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Risorgimento Firenze

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Sergio Casprini

Perché si celebra il Giorno del Ricordo

10/02/2023 da Sergio Casprini

Dino Messina Corriere della Sera 10 febbraio 2023

Adriatico amarissimo, slogan coniato da Gabriele d’Annunzio, è stato scelto da Raoul Pupo, il maggiore storico delle vicende novecentesche sul confine orientale dell’Italia, come titolo del libro che esce in edicola venerdì 1° febbraio con il «Corriere», al prezzo di 9,90 più il prezzo del quotidiano, in occasione del Giorno del Ricordo. Terra di cerniera tra i mondi italiano, slavo e germanico, quella che noi chiamiamo Venezia Giulia è stata l’epicentro di una feroce lotta tra nazionalismi di cui ha fatto le spese una pacifica e laboriosa popolazione.

Il carattere antislavo del fascismo di confine si manifestò con le leggi che vietavano l’insegnamento in lingue che non fossero l’italiano, nella soppressione delle scuole slave, nella repressione del clero. In questo quadro si inserisce la nascita delle prime formazioni clandestine che compirono sanguinosi attentati a Trieste e in Istria. Le loro azioni furono severamente punite. Quattro degli 87 arrestati furono condannati a morte. Il luogo dell’esecuzione fu il poligono di Basovizza. Non lontano dalla miniera dove nel maggio 1945 vennero gettati i corpi di qualche centinaio di italiani uccisi dalla polizia di Tito.

Non è un caso che l’atto simbolico di riconciliazione più significativo tra sloveni e italiani sia avvenuto a Basovizza il 13 luglio 2020 dove i presidenti Sergio Mattarella e Borut Pahor hanno reso omaggio alle vittime dei due fronti.

Pupo dedica lunghi e intensi capitoli alle due stagioni delle foibe, quella dell’autunno 1943, che ebbe come teatro l’Istria e quella del maggio 1945, quando a Trieste, Gorizia e Fiume e in tutta l’area della Venezia Giulia si svolse una feroce resa dei conti in cui a pagare non erano soltanto i fascisti. L’obiettivo delle forze titine era triplice: punire i crimini, epurare la società da elementi scomodi e intimidire la componente italiana. Tuttavia  per Pupo non si può parlare di genocidio, quanto di stragismo e di sostituzione nazionale. Tito ebbe mano più pesante con i collaborazionisti sloveni o con gli ustascia croati e riguardo agli italiani il suo braccio destro Edvard Kardelj si raccomandava di punirli in base al fascismo e non alla nazionalità. Ma i metodi usati furono molto pesanti e alla fine circa 300 mila italiani, oltre l’80 per cento dei residenti, abbandonarono le case dei padri. È lo stesso Pupo ad aver parlato in altra occasione di una «catastrofe demografica». Esemplare è l’esodo da Pola, dove andarono via quasi tutti, 28 mila abitanti su 30 mila circa, dopo la strage di Vergarolla del 18 agosto 1946: oltre cento morti sulla spiaggia cittadina per l’esplosione di mine sottomarine che erano disinnescate. Un probabile attentato, il primo dei tanti misteri irrisolti della storia repubblicana.

Tra le tante pagine interessanti di questo saggio, che si conclude con il memorandum di Londra del 1954, il passaggio di Trieste all’Italia e l’esodo dalla zona B, non possiamo non citare quelle sui rapporti tra i partiti comunisti, dove emerge la subalternità del Pci rispetto al confratello sloveno.

La politica delle larghe intese inaugurata da Palmiro Togliatti con il riconoscimento del governo Badoglio non valeva sul confine orientale, dove vigeva l’antica logica del fronte contro fronte e della lotta al nemico nascosto anche nelle file antifasciste.

Raoul Pupo Adriatico Amarissimo

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Le case editrici perdute nella Firenze di Palazzeschi e Papini

09/02/2023 da Sergio Casprini

Aldo Palazzeschi

Il «gatto» di Palazzeschi, la libreria stamperia di Lumachi, talent scout di Prezzolini e Papini, i Fratelli Stianti

Luca Scarlini Corriere Fiorentino 8 Febbraio 2023

In principio fu il gatto. Ossia l’immortale Cesare Blanc, a cui il giovane Aldo Giurlani, spinto dai genitori borghesi al cambiamento del nome in Palazzeschi, dedicò dal 1910 la casa editrice immaginaria che ebbe il nome del felino, per pubblicare le sue prime poesie e prose. Poi venne Filippo Tommaso Marinetti, che mise sotto i colori del Futurismo l’autore de Le sorelle Materassi, ma proprio sotto il segno del gioco e dello sberleffo si segnalava una città fatta di case editrici in buona parte tramontate e spesso dimenticate.

Casa editrice Bibliohaus

A Firenze all’inizio del secolo trascorso era in primo piano la libreria-stamperia Lumachi che mise il suo nome su proposte innovative di cultura (alla sua avventura ha dedicato da poco una bella monografia Giovanna Grifoni, edita da Biblohaus nel 2021). Fu Francesco Lumachi il primo a dare spazio ai rinnovatori della cultura della città, Giuseppe Prezzolini e Giovanni Papini (che per un certo tempo seguendo l’esempio di Palazzeschi mise alla luce trattati e testi antichi con il marchio SELF nel suo domicilio), al tempo della proposta idealista del Leonardo. Quest’ultimo pubblicò con questi tipi la raccolta più importante dei suoi racconti, Il tragico quotidiano, che entusiasmò Borges e che da poco è stato riproposto da Clichy nel quadro dell’edizione complessiva dei Racconti.

Francobollo anno 2003

Sono proprio Giuliano il Sofista e Gian Falco che propongono al dinamico stampatore Attilio Vallecchi di diventare il tipografo delle edizioni della La Voce, che subito diventa anche una libreria nel complesso di Palazzo Davanzati, edificio assai male in arnese prima dei restauri all’inizio del secolo. La pubblicazione periodica, tra letteratura, politica e filosofia, catalizza l’attenzione della cultura nazionale, i quaderni, spesso di soggetto polemico, escono a getto continuo, come anche le pubblicazioni di poeti e prosatori, spesso determinanti per la cultura nazionale, che sono poi destinati a grandi successi. Il marchio Vallecchi, nato nel 1913, ha avuto enorme importanza fino agli anni Settanta, poi ci sono stati fallimenti e revisioni, con una struttura che esiste ancora oggi in un nuovo assetto. Gli anni d’oro saranno quelli dalla Prima Guerra in poi, i nomi sono quelli della letteratura italiana: Palazzeschi, Papini, Rebora, Landolfi e chi ne ha più ne metta.

 In città tale era l’attività che molte erano le attività editoriali di tipi non prevedibili: i tipografi Fratelli Stianti di San Casciano (che stampavano non pochi dei libri di cui parliamo), raccontata da Marino Parenti, era notevole nel proporre un mix di letteratura e manuali della coltura della terra e della vinificazione. Nel 1932 il ristorante dell’Antico Fattore, a cui è stato legato un longevo premio letterario pubblicava l’autore che quell’anno aveva ottenuto il riconoscimento, Salvatore Quasimodo, con la raccolta Odore di Eucalyptus.

