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Risorgimento Firenze

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Sergio Casprini

L’ERRORE DI SALVEMINI

27/01/2023 da Sergio Casprini

APPARE INGENEROSA L’ACCUSA A GIOLITTI DI AVER ANTICIPATO I METODI DI MUSSOLINI

Paolo Mieli Corriere della Sera 24 gennaio 2023

Nato a Molfetta (Bari) nel 1873 (quest’anno ricorre il 150°) lo storico Salvemini si caratterizzò per il suo impegno a favore del riscatto del Sud e poi per la forte opposizione al fascismo. A lungo esule all’estero sotto il regime, morì a Sorrento nel 1957

Giovanni Giolitti

La «campagna» di Gaetano Salvemini contro Giovanni Giolitti durò una ventina d’anni e anche oltre. Coinvolse il «Corriere della Sera» di Luigi Albertini, la «Voce» di Giuseppe Prezzolini e il fior fiore degli intellettuali italiani. Contro Giolitti, Salvemini scrisse un libro che fece epoca: Il ministro della mala vita. Poi con l’avvento del regime mussoliniano, Salvemini fondò il primo periodico antifascista, «Non mollare», firmò il manifesto promosso da Benedetto Croce (1925), lasciò l’università ed espatriò. A Parigi fu, assieme a Carlo Rosselli, tra i fondatori di Giustizia e Libertà. Emigrò poi negli Stati Uniti dove restò, alternando l’attivismo politico all’insegnamento universitario, fino alla seconda metà degli anni Quaranta. Di questa sua complessa attività offre adesso un eccellente profilo Sergio Bucchi in La filosofia di un non filosofo. Le idee e gli ideali di Gaetano Salvemini, che sta per essere pubblicato da Bollati Boringhieri.

Il rientro di Salvemini in Italia nel dopoguerra non fu trionfale come ci si sarebbe potuto attendere in considerazione dei suoi meriti. La sua riammissione all’Università di Firenze fu lenta, assai tribolata. E quando finalmente riuscì a tornare, l’accoglienza fu entusiasta tra i suoi seguaci, ma ci fu qualche segno di ostilità da parte di Benedetto Croce e di Palmiro Togliatti. Forse per quella lontana polemica antigiolittiana. Forse anche per qualcos’altro.

Benedetto Croce

Ma facciamo un passo indietro e torniamo a quando Salvemini era ancora negli Stati Uniti. Nel 1943 le Lezioni di Harvard (ripubblicate poi da Feltrinelli con il titolo Le origini del fascismo in Italia) fornirono a Salvemini, scrive Bucchi, «la cornice in cui formulare da storico il giudizio espresso da tempo nell’aspra requisitoria del Ministro della mala vita». Salvemini accusava ancora l’ex presidente del Consiglio liberale di esser stato «un tenace conservatore che voleva comprare l’appoggio riformista col minimo di concessioni possibili». E di aver ereditato dai suoi predecessori «il costume di “manipolare” le elezioni». Gli riconosceva però — e in termini espliciti — di esser stato «il primo statista italiano a considerare i sindacati come associazioni legali, lo sciopero un diritto dei lavoratori e non un delitto della lotta di classe». Il primo «a sostenere che nei conflitti del lavoro il governo doveva rimanere neutrale».

In quello stesso 1943 Salvemini accettò di scrivere la prefazione a un libro di Arcangelo William Salomone, giovane storico americano di origini italiane allievo dell’orientalista Giorgio Levi della Vida, anche lui fuoruscito, espulso dall’università italiana per aver rifiutato nel 1931 di prestare giuramento al regime fascista. Il libro, Italian Democracy in the Making (pubblicato poi nel 1949 in Italia dall’editore De Silva con il titolo L’età giolittiana), riprendeva una considerazione di Piero Gobetti secondo il quale quella contro Giolitti era stata una «crociata» a cui Salvemini aveva preso parte «con l’entusiasmo dell’apostolo». Riportando il passo gobettiano, Salomone tradusse «crociata» con crusade e «apostolo» con crusader. Un crusader, che si opponeva al capo del governo, secondo Salomone, per una forma di «incompatibilità psicologica tra il tipo dell’italiano ispirato da alti scopi morali e da ideali disinteressati e il tipo realistico rappresentato al meglio da Giolitti mosso essenzialmente da moventi politici». «Crociato» era però un termine che non giovò a Salvemini. Coloro «che per ovvi motivi erano rimasti all’oscuro degli sviluppi del pensiero di Salvemini nei venticinque anni dell’esilio», scrive Bucchi, «accolsero la sua introduzione come un atto di pentimento e di ripudio delle posizioni assunte un tempo».

Nel 1949 — quando il libro di Salomone fu dato alle stampe in Italia con la prefazione salveminiana — uscì in libreria anche Il ministro della buona vita (Longanesi) di un celebre giornalista: Giovanni Ansaldo. Si trattava di un pamphlet nel quale si tessevano le lodi dell’uomo che aveva guidato l’Italia negli anni precedenti alla Prima guerra mondiale. «Dall’alto del suo storicismo», ricostruisce Bucchi, Ansaldo rimproverò a Salvemini di «non aver saputo cogliere “tutto l’elemento di necessità” che caratterizzò l’azione di Giolitti, motivo per cui la condanna dei metodi giolittiani non fu altro che un “fervore di giustizia” che lo spinse a “travedere e farneticare”». Si accusava in sostanza Salvemini di essersi scagliato contro Giolitti sulla base di una sorta di impazzimento «provocato dall’ aver perso nel 1912 il lume della ragione per la malaugurate elezioni di Molfetta». Ansaldo secondo Bucchi dimostrava «di non aver neppure letto il libro salveminiano di cui si apprestava a fare il controcanto». E si lasciò sfuggire gravissime inesattezze: la campagna salveminiana contro Giolitti era iniziata nel 1902, molti anni prima dell’insuccesso elettorale di cui parla Ansaldo; l’8 marzo del 1909 Salvemini aveva pubblicato sull’«Avanti!» un articolo, I misfatti del governo a Gioia del Colle, in cui si denunciavano le sopraffazioni di un esponente giolittiano, Vito De Bellis, nelle elezioni del 1909; Il ministro della mala vita era stato poi pubblicato del 1910 (e si basava su considerazioni riferite alle suddette elezioni del 1909); Salvemini, infine, si candidò a Molfetta nel 1913 e dichiarò fin da principio d’esser sceso in lizza per poter meglio denunciare i «metodi giolittiani», mai pensando di poter essere eletto. Era sufficiente tenere a mente questi dati incontrovertibili per escludere che Il ministro della mala vita fosse stato scritto per il risentimento di un Salvemini trombato alle elezioni.

