• Passa alla navigazione primaria
  • Passa al contenuto principale
  • Passa alla barra laterale primaria
  • Passa al piè di pagina
  • Il Comitato Fiorentino per il Risorgimento
  • Redazione
  • Contatti
  • Photogallery
  • Link
  • Privacy Policy

Risorgimento Firenze

Il sito del Comitato Fiorentino per il Risorgimento.

  • Home
  • Focus
  • Tribuna
  • I luoghi
  • Mostre
  • Rassegna stampa
  • Pubblicazioni
  • Editoriale

Sergio Casprini

Museo Nazionale dell’Italiano a Firenze

08/07/2022 da Sergio Casprini

E’ stata inaugurata mercoledì 6 luglio 2022 la prima sezione del Museo Nazionale dell’Italiano (Mundi), presso l’ex monastero della Santissima Concezione, all’interno del complesso di Santa Maria Novella, a Firenze. 
In mostra nelle prime due sale del Museo alcuni cimeli straordinari, tra cui un’iscrizione pompeiana che testimonia i cambiamenti del latino parlato, preludio ai volgari d’Italia; il “Placito capuano”,  in prestito dall’Abbazia di Montecassino, l’atto giuridico del 960 nel quale appare la prima testimonianza ‘ufficiale’ redatta in italiano: “Sao ko kelle terre…“; il manoscritto Riccardiano 1035 nel quale Giovanni Boccaccio, a pochi anni dalla morte di Dante, copia di propria mano la Divina Commedia. 
Il Mundi nell’esposizione sottolinea il rapporto con il latino, lingua madre, ma nello stesso tempo rimanda all’italiano come lingua del mondo, ricordando come il patrimonio linguistico italiano sia considerato un bene culturale di interesse internazionale. 
Il nome del Museo, si legge in una nota, “vuole segnalare il legame tra le radici latine della nostra lingua e la sua presenza nel mondo globale di oggi”.
Il Comitato scientifico del Mundi è coordinato dallo storico della lingua italiana Luca Serianni e composto da Giuseppe Antonelli, Francesco Bruni, Michele Cortelazzo, Paolo D’Achille, Nicoletta Maraschio, Marco Mancini e Lucilla Pizzoli.
Anche l’Accademia della Crusca, che fa parte del comitato scientifico e organizzativo, collabora al progetto con il prestito di opere di primaria importanza, provenienti dalla propria Biblioteca e dall’Archivio storico. Si tratta di due capisaldi editoriali come la prima edizione delle “Prose della volgar lingua” di Pietro Bembo, pubblicate a Venezia nel 1525, opera che codifica il modello linguistico del fiorentino trecentesco,

la “Quarantana” dei Promessi Sposi, edizione definitiva del capolavoro di Alessandro Manzoni e un volume della bella copia del “Vocabolario degli Accademici della Crusca”, manoscritto autografo di Bastiano De’ Rossi (l’accademico Segretario), da lui portato a Venezia per la stampa della prima edizione del Vocabolario (1612). Altro vero monumento della nostra lingua, mai uscito prima dall’archivio dell’Accademia.

Le prime due sale del Mundi sono aperte al pubblico da giovedì 7 luglio 2022.  L’orario di apertura a regine dal mercoledì alla domenica è dalle ore 10 alle 17 (resta chiuso lunedì e martedì). L’ingresso gratuito è in Piazza della Stazione 6. 

 

Archiviato in:I luoghi

SIAMO FIGLI DELLA LIBERTA’

07/07/2022 da Sergio Casprini

  “Fare un Quarantotto” è un modo di dire che indica il crearsi di confusione e scompiglio. Deriva dai moti che sconvolsero l’Europa nell’anno 1848 e coinvolsero anche la nostra penisola, con l’inizio delle battaglie decisive del Risorgimento Italiano. Videro protagonisti tanti uomini e donne che si riunirono sotto un ideale di libertà. Fu la nostra prima guerra d’indipendenza. La meno fortunata, forse. Senz’altro la più eroica. Tale da innescare quel processo infine sfociato nella nascita di uno Stato italiano unitario e sovrano.