Galleria L‘Indiano

Numerose anche le gallerie d’arte editrici, come l’Indiano, legato a uno scrittore notevole e da tempo poco frequentato, se non dimenticato, Piero Santi o Tecne, che negli anni 60-70 pubblicava i vivaci episodi della poesia visiva (da Lucia Marcucci, a Luciano Ori, a Lamberto Pignotti per citare solo alcuni nomi), che trovavano anche udienza presso la Libreria Feltrinelli di via Martelli, centro di mostre e performance, che stampava anche volumi di neoavanguardia, o invece testi impegnati di memoria dell’antifascismo e della resistenza (come la biografia del comandante partigiano Potente, opera di Gino e Emirene Varlecchi, con prefazione di Sebastiano Timpanaro, 1975). Non mancavano nemmeno esperienze di editoria nella moda, come quelle avallate dalla geniale «sarta intellettuale» Germana Marucelli che finanziava a Milano concorsi di poesia, e che chiese a Fernanda Pivano di scrivere la sua biografia.

Tra i molti nomi che non ci sono più sono in evidenza nella saggistica La Nuova Italia, fondata dalla coppia Elda Bossi-Giuseppe Maranini negli anni 20 e poi diretta da Ernesto Codignola (nonno di Roberto Calasso, che da questa esperienza trasse varie ispirazioni) che ebbe un ruolo centrale nelle edizioni di studio (da Werner Jaeger a Delio Cantimori, passando per Aby Warburg e Franco Cardini, con una attenzione particolare alla cultura classica e ai temi di studi del Rinascimento) come anche nelle proposte della didattica.

Nettissimo anche il profilo nella produzione narrativa delle Edizioni di Solaria, legate alla rivista omonima, fondata nel 1926 e diretta poi da Giansiro Ferrata e Alessandro Bonsanti. Gli esordi e le presenze di qualità sono abbaglianti: Carlo Emilio Gadda, Cesare Pavese, Elio Vittorini senza scordare la presenza di Umberto Saba.

Insomma, un carnevale, una giostra, un panopticon e una vertigine, che qui si riassume solo per sommi capi e che racconterò domenica 26 febbraio  in forma di spettacolo a Testo, il Salone del libro alla Stazione Leopolda , con immagini di opere spesso rarissime. Una storia, quindi, ricchissima e piena di sorprese, che è ancora largamente da ricostruire, e a cui dedicherò ulteriori approfondimenti.

Fratelli Stianti San Casciano

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L’Ucraina in 100 date

07/02/2023 da Sergio Casprini

Mappa storica dell’Ucraina

Dalla Rus’ di Kyiv ai giorni nostri

Alessandro Litta Modigliani il Foglio 1 febbraio 2023

“La storia a volte accelera all’improvviso, spariglia le carte in tavola, obbliga a scelte rapide, che richiedono coraggio e determinazione. Ne sanno qualcosa gli ucraini, che un mattino si sono trovati davanti l’invasore e hanno optato per resistere”. Giulia Lami, docente di Storia dell’europa orientale e autrice di numerosi saggi di storia e cultura russa e ucraina, sceglie di concentrare in cento date, poco più di duecento pagine, il lungo e travagliato percorso di un antico popolo. Ne sortisce un saggio agile, interessante, denso e completo, utilissimo per capire il presente.

Dalla fine del X secolo fino alla metà del XIII, la Rus’ di Kyiv dominava su un vastissimo territorio, mentre Mosca era un centro minore. Il 1240 è l’anno fatidico dell’invasione dei Mongoli, che distruggono la capitale e sciolgono il regno. Secoli dopo, è l’elemento cosacco il nuovo protagonista politico e militare, che getta le basi dell’identità nazionale ucraina (“Siamo di stirpe cosacca”, recita oggi l’ultimo verso dell’inno nazionale). L’alleanza con l’infida Moscovia (1654) si rivelerà fatale. Dalla spartizione fra russi e polacchi nasce il dualismo fra una parte orientale del paese, dominata da Mosca, e una parte occidentale (Rutenia, Galizia, Bucovina) sotto l’egemonia europea. Nell’800, sono Nikolaj Gogol’, ma soprattutto Taras Shevchenko (1814-1861) poeta e padre della lingua, a gettare le basi del risorgimento culturale nazionale. E’ Shevchenko che coscientemente sceglie, per la sua terra, la denominazione di “Ucraina”. Con la guerra e la rivoluzione bolscevica, arrivano gli anni peggiori. Stalin sopprime dapprima la classe colta (la “Rinascita fucilata”) poi stermina i contadini: dei sei milioni “affamati a morte” (Holodomor) almeno due terzi erano ucraini. Seguono la tragica epopea dell’occupazione nazista, il ritorno di Stalin e la normalizzazione. Libertà e indipendenza arriveranno solo con il crollo del comunismo. Per tre volte (1990, 2004, 2013) Majdan ( la piazza a Kiev delle manifestazioni pubbliche) delle diventa il simbolo dell’ucraina democratica che guarda all’Europa per sottrarsi al plurisecolare giogo russo. “Dopo aver visto quale complesso di eventi gli ucraini dovettero affrontare, desta stupore che siano riusciti a creare governi nazionali, a dotarli di truppe, a difenderli da aggressioni interne ed esterna, a creare istituzioni amministrative e culturali, ad abbozzare una struttura statuale, a promulgare leggi, ad attuare riforme, a perseguire obiettivi di unificazione e di recupero di terre ‘irredente’ (…) La storia dell’ucraina non è una storia di statualità debole, ma di statualità negata”.

Giulia Maria Isabella Lami  

Professore ordinario di Storia dell’Europa Orientale Università di MilanoÈ specialista di storia e cultura russa ed europeo-orientale in epoca moderno-contemporanea, su cui ha pubblicato numerosi saggi e monografie. È Editorial Assistant della rivista internazionale «Storia della Storiografia – Histoire de l’Historiographie – History of Historiography – Geschichte dergeschichtschreibung»; partecipa all’attività di varie associazioni scientifiche quali l’Associazione italiana di studi ucraini; è attualmente Presidente della Commission Internationale des Ètudes Historiques Slaves del Comité International des Sciences Historiques.