In ogni caso, le malignità di Ansaldo sarebbero forse passate pressoché inosservate se Benedetto Croce — che di Giolitti era stato ministro — nel salutare «acidamente» (scrive Bucchi) l’uscita del libro di Salomone non avesse rilanciato le insinuazioni di cui si è detto. Avvalorando la tesi secondo cui quello definito da Croce il «violento libello» salveminiano altro non era che il frutto avvelenato della sconfitta di Salvemini all’elezione di Molfetta. E adesso, secondo Croce, «dopo una quarantina d’anni», con quella prefazione al libro di Salomone il «crociato» Salvemini era costretto a «riconoscere d’avere sbagliato».

I rapporti tra Croce e Salvemini erano improntati da oltre un decennio alla reciproca diffidenza. Eugenio di Rienzo — in Benedetto Croce. Gli anni dello scontento 1943-1948 (Rubbettino) — ricorda quella volta in cui, incontrandosi a Parigi in casa Rosselli, Salvemini chiese a Croce di promuovere una raccolta di fondi presso gli industriali italiani per finanziare il movimento Giustizia e Libertà. Croce sostenne d’essere il meno adatto per un compito del genere e Salvemini reagì dicendogli: «Allora la borghesia merita di andare in fondo ad un pozzo!». Croce ne restò turbato e avrebbe ricordato in seguito: «Io per Salvemini ero diventato l’esponente della borghesia meridionale meritevole di affogamento!». Il banchiere amico di Croce Anton Dante Coda — nelle memorie dal titolo Un malinconico leggero pessimismo. Diario di politica e di banca (1946-1952) pubblicate nei Quaderni dell’Archivio Storico della Compagnia di San Paolo — riferisce che in uno di quegli incontri parigini Salvemini disse a Croce: «Se alla vostra libertà non unite qualcosa di concreto, nessuno vi capirà». Croce avrebbe reagito con parole gelide: «La libertà è un principio morale e non la fetta di pane di un sandwich a cui bisogna aggiungere il prosciutto e il formaggio». Secondo Coda, Salvemini imputava a Croce di essere rimasto in Italia e di non aver preso la via dell’esilio perché «amante dei suoi libri e del dialetto napoletano». Nel 1946, in un opuscolo dal titolo Che cosa è un liberale italiano (assai elogiato da Norberto Bobbio), Salvemini scrisse che Croce era diventato «il nume indigete del liberalismo italiano» e i liberali nient’altro che i «conservatori italiani» i quali portavano in giro Croce in Italia e all’estero «come se fosse il santissimo sacramento».

In una lunga assai celebre lettera inviata da Cambridge nel Massachusetts il 10 aprile del 1947 a Ernesto Rossi — che si può leggere nel carteggio tra i due dal titolo Dall’esilio alla Repubblica (Bollati Boringhieri) — Salvemini tornò ad accusare lo statista liberale: «Giolitti ai suoi tempi diceva che il popolo italiano era gobbo e lui non poteva fare a un gobbo che un abito da gobbo. E, certo il popolo italiano era gobbo. Ma Giolitti lo rese più gobbo che non fosse prima, invece di fare quanto sarebbe stato possibile per farne non dico un bel tipo diritto come un fuso, ma un gobbo meno gobbo di quello che egli aveva trovato». Per poi aggiungere parole amare sui propri compatrioti: «Sissignori, il popolo italiano non era famoso sotto Giolitti, diventò peggiore sotto Mussolini, ed è diventato peggiore in questi quattro anni di regime postfascista». Negli anni intercorsi tra il 1943 e il ’47 gli italiani sarebbero dunque peggiorati rispetto a quel che erano stati nel ventennio precedente. Un giudizio ancor più severo andava a colpire l’Italia liberale, il cinquantennio che aveva preceduto la Prima guerra mondiale.

Palmiro Togliatti

Ad assestare un ulteriore colpo a Salvemini fu un intervento del segretario del Pci Palmiro Togliatti (a Torino il 30 aprile 1950). Sergio Bucchi se ne era già occupato curando — sempre per Bollati Boringhieri — la riedizione del Ministro della mala vita. Il nodo essenziale per Togliatti, secondo Bucchi, «non risiedeva nella veridicità o meno dei fatti denunciati da Salvemini, vale a dire nella condotta elettorale giolittiana, quanto piuttosto nel comprendere come la contraddizione tra quella politica sostanzialmente democratica di Giolitti rivelasse il tratto specifico non di un uomo ma di un tempo e di un sistema». Ma, a conclusione del ragionamento, Togliatti non aveva rinunciato a colpire Salvemini parlando di «inconsistenza delle condanne dettate da pura ispirazione moralistica». Una stoccata destinata a lasciare il segno.

Anche con Togliatti Salvemini aveva un conto aperto. Innanzitutto, per essere stato e rimasto uno dei pochi ad essere ad un tempo antifascista e anticomunista. Poi per un fatto specifico. Tornato ad insegnare nell’Università di Firenze, nel discorso inaugurale per l’anno accademico 1949-1950, Salvemini ricordò d’aver avuto in quello stesso ateneo come «alunni ed amici» Nello Rosselli e Camillo Berneri: «il primo con suo fratello Carlo doveva essere assassinato nel 1937 da sicari francesi per mandato italiano… il secondo doveva essere soppresso in Spagna dai comunisti nel 1937». Su «Rinascita» Togliatti, con lo pseudonimo Roderigo di Castiglia, accusò Salvemini di aver divulgato una «tra le più infamanti calunnie della libellistica anticomunista».

