne nominato senatore. Fu Sottosegretario di Stato della Pubblica istruzione nei diversi governi che si sono succeduti dal 1914 al 1921.  Fu precursore dell’ambientalismo e fu l’artefice – insieme a Benedetto Croce – della prima legge sulla protezione del paesaggio in Italia.

 

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Villino Coppini

29/11/2020 da Sergio Casprini

Viale della Giovine Italia 1 Firenze

 

L’edificio presenta le caratteristiche proprie della villa, seppure di dimensioni contenute, con i fronti mossi e articolati da portici e terrazze, tutti arretrati rispetto alla linea stradale in modo da lasciare spazio a un breve giardino che lo circonda su tutti i lati.

 

Sulla base dei disegni pubblicati sul periodico “Ricordi di Architettura” il villino è riconducibile all’attività dell’architetto Pietro Berti, già attivo con varie realizzazioni su committenza alto borghese nelle nuove zone segnate dall’espansione edilizia della seconda metà dell’Ottocento sia sui lungarni sia sui nuovi viali a partire dal Piano di Giuseppe Poggi di ingrandimento e risanamento della città negli anni di Firenze Capitale.  La datazione è documentata dall’iscrizione nei cartigli posti in prossimità del fronte di via Pietro Thouar, con la scritta “Anno D. MDCCCXC“.

 

 Si tratta comunque di una fabbrica decisamente signorile, eretta con sfarzo e volontà di segnare con la propria presenza la zona, anche facendo ricorso ad elementi decorativi di pregio. Si vedano ad esempio (per quanto consentono di osservare le fronde degli alberi), gli scudi con le insegne di Firenze e le statue allegoriche femminili poste agli angoli alti dell’edificio, in capienti nicchie

 

Attualmente il villino dopo un recente restauro è tornato al decoro originario ed è sede della Banca Generali Private

Fonte. Repertorio delle architetture civili di Firenze. Palazzo Spinelli

 

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Berti Pietro, architetto toscano, residente a Firenze, ove studiò all’Accademia di Belle Arti. Vinse diversi premi. Costruì la chiesa russa; una villa a Tula per il principe Galitzin; la tribuna delle Cascine; restaurò la sala di guardia del palazzo Strozzi a Firenze

Angelo Gubernatis Piccolo Dizionario dei contemporanei italiani Roma 1895

 

RICORDI DI ARCHITETTURA 

TIRATOIO DELL’ARTE DELLA LANA FIRENZE 1878 PIETRO BERTI

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Le Terme di Rapolano

09/11/2020 da Sergio Casprini

Rapolano Terme è un comune toscano della provincia di Siena

È una località termale che dispone di due stabilimenti: le Terme San Giovanni, immerse nella collina senese, e le Terme Antica Querciolaia, vicine al centro abitato. Le sorgenti termali di Rapolano erano certamente già note per le loro proprietà terapeutiche agli antichi Romani, grandi estimatori dei benefici delle terme. La loro passione per questi luoghi è testimoniata da un passo dello storico latino Plinio il Vecchio nella sua Storia Naturale in cui viene citata una località termale identificata con l’attuale Rapolano Terme.

Grande è comunque la fioritura di questo centro termale a partire dal ‘300, quando gli autori che si occupano dei bagni termali lo citano costantemente tra le località termali più notevoli del senese.
Le virtù terapeutiche di Rapolano sono confermate nel tempo dal passaggio di personaggi illustri, venuti qui a scopi curativi: fra tutti, merita ricordare come Giuseppe Garibaldi utilizzò le terme di Rapolano per ristorare la celebre ferita sofferta in Aspromonte.

