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Il processo alla Corte dell’Aia e l’antisemitismo eterno

18/01/2024

L’atto d’accusa portato all’Aia contro Israele apre, accanto al tentativo di tutelare la popolazione palestinese di Gaza, questioni di coscienza e contraddizioni. È impossibile, certo, non porre in discussione la proporzionalità della risposta israeliana all’aggressione patita per mano di Hamas: il protrarsi e le dimensioni della reazione militare, le sofferenze e i lutti per due milioni di civili. Lo fanno persino gli americani, alleati storici di Gerusalemme.

Ma l’idea stessa di promuovere davanti alla Corte internazionale una causa nei confronti della nazione vittima del pogrom del 7 ottobre (oltre 1.200 ebrei assassinati e 6.000 feriti nel deserto del Negev e nei kibbutzim di confine, 253 rapiti, tra cui numerosi bambini, decine di donne stuprate e mutilate), rovesciandole addosso una parola — genocidio — coniata nel 1944 per la Shoah, ha un effetto straniante e ha indotto il premier Netanyahu a parlare di «mondo alla rovescia» (l’Iran, sostenitore dei terroristi islamici di Hamas, giunto infine a rivendicare il massacro del «Sabato nero», è, ad esempio, tra i grandi sostenitori del dossier promosso dal Sudafrica).

Il processo, come inevitabile, tende a radicalizzare le posizioni. Talché, chi crede nel buon diritto di Israele a difendere la propria sopravvivenza si troverà in sgradita compagna della destra ultrareligiosa di Ben-Gvir e Smotrich; e chi è più sensibile ai patimenti dei gazawi può finire per accostarsi alla propaganda di assassini come Yahya Sinwar e Mohammed Deif, capi dei carnefici del 7 ottobre. Inoltre, il giudizio dell’Aia non ha forza cogente ma solo impatto reputazionale: non potrà sortire effetti concreti sul campo. Avrà invece, come sicuro risultato, una nuova ondata di rancore verso gli ebrei: non solo contro i soldati di Tsahal nella Striscia ma contro tutti gli appartenenti alla religione ebraica e in tutto il mondo. Ed è questa, per noi che guardiamo da lontano il conflitto, l’insidia maggiore: un sentimento che scorre da sempre nelle nostre società e si manifesta con andamento carsico, come un veleno sottile, in occasione di ogni grande crisi mediorientale, dalla Guerra dei Sei Giorni del 1967 alla strage di Sabra e Chatila del 1982. La geopolitica fa da detonatore a una sottocultura che affonda le radici nei luoghi comuni di secoli (per dire: il «Dio cattivo degli ebrei» contrapposto al Dio misericordioso dei Vangeli).

Una preziosa finestra per capirlo si trova a Milano, vicino alla Stazione Centrale, proprio accanto a quel Binario 21 celebrato da una commossa Liliana Segre, dal quale i nazisti caricavano le loro vittime sui vagoni piombati diretti ai lager. È l’Osservatorio Antisemitismo, settore del Centro di documentazione ebraica contemporanea (Cdec) che dal 1975 monitora quotidianamente sull’Italia il fenomeno e le sue manifestazioni: aggressioni fisiche o verbali, graffiti, insulti web, discorsi pubblici di odio. Negli uffici di piazza Safra hanno appena concluso il rapporto 2023 con circa 460 episodi segnalati durante l’anno (erano 241 nel 2022) e con trend triplicato dopo il 7 ottobre: i casi erano 67 tra ottobre e dicembre del 2022, sono stati 221 negli ultimi tre mesi di quest’anno (avvertenza: la categoria presa in esame è ovviamente più ampia dei soli crimini d’odio di cui ha dato conto di recente il ministro Piantedosi su dati Oscad, l’osservatorio del Viminale sulle discriminazioni). Sono frammenti di vita che rendono un clima. Dai temi di educazione civica «sull’apartheid contro i palestinesi» all’interrogazione subita in un liceo scientifico romano da uno studente ebreo chiamato a «esporre le ragioni di Israele» davanti alla classe, fino alla bambina di una media fiorentina bullizzata dalle compagne («ti buttiamo dalla finestra, speriamo muoiano tutti gli ebrei»); dal rabbino minacciato in strada a Genova al membro della comunità attaccato a Catania per la Stella di Davide al collo da un distinto cinquantenne che gli ha aizzato contro il cane gridando «eccone un altro! Ma quanti ca… siete?».

Betti Guetta, responsabile dell’Osservatorio, si domanda dolente «in quale millennio smetteremo di essere un… voi», e parla della solitudine come sentimento prevalente di questi mesi: «Più che spaventata sono depressa», dice, pensando agli amici spariti e anche alle vittime palestinesi di questo orrore. Il livello di violenza è ben lontano dalla Francia, dove gli ebrei hanno intrapreso dagli anni degli attacchi jihadisti un esodo di paura, o dalla Germania dei gruppi neonazisti; ma dopo il 7 ottobre gli episodi si sono «trasferiti dal web al mondo reale» anche qui. Così reali che nelle università i ragazzi ebrei hanno cominciato a nascondersi. Un report riservato rivela che tre quarti degli studenti israeliani celano in ateneo la propria identità o evitano di parlare in ebraico, uno su tre ha eliminato kippah e Stelle di Davide. Due terzi dei 243 giovani sondati dall’Ugei pensa che essere ebreo possa causare discriminazione sul luogo di lavoro o di studio, la quasi totalità denuncia un aumento di episodi di antisemitismo. Secondo un sondaggio condotto tra 2.579 universitari non ebrei in tre atenei del Nord Italia dal sociologo Asher Colombo, il 38% degli studenti di destra pensa che «gli ebrei non sono italiani fino in fondo» e il 59% di quelli di sinistra che «il governo israeliano si comporta coi palestinesi come i nazisti si comportarono con gli ebrei». La Rete resta il volano più truculento, come sempre. Hitler il criminale più gettonato, talvolta mascherato dietro l’hashtag «pittore austriaco» (300 milioni di visualizzazioni) per evitare restrizioni. Ma basta sfogliare il bel libro di Alessandra Tarquini «La sinistra e gli ebrei» (Il Mulino, 2019) per constatare come il morbo dell’antisemitismo non sia certo esclusiva della destra più cupa. «Palestina dal fiume al mare», slogan che presuppone la scomparsa di Israele, è stato gridato molte volte in questi mesi da antagonisti e collettivi studenteschi. E il vecchio Proudhon, già a metà del Diciannovesimo secolo, considerava gli ebrei «una razza da sterminare col fuoco o col ferro, con l’espulsione o con qualsiasi mezzo». Che più di centosettanta anni dopo tanti lo prendano alla lettera deve farsi ragione di sollecitudine e solidarietà verso chi diventa un bersaglio: anche di fronte a un processo da cui il mondo uscirà solo più diviso e intossicato.

Goffredo Buccini Corriere della Sera 15 gennaio 2024

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