Salvemini, secondo Gaetano Arfé all’epoca impegnato ad aiutarlo a raccogliere gli scritti sulla questione meridionale, non restò indifferente alle parole di Croce e Togliatti. Disse, riferì Arfé, che «in un Paese dove anche i comunisti diventavano, in veste di storici, crociani e giolittiani in politica, l’antigiolittismo era sempre attuale e andava propinato in dosi massicce». Sostenne nel 1952 Gaetano Salvemini che se tra Giolitti e Mussolini poteva esser rilevata una differenza, questa era stata «in quantità e non in qualità». «Giolitti fu per Mussolini quel che Giovanni il battezzatore fu per Cristo: gli preparò la strada». Fu Giolitti — sempre secondo Salvemini — a ridurre le elezioni a quel che Mussolini avrebbe definito «ludi cartacei». Poi Salvemini provò a dividere Croce da Togliatti: «Chi accetta le istituzioni rappresentative — se le accetta sul serio — non ha il diritto, come fa Benedetto Croce, di passare innanzi ai metodi con cui Giolitti faceva a suo tempo le elezioni ignorandoli o negandoli… La posizione di Togliatti è logica, quella di Benedetto Croce è assurda: peggio che assurda, è equivoca».

Sostanzialmente Salvemini aveva tutte le ragioni nel rintuzzare le ricostruzioni dei fatti di Gioia del Colle di Ansaldo e Croce. Ma, rianalizzata alcuni decenni dopo, la sua tesi — che tra Giolitti e Mussolini ci fosse stata una differenza «di quantità» e non «di qualità» — non regge. Altrettanto lunare è la tesi per cui, quattro anni dopo la caduta del fascismo (e due dopo la fine della guerra), il popolo italiano fosse peggiorato. È un limite di molti intellettuali italiani quello di voler difendere, al di là di ogni evidenza, tesi che hanno sostenuto in passato. Accadde a Salvemini tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta. Era capitato ad altri prima di lui. Capiterà ancora.

 Gaetano Salvemini, primo da sinistra, con Luigi Einaudi, al centro, e Ferruccio Parri, in piedi.

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LA FORTEZZA DEL RISORGIMENTO A BRESCIA

23/01/2023 da Sergio Casprini

 Ingresso al castello di Brescia

Nel castello sul colle Cidneo si trova il Museo del Risorgimento che ha rinnovato radicalmente le raccolte storiche con il racconto dell’epopea della Leonessa d’Italia da Napoleone alle Dieci Giornate, dall’impresa dei Mille all’unità del Paese.

Valerio Terraroli Sole 20 ore domenica 22 gennaio 2023

Rivoluzione, Dissenso, Insurrezione, Guerra, Unità, Partecipazione, Mito, Eredità: otto parole, otto concetti cardine che appartengono alla nostra storia e alla nostra cultura, ma che sono profondamente innervate nella contemporaneità globale. Otto termini che scandiscono le sezioni di un racconto che si dipana naturalmente, leggero e profondo allo stesso tempo, nel rifondato Museo del Risorgimento di Brescia che riaprirà al pubblico il 29 gennaio.

Si tratta di uno degli interventi più significativi, e anche di grande carica simbolica e ideale, dell’anno di Bergamo e Brescia Capitale della Cultura, sia perché risarcisce la città di un pezzo importante della sua storia civile e politica, dando quindi un ulteriore senso a quell’idea di museo diffuso di cui la città è parte integrante, che dall’area archeologica del Capitolium al complesso di Santa Giulia a Piazza della Loggia testimonia la millenaria storia di Brescia, sia perché la riapertura nell’edificio del Grande Miglio del Museo del Risorgimento rivitalizza ulteriormente il grande progetto di Fondazione Brescia Musei relativo alla riqualificazione del Castello sul colle Cidneo come complesso museale, parco pubblico, luogo delle memorie civiche e storiche, spazio per la contemporaneità.

Il museo, nato con delibera comunale nel 1887, con l’obiettivo, attraverso la raccolta, la conservazione e l’esibizione di documenti, manufatti, oggetti d’arte, di consolidare la memoria cittadina sui processi e gli avvenimenti che avevano portato all’unità d’Italia, aveva trovato collocazione nel Castello nel 1959. Per ragioni legate a nuove visioni della storia e a riflessioni sul senso dei musei storici è stato effettuato, negli anni Duemila, il progressivo smantellamento del museo, privilegiando esposizioni temporanee su temi specifici dell’epopea risorgimentale, fino a una totale chiusura nel 2015. Dal 2020 Fondazione Brescia Musei ha impegnato il Comitato scientifico e il proprio staff scientifico nel ripensamento radicale di quello spazio e di quel patrimonio museale dando vita a un progetto innovativo, multidisciplinare, per certi aspetti audace, con l’intendimento di parlare al pubblico più largo possibile, agli adulti come ai ragazzi in età scolare, ai cittadini come ai turisti, attraverso la messa a punto di media diversi, ma con la volontà di dare il giusto risalto al patrimonio museale esistente.

Non ci si deve aspettare, dunque, un percorso didascalico basato su luoghi comuni, né una partizione cronologica per battaglie ed eroi, né una mitizzazione autoreferenziale di personaggi, episodi e avvenimenti, né, tanto meno, un’esclusiva narrazione della storia del Risorgimento italiano; al contrario, la scelta forte compiuta dal Comitato scientifico e dai curatori, sostenuta con profondo convincimento dal direttore Stefano Karadjov, dalla presidente Francesca Bazoli e dal consiglio di Fondazione Brescia Musei, così come dalla Giunta comunale, è stata quella di estendere l’orizzonte storico, culturale e ideale del museo per ancorarlo indissolubilmente alla città di oggi e al sentire contemporaneo.

Ecco, dunque, la scelta delle otto parole chiave, divenute nel percorso le otto sezioni in cui si muovono i visitatori e, come si diceva in esordio, otto termini che ci riguardano da vicino e che sono strettamente connessi all’attualità e alla cronaca quotidiana: dalle legittime proteste in Iran alla guerra in Ucraina, dal dramma dei migranti ai valori fondativi delle democrazie, che vanno difesi strenuamente proprio conoscendone le origini e le storie.