L’11 agosto del 1867, l’Eroe dei due Mondi giunse a Siena accolto con grande calore e fu ospitato da Pietro Leopoldo Buoninsegni nella sua villa di Poggio Santa Cecilia nei pressi di Rapolano. Garibaldi arrivò a Rapolano il 13 agosto del 1867 per curare i postumi della ferita riportata nella battaglia di Aspromonte. Durante la sua permanenza a Poggio Santa Cecilia, ogni mattina, si recava ai bagni dell’AnticaQuerciolaia di Rapolano dove le cure gli avevano giovato molto. Era stato così bene che in una lettera diretta all’amico Dr. Barni scrisse: “I bagni di Rapolano mi hanno tolto un resto d’incomodo al piede sinistro, e l’effetto ne fu istantaneo; ciocché mi dà buona opinione di questi bagni, che penso di continuare per alcuni giorni. Se siccome ottenni la cessazione dei dolori potessi acquistare un po’ più d’elasticità, io mi troverei forte come prima. Vostro Giuseppe Garibaldi”.

Sopra la porta d’ingresso dello stabilimento termale fu posta una lapide per ricordare il soggiorno di questo ospite illustre ed oggi, in ricordo di questo passaggio, le Terme Antica Querciolaia hanno collocato una statua di Garibaldi nella parte storica delle Terme.

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Dante a casa

03/11/2020 da Sergio Casprini

La dimora del poeta fu scelta a fine ‘800 e restaurata nel 1911

Francesco Gurrieri Corriere Fiorentino1 novembre 2020

Le iniziative per il settimo centenario dantesco si intensificano, col rischio di uno stucchevole «troppo pieno» che finirà per rendere il sommo poeta antipatico ai più giovani. Anche perché quasi tutto si profila sul versante di un pericoloso trionfalismo acritico. Eppure, sarebbe vasta la materia da ripercorrere, a partire da quella ineliminabile e feconda lezione di Croce del 1921, Intorno alla storia della critica dantesca, suscitatrice di divergenze filologiche da parte di Giovanni Gentile, suo miglior allievo.

Oggi parliamo della Casa di Dante, iniziando a spigolare su alcuni aspetti che si son coagulati intorno al mito dantesco. Per esempio: «cosa c’entra la Casa di Dante con l’Unità d’Italia?». C’entra, eccome! Fu proprio nel momento in cui Firenze si apprestava a diventare capitale d’Italia che la città programmò di spendere al meglio i propri titoli di nobiltà. E fra questi c’era quello di ritrovar casa a Dante Alighieri, primo ispiratore di un’Italia unita. Infatti, il sesto centenario della nascita di Dante (1265-1865) coincise con «Firenze Capitale»: così che nella seduta del Consiglio comunale del 4 febbraio 1865, si delibera l’acquisto dell’edificio prossimo alla Torre della Castagna (allora, secondo il Falcini, molto squallente ed alterata dalle vicende degli anni e dalla diversità dei lavori che vi sono stati fatti. Il Ricasoli (allora presidente del Consiglio dei ministri) e il Cambray Digny (primo cittadino), per non rischiare gaffe, istituiscono una commissione preposta al «compimento delle ricerche storiche sulla Casa del Divino Poeta» (marzo 1866): ne fanno parte l’avvocato Emilio Frullani, lo storico Luigi Passerini, il restauratore e pittore Gaetano Bianchi e l’architetto Mariano Falcini. Dobbiamo alla loro «scienza e coscienza» la Relazione letta in consiglio comunale a marzo del ’68, che, dopo lunghe «indagini archeologiche e catastali» individuava gli attuali volumi edilizi come i più probabili della famiglia Alighieri. Quella ricerca si basava su due punti fondamentali. Il primo, su una testimonianza datata 1436 di Leonardo Bruni (cancelliere umanista degno di fede) che ricordava che Lionardo (bisnipote di Dante) venne a Fiorenza con altri giovani veronesi, bene in punto e onoratamente; e me venne a visitare, come amico della memoria del suo proavo Dante; ed io gli mostrai le case di Dante e de’ suoi antichi, e diegli notizia di molte cose a lui incognite, per essersi stimato lui e i suoi della patria. Il secondo, su un documento afferente a una lite intentata dal priore della vicina chiesa di San Martino al Vescovo contro gli Alighieri, in ragione delle radici di un fico che sul confine avrebbe rovinato la recinzione del giardino della chiesa. Insomma, pur con poca filologia e qualche fantasia, in clima «unitario», l’iniziativa andava avanti. Ma, com’è noto, assai presto la capitale si traferì a Roma e a Firenze rimasero non pochi debiti, per onorare i quali ci vollero decenni. Finalmente, nel 1911, il Comune conclude l’acquisto della Casa, incaricando Giuseppe Castellucci del restauro. Il Castellucci (1863-1939) è uomo del suo tempo: funzionario dell’Ufficio Regionale per la conservazione dei monumenti nazionali (la Soprintendenza) si era formato a una cultura del restauro romanticheggiante, caratterizzata da azioni più interpretative che filologiche, secondo la scuola francese di Viollet le-Duc. Restauratore del San Francesco di Fiesole e inventore della facciata della Cattedrale di Pescia, operò con la stessa ratio nel confezionare la Casa di Dante. Peraltro, ancora assai viva era in quegli anni era la cultura della rivisitazione romanticheggiante che riesumava la commedia storica: si pensi all’Ettore Fieramosca e alla Disfida di Barletta che accomunavano la produzione letteraria a quella artistica. Vivissimo era ancora l’apprezzamento del presunto Incontro di Dante con Beatrice presso il Ponte Santa Trinita del pittore inglese Henry Holiday.