Autore Giulia Lami

Editore Della Porta

Anno 2022

Pag. 230

Prezzo € 17,50

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Quei ragazzacci delle riviste

03/02/2023 da Sergio Casprini

Giovanni Papini foto di Mario Nunes Vais

Anticonformisti, artefici di un libero pensiero senza limiti: 120 anni fa con «Il Leonardo» di Papini e Prezzolini iniziava una stagione che fece di Firenze crocevia di cultura fuori dagli schemi

Mario Bernardi Guardi Corriere Fiorentino 31 gennaio 2023

Gran fioritura di effervescenze multicolori quella del Primo Novecento Fiorentino. Dal 1903 fino alla Grande Guerra sono anni di insonne creatività, con un pugno di ragazzi che, tra manifesti, proclami, sfide, scoperte, provocazioni, danno l’assalto al cielo, rivoluzionano la cultura, chiamandola vigorosamente a tutti gli appuntamenti con l’attualità e con la storia. E si tratta davvero di ragazzi perché quando il 4 gennaio del 1903, partono gli squilli di battaglia con l’uscita del primo numero di Leonardo, i promotori dell’impresa, Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini, hanno 22 e 21 anni. I due, che assumono gli pseudonimi rispettivamente di Gian Falco e di Giuliano il Sofista, si dichiarano pagani, individualisti, vogliosi di universalità, «nemici di ogni forma di pecorismo nazareno e di servitù plebea», alfieri della bellezza e di un libero pensiero inteso a varcare ogni limite. La rivista esce in fascicoli di otto pagine, con scadenza irregolare, si fregia delle incisioni del dannunziano Adolfo De Carolis, ha tra i collaboratori altri giovani dal multiforme ingegno come il palermitano «intoscanito» Giovanni Antonio Borgese, e Ardengo Soffici  di Poggio a Caiano.

Ardengo Soffici Foto di Mario Nunes Vais

Soffici fa il bohémien a Parigi dove frequenta tutta l’avanguardia artistica, con Apollinaire, Max Jacob e Pablo Picasso e invia articoli con lo pseudonimo di Saint Cloud. Per cinque anni il Leonardo è tutto un ribollire di spiriti antipositivisti, di appelli contro il passatismo e le accademie: i contrassegni sono D’Annunzio e Nietzsche. Ma nel 1907 la tensione si allenta e la rivista chiude i battenti. Perché? Perché, spiegano Gian Falco e Giuliano il Sofista, non ce l’abbiamo fatta a «scoprire uomini, svegliare e trasformare anime, trovare giovini che fossero per noi compagni e schermidori e non pappagalli male ammaestrati».

La diana dell’italica riscossa contro la minaccia della sovversione socialista e la viltà della borghesia liberale, la fa risuonare un altro intellettuale fiorentino, Enrico Corradini — 38 anni — che, il 29 novembre 1903, fa uscire il primo numero de Il Regno. Tra i collaboratori i leonardiani Papini e Prezzolini che tuonano contro il parlamentarismo e la politica giolittiana. Anche qui si respira un’aura dannunziana: l’avvenire nell’Italia è sul mare. Solo che, contrariamente al francofilo Vate, Corradini è a favore della Triplice Alleanza e vede nei cugini d’Oltralpe gli insidiatori del nostro espansionismo nel Mediterraneo. E se Il Regno chiude nel 1906, lui procede spedito e nel 1910, è tra i fondatori dell’Associazione Nazionalista Italiana.

Ma se è bello e giusto far politica, nel santo nome dei destini d’Italia, i giovani fiorentini non scordano certo la letteratura. La esaltano — pura, raffinata, aristocratica— i nazionalisti Corradini e Papini, firmando articoli per Hermes, fondata da Borgese nel gennaio 1904 (durerà fino al luglio 1906), col proposito di guerreggiare contro razionalisti, materialisti e positivisti, in nome di un appassionato idealismo e delle forme più alte del sapere. Tutta un figliar di idee, manifesti, programmi, questa Firenze primonovecentesca.

Giuseppe Prezzolini

Troppi propositi, però, rischiano di diventare spropositi. Se ne accorge Prezzolini che il 20 dicembre 1908 fonda La Voce. E parla subito chiaro. Non abbiamo bisogno di geni ma di persone di carattere. In Italia non manca il cervello, «ma si pecca perché lo si adopera per fini frivoli e bassi». Piuttosto che inneggiare alla rivoluzione, parliamo di riforme, di educazione, di miglioramenti nelle istituzioni, nella società, nella scuola, diamo spazio al dibattito, alle energie nuove che vengono fuori nella cultura e nella politica, al giudizio contro il pregiudizio. A crederci è il fior fiore della cultura: saranno «vociani» Papini, Soffici, Slataper, Murri, Amendola, Salvemini, Serra… E anche Mussolini, allora agitatore socialista, che, nel 1909, segretario della camera del Lavoro di Trento, si darà un gran daffare per diffondere la rivista e che, per i Quaderni della Voce, pubblicherà Il Trentino visto da un socialista.

Tante le polemiche di marca vociana, tante le scoperte e l’impegno di promozione culturale. Un occhio speciale per le avanguardie poetiche e artistiche con gli articoli di Soffici su Courbet, Picasso, Braque ecc., la pubblicazione di un «Quaderno» dedicato a Rimbaud, l’allestimento nel ’12 della prima mostra italiana sull’Impressionismo con opere di Cezanne, Degas, Renoir, Monet, Pizarro, Gauguin, Van Gogh, e 17 sculture di Medardo Rosso. E tante le stagioni vociane, irrorate di litigi, polemiche, distinguo, fino alla chiusura, nel ’16.

Il fatto è che Prezzolini ci tiene ormai ad essere un educatore, dallo sguardo alto e profondo; i suoi numi tutelari sono ormai Croce e Gentile, col contrassegno dell’idealismo militante, mentre Papini e Soffici non hanno smarrito la vocazione eretica e ribellistica. Tanto che il primo gennaio del ’13 hanno battezzato Lacerba, un foglio quindicinale nemico del buon senso, del moralismo, del riformismo, e programmaticamente «urtante e spiacevole». E fieramente avanguardista, con una memorabile copertina disegnata da Picasso. E visto che quattro anni prima è stato lanciato il Manifesto Futurista di Filippo Tommaso Marinetti, loro lo reinventano, lo estremizzano, spernacchiano religione, borghesia, democrazia e pubblicano il Programma Politico Futurista che è un «al di là della destra e della sinistra» portato al massimo, «vanno in guerra» prima che la guerra scoppi. Il 22 maggio del ’16 esce l’ultimo numero. E via, tutti al fronte. Poi ognuno continuerà a suo modo a scriver la storia dell’intelligenza fiorentina: quindici anni di giovinezza, mai vissuta così bene.

Lacerba, anno II, n.15 1°agosto1914

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La sempiterna questione meridionale

01/02/2023 da Sergio Casprini

Recentemente due proposte del governo hanno riacceso la polemica sulla questione meridionale e cioè sul divario economico e sociale tra il Nord e il Sud, non ancora superato a 162 anni dalla nascita del Regno d’Italia.

Pochi giorni fa il Ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara ha accennato alla possibilità di tenere conto del “carovita” nella retribuzione dei docenti che lavorano nelle regioni settentrionali, dato che nel sud il costo della vita è inferiore, di fatto riproponendo quelle differenze retributive che esistevano in Italia negli anni ’50 del secolo scorso.