L’avvio del racconto si innerva su Napoleone e la caduta degli antichi regimi, sulla Repubblica bresciana (1797) fino al congresso di Vienna (1815) e all’avvio della dominazione austriaca. Da qui in poi la scansione degli avvenimenti si muove sul doppio registro delle ricadute locali, in particolare l’episodio eroico delle Dieci Giornate, i giovani bresciani che parteciparono all’impresa dei Mille, le battaglie di Solferino e San Martino, il mito di Garibaldi e dei protagonisti dell’unità d’Italia, e della cornice politica nazionale e internazionale esperibile attraverso una calibrata e intelligente distribuzione di strumenti multimediali che, a dispetto di quanto ci si potrebbe aspettare, non prevaricano né distraggono il visitatore da una personale scelta di visita, né da un rapporto visivo, forte e coinvolgente, con i manufatti e le opere d’arte che sono il vero sostegno e senso del museo e in cui brillano opere di Appiani, Sala, Joli, Beaucé, Bouvier, Inganni, Ghidoni, Zanelli, Glisenti, Wildt. Al contrario, la documentazione visiva e documentaria fornita in ogni sezione è rigorosamente selezionata, utile e ricca e, con l’ausilio delle letture di testi letterari, cronachistici e politici fatte giovani da attori e attrici di teatro, si accende l’empatia con i protagonisti di quella storia e si consolida la comprensione di quegli accadimenti e del loro senso.

In realtà, non è tanto uno schema di percorso, quanto l’emozione che guida lo spettatore, coadiuvata dalla curiosità di scoprire la continuazione di quella storia di popoli raccontata senza retorica e autocelebrazione poiché la narrazione prosegue concentrandosi sui complessi problemi sociali, culturali ed economici della raggiunta unità, aprendo anche la strada del consolidarsi del mito risorgimentale e della sua eredità: dai memorabilia garibaldini al diffondersi dell’iconografia di Garibaldi, Mazzini, Cavour, Vittorio Emanuele II, fino alla costruzione del Vittoriano di Roma e alla figura di Giuseppe Zanardelli e al primo conflitto mondiale. Il percorso si chiude, da una parte, con l’ascesa di Mussolini e l’uso strumentale che il regime fece del Risorgimento a partire dalla diffusione dei monumenti ai caduti quale ulteriore legittimazione del fascismo inteso come «atto conclusivo e necessario» dell’epopea risorgimentale, dall’altro con la Resistenza e la nascita della Repubblica. Le ultimi immagini riguardano i funerali delle  vittime della strage neofascista di Piazza della Loggia (28 maggio 1974), intesi quale simbolo di unità e di partecipazione durante i quali vennero richiamate le Dieci Giornate e i valori risorgimentali di libertà, unità e giustizia.

 Ma il racconto non si conclude qui. Uscendo, il complesso del Castello, la Salita della memoria, le pietre di inciampo ci accompagnano nuovamente fino a Piazza della Loggia e, se si volesse, fino al Cimitero Vantiniano tessendo un filo profondo e resistente che ci può fare da guida, e sostegno consapevole, alla comprensione di chi siamo oggi.

Nella sezione dedicata al Dissenso è ricostruito un salotto politico del Risorgimento

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ST. JAVELIN

17/01/2023 da Sergio Casprini

 25 novembre 2022/ al 29 gennaio2023 Museo del Novecento Firenze

Aperta in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, la mostra rinnova l’impegno del Museo Novecento contro la discriminazione di genere attraverso questo progetto dal titolo ‘St. Javelin’, l’ultima serie fotografica di Julia Krahn, in cui l’artista invita le donne ucraine rifugiate a raccontarsi con immagini e interviste.

Al centro un’immagine nata e diffusa durante la guerra in Ucraina che raffigura la Madonna con in braccio un missile anticarro, lo ‘javelin’, simbolo della resistenza. La nuova iconografia di una madre armata ribalta quella di Maria che sostiene in braccio suo Figlio, richiamando alla mente la morte e la violenza più che la vita e l’amore.

 Nel loggiato esterno del museo sono installate dieci bandiere con i ritratti di donne ucraine rifugiate, sorta di icone laiche.

Una seconda installazione è nel loggiato interno al primo piano del museo, dove è stata esposta la serie ‘Die Taube’, che presenta otto fotografie stampate su carta per affissione (affiches) e riprodotte in grande formato sul tema sacro dell’Ultima Cena.

Julia Krahn è nata in Germania. Per dedicarsi completamente alla fotografia, nel 2000 lascia la facoltà di medicina all’Università di Friburgo e si trasferisce a Milano dove nel 2001 inizia a collaborare con la Galleria Magrorocca. Nel 2003 inaugura la sua prima personale Schatten(ombra) e Von Gaensenund Elefanten (di oche e elefanti.  Tra le ultime mostre nel 2017 realizza per ArtOnTime la performance OBLIO –ne me quite pas, presentata a Venezia, Palazzo Trevisan e infine a Roma al Palazzo delle Esposizioni.

Informazioni:

Orario: tutti i giorni 11-20, chiuso giovedì.

Firenze – Museo Novecento, Piazza Santa Maria Novella, 10

Info: 055.286132 – www.museonovecento.it

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IL RITRATTO DEL COLONNELLO ARESE LUCINI IN CARCERE

02/01/2023 da Sergio Casprini

Il 2023 comincia per gli Uffizi di Firenze con una nuova, importante acquisizione. È in mostra, a partire dal 1gennaio, il Ritratto del Colonnello Arese Lucini in carcere, dipinto di Francesco Hayez che ritrae il conte e militare napoleonico, poi coinvolto nei moti risorgimentali Francesco Teodoro Arese Lucini.

Dopo la prima tappa nel museo fiorentino, l’opera viaggerà per tutta la Toscana dove sarà esposta in molti comuni della regione, fino ad approvare alla sua sede definitiva: la Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti.

Datata 1828, l’opera fu commissionata dallo stesso conte, dopo i tre anni di carcere nella fortezza dello Spielberg (lo stesso che ispirò Le mie prigioni di Silvio Pellico, per aver partecipato ai moti di Milano nel 1821. La storia dell’opera ha il sapore della mossa politica e non a caso fu scelto il massimo esponente della pittura risorgimentale, Francesco Hayez per realizzarlo. Condonato dalla pena di morte, per aver rivelato in sede processuale i segreti della congiura antiaustriaca di Fedele Confalonieri, Arese Lucini cercava attraverso la committenza della tela di riscattare la propria identità attraverso la propria immagine di sofferenza e patriottismo. Non a caso, con un gesto pittorico rivoluzionario, Hayez ritraeva l’uomo in panni nobiliari, ma con le catene ai piedi, con una scelta artistica inedita fino ad allora.