Il Comitato Valdarnese per la Promozione dei Valori Risorgimentali, la sezione editoriale del Varchi Comics e Big Ben Studio si sono uniti per realizzare questa splendida antologia a fumetti, che s’intitola Siamo figli della libertà. Tutte storie vere, eroicamente e tragicamente vissute, ricostruite minuziosamente sulla base di ricerche d’archivio e consultazione di numerosi documenti dell’epoca. Una testimonianza di come, anche dal Valdarno Superiore, soldati e volontari imbracciarono le armi durante l’epopea risorgimentale per liberare l’Italia, darle unità e indipendenza nazionale. Si tratta di un unicum nel suo genere. Un modo nuovo per divulgare la nostra storia anche presso le generazioni più giovani, studenti e non solo, bisognose oggi più che mai di recuperare la conoscenza del passato, delle vicende che hanno forgiato quella madrepatria che non possono continuare ad abitare nell’inconsapevolezza e nell’indifferenza. Pena il venir meno di qualsiasi governo. Questo potrà anche imporsi, ma non godrà di fiducia, se di fronte ha una comunità disgregata e disciolta nei mille rivoli dei particolarismi locali e individuali. Senza identità condivisa, nessun futuro nazionale può essere costruito. Mancano le basi, ampie e solide.

Danilo Breschi ha firmato l’introduzione al fumetto (Siamo figli della libertà, a cura di Francesco Benucci e Gianluca Monicolini, Phasar Edizioni, Firenze 2022, pp. 112, € 14,00. Disegni di Gianluca “Borg” Borgogni, Alessando De Col, Samuele Frattasio, Davide Landi, Caterina Mendolicchio, Elisabetta Simonti, Francesco “Frenks” Tassi. Sceneggiature di Francesco Benucci, Alessandro Bighellini, Alessandro De Col, Gianluca Monicolini, Corinna Pieri, Lorenzo Rotesi, Francesco “Frenks” Tassi). Per gentile concessione dell’Autore ne riproduciamo qui di seguito il testo

 

*************************************

 

“Loro credevano e per la libertà combatterono”: storie di umili eroi della libertà, esempi di vera amicizia 

  

 Danilo Breschi

 L’epica, questa sconosciuta. Anzi, rimossa. Una visione epica degli eventi storici è, a suo modo, una visione religiosa del mondo. Religiosa nel senso che mostra sia quanto l’essere umano possa farsi grande sia quanto questa sua grandezza sia autentica e feconda se e solo se la sua azione entra in sintonia con qualcosa di ancor più grande, che è al contempo istanza prima ed ultima. Si tratta delle forze che muovono la storia in senso edificante, costruttivo e migliorativo. Cos’è migliore? Cos’era tale per i giovani uomini e le giovani donne che, dal Valdarno superiore così come da ogni parte della penisola, talora rientrando da esili politici che li avevano costretti all’estero, si fecero militi volontari per l’unità e l’indipendenza dell’Italia?

Essere migliori significava per loro diventare più uniti e finalmente indipendenti, ossia liberi. Quel di più poteva darlo solo l’edificazione di uno Stato nazionale. Molti di quei volontari pensarono pure che la futura comunità politica nazionale dovesse avere forma repubblicana, affinché quell’unità e quella libertà trovassero concretezza e stabilità garantite per tutti da una costituzione.

Repubblica Romana.  Attacco del 30 aprile  (Museo Centrale del Risorgimento, Roma)

Nell’epopea risorgimentale, che non terminò nel 1861, una tappa luminosa fu la breve ma intensa esperienza della Repubblica romana del 1849. La Costituzione che ne scaturì fu un modello che ispirò persino le democrazie del secolo successivo. Fu la primavera della cittadinanza italiana ed europea.

Grazie alla passione per la storia e al talento per il disegno è nato un sodalizio di valdarnesi fiorentini e aretini, di nascita o acquisizione, che riporta alla luce dieci storie di alcuni e alcune, fra i molti e le molte, che contribuirono ad un’Italia una e indipendente. Militi volontari che è tempo di far transitare dallo status di ignoti a quello di noti, anzi famosi. Esempi di cui i giovani e le giovani di oggi, a quasi due secoli di distanza, possono andar fieri come italiani, come italiane. Ribadisco questo duplice riferimento di genere non per ossequio ad una stucchevole e talora ipocrita political correctness. Ribadisco perché proprio le vicende storiche messe magnificamente in scena dalle tavole illustrate di questo libro ci dicono di quante donne, giovani o meno, aristocratiche o popolane, s’impegnarono attivamente per la causa dell’Italia una e indipendente. Un impegno d’arme, di lingua, di sangue e di cuore. Combatterono di penna e persino di spada, o moschetto.