Chi risponde al ministro che nel sud i servizi pubblici – per esempio quelli sanitari –sono molto meno efficienti e per questo sarebbero giustificate le stesse retribuzioni sia al Nord che al Sud, conferma che il processo di modernizzazione del nostro Paese, nato con il Risorgimento, si è fermato a Eboli.

Lo scorso novembre il Ministro per gli Affari regionali e le autonomie Roberto Calderoli ha presentato alle regioni la bozza di disegno di legge sulla cosiddetta “autonomia differenziata”, di cui all’articolo 116 della Costituzione. Con “autonomia differenziata” si intende la possibilità che le regioni a statuto ordinario possano ottenere competenza legislativa esclusiva su materie che la Costituzione elenca invece come “concorrenti” o, in tre casi, su quelle di esclusiva competenza statale. Per molti costituzionalisti e soprattutto esponenti politici del Meridione l’annosa questione tra centralismo statale e autonomia regionale non sarebbe risolta dalla proposta di Calderoli, anzi verrebbe meno il principio di uguaglianza sancito dalla Costituzione, in quanto i diritti perderebbero il loro carattere di universalità, previsto a garanzia dell’unità e indivisibilità della Repubblica. Se questa bozza fosse davvero improntata a una logica competitiva più che solidaristica, volta a favorire Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna che per prime hanno richiesto l’autonomia differenziata, si rischierebbe di consolidare la situazione di un’Italia divisa tra un settentrione forte sul piano economico-produttivo e un meridione ancora arretrato e sostenuto dai sussidi dello Stato. Invece di interrogarsi sulle possibili soluzioni di questo divario, in queste polemiche emerge una contrapposizione ideologica o peggio di latente razzismo tra “terroni” e “polentoni”. Che peraltro ha una lunga storia: nel 1860 il politico emiliano Luigi Farini così scriveva a Cavour: «Amico mio, che paesi sono mai questi, il Molise e la Terra del Lavoro! Altro che Italia! Questa è Affrica: i beduini, a riscontro di questi caffoni [sic], sono fior di virtù civile». Va pure detto che negli anni del Risorgimento ci fu un’élite culturale meridionale che al momento dell’unificazione nazionale chiese interventi urgenti da parte dello Stato centrale per affrontare le condizioni di degrado economico e sociale del Sud.

Pasquale Villari

Tra gli altri, il napoletano Pasquale Villari, politico, storico e docente presso l’Istituto di Studi superiori di Firenze, fu tra i primi a studiare la questione meridionale e a pubblicarne i risultati nell’opera Lettere meridionali. L’interesse per il tema lo portò poi a collaborare alla Rassegna settimanale dei politici toscani Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, autori di una famosa inchiesta in Sicilia, pubblicata nel 1877, in cui si denunciava «l’inestricabile intreccio tra le miserabili condizioni di vita dei contadini e le malversazioni amministrative delle caste dominanti». Con la rivista “Rassegna settimanale” l’intento dei due era quello di far conoscere le condizioni di vita del Meridione e di render consapevole la società italiana che l’economia del Sud doveva essere riequilibrata, anche per porre fine al pericoloso malcontento delle masse contadine, con l’estensione in primo luogo della rappresentanza politica, mediante il suffragio universale da estendere anche alle donne, e nel favorire l’industrializzazione del paese.

Gaetano Salvemini

Anni dopo il pugliese Gaetano Salvemini, allievo di Pasquale Villari, al X Congresso del PSI celebrato a Firenze nel settembre del 1908, parlò a nome della maggioranza dei delegati delle sezioni meridionali. Nel suo discorso per la prima volta la «questione meridionale» non era il fondamento recriminatorio di domande di risarcimento per le ingiustizie patite, ma il terreno decisivo su cui si giocava un destino effettivamente nazionale del partito e la possibilità di garantire un fondamento davvero democratico al Paese. In particolare, nel pensiero di Salvemini la questione meridionale era intimamente connessa alla questione scolastica e al concetto di educazione nazionale: in quest’ottica la scuola era vista dall’intellettuale pugliese nel suo ruolo di formazione di un’opinione pubblica – fino ad allora assente specialmente nel Sud – che avrebbe permesso di maturare una solida coscienza nazionale.

Purtroppo ancora oggi, nonostante la maggior diffusione della cultura, il dibattito pubblico si riduce troppo spesso allo scontro di tifoserie politiche e di fazioni ideologiche, senza entrare nel merito delle questioni e nella concretezza delle soluzioni da adottare. E carente è soprattutto la scuola nella formazione di una forte coscienza nazionale delle nuove generazioni, a partire dallo studio rigoroso della storia e dalla valorizzazione del ruolo dei docenti sul piano retributivo, per dar loro la possibilità di vivere dignitosamente sia al Sud che al Nord, avendone ovviamente accertata l’acquisizione di valide competenze professionali.

Sergio Casprini

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L’ERRORE DI SALVEMINI

27/01/2023 da Sergio Casprini

APPARE INGENEROSA L’ACCUSA A GIOLITTI DI AVER ANTICIPATO I METODI DI MUSSOLINI

Paolo Mieli Corriere della Sera 24 gennaio 2023

Nato a Molfetta (Bari) nel 1873 (quest’anno ricorre il 150°) lo storico Salvemini si caratterizzò per il suo impegno a favore del riscatto del Sud e poi per la forte opposizione al fascismo. A lungo esule all’estero sotto il regime, morì a Sorrento nel 1957

Giovanni Giolitti

La «campagna» di Gaetano Salvemini contro Giovanni Giolitti durò una ventina d’anni e anche oltre. Coinvolse il «Corriere della Sera» di Luigi Albertini, la «Voce» di Giuseppe Prezzolini e il fior fiore degli intellettuali italiani. Contro Giolitti, Salvemini scrisse un libro che fece epoca: Il ministro della mala vita. Poi con l’avvento del regime mussoliniano, Salvemini fondò il primo periodico antifascista, «Non mollare», firmò il manifesto promosso da Benedetto Croce (1925), lasciò l’università ed espatriò. A Parigi fu, assieme a Carlo Rosselli, tra i fondatori di Giustizia e Libertà. Emigrò poi negli Stati Uniti dove restò, alternando l’attivismo politico all’insegnamento universitario, fino alla seconda metà degli anni Quaranta. Di questa sua complessa attività offre adesso un eccellente profilo Sergio Bucchi in La filosofia di un non filosofo. Le idee e gli ideali di Gaetano Salvemini, che sta per essere pubblicato da Bollati Boringhieri.

Il rientro di Salvemini in Italia nel dopoguerra non fu trionfale come ci si sarebbe potuto attendere in considerazione dei suoi meriti. La sua riammissione all’Università di Firenze fu lenta, assai tribolata. E quando finalmente riuscì a tornare, l’accoglienza fu entusiasta tra i suoi seguaci, ma ci fu qualche segno di ostilità da parte di Benedetto Croce e di Palmiro Togliatti. Forse per quella lontana polemica antigiolittiana. Forse anche per qualcos’altro.