ARTRIBUNE

Redazione 1° gennaio 2023

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Auguri per un felice 2023 e per la libertà e la democrazia nel mondo

01/01/2023 da Sergio Casprini


Bombardamento russo sull’ospedale di Mariupol in Ucraina

L’anno appena concluso si apre con il drammatico scenario di una guerra in Europa e con gravissime violazioni dei diritti umani in vari paesi, in particolare nei confronti delle donne.
Il 24 febbraio 2022 l’inizio dell’aggressione russa dell’Ucraina, in patente dispregio del diritto internazionale, ha aperto la strada a una spaventosa serie di crimini contro la popolazione e a una sistematica distruzione del paese invaso. La valorosa resistenza del popolo e dell’esercito ucraini ha impedito che l’invasione si risolvesse rapidamente in una sostanziale annessione del paese, con l’installazione a Kiev di un governo vassallo di Mosca. Anzi, come sappiamo, negli ultimi mesi l’esercito russo ha dovuto ritirarsi da ampie zone conquistate nella prima fase dell’invasione.
Il dramma dell’Ucraina ha infranto l’illusione europea di aver acquisito in modo definitivo la pace e impone alle democrazie, che stanno sostenendo gli aggrediti in modo quasi unanime (anche a costo di sacrifici non da poco), un ripensamento su come difendere il proprio modo di vivere. Come si chiede in un recentissimo libro il politologo Vittorio Emanuele Parsi, “qual è il costo che siamo disposti a pagare per essere liberi?”
Alla guerra in Ucraina si è recentemente affiancata quella dichiarata al proprio popolo dalla teocrazia iraniana. Da quasi tre mesi, a partire dalla morte della ventiduenne Mahsa Amini, fermata e arrestata dalla polizia morale perché non indossava correttamente il velo, le città iraniane sono state animate da folle di donne e di uomini che rifiutano le costrizioni imposte alle loro esistenze. “Donna, vita, libertà” è lo slogan scandito nelle piazze e nelle strade dell’Iran, ma anche in moltissime città dei paesi democratici. Lo stato teocratico iraniano ha represso in questi mesi violentemente le manifestazioni, sparando sulla folla, imprigionando, torturando e stuprando migliaia di giovani e comminando pene capitali.
Il quadro della soppressione per legge delle libertà civili e politiche è ancora più impressionante, e da molto tempo, in Afghanistan Nell’agosto del 2021 i talebani hanno di nuovo assunto il controllo dell’Afghanistan e da allora sistematicamente stanno violando i diritti delle donne e delle bambine all’istruzione, al lavoro e alla libertà di movimento, azzerando il sistema di protezione e sostegno per le donne che fuggono dalla violenza domestica, arrestando donne e bambine per minime infrazioni a norme discriminatorie e contribuendo all’aumento dei matrimoni forzati e precocissimi. Di recente il ministro dell’Istruzione superiore ha introdotto il divieto a tempo indeterminato dell’istruzione universitaria per le ragazze
L’anno nuovo nasce quindi al momento senza favorevoli auspici per la libertà e i diritti dei popoli nel mondo. E però l’Occidente democratico, pur con molte contraddizioni, non solo mantiene al suo interno il principio-cardine dello Stato di diritto, ma si è dimostrato capace di difendere con i fatti un popolo oggetto di aggressione da parte di un regime che del diritto ha fatto strame.
E’ stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora. La battuta paradossale di Wiston Churchill non dovrebbe però indurci a pensare che la democrazia sia strutturalmente difettosa. Proprio in quanto progetto di società aperta, deve ovviamente tenere conto di molteplici esigenze, diritti e condizioni oggettive presenti in un dato contesto storico. Si tratta quindi non di difetti, ma di limiti che la realtà oppone alla piena attuazione di un progetto, di cui è parte costitutiva la capacità di correggersi e di migliorare. Cosa quasi del tutto preclusa agli stati totalitari, in cui è vietata la discussione pubblica e la libera competizione di diverse forze politiche. Invece, questa “peggior” forma di governo garantisce pluralismo di pensiero e di opinione e tutti coloro che dissentono possono manifestare anche contro le leggi e il governo del loro paese; e se le proteste escono dai binari della legalità, devono venire represse dalle forze dell’ordine entro i limiti stabiliti dalle leggi.
Tra gli auguri che dobbiamo farci per il 2023, c’è anche quello di una scuola che prepari meglio alla democrazia le nuove generazioni. Non con le prediche, ma fornendo una preparazione culturale che renda i futuri cittadini in grado di comprendere i problemi su cui saranno chiamati a scegliere con il voto e abituandoli con saggia fermezza al rispetto delle regole, cioè delle persone, delle cose e delle idee altrui.
E per ritrovare quell’idealismo che dia forza alle proteste e le componga, come è successo negli anni del Risorgimento e della Resistenza al Nazi-fascismo, in un intreccio internazionale che superi le differenze, gli individualismi, le paure, gli egoismi, per la costruzione di un comune futuro di libertà e di pace.

Sergio Casprini

La scacchista iraniana che ha gareggiato in Kazakistan senza indossare il velo

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Il PASSATORE, mito della Romagna

26/12/2022 da Sergio Casprini

Massimo Ragazzini

Gianni Morelli, scrittore ravennate, dedica un capitolo del suo recente libro, Farfalle irrequiete, al mito del Passatore, nome con cui è noto il bandito Stefano Pelloni.

Pelloni nacque il 4 agosto del 1824, ultimo di dieci figli, a Boncellino, borgo sulla riva sinistra del fiume Lamone, frazione del comune di Bagnacavallo. I genitori, Girolamo e Maria Francesca Errani, erano contadini in proprio che arrotondavano le risorse del podere con l’esercizio del traghetto. Mancando il ponte, infatti, una barca collegava le due sponde del Lamone all’altezza del paese. I Pelloni ne guadagnarono il pubblico appalto nella prima metà del Settecento e, con il mestiere, il soprannome di ‘passatori’.