Di un po’ di eroi, quel tanto che basta, c’è sempre bisogno. E comunque in certi periodi della storia di un popolo è necessità indubbia, salutare. Eroe inteso come colui che si fa coraggio, si eleva al rango di coraggioso. E qui ci sovviene e conforta la lezione degli antichi. Nella sua Etica al figlio Nicomaco Aristotele ci insegna che «i coraggiosi agiscono per amore del bello, e l’impulsività coopera con loro; le bestie, invece, agiscono per il dolore, per il fatto di essere state colpite o spaventate».

Copia romana in  Palazzo Altemps a Roma del busto di Aristotele di Lisippo 

 E i Greci sapevano che il bello in senso proprio è anche il vero e il bene. Coincidono. Un’estetica non disgiunta dall’etica e dalla verità (storica) troverete perfettamente tradotta nelle tavole illustrate e sceneggiate con passione e talento.

Resterete avvinti dalle storie di questi umili eroi della libertà, esempi anche di cosa significhi essere veri amici. C.S. Lewis descrisse l’amicizia come quel legame affettivo che nasce quando una persona dice ad un’altra: “Cosa? Anche tu? Credevo di essere l’unico”. È scoprire la condivisione, in questo caso di un’idea alta e nobile perché rende la vita cosa degna, e dunque non più cosa, ma fuoco ardente. Fuoco che è logos. Sin dalle origini, pensate ad Eraclito, si è umani a pieno titolo se svegli e non dormienti. Solo chi è sveglio può intendere la verità, la struttura del mondo. Solo da svegli è meno difficile distinguere il bene dal male, ciò che rispetta e accresce la struttura intima e ultima del mondo da ciò che la ferisce e distrugge. Rendersi degni e diffondere tra il popolo il desiderio di dignità vuol dire combattere l’umiliazione, disdegnarla per sé e per gli altri. Questo il compito, tanto scomodo quanto esaltante, che vollero accollarsi i protagonisti delle storie qui poeticamente illustrate.

So bene quanta sete di combattenti per il bene della libertà e della giustizia scorra nelle vene dei giovani italiani ed europei di oggi. Se dormono, o così pare, è solo perché, sin da piccoli, sono stati imboccati con dosi massicce di cinismo e nichilismo. Non c’è più nulla per cui svegliarsi e drizzarsi, perché nulla vale una tale pena. Meglio dunque dormire. Così è stato tramesso dagli adulti di ieri e di oggi, a parole o con gesti, e molte omissioni. Poi, una sera, ti sorprendi a vedere frotte di ragazzini a far la coda al botteghino per l’ultimo film della saga degli Avengers o di Hunger Games (dove, peraltro, l’eroe è una ragazza che impugna le armi in nome della libertà). E allora cosa c’è di meglio, genitori e insegnanti, cosa di più coerente con il vostro ruolo e la vostra missione, se non prendere questo libro e regalare le sue immagini e storie di giovani eroi ai vostri figli e ai vostri studenti

 

Archiviato in:Focus

GIUSEPPE GARIBALDI

01/07/2022 da Sergio Casprini

Silvestro Lega Ritratto  di Giuseppe Garibaldi 1861

L’uomo il quale difende la sua patria o che attacca l’altrui paese non è che un soldato pietoso nella prima ipotesi – ingiusto nella seconda — ma l’uomo, il quale, facendosi cosmopolita, adotta la seconda per patria, e va ad offrire la spada ed il sangue ad ogni popolo che lotta contro la tirannia è più d’un soldato: è un eroe. Le memorie di Garibaldi di Alexandre Dumas. 

Affresco al Campidoglio di Washington nella Sala dell’Indipendenza
Sottoscrizione della Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America, Philadelphia 4 luglio 1776

 

Il 4 luglio è il giorno dell’Indipendenza degli Stati Uniti, una festa nazionale, che celebra l’adozione della Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America, con la quale nel 1776  tredici colonie inglesi si distaccarono dal Regno di Gran Bretagna. Il 4 luglio è anche il giorno, in cui nel 1807 nasceva a Nizza Giuseppe Garibaldi. Se si ripercorre la storia della sua vita intensa e avventurosa – durante la quale combatté, come ricordava Dumas, per la libertà dei popoli contro gli oppressori – non si può fare a meno di cogliere la convergenza simbolica della sua data di nascita con la data di nascita della libertà degli Stati Uniti.