Tutti temi questi, su cui Marco Dezzi Bardeschi costruì una divertente mostra, intitolata Il Monumento e il suo doppio nel Chiostro di Santa Croce. Eravamo nel 1981 e il dibattito sulla cultura del restauro era vivacissimo, così anche la Casa di Dante fu occasione di approfondimento e collocata nella stagione della febbre romantica, quasi delirante. Poi il silenzio degli ultimi decenni, mentre la casa consolida la sua vita, con la duplice valenza di «Società delle Belle Arti-Circolo degli Artisti» e di «Museo Casa di Dante», ormai meta obbligata nell’asta turistica fra il Museo dell’Opera del Duomo e piazza Signoria.

 

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Villa il Pozzino

15/10/2020 da Sergio Casprini

Villa il Pozzino è una villa sulle colline di  Firenze situata in via Giovanni da San Giovanni 12 (zona Castello).

Il nome della villa deriva dal pozzo situato nel cortile interno della villa, che venne costruita in una data imprecisata verso il XV secolo, come testimonia una menzione del Carocci dei primi anni di quel secolo.

Già appartenuta ai Carnesecchi passò al medico montepulcianese Maria Carlo Galgani nel 1576, che la vendette dieci anni dopo ai figli di Zanobi Grazzini. L’aspetto attuale della villa risale soprattutto agli interventi della famiglia Grazzini, che la fece ristrutturare entro il 1620. Le grottesche dell’altana e del cortile vennero commissionate nel 1619, mentre le pitture sulle pareti del cortile di Giovanni da San Giovanni, pittore di corte che aveva lavorato anche a villa La Quiete, sono documentate fino al 1630. Dalla documentazione sulle pitture si è anche cercato di datare l’architettura della villa, che dovrebbe risalire all’epoca di Giovan Francesco Grazzini, negli anni immediatamente a cavallo tra il Cinque e il Seicento. Dai Grazzini la villa passò in via ereditaria ai Bartolini-Baldelli, poi ai Mori-Ubaldini-Alberti. Passata nel Novecento all’avvocato Alessandro Luci e al Sig. Gilli, oggi è di proprietà dello Istituto Figlie del Divino Zelo dal 1946, il quale vi tiene una scuola.

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La planimetria è piuttosto semplice, con un blocco unico articolato attorno a un cortile centrale, con un giardino murato verso est (verso il quale si protende un braccio della villa) e un più ampio parco all’italiana a ovest, mentre sul lato nord esiste ancora, sebbene ridimensionato rispetto all’antico, un selvatico boscoso.La facciata dà sulla strada che congiunge  Quarto a Quinto, e presenta un alto muro di conta decorato da urne in terracotta e statue e presenta frammenti di graffiti ornamentali.