La sua carriera criminale, ci ricorda lo storico Dino Mengozzi, iniziò a diciotto anni, nel settembre 1842, con un furto di fucili a danno di alcuni braccianti. Arrestato dalla colonna mobile di Russi il 10 ottobre 1843 e rinchiuso nelle carceri locali, Pelloni evase un mese dopo. Ripreso dai carabinieri, il minorenne fu incarcerato a Bagnacavallo e infine a Ferrara, ma con alcuni complici scappò ancora due volte. La prima il 29 gennaio 1844; percorsi pochi tratti di strada, fu riconsegnato alla prigione da un muratore, al quale egli avrebbe poi fatto pagare con la vita quel gesto di civismo. La seconda durante la traduzione ai lavori forzati presso il porto di Ancona, cui era stato condannato dal tribunale di Ferrara. Da quei primi di agosto del 1845 non sarebbe più uscito dalla clandestinità, fino alla morte. Datosi alla macchia, formò una banda che per anni seminò il terrore nel territorio delle Legazioni, commettendo rapine di strada, specie a danno di contadini del Lughese e dell’Imolese, violenze, sequestri di persone, audaci assalti di diligenze. Un salto di scala si ebbe dal 1849, nel pieno della crisi politica dello Stato pontificio: iniziarono allora gli assalti alle città romagnole, di piccole e medie dimensioni (Bagnara, Cotignola, Castel Guelfo, Brisighella, Longiano, Consandolo, Forlimpopoli). A seguito di una soffiata, Pelloni e il compagno Giazzolo la mattina del 23 marzo 1851 furono circondati da una pattuglia di militari mentre si trovavano in un capanno venatorio vicino a Russi. Giazzolo riuscì a fuggire. Pelloni, invece, raggiunto da una fucilata cadde e, mentre tentava di rialzarsi, fu definitivamente abbattuto con un colpo alla nuca.

Ma morto Pelloni, viveva il Passatore. Nonostante la carriera di efferato criminale, la sua memoria non ne fu pregiudicata. Fu trasformata in mito positivo da un gran numero di romanzi da bancarella, dal teatro dei burattini e delle marionette, da racconti e saggi, da canzoni e poemetti, dalle narrazioni orali e infine dal cinema. Intorno al suo nome fiorirono molte leggende, tra le quali Giovanni Pascoli raccolse quella del “Passator cortese”, ovvero di un personaggio generoso protettore dei poveri e riparatore delle ingiustizie sociali.

Morelli conferma che nessuna lettura, per quanto benevola, delle carte d’archivio può fare del Pelloni qualcosa di diverso da un brigante. L’autore cerca quindi di individuare quali possano essere state le origini del mito, a lungo protrattosi, del Passatore. “L’inizio del mito – scrive Morelli – coincide sempre con la morte dell’eroe e lo eleva a simbolo privilegiato e trascendente della propria comunità”. Di fronte al numero preponderante di militari, Pelloni, anziché restare nel capanno e sparare dal coperto, preferì tentare il tutto per tutto: uscì, si espose ai colpi e incontrò “una morte all’altezza della sua fama”.

Morelli sostiene che una chiave di spiegazione è la situazione sociale della Romagna. Siamo nel periodo di agonia del potere temporale della Chiesa, la povertà è diffusa, le imposte sono ritenute intollerabili. E spesso alle richieste di soccorsi le autorità rispondono con cariche di truppa. “Una seconda chiave – scrive l’autore – la chiamerei il ‘ribellismo’ di Stefano Pelloni”. Secondo alcuni biografi la sua prima condanna avvenne per un reato colposo e si basò sulla testimonianza di un sacerdote. In un romanzo del 1929, Bruno Corra pensa a un Pelloni pieno di odio per gli ecclesiastici perché perseguitato dal parroco di Pieve Cesato, don Morini, a causa del suo rifiuto a entrare in seminario. Il mito del Passatore si strutturò quindi con un forte accento anticlericale, grazie anche a un’anonima Rapsodia o storia di Stefano Pelloni, pubblicata nel 1862. Secondo questa trama biografica il Passatore fu indotto al malaffare dalla lussuria di un prete che gli carpì con l’inganno la ragazza di cui era innamorato.

L’ultima chiave alle origini del mito è la romagnolità ai tempi del Passatore. Una romagnolità, scrive Morelli, che comportava “possedere e manifestare in modo eccessivo, straripante e irrefrenabile, il bene e il male, i vizi e le qualità”. E che spesso comportava anche una resistenza tenace alle forze dell’ordine, prima a quelle papaline, poi a quelle nazionali. Una resistenza che assumeva particolari aspetti, combinandosi “con uno spirito individualista che non tollerava organizzazione né gerarchie”.

Nell’ultima parte del capitolo l’autore descrive puntualmente l’invasione di Forlimpopoli del 25 gennaio 1851. La tattica fu analoga a quella dei precedenti assalti alle città. Penetrati entro le mura urbane e messo fuori gioco il presidio della forza pubblica, i briganti presero in ostaggio i cittadini più facoltosi che si trovavano nel teatro e i cui nomi avevano già provveduto a elencare in un foglietto in base alle dritte fornite da gente del posto. I sequestrati vennero quindi usati come scudi per penetrare nelle loro abitazioni, nelle quali i briganti arraffarono di tutto, dalle monete ai preziosi, agli oggetti di valore, ai vestiti. Portarono poi il bottino su di un tavolo addossato al palcoscenico del teatro, facendo dunque sfoggio, pubblicamente, della ricchezza accumulata. Due mesi dopo, un malloppo di 1500 scudi fu rinvenuto, non a caso, sul corpo esanime del Passatore.

GIANNI MORELLI: Stefano Pelloni, detto il Passatore, mito di Romagna, in Farfalle irrequiete, Società Editrice “Il Ponte Vecchio”, Cesena, 2022, pp. 21-36

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È GIUSTO CHE DANTE RIPOSI A RAVENNA

23/12/2022 da Sergio Casprini

La tomba di Dante a Ravenna

LETTERE AL CORRIERE DELLA SERA

23 dicembre 2022

Caro Aldo, mi chiedo come mai Firenze e i fiorentini non rivendichino il diritto e non avvertano il dovere di reclamare le ceneri di Dante. Sarebbe, a mio parere, il reclamo dei reclami e la traslazione delle traslazioni. Ravenna permettendo, Firenze avrebbe una ragione in più (e che ragione!) di attirare orde di visitatori. Non quelli con la consueta bottiglietta di minerale in mano, bensì quelli con la Divina Commedia in mano. Mansueto Piasini

Caro Mansueto, Io invece trovo giusto che Dante riposi a Ravenna, dove fu accolto e dove morì. A Firenze tutto parla di lui; non serve aggiungere un sarcofago per alimentarne la memoria. Tutti giustamente collegano Dante alla sua città, da cui trasse la lingua viva che parliamo ancora adesso. Ma Dante è anche il grande poeta della nazione italiana. Per lui l’Italia non era uno Stato (credeva nell’Impero, l’Europa di allora); era un patrimonio di idee, valori, bellezza, cultura. Dante ha vissuto a lungo in Romagna, e l’ha amata.