Garibaldi arrivò la prima volta nell’America del Nord nell’estate del 1850, quando dovette allontanarsi dall’Italia dopo la difesa eroica e la sconfitta della Repubblica Romana e l’ancor più drammatica vicenda della fuga da Roma con Anita, conclusasi con la morte della sua amata compagna nelle paludi delle valli di Comacchio il 4 agosto del 1849. Si stabilì a New York e visse come operaio in una piccola fabbrica di candele creata a Staten Island dal suo compatriota Antonio Meucci. Successivamente fu nell’America centrale; e ritornò a New York nell’autunno del 1853, per ripartirne per l’Europa ai primi di gennaio dell’anno seguente al comando di una nave diretta in Inghilterra e a Genova. Ebbe modo così di conoscere, sia pur vivendo in condizioni disagiate, una nazione appena nata, che con luci e ombre come in tutti i processi storici si stava affermando come un Paese moderno e democratico sul piano sociale, economico e politico.

Abramo Lincoln

L’occasione per Garibaldi di dare agli Stati Uniti un aiuto più significativo sul piano militare si presentò nel 1861 allo scoppio della Guerra di Secessione, quando si schierò dalla parte dei Nordisti. Certa­men­te ave­re Ga­ri­bal­di sa­reb­be sta­to un vero suc­ces­so per i nor­di­sti; co­no­sciu­tis­si­mo ol­tre ocea­no e ap­prez­za­to per le sue doti di co­man­dan­te, soprattutto dopo la vittoriosa impresa dei Mille, avreb­be cer­to ri­vi­ta­liz­za­to l’u­mo­re dei sol­da­ti nor­di­sti che pro­prio in quei pri­mi mesi di guer­ra non ave­va­no ot­te­nu­ti an­co­ra suc­ces­si sui cam­pi di battaglia. Lin­coln stes­so, da poco rie­let­to alla pre­si­den­za, lan­ciò un pub­bli­co ap­pel­lo in­vi­tan­do “l’E­roe del­la li­ber­tà di pre­sta­re la po­ten­za del suo nome, il suo ge­nio e la sua spa­da alla cau­sa del­la Re­pub­bli­ca stel­la­ta”, a di­mo­stra­zio­ne ­del­la gran­de po­po­la­ri­tà di Ga­ri­bal­di nel con­ti­nen­te ame­ri­ca­no, dove era an­co­ra viva la me­mo­ria del­le sue bat­ta­glie com­bat­tu­te per anni in Su­da­me­ri­ca per l’in­di­pen­den­za del Rio Gran­de do Sul con­tro il Bra­si­le e del­l’U­ru­guay con­tro l’Ar­gen­ti­na. La partecipazione però a questa ennesima impresa in terra straniera non andò a buon fine in quanto, come scrive lo storico Arrigo Petacco, “Garibaldi era pronto ad accettare all’inizio del 1862 l’offerta di Lincoln, ma a una condizione; che cioè l’obiettivo della guerra dichiarato fosse l’abolizione della schiavitù. Ma in quel particolare momento il presidente non era ancora disposto a fare una simile affermazione, perché credeva che ciò avrebbe potuto solo peggiorare la già seria crisi agricola.” E quindi, pur con rispetto, declinò l’offerta di Lincoln.

La popolarità di Garibaldi nel mondo anglosassone fu confermata negli stessi anni quando fece un viaggio in Inghilterra dopo i fatti drammatici di Aspromonte del 29 agosto 1862, in cui fu ferito dai militari italiani mentre con i suoi volontari cercava di raggiungere Roma per liberarla dal potere pontificio.

Dai giornali inglesi: La nave giunse al porto di Southampton alle quattro del pomeriggio del 3 aprile 1864. Era domenica, faceva freddo e pioveva. Una folla enorme tuttavia lo stava attendendo fin dalla mattina. Si trattava di gente comune, immigrati italiani, operai, nobili, esuli di molti paesi. Quando lo videro ritto in piedi sulla nave intento a salutarli, andarono letteralmente in delirio. L’eroe, il messia laico, il comandante intrepido era vestito come suo solito con stivali, casacca rossa sotto un mantello grigio e l’immancabile sciarpa rossa. Al gesto della sua mano, quasi benedicente, la folla rispose gridando il suo nome e “viva l’Italia”. Era giunto il liberatore dei popoli, l’eroe di tante battaglie a favore della povera gente, l’incarnazione degli ideali di libertà e di giustizia, conosciuto, amato e invocato in tutto il mondo… e poi, arrivò il giorno della partenza per Londra. Nella capitale una folla mai vista prima, secondo l’Illustrated London News lo attendevano oltre 500.000 persone, riempiva tutta Trafalgar Square. I giornali parlarono della più grande manifestazione della storia inglese.