Al piano terreno si trovano finestre inginocchiate, con un mensolone di pietra ed una decorazione a bassorilievo che riproduce foglie d’acanto, mentre il primo presenta delle cornici architravate più semplici. Anticamente la facciata era coperta da graffiti dei quali oggi restano solo tracce.

Sul lato verso il giardino all’italiana spicca una torre inglobata nell’edificio principale, forse più antica, di epoca medievale, forse duecentesca, sulla quale si apre oggi un’altana sostenuta da colonnine con capitelli tuscanici e volute in stile ionico. Un’altana caratterizza a un livello inferiore anche il corpo di fabbrica ovest sul cortile, dove spicca il soffitto decorato a mirabolanti grottesche con scene mitologiche e agresti, opera di Piero Salvestrini (1597)), attivo alla fine del Seicento, che nella zona aveva già decorato la Villa Franceschi e la Villa il Casale.

Il cortile è invece decorato dalle pitture di Giovanni di San Giovanni, in parte irrimediabilmente compromesse, che raffigurano Satiri, ninfe e scene campestri, con citazioni letterarie e vernacolari secondo la moda dell’epoca.

Le stanze al primo piano hanno varie decorazioni ad affresco, in particolare una piccola stanza adibita oggi a salottino con la bassa volta coperta da pitture. La stanza principale del salone invece conserva un pregevole camino in pietra serena scolpita e grottesche nelle strette superfici degli spessori delle finestre e del portale.

Il giardino di ponente è decorato da un grande ninfeo-grotta artificiale che si inserisce in un edificio, l’ampia ex-limonaia, che fa anche da quinta alle aiuole geometriche. Delle sculture originarie restano solo i mascheroni delle fonti esterne. Il giardino murato a levante ha una grande fontana a muro decorata da mosaici in ciottoli e pietre spugnose, con motivi a grottesche tipiche del Manierismo ; fa un certo contrasto vedere come oggi vi sia collocata una statua devozionale della Madonna, in un ambiente volutamente aulico e rinascimentale.

 

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Villa Ravà

08/10/2020 da Sergio Casprini

Villa Ravà, già Guicciardini, si trova in via del Pian dei Giullari 69 a Firenze.

La villa, dal massiccio aspetto rinascimentale, era originariamente di proprietà della famiglia Quaratesi, poi venne acquistata dai Pagani e successivamente dai  Bardi. Nel 1519 entrò in possesso dello storico Francesco Guicciardini, il cui stemma familiare si vede tutt’oggi sulla facciata.

Nel 1529, quando le truppe imperiali occuparono la collina durante l’assedio di Firenze il Guicciardini fu costretto ad abbandonare la villa, che venne occupata dal generale  Filippo d’Orange. La doppia mole della villa, con al centro il giardinetto chiuso da un muro merlato, è visibile molto chiaramente nell’affresco dell’Assedio dipinto dallo Stradano nella Sala di Clemente VII in Palazzo Vecchio, e testimonia come l’aspetto del complesso sia mutato molto poco da quell’epoca.

Il Guicciardini vi ritornò solo nel 1533 e qui scrisse alcune delle sue opere più importanti

 

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Palazzo Buontalenti 

22/09/2020 da Sergio Casprini

 

Via dei Servi 7/9/11 Firenze

La casa, già di proprietà di Bernardo Buontalenti (anche se non abitata dall’artista, che viveva in una casa in via Maggio), fu ristrutturata dai suoi eredi probabilmente agli inizi del Settecento su progetto di Pietro Giovannozzi. Il palazzo passò in varie mani e all’inizio del XIX secolo vennero aggiunte le decorazioni in stile neoclassico nel salone, con gli stucchi, le pitture a monocromo ispirate all’antico e, poco più tardi, i lacunari con putti, fiori e fanciulle danzanti.