E la Divina Commedia è anche un viaggio in Italia. Dante descrive posti che conosce bene, come la Romagna: c’è un dannato, Guido da Montefeltro, che gli chiede notizie della Romagna, e Dante gli fa una rassegna delle città romagnole, Ravenna, Rimini, Cervia, Forlì, Faenza, Cesena, Imola, che comincia così: «Ravenna sta come sta è molt’anni»; a Ravenna non cambia mai nulla. Ma Dante descrive con altrettanta maestria anche posti in cui non è mai stato. Come la Sicilia, che ama perché è la terra della poesia, della scuola siciliana: la chiama la bella Trinacria, descrive l’Etna — lo chiama Mongibello, con il nome arabo con cui ancora adesso lo chiamano i siciliani —, e lo stretto di Messina, Scilla e Cariddi. Dante traccia proprio i confini d’Italia. Lo fa nel decimo canto, quello di Farinata degli Uberti. Qui sono puniti gli eretici, chiusi dentro sepolcri. Per dare un’idea del paesaggio infernale, Dante lo paragona a due sepolcreti. Uno ad Arles, in Provenza, ai confini occidentali dell’Italia, sorto secondo la leggenda in una notte per dare sepoltura ai cavalieri cristiani caduti combattendo contro gli infedeli.

L’altro a Pola, nel golfo del Quarnaro, «che Italia chiude e i suoi termini», i suoi confini, «bagna». Questo è un verso citato da generazioni di irredentisti: trentini, triestini, giuliani, istriani, dalmati, che erano sudditi austriaci ma italiani di lingua e di cuore, e si battevano per innalzare statue a Dante, e per aprire scuole italiane da intitolare a Dante. Aldo Cazzullo

IL cenotafio di Dante a Santa Croce a Firenze

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I Garibaldi dopo Garibaldi

20/12/2022 da Sergio Casprini

La terza generazione e le sfide del Novecento

A cura di Zeffiro Ciuffoletti, Annita Garibaldi Jallet, Alberto Malfitano

«I Garibaldi dopo Garibaldi. La terza generazione e le sfide del Novecento è un volume coraggioso, per nulla celebrativo o conciliante, che affronta con precisione, equilibrio e senza timori reverenziali nodi assai delicati. I saggi si concentrano sulla terza generazione, quella dei nipoti di Giuseppe e Anita […] rispetto alle cui vicende è però impossibile prescindere dalle scelte del padre Ricciotti e dalla lettura che egli diede della tradizione garibaldina con tutte le ricadute pubbliche e private che ne conseguirono. E in effetti, superando vuote rappresentazioni eroicizzanti (e in fondo disumanizzanti), la dimensione privata e familiare entra a pieno diritto nelle pagine che seguono, non quale nota di colore o dettaglio aneddotico, ma come una delle chiavi di lettura di scelte politiche e come sostanza profonda, insopprimibile, nei percorsi di chiunque si sia trovato a vivere esposto alla bufera delle tragedie e delle lotte del Novecento italiano, europeo, globale». Dall’Introduzione di Eva Cecchinato

Editore LE LETTERE

Anno    2022

Pag.      396

Euro     € 38,00

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VASTO

11/12/2022 da Sergio Casprini

In visita ai luoghi dell’esule Gabriele Rossetti

Luca Bergamin

Sole 24 Ore  Il Domenicale 11/112/2022

Qualcuno si tuffa ancora tra lo scoglio su cui si lascia ammirare la silhouette bronzea della Sirenetta, qui chiamata La Bagnante, e le vestigia del porto dell’antica Histonium. Riemergendo dall’Adriatico quasi sempre cheto, lo sguardo coglie, lassù sulla collina, la sagoma di Casa Rossetti, ricostruita 70 anni fa e già Biblioteca Comunale, dalla quale si è dipanata un’avventura doppia nella storia della poesia e dell’arte. Essa è assisa su quella Loggia Amblingh che rappresenta la balconata-belvedere più emozionante e scenografica sulla costa marchigiana, sugli ulivi che digradano verso l’azzurro liquido.

Casa Rossetti

Anche Gabriele Rossetti era solito affacciarsi per cogliere ispirazioni per le sue poetiche: guardava il Gargano quando si concedeva alla vista, e persino le Isole Tremiti remote eppure geograficamente così vicine come del resto i rugosi rilievi del dirimpettaio Molise. La loggia perpetua il nome di Guglielmo Amblingh, austriaco segretario di quel Cesare Michelangelo d’Avalos che abitava l’altro iconico Palazzo, appunto d’Avalos, capace più di tutti di scandire lo skyline medioevale di Vasto in cui la quattrocentesca Porta Santa Maria affacciata ad oriente sulle antiche mura di questa città di collina e mare, dall’arco a sesto acuto sormontato da una loggetta di pregevole fattura, pare una cornice sul paesaggio.

Porta Santa Maria

Insomma, un belvedere lirico in cui era solito indugiare Gabriele Rossetti. Nato 140 anni fa, si appassionò alla Divina Commedia durante i propri studi a Napoli, dedicando molti saggi critici all’opera dantesca, ma la sua adesione ai moti liberali carbonari del 1821 che scatenarono la durissima reazione di re Ferdinando I spalleggiato dagli austriaci, lo obbligò a fuggire dall’Italia e quindi anche da Vasto. Avrebbe riparato prima sull’isola di Malta e poi a Londra: nella capitale inglese si guadagnò da vivere e scrivere all’inizio dando lezioni private, sino a ottenere un incarico ufficiale al prestigioso King’s College. Fu proprio la stabilità finanziaria a ridargli quella spensieratezza che gli permise di riprendere l’attività poetica. Nelle raccolte intitolate Iddio e l’uomo, Il veggente in solitudine, e l’Arpa evangelica, composte a metà dell’800, emergono gli ideali patriottici, e si è resi partecipi dei sentimenti verso la terra natia. Quegli afflati aleggiano nelle stanze di quello che adesso è il Centro Europeo di Studi Rossettiani, dedicatosi negli ultimi decenni con profonda partecipazione alla riscoperta della figura di Gabriele Rossetti e della sua opera, impiegando anche documenti scovati nell’Archivio di Stato di Napoli, in particolare dai rapporti redatti dalle spie segrete della Polizia borbonica, che lo pedinavano.