Garibaldi  a Trafalgar Square

La popolarità di Garibaldi non nasce solo dal suo coraggio di combattente per la libertà dei popoli, ma anche dal suo disinteresse per il successo mondano e per gli agi materiali: ideali di una vita sobria e dignitosa. All’indomani dello storico incontro di Teano, dopo aver consegnato a Vittorio Emanuele un regno di nove milioni di abitanti, Garibaldi fece ritorno a Caprera, la sua piccola patria ideale, con un sacco di sementi, tre cavalli e una balla di stoccafisso.

Sfortunato quel popolo che ha bisogno di eroi” è il famoso ammonimento di Bertold Brecht, rivelatore di una visione utopica, ma anche ideologica, di un’umanità liberata per sempre da guerre e oppressioni. Un auspicio che non fa i conti con la storia degli uomini, che è fatta anche di lacrime e sangue e del sacrificio eroico di chi combatte per una causa giusta. Il Risorgimento italiano è stato uno di questi momenti storici e di tanti suoi protagonisti serbiamo un reverente ricordo. E tra questi spicca Giuseppe Garibaldi, che resta anche per l’oggi un fulgido esempio per le nuove generazioni, smarrite in tempi di crisi, di pandemie, di guerre e di disastri ambientali.

Durante la guerra franco-prussiana i Tedeschi occuparono Digione il 29 ottobre 1870. In soccorso della repubblica francese soccombente – Napoleone III era stato fatto prigioniero, l’Impero era caduto ed era nata una Repubblica – l’armata garibaldina dei Vosgi condotta da Garibaldi, ormai arrivato all’età di 63 anni, riuscì a liberare la città; e fu l’unica vittoria per i francesi in una campagna militare disastrosa. Certamente oggi Giuseppe Garibaldi con i suoi volontari sarebbe a fianco degli ucraini per l’indipendenza del loro Paese, coerentemente con l’impegno di offrire la spada ed il sangue ad ogni popolo che lotta contro la tirannia.

Sergio Casprini

Garibaldi a Digione

 

 

 

 

 

 

 

Archiviato in:Editoriale

Nel vento con le rose

23/06/2022 da Sergio Casprini

Una storia fiorentina del 1944

Autore     Caterina del Vivo

Editore     Pontecorboli

Anno        2022

Pag.          254

Prezzo      € 18,80

 

La vita a Firenze nel 1943-1944, i timori, le speranze, il lungo cammino verso San Gimignano, rivivono nelle lettere di due giovani innamorati.

Decisi a sfidare lo squallore quotidiano per realizzare il loro sogno, poi spezzato dalla crudeltà dell’uomo e della guerra. Un pacco di lettere chiuse in un cassetto. Una memoria lontana, sommersa da un doloroso silenzio. Quell’amore era nato come una favola rosa e come un sogno era stato vissuto, fra gli ultimi mesi di vita del fascismo e l’avanzata alleata. Fra i tramonti sul Lungarno, gli attentati, il coprifuoco, l’occupazione tedesca e la tragica distruzione dei ponti. A Firenze combattimenti e scontri sembrano ancora così lontani, nella primavera del 1943. Anche se il tetro clima di guerra incombe implacabile nella vita di ogni giorno. Altro riserva il destino. Eppure, al di là dei documenti, delle sentenze, dell’efferatezza del fatto storico ricostruito nei dettagli, della insulsa atrocità della guerra, restano le lettere di Fernando a Maria Cecilia, le passeggiate per l’amata Firenze, la cronaca delle nottate al giornale, le speranze e le ambizioni di una giovinezza troncata.

Caterina Del Vivo ha lavorato molti anni all’Archivio Contemporaneo “Alessandro Bonsanti” ed è stata responsabile dell’Archivio Storico del Gabinetto Vieusseux. Ha redatto e pubblicato inventari e cataloghi, ha curato carteggi ed edizioni testuali. Si è dedicata in particolare allo studio biografico di personaggi femminili dell’Ottocento e del Novecento.