In seguito venne acquistato da una compagnia assicurativa ed è stato occupato al piano nobile da uffici. Nel 2009 anche questa parte (dove c’è il salone) è tornata in mani private.

Si presenta con un fronte ancora nel solco della tradizione cinque-seicentesca, non fosse per i più tardi rimaneggiamenti: sviluppato su tre piani organizzati su nove assi, è qualificato da due portali incorniciati da bugne in pietra e chiusi in alto da un mascherone con volute legate, di chiara impronta tardo manierista. Le finestre dei piani superiori sono delimitate da eleganti cornici in pietra forte, più elaborate al piano nobile, decisamente semplificate al terzo. Le finestre in asse con i portoni sono state poi ridisegnate e fornite di balconi e al terreno, quella che un tempo doveva essere una superficie con prevalenza di pieni sui vuoti, bucata con sei ampie aperture ora sporti e accessi di esercizi commerciali. Il palazzo affaccia su un ampio giardino interno.

Negli interni si conservano due riquadri affrescati e riferiti a Niccolò Lapi, raffiguranti Bernardo Buontalenti salvato dalle rovine della sua abitazione (episodio questo ambientato in via de’Bardi) e l’Incontro di Bernardo Buontalenti con Torquato Tasso (tradizionalmente riferito alla residenza di via Maggio).

 

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Chiesa di Santa Maria a Ricòrboli 

28/08/2020 da Sergio Casprini

Via Carlo Marsuppini  Firenze

Il toponimo Ricorboli deve il suo nome al borghetto di case che sorgeva poco fuori le mura di Firenze, presso il ruscello Rio Corbulo, citato in documenti almeno dal 1184 e che scendeva dalla fonte di Gamberaia a Montici gettandosi in Arno nei pressi dell’attuale piazza Ferrucci.

Nel luogo dove sorge la chiesa si ha notizia fin dal XII/XIII secolo della presenza di un romitorio con annesso oratorio e un piccolo ospedale, patronato dalla famiglia  Mozzi e poi anche dagli Ardinghelli , per i pellegrini che giungevano a Firenze per la via che collegava Porta San Niccolò con Bagno a Ripoli e la via “sott’Arno” per  Arezzo. L’oratorio ospitò una comunità di benedettine (1365/1373) e dopo la soppressione da parte di Eugenio IV, gli eremitani di sant’Agostino che vi eressero un romitorio con oratorio dedicato a Maria. Nel 1478 i Bardi di Vernio sovvenzionarono la costruzione di una chiesa, che nel 1585 fu affidata ad una confraternita laica, detta Compagnia di Ricorboli.

La compagnia fu soppressa da Pietro Leopoldo nel 1788, facendo della chiesetta una parrocchiale, che faceva riferimento alla ormai ampia comunità che viveva fuori Porta San Niccolò.

Della chiesa antica oggi resta la Madonna, frammento di tavola a fondo oro che alcuni attribuiscono allo stesso Giotto (con datazione tarda, al 1328-1333) o alla sua bottega (con datazione al 1335 circa). Tale immagine fu oggetto di grande venerazione dopo che venne adorata da Pio VII in sosta durante il suo viaggio di ritorno dalla Francia. Con riferimento alla visita del pontefice in viaggio, la Madonna venne da allora detta “del Rifugio” o, secondo un’altra tradizione, “delle Rose”.

Vista la crescita della popolazione locale, la chiesa abbisognò di un radicale ingrandimento, che venne messo in opera alle spalle dell’antica chiesetta, secondo un progetto dell’architetto Enrico au Capitaine, messo in opera tra il 1906 ed il 1926, anno in cui avvenne la consacrazione alla presenza del vescovo di origine fiorentina Agostino Zampini.

La semplice facciata è a pietra a vista, con portale centrale e oculo.