Benedetto Croce

Ma facciamo un passo indietro e torniamo a quando Salvemini era ancora negli Stati Uniti. Nel 1943 le Lezioni di Harvard (ripubblicate poi da Feltrinelli con il titolo Le origini del fascismo in Italia) fornirono a Salvemini, scrive Bucchi, «la cornice in cui formulare da storico il giudizio espresso da tempo nell’aspra requisitoria del Ministro della mala vita». Salvemini accusava ancora l’ex presidente del Consiglio liberale di esser stato «un tenace conservatore che voleva comprare l’appoggio riformista col minimo di concessioni possibili». E di aver ereditato dai suoi predecessori «il costume di “manipolare” le elezioni». Gli riconosceva però — e in termini espliciti — di esser stato «il primo statista italiano a considerare i sindacati come associazioni legali, lo sciopero un diritto dei lavoratori e non un delitto della lotta di classe». Il primo «a sostenere che nei conflitti del lavoro il governo doveva rimanere neutrale».

In quello stesso 1943 Salvemini accettò di scrivere la prefazione a un libro di Arcangelo William Salomone, giovane storico americano di origini italiane allievo dell’orientalista Giorgio Levi della Vida, anche lui fuoruscito, espulso dall’università italiana per aver rifiutato nel 1931 di prestare giuramento al regime fascista. Il libro, Italian Democracy in the Making (pubblicato poi nel 1949 in Italia dall’editore De Silva con il titolo L’età giolittiana), riprendeva una considerazione di Piero Gobetti secondo il quale quella contro Giolitti era stata una «crociata» a cui Salvemini aveva preso parte «con l’entusiasmo dell’apostolo». Riportando il passo gobettiano, Salomone tradusse «crociata» con crusade e «apostolo» con crusader. Un crusader, che si opponeva al capo del governo, secondo Salomone, per una forma di «incompatibilità psicologica tra il tipo dell’italiano ispirato da alti scopi morali e da ideali disinteressati e il tipo realistico rappresentato al meglio da Giolitti mosso essenzialmente da moventi politici». «Crociato» era però un termine che non giovò a Salvemini. Coloro «che per ovvi motivi erano rimasti all’oscuro degli sviluppi del pensiero di Salvemini nei venticinque anni dell’esilio», scrive Bucchi, «accolsero la sua introduzione come un atto di pentimento e di ripudio delle posizioni assunte un tempo».

Nel 1949 — quando il libro di Salomone fu dato alle stampe in Italia con la prefazione salveminiana — uscì in libreria anche Il ministro della buona vita (Longanesi) di un celebre giornalista: Giovanni Ansaldo. Si trattava di un pamphlet nel quale si tessevano le lodi dell’uomo che aveva guidato l’Italia negli anni precedenti alla Prima guerra mondiale. «Dall’alto del suo storicismo», ricostruisce Bucchi, Ansaldo rimproverò a Salvemini di «non aver saputo cogliere “tutto l’elemento di necessità” che caratterizzò l’azione di Giolitti, motivo per cui la condanna dei metodi giolittiani non fu altro che un “fervore di giustizia” che lo spinse a “travedere e farneticare”». Si accusava in sostanza Salvemini di essersi scagliato contro Giolitti sulla base di una sorta di impazzimento «provocato dall’ aver perso nel 1912 il lume della ragione per la malaugurate elezioni di Molfetta». Ansaldo secondo Bucchi dimostrava «di non aver neppure letto il libro salveminiano di cui si apprestava a fare il controcanto». E si lasciò sfuggire gravissime inesattezze: la campagna salveminiana contro Giolitti era iniziata nel 1902, molti anni prima dell’insuccesso elettorale di cui parla Ansaldo; l’8 marzo del 1909 Salvemini aveva pubblicato sull’«Avanti!» un articolo, I misfatti del governo a Gioia del Colle, in cui si denunciavano le sopraffazioni di un esponente giolittiano, Vito De Bellis, nelle elezioni del 1909; Il ministro della mala vita era stato poi pubblicato del 1910 (e si basava su considerazioni riferite alle suddette elezioni del 1909); Salvemini, infine, si candidò a Molfetta nel 1913 e dichiarò fin da principio d’esser sceso in lizza per poter meglio denunciare i «metodi giolittiani», mai pensando di poter essere eletto. Era sufficiente tenere a mente questi dati incontrovertibili per escludere che Il ministro della mala vita fosse stato scritto per il risentimento di un Salvemini trombato alle elezioni.

In ogni caso, le malignità di Ansaldo sarebbero forse passate pressoché inosservate se Benedetto Croce — che di Giolitti era stato ministro — nel salutare «acidamente» (scrive Bucchi) l’uscita del libro di Salomone non avesse rilanciato le insinuazioni di cui si è detto. Avvalorando la tesi secondo cui quello definito da Croce il «violento libello» salveminiano altro non era che il frutto avvelenato della sconfitta di Salvemini all’elezione di Molfetta. E adesso, secondo Croce, «dopo una quarantina d’anni», con quella prefazione al libro di Salomone il «crociato» Salvemini era costretto a «riconoscere d’avere sbagliato».

I rapporti tra Croce e Salvemini erano improntati da oltre un decennio alla reciproca diffidenza. Eugenio di Rienzo — in Benedetto Croce. Gli anni dello scontento 1943-1948 (Rubbettino) — ricorda quella volta in cui, incontrandosi a Parigi in casa Rosselli, Salvemini chiese a Croce di promuovere una raccolta di fondi presso gli industriali italiani per finanziare il movimento Giustizia e Libertà. Croce sostenne d’essere il meno adatto per un compito del genere e Salvemini reagì dicendogli: «Allora la borghesia merita di andare in fondo ad un pozzo!». Croce ne restò turbato e avrebbe ricordato in seguito: «Io per Salvemini ero diventato l’esponente della borghesia meridionale meritevole di affogamento!». Il banchiere amico di Croce Anton Dante Coda — nelle memorie dal titolo Un malinconico leggero pessimismo. Diario di politica e di banca (1946-1952) pubblicate nei Quaderni dell’Archivio Storico della Compagnia di San Paolo — riferisce che in uno di quegli incontri parigini Salvemini disse a Croce: «Se alla vostra libertà non unite qualcosa di concreto, nessuno vi capirà». Croce avrebbe reagito con parole gelide: «La libertà è un principio morale e non la fetta di pane di un sandwich a cui bisogna aggiungere il prosciutto e il formaggio». Secondo Coda, Salvemini imputava a Croce di essere rimasto in Italia e di non aver preso la via dell’esilio perché «amante dei suoi libri e del dialetto napoletano». Nel 1946, in un opuscolo dal titolo Che cosa è un liberale italiano (assai elogiato da Norberto Bobbio), Salvemini scrisse che Croce era diventato «il nume indigete del liberalismo italiano» e i liberali nient’altro che i «conservatori italiani» i quali portavano in giro Croce in Italia e all’estero «come se fosse il santissimo sacramento».