E viene inevitabile, in queste sale, in particolare in quella della Biblioteca, intuire un’influenza di queste atmosfere negli scenari rarefatti, eterei che pervadono le celeberrime tele di Dante Gabriel Rossetti, secondogenito dell’esule vastese e di Francesca Maria Lavinia Polidori, figlia di quel Gaetano Polidori, che fu segretario particolare di Vittorio Alfieri, costretto anch’egli a lasciare il nostro Paese.

 

Vasto. Monumento a Gabriele Rossetti

 

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La coscienza ecologica tra passato e presente

07/12/2022 da Sergio Casprini

Rossella Fioretti

Non sono passate ere geologiche, da quando, in ogni casa, un logico ed assennato senso del risparmio (….concetto che una volta era condiviso, supportato e promosso dalle stesse pubbliche istituzioni, che nelle scuole dell’obbligo insegnavano l’ “economia domestica” ed avevano istituito la Giornata del Risparmio e diffuso, sui periodici per i ragazzi, ripetute immagini e riferimenti alle virtù  dei salvadanai….), si traduceva in pratiche coerenti con l’idea di non buttare ciò che può ancora essere utilizzato, per non spendere in riacquisti. Forse anche il tristo e triste periodo dell’autarchia fascista e delle estreme ristrettezze del tempo di guerra (1940/1945), avranno contribuito a formare le generazioni di cittadini-risparmiatori del dopoguerra.

Ma mentre nei secoli andati ci si evolveva aggiungendo il capire presente al sapere passato, serbando la traccia delle esperienze precedenti, coi modi attuali si è assistito all’ effetto “cimosa” su usi e mentalità della gente: in una generale rimozione di vari elementi di crescita fra cui i princìpi di prudenza e senso pratico. All’origine forse qualcuno poteva mettere una zeppa di saggezza, al nuovo modo di usare beni e risorse. Ma poi, si sa, tutti i settori rinnegano presto ogni propria etica e buonsenso, di fronte alle prospettive di facili opportunità, guadagni e poteri.

Così si è smesso di raddrizzare le bullette usate, di avere lampadari con una sola lampada, di riciclare vestiti e libri scolastici, ecc. Non si sta neanche tanto a pensarci: è una cosa ormai vecchia? Non più di moda? Non mi piace più. La butto via.  Un regalo, un libro, le foto dei nonni…. Via! Via: tutto nel trinciatoio delle ultime generazioni, poco avvezze tanto all’affezione ed al “ricordo”, quanto al rallentare il pensiero, (per non correre il rischio di riflettere, dubitare, provare la…diseconomica zavorra dei sentimenti). 

Presto, dunque, eliminare! Per svuotare armadi, cassetti, cantine, appartamenti…. e le anime e le menti, si è corsi a gettare tanti “bambini, insieme all’acqua sporca”, ed è alla vacuità dei “dentro” che corrispondono, probabilmente, le enormi masse di rifiuti che si ritrovano in ogni “fuori”. Oggi, a seguito della crisi energetica, come fossimo alla campanella di ‘fine-ricreazione’, sento lanciare tenui appelli istituzionali al fine di indurre i cittadini (senza più l’educazione della memoria storica), a più accorti e risparmiosi stili di vita. Ci vorrà altro per tornare a non far sprecare le risorse: (ri)fondare una capillare coscienza ecologica. Ci vorrebbe un brutale azzeramento delle superfluità energivore: insegne pubblicitarie luminose, luminarie eccessive, “notti bianche”, i motori degli automezzi e delle macchine da lavoro accesi da fermi senza costrutto, le scelte di obsolete grandi opere pubbliche che incrementano la cementificazione e la distruzione del verde……

Potrei continuare a lungo.Vedo troppo cinismo, a padroneggiare le decisioni politiche ed economiche. E la gente comune, che pur ha il vantaggio numerico delle masse, resta imbelle, o inerme, a subire gli indirizzi distruttivi dei grandi “timonieri”. Ultimamente, dopo le (prime) prove tremende dei disastri per siccità e alluvioni, ma soprattutto coi rincari dovuti al conflitto russo-ucraino, la sensibilità ecologica, si sta sempre più diffondendo, fra la gente (vedi i mercatini del riuso) e si cerca di “istituzionalizzarla” e regolamentarla (vedi raccolta differenziata dei rifiuti, riconversione industriale, ecc.), ma il movimento di Greta Thunberg pur imponente nel mondo, viene in sostanza ancora sbeffeggiato ed oscurato dai poteri forti ed i “giganti” che si riuniscono per decidere misure draconiane salvapianeta, alla fine partoriscono “un topolino” di risoluzioni senza forza attuativa, spesso disattese dai Paesi. E il mondo seguita ad essere sempre più saturo di inquinamento e sempre più insufficiente di risorse essenziali per vivere.

Chi difende l’ambiente e il suo (nostro) futuro è, in genere, pacifico.  E resta sempre frustrato dai risultati concreti dei vertici internazionali sul clima. Così qualcuno, fra i giovani attivisti ambientalisti, ha deciso un “salto” nella modalità comunicativa, per incidere sulle coscienze assuefatte, torpide, rassegnate, indifferenti, di cittadini e potenti: ed ha inventato gli attacchi al patrimonio artistico. Al di là dello sdegno che tali atti suscitano nell’immediato, credo che convenga di più cogliere questo estremo “grido di dolore”, per riflettere ed agire presto, sia a livello individuale che collettivo, al fine di arrestare le nostre condotte sbagliate, i condizionamenti scellerati su cui lucrano le multinazionali, i commerci dominati da logiche spregiudicate, antidiritti,  antiecologiche. antifuturo.

Smettiamo di perseguire solo cieche comodità e benessere: equilibriamo le risorse e le opportunità, spengiamo i conflitti, invece di attizzarli di continuo. Smettiamo di confonderci dietro alle “bibbie del diavolo” (quelle economico-politiche) che non fanno che incrementare patologiche opulenze e disumane povertà. Torniamo a farci illuminare il cammino dalla Storia, da una sana libertà di pensiero e di coscienza.

In che altro modo si può salvare, la Terra e chi ci vive?

 

Un gruppo di ambientalisti ha lanciato  della vernice sulla facciata del Teatro alla Scala  a Milano in occasione della festività di Sant’Ambrogio  con   la  rappresentazione dell’opera lirica Boris Godunov

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