L’interno, a navata unica con due cappelle per lato, mostra un chiaro omaggio  all’architettura brunelleschiana, col ricorso alla pietra serena e agli intonaci bianchi. In cima ai pilastri corre un fregio continuo, con angeli alternati al monogramma di Cristo. Le finestre hanno vetrate della vetreria Polloni, con l’Incoronazione della Vergine (facciata), la Trinità (abside), Angeli, Santi ed Evangelisti (ai lati).

.All’altare dopo l’alluvione del 1966 venne ino collocata un’opera simbolica con figure geometriche tondeggianti e scomposte, a simbolo delle comunità dei fedeli che si ricompongono attorno al sacramento eucaristico. In quell’occasione venne spostato in sagrestia il grande Crocifisso in gesso verniciato di Giuseppe Gronchi ( 1929).

Sugli altari laterali opere degli anni Venti-Trenta, tra cui va  ricordata sulla navata destra  la Cappella dei Caduti con  una tela di Giuseppe Fraschetti (1927), uno dei poche esempi nelle chiese fiorentine di commemorazione ai Caduti della Grande Guerra con citazione letterale di opere devozionali del Rinascimento.

Giuseppe Fraschetti

Fanti morenti  sorretti da angeli e Cristo risorto 1927 olio su tela

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Le Piramidi dell’Abetone

18/08/2020 da Sergio Casprini

Le piramidi dell’Abetone  sono un monumento che sorge nel centro dell’abitato dell’Abetone, a 1375 metri di altezza.

 Si tratta di un simbolo voluto all’apertura del valico nell’Appennini tosco-emiliano, nella seconda metà del Settecento, per celebrare l’importanza di questa via di comunicazione che avrebbe garantito fiorenti commerci.

Erette appunto in occasione dell’apertura del Valico dell’Abetone quale memoria del Granduca di Toscana e del Duca di Modena, segnavano in maniera evidente il confine tra i due stati, trovandosi l’una sotto la giurisdizione di Pietro Leopoldo di Lorena e l’altra sotto quella di Francesco III d’Este. Costruite entrambe da maestranze toscane, sono in pietra con ornamenti in marmo e recano, ciascuna sul lato che guarda lo stato di appartenenza, l’arma e l’iscrizione del rispettivo sovrano.

L’opera, iniziata nel 1766 e terminata circa dieci anni dopo, fu diretta, in territorio toscano, da Leonardo Ximenes e, nel versante modenese, da Pietro Giardini.Su ciascuna è scolpita un’iscrizione in latino: quella toscana fu composta da Leonardo Ximenes, ed esalta il Granduca Leopoldo come “rinnovatore della libertà e del commercio“, quella modenese sottolinea invece l’importanza militare della strada appena costruita quale congiunzione tra la Germania e la Toscana.

La creazione della strada permise lo sviluppo di un primo nucleo abitativo  che vedeva gli abitanti impegnati d’inverno nella spalatura della neve per permettere il transito di uomini e merci. Nel tratto toscano progettato dall’abate Ximenes, nella zona  detta Boscolungo, oltre alla dogana ed ad una osteria fu realizzata nel 1784 una chiesa su progetto dell’architetto  fiorentino Bernardo Fallani, su commissione del vescovo di Pistoia Scipione de’ Ricci che dedicò la chiesa a San Leopoldo in onore del Granduca di Toscana.

La Strada Regia Modenese, detta anche del valico dell’Abetone, collegava il Granducato, attraverso Pistoia, con il Ducato di Modena e quindi con l’Impero asburgico. La nuova strada consentiva collegamenti più rapidi con il porto di Livorno ed aveva una valenza sia militare sia economica.

La costruzione del tracciato richiese grandi capacità di progettazione, soprattutto nel tratto dalla Lima all’Abetone, dove furono costruiti ponti, tornanti ed opere murarie di sostegno. Due monumentali strutture, il ponte sulla Lima e quello sul Sestaione, coronavano il grandioso lavoro.

 

 

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