In una lunga assai celebre lettera inviata da Cambridge nel Massachusetts il 10 aprile del 1947 a Ernesto Rossi — che si può leggere nel carteggio tra i due dal titolo Dall’esilio alla Repubblica (Bollati Boringhieri) — Salvemini tornò ad accusare lo statista liberale: «Giolitti ai suoi tempi diceva che il popolo italiano era gobbo e lui non poteva fare a un gobbo che un abito da gobbo. E, certo il popolo italiano era gobbo. Ma Giolitti lo rese più gobbo che non fosse prima, invece di fare quanto sarebbe stato possibile per farne non dico un bel tipo diritto come un fuso, ma un gobbo meno gobbo di quello che egli aveva trovato». Per poi aggiungere parole amare sui propri compatrioti: «Sissignori, il popolo italiano non era famoso sotto Giolitti, diventò peggiore sotto Mussolini, ed è diventato peggiore in questi quattro anni di regime postfascista». Negli anni intercorsi tra il 1943 e il ’47 gli italiani sarebbero dunque peggiorati rispetto a quel che erano stati nel ventennio precedente. Un giudizio ancor più severo andava a colpire l’Italia liberale, il cinquantennio che aveva preceduto la Prima guerra mondiale.

Palmiro Togliatti

Ad assestare un ulteriore colpo a Salvemini fu un intervento del segretario del Pci Palmiro Togliatti (a Torino il 30 aprile 1950). Sergio Bucchi se ne era già occupato curando — sempre per Bollati Boringhieri — la riedizione del Ministro della mala vita. Il nodo essenziale per Togliatti, secondo Bucchi, «non risiedeva nella veridicità o meno dei fatti denunciati da Salvemini, vale a dire nella condotta elettorale giolittiana, quanto piuttosto nel comprendere come la contraddizione tra quella politica sostanzialmente democratica di Giolitti rivelasse il tratto specifico non di un uomo ma di un tempo e di un sistema». Ma, a conclusione del ragionamento, Togliatti non aveva rinunciato a colpire Salvemini parlando di «inconsistenza delle condanne dettate da pura ispirazione moralistica». Una stoccata destinata a lasciare il segno.

Anche con Togliatti Salvemini aveva un conto aperto. Innanzitutto, per essere stato e rimasto uno dei pochi ad essere ad un tempo antifascista e anticomunista. Poi per un fatto specifico. Tornato ad insegnare nell’Università di Firenze, nel discorso inaugurale per l’anno accademico 1949-1950, Salvemini ricordò d’aver avuto in quello stesso ateneo come «alunni ed amici» Nello Rosselli e Camillo Berneri: «il primo con suo fratello Carlo doveva essere assassinato nel 1937 da sicari francesi per mandato italiano… il secondo doveva essere soppresso in Spagna dai comunisti nel 1937». Su «Rinascita» Togliatti, con lo pseudonimo Roderigo di Castiglia, accusò Salvemini di aver divulgato una «tra le più infamanti calunnie della libellistica anticomunista».

Salvemini, secondo Gaetano Arfé all’epoca impegnato ad aiutarlo a raccogliere gli scritti sulla questione meridionale, non restò indifferente alle parole di Croce e Togliatti. Disse, riferì Arfé, che «in un Paese dove anche i comunisti diventavano, in veste di storici, crociani e giolittiani in politica, l’antigiolittismo era sempre attuale e andava propinato in dosi massicce». Sostenne nel 1952 Gaetano Salvemini che se tra Giolitti e Mussolini poteva esser rilevata una differenza, questa era stata «in quantità e non in qualità». «Giolitti fu per Mussolini quel che Giovanni il battezzatore fu per Cristo: gli preparò la strada». Fu Giolitti — sempre secondo Salvemini — a ridurre le elezioni a quel che Mussolini avrebbe definito «ludi cartacei». Poi Salvemini provò a dividere Croce da Togliatti: «Chi accetta le istituzioni rappresentative — se le accetta sul serio — non ha il diritto, come fa Benedetto Croce, di passare innanzi ai metodi con cui Giolitti faceva a suo tempo le elezioni ignorandoli o negandoli… La posizione di Togliatti è logica, quella di Benedetto Croce è assurda: peggio che assurda, è equivoca».

Sostanzialmente Salvemini aveva tutte le ragioni nel rintuzzare le ricostruzioni dei fatti di Gioia del Colle di Ansaldo e Croce. Ma, rianalizzata alcuni decenni dopo, la sua tesi — che tra Giolitti e Mussolini ci fosse stata una differenza «di quantità» e non «di qualità» — non regge. Altrettanto lunare è la tesi per cui, quattro anni dopo la caduta del fascismo (e due dopo la fine della guerra), il popolo italiano fosse peggiorato. È un limite di molti intellettuali italiani quello di voler difendere, al di là di ogni evidenza, tesi che hanno sostenuto in passato. Accadde a Salvemini tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta. Era capitato ad altri prima di lui. Capiterà ancora.

 Gaetano Salvemini, primo da sinistra, con Luigi Einaudi, al centro, e Ferruccio Parri, in piedi.

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LA FORTEZZA DEL RISORGIMENTO A BRESCIA

23/01/2023 da Sergio Casprini

 Ingresso al castello di Brescia

Nel castello sul colle Cidneo si trova il Museo del Risorgimento che ha rinnovato radicalmente le raccolte storiche con il racconto dell’epopea della Leonessa d’Italia da Napoleone alle Dieci Giornate, dall’impresa dei Mille all’unità del Paese.

Valerio Terraroli Sole 20 ore domenica 22 gennaio 2023

Rivoluzione, Dissenso, Insurrezione, Guerra, Unità, Partecipazione, Mito, Eredità: otto parole, otto concetti cardine che appartengono alla nostra storia e alla nostra cultura, ma che sono profondamente innervate nella contemporaneità globale. Otto termini che scandiscono le sezioni di un racconto che si dipana naturalmente, leggero e profondo allo stesso tempo, nel rifondato Museo del Risorgimento di Brescia che riaprirà al pubblico il 29 gennaio.

Si tratta di uno degli interventi più significativi, e anche di grande carica simbolica e ideale, dell’anno di Bergamo e Brescia Capitale della Cultura, sia perché risarcisce la città di un pezzo importante della sua storia civile e politica, dando quindi un ulteriore senso a quell’idea di museo diffuso di cui la città è parte integrante, che dall’area archeologica del Capitolium al complesso di Santa Giulia a Piazza della Loggia testimonia la millenaria storia di Brescia, sia perché la riapertura nell’edificio del Grande Miglio del Museo del Risorgimento rivitalizza ulteriormente il grande progetto di Fondazione Brescia Musei relativo alla riqualificazione del Castello sul colle Cidneo come complesso museale, parco pubblico, luogo delle memorie civiche e storiche, spazio per la contemporaneità.

Il museo, nato con delibera comunale nel 1887, con l’obiettivo, attraverso la raccolta, la conservazione e l’esibizione di documenti, manufatti, oggetti d’arte, di consolidare la memoria cittadina sui processi e gli avvenimenti che avevano portato all’unità d’Italia, aveva trovato collocazione nel Castello nel 1959. Per ragioni legate a nuove visioni della storia e a riflessioni sul senso dei musei storici è stato effettuato, negli anni Duemila, il progressivo smantellamento del museo, privilegiando esposizioni temporanee su temi specifici dell’epopea risorgimentale, fino a una totale chiusura nel 2015. Dal 2020 Fondazione Brescia Musei ha impegnato il Comitato scientifico e il proprio staff scientifico nel ripensamento radicale di quello spazio e di quel patrimonio museale dando vita a un progetto innovativo, multidisciplinare, per certi aspetti audace, con l’intendimento di parlare al pubblico più largo possibile, agli adulti come ai ragazzi in età scolare, ai cittadini come ai turisti, attraverso la messa a punto di media diversi, ma con la volontà di dare il giusto risalto al patrimonio museale esistente.

Non ci si deve aspettare, dunque, un percorso didascalico basato su luoghi comuni, né una partizione cronologica per battaglie ed eroi, né una mitizzazione autoreferenziale di personaggi, episodi e avvenimenti, né, tanto meno, un’esclusiva narrazione della storia del Risorgimento italiano; al contrario, la scelta forte compiuta dal Comitato scientifico e dai curatori, sostenuta con profondo convincimento dal direttore Stefano Karadjov, dalla presidente Francesca Bazoli e dal consiglio di Fondazione Brescia Musei, così come dalla Giunta comunale, è stata quella di estendere l’orizzonte storico, culturale e ideale del museo per ancorarlo indissolubilmente alla città di oggi e al sentire contemporaneo.

Ecco, dunque, la scelta delle otto parole chiave, divenute nel percorso le otto sezioni in cui si muovono i visitatori e, come si diceva in esordio, otto termini che ci riguardano da vicino e che sono strettamente connessi all’attualità e alla cronaca quotidiana: dalle legittime proteste in Iran alla guerra in Ucraina, dal dramma dei migranti ai valori fondativi delle democrazie, che vanno difesi strenuamente proprio conoscendone le origini e le storie.

L’avvio del racconto si innerva su Napoleone e la caduta degli antichi regimi, sulla Repubblica bresciana (1797) fino al congresso di Vienna (1815) e all’avvio della dominazione austriaca. Da qui in poi la scansione degli avvenimenti si muove sul doppio registro delle ricadute locali, in particolare l’episodio eroico delle Dieci Giornate, i giovani bresciani che parteciparono all’impresa dei Mille, le battaglie di Solferino e San Martino, il mito di Garibaldi e dei protagonisti dell’unità d’Italia, e della cornice politica nazionale e internazionale esperibile attraverso una calibrata e intelligente distribuzione di strumenti multimediali che, a dispetto di quanto ci si potrebbe aspettare, non prevaricano né distraggono il visitatore da una personale scelta di visita, né da un rapporto visivo, forte e coinvolgente, con i manufatti e le opere d’arte che sono il vero sostegno e senso del museo e in cui brillano opere di Appiani, Sala, Joli, Beaucé, Bouvier, Inganni, Ghidoni, Zanelli, Glisenti, Wildt. Al contrario, la documentazione visiva e documentaria fornita in ogni sezione è rigorosamente selezionata, utile e ricca e, con l’ausilio delle letture di testi letterari, cronachistici e politici fatte giovani da attori e attrici di teatro, si accende l’empatia con i protagonisti di quella storia e si consolida la comprensione di quegli accadimenti e del loro senso.

In realtà, non è tanto uno schema di percorso, quanto l’emozione che guida lo spettatore, coadiuvata dalla curiosità di scoprire la continuazione di quella storia di popoli raccontata senza retorica e autocelebrazione poiché la narrazione prosegue concentrandosi sui complessi problemi sociali, culturali ed economici della raggiunta unità, aprendo anche la strada del consolidarsi del mito risorgimentale e della sua eredità: dai memorabilia garibaldini al diffondersi dell’iconografia di Garibaldi, Mazzini, Cavour, Vittorio Emanuele II, fino alla costruzione del Vittoriano di Roma e alla figura di Giuseppe Zanardelli e al primo conflitto mondiale. Il percorso si chiude, da una parte, con l’ascesa di Mussolini e l’uso strumentale che il regime fece del Risorgimento a partire dalla diffusione dei monumenti ai caduti quale ulteriore legittimazione del fascismo inteso come «atto conclusivo e necessario» dell’epopea risorgimentale, dall’altro con la Resistenza e la nascita della Repubblica. Le ultimi immagini riguardano i funerali delle  vittime della strage neofascista di Piazza della Loggia (28 maggio 1974), intesi quale simbolo di unità e di partecipazione durante i quali vennero richiamate le Dieci Giornate e i valori risorgimentali di libertà, unità e giustizia.

 Ma il racconto non si conclude qui. Uscendo, il complesso del Castello, la Salita della memoria, le pietre di inciampo ci accompagnano nuovamente fino a Piazza della Loggia e, se si volesse, fino al Cimitero Vantiniano tessendo un filo profondo e resistente che ci può fare da guida, e sostegno consapevole, alla comprensione di chi siamo oggi.

Nella sezione dedicata al Dissenso è ricostruito un salotto politico del Risorgimento

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ST. JAVELIN

17/01/2023 da Sergio Casprini

 25 novembre 2022/ al 29 gennaio2023 Museo del Novecento Firenze

Aperta in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, la mostra rinnova l’impegno del Museo Novecento contro la discriminazione di genere attraverso questo progetto dal titolo ‘St. Javelin’, l’ultima serie fotografica di Julia Krahn, in cui l’artista invita le donne ucraine rifugiate a raccontarsi con immagini e interviste.

Al centro un’immagine nata e diffusa durante la guerra in Ucraina che raffigura la Madonna con in braccio un missile anticarro, lo ‘javelin’, simbolo della resistenza. La nuova iconografia di una madre armata ribalta quella di Maria che sostiene in braccio suo Figlio, richiamando alla mente la morte e la violenza più che la vita e l’amore.

 Nel loggiato esterno del museo sono installate dieci bandiere con i ritratti di donne ucraine rifugiate, sorta di icone laiche.

Una seconda installazione è nel loggiato interno al primo piano del museo, dove è stata esposta la serie ‘Die Taube’, che presenta otto fotografie stampate su carta per affissione (affiches) e riprodotte in grande formato sul tema sacro dell’Ultima Cena.

Julia Krahn è nata in Germania. Per dedicarsi completamente alla fotografia, nel 2000 lascia la facoltà di medicina all’Università di Friburgo e si trasferisce a Milano dove nel 2001 inizia a collaborare con la Galleria Magrorocca. Nel 2003 inaugura la sua prima personale Schatten(ombra) e Von Gaensenund Elefanten (di oche e elefanti.  Tra le ultime mostre nel 2017 realizza per ArtOnTime la performance OBLIO –ne me quite pas, presentata a Venezia, Palazzo Trevisan e infine a Roma al Palazzo delle Esposizioni.

Informazioni:

Orario: tutti i giorni 11-20, chiuso giovedì.

Firenze – Museo Novecento, Piazza Santa Maria Novella, 10

Info: 055.286132 – www.museonovecento.it

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IL RITRATTO DEL COLONNELLO ARESE LUCINI IN CARCERE

02/01/2023 da Sergio Casprini

Il 2023 comincia per gli Uffizi di Firenze con una nuova, importante acquisizione. È in mostra, a partire dal 1gennaio, il Ritratto del Colonnello Arese Lucini in carcere, dipinto di Francesco Hayez che ritrae il conte e militare napoleonico, poi coinvolto nei moti risorgimentali Francesco Teodoro Arese Lucini.

Dopo la prima tappa nel museo fiorentino, l’opera viaggerà per tutta la Toscana dove sarà esposta in molti comuni della regione, fino ad approvare alla sua sede definitiva: la Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti.

Datata 1828, l’opera fu commissionata dallo stesso conte, dopo i tre anni di carcere nella fortezza dello Spielberg (lo stesso che ispirò Le mie prigioni di Silvio Pellico, per aver partecipato ai moti di Milano nel 1821. La storia dell’opera ha il sapore della mossa politica e non a caso fu scelto il massimo esponente della pittura risorgimentale, Francesco Hayez per realizzarlo. Condonato dalla pena di morte, per aver rivelato in sede processuale i segreti della congiura antiaustriaca di Fedele Confalonieri, Arese Lucini cercava attraverso la committenza della tela di riscattare la propria identità attraverso la propria immagine di sofferenza e patriottismo. Non a caso, con un gesto pittorico rivoluzionario, Hayez ritraeva l’uomo in panni nobiliari, ma con le catene ai piedi, con una scelta artistica inedita fino ad allora.

ARTRIBUNE

Redazione 1° gennaio 2023

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Auguri per un felice 2023 e per la libertà e la democrazia nel mondo

01/01/2023 da Sergio Casprini


Bombardamento russo sull’ospedale di Mariupol in Ucraina

L’anno appena concluso si apre con il drammatico scenario di una guerra in Europa e con gravissime violazioni dei diritti umani in vari paesi, in particolare nei confronti delle donne.
Il 24 febbraio 2022 l’inizio dell’aggressione russa dell’Ucraina, in patente dispregio del diritto internazionale, ha aperto la strada a una spaventosa serie di crimini contro la popolazione e a una sistematica distruzione del paese invaso. La valorosa resistenza del popolo e dell’esercito ucraini ha impedito che l’invasione si risolvesse rapidamente in una sostanziale annessione del paese, con l’installazione a Kiev di un governo vassallo di Mosca. Anzi, come sappiamo, negli ultimi mesi l’esercito russo ha dovuto ritirarsi da ampie zone conquistate nella prima fase dell’invasione.
Il dramma dell’Ucraina ha infranto l’illusione europea di aver acquisito in modo definitivo la pace e impone alle democrazie, che stanno sostenendo gli aggrediti in modo quasi unanime (anche a costo di sacrifici non da poco), un ripensamento su come difendere il proprio modo di vivere. Come si chiede in un recentissimo libro il politologo Vittorio Emanuele Parsi, “qual è il costo che siamo disposti a pagare per essere liberi?”
Alla guerra in Ucraina si è recentemente affiancata quella dichiarata al proprio popolo dalla teocrazia iraniana. Da quasi tre mesi, a partire dalla morte della ventiduenne Mahsa Amini, fermata e arrestata dalla polizia morale perché non indossava correttamente il velo, le città iraniane sono state animate da folle di donne e di uomini che rifiutano le costrizioni imposte alle loro esistenze. “Donna, vita, libertà” è lo slogan scandito nelle piazze e nelle strade dell’Iran, ma anche in moltissime città dei paesi democratici. Lo stato teocratico iraniano ha represso in questi mesi violentemente le manifestazioni, sparando sulla folla, imprigionando, torturando e stuprando migliaia di giovani e comminando pene capitali.
Il quadro della soppressione per legge delle libertà civili e politiche è ancora più impressionante, e da molto tempo, in Afghanistan Nell’agosto del 2021 i talebani hanno di nuovo assunto il controllo dell’Afghanistan e da allora sistematicamente stanno violando i diritti delle donne e delle bambine all’istruzione, al lavoro e alla libertà di movimento, azzerando il sistema di protezione e sostegno per le donne che fuggono dalla violenza domestica, arrestando donne e bambine per minime infrazioni a norme discriminatorie e contribuendo all’aumento dei matrimoni forzati e precocissimi. Di recente il ministro dell’Istruzione superiore ha introdotto il divieto a tempo indeterminato dell’istruzione universitaria per le ragazze
L’anno nuovo nasce quindi al momento senza favorevoli auspici per la libertà e i diritti dei popoli nel mondo. E però l’Occidente democratico, pur con molte contraddizioni, non solo mantiene al suo interno il principio-cardine dello Stato di diritto, ma si è dimostrato capace di difendere con i fatti un popolo oggetto di aggressione da parte di un regime che del diritto ha fatto strame.
E’ stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora. La battuta paradossale di Wiston Churchill non dovrebbe però indurci a pensare che la democrazia sia strutturalmente difettosa. Proprio in quanto progetto di società aperta, deve ovviamente tenere conto di molteplici esigenze, diritti e condizioni oggettive presenti in un dato contesto storico. Si tratta quindi non di difetti, ma di limiti che la realtà oppone alla piena attuazione di un progetto, di cui è parte costitutiva la capacità di correggersi e di migliorare. Cosa quasi del tutto preclusa agli stati totalitari, in cui è vietata la discussione pubblica e la libera competizione di diverse forze politiche. Invece, questa “peggior” forma di governo garantisce pluralismo di pensiero e di opinione e tutti coloro che dissentono possono manifestare anche contro le leggi e il governo del loro paese; e se le proteste escono dai binari della legalità, devono venire represse dalle forze dell’ordine entro i limiti stabiliti dalle leggi.
Tra gli auguri che dobbiamo farci per il 2023, c’è anche quello di una scuola che prepari meglio alla democrazia le nuove generazioni. Non con le prediche, ma fornendo una preparazione culturale che renda i futuri cittadini in grado di comprendere i problemi su cui saranno chiamati a scegliere con il voto e abituandoli con saggia fermezza al rispetto delle regole, cioè delle persone, delle cose e delle idee altrui.
E per ritrovare quell’idealismo che dia forza alle proteste e le componga, come è successo negli anni del Risorgimento e della Resistenza al Nazi-fascismo, in un intreccio internazionale che superi le differenze, gli individualismi, le paure, gli egoismi, per la costruzione di un comune futuro di libertà e di pace.

Sergio Casprini

La scacchista iraniana che ha gareggiato in Kazakistan senza indossare il velo

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