23 marzo 1944. Bombardamento della stazione di Campo di Marte visto dai Lungarni

Archiviato in:Pubblicazioni

STORIA DELLE DONNE NELL’ITALIA CONTEMPORANE

19/06/2022 da Sergio Casprini

Operaie rivendicano un salario adeguato nei primi anni 50 a Milano

Lungo la strada delle italiane

 

A cura di Silvia Salvatici

Editore    Carocci

Anno        2022

Pag.          364

Prezzo      27,00

 

Le questioni poste dalla storia delle donne si estendono a una contemporaneità che è sotto i nostri occhi. Gli effetti della pandemia di Covid-19 sul lavoro di cura ma anche sulla violenza domestica, la sanzione delle discriminazioni fondate sul genere e l’orientamento sessuale, il gender gap nelle istituzioni rappresentative: questi e molti altri temi al centro del dibattito pubblico attuale affondano le loro radici nella costruzione storica delle relazioni tra i sessi. Proprio con l’intento di trovare nel passato alcuni strumenti indispensabili per leggere il presente, i saggi raccolti nel volume ripercorrono aspetti diversi, ma strettamente connessi, della storia femminile in Italia tra Otto e Novecento: la cittadinanza e l’appartenenza nazionale, il lavoro e il welfare, i consumi, le migrazioni, la violenza e la sessualità, le forme della fede e i movimenti femministi. L’esperienza italiana è ricostruita all’interno di un quadro più ampio, che tiene conto della storiografia internazionale e accoglie alcune sollecitazioni emerse con l’affermarsi della global history, offrendo così una rivisitazione della storia dell’Italia contemporanea che per la prima volta tiene conto di quella delle donne e di genere.

Silvia Salvatici Insegna Storia contemporanea nel Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università degli Studi di Firenze. Si è occupata della storia dell’umanitarismo internazionale, di profughi e profughe nel Novecento, di donne e diritti umani, di lavoro femminile e della storia dei conflitti armati in un’ottica di genere. È autrice di saggi in italiano e in inglese. Tra le sue pubblicazioni: Senza casa e senza paese. Profughi europei nel secondo dopoguerra (il Mulino, 2008) e Nel nome degli altri. Storia dell’umanitarismo internazionale (il Mulino, 2015; trad. ingl. Manchester University Press, 2019).

Archiviato in:Pubblicazioni

OTTO VITE ITALIANE

15/06/2022 da Sergio Casprini

L’esecuzione dei fratelli Bandiera in una litografia realizzata nel 1864 da Gabriele Castagnola 

RISORGIMENTO VIVENTE 

Un saggio di Ernesto Galli della Loggia, edito da Marsilio, afferma l’esigenza di misurarci con i forti pensieri e le azioni conseguenti di una generazione che fu pronta a sacrificarsi per conseguire l’unità e l’indipendenza della patria

Autore      Ernesto Galli della Loggia

Editore     Marsilio

Anno         2022

Pag.           240

Prezzo       € 18,00 

 

I più pensano oggi al Risorgimento più o meno come ad un «evento remoto imbalsamato a dovere dai manuali scolastici», messo «sotto la naftalina del patriottismo più convenzionale». Quasi nessuno immagina che sia stata un’epoca di passioni autentiche, di persone disponibili a mettere a repentaglio la propria vita per degli ideali. E, se qualcuno lo vede in questo modo, ha poi difficoltà a spiegarsi cosa rese possibile la diffusione di passioni così intense. Perché? Se lo è domandato Ernesto Galli della Loggia imbattendosi in personaggi come Attilio ed Emilio Bandiera, le prime delle Otto vite italiane (le altre sono quelle di don Enrico Tazzoli con i martiri di Belfiore, Luigi Palma di Cesnola, Anna Kuliscioff, Andrea Caffi, Pietro Quaroni, Edda Ciano, Filomena Nitti) di cui si occupa in un libro interessante e appassionato dato alle stampe oggi da Marsilio.

Anna Kuliscioff a Firenze nel 1908.
 Foto di Mario Nunes Vais

Tornando al Risorgimento è lecito chiedersi che senso ebbero le vite dei due fratelli veneziani andati incontro alla morte per inseguire il «folle» progetto di scatenare la rivolta nazionale a partire dal cuore della Calabria? Che cosa può comunicarci la storia di don Tazzoli, finito sulla forca a quarant’anni per «aver desiderato la libertà e l’indipendenza del proprio Paese»? Queste vicende — scrive lo storico — potrebbero suggerire che dietro i giorni di «quest’Italia evanescente e incerta, sospesa sull’abisso di un declino che ha tutta l’aria di non essere passeggero», dietro i giorni «della nostra stessa esistenza, pure lei troppe volte evanescente e incerta», dietro «la sensazione di vuoto civile e umano che ci circonda», nel passato, c’è stato — e in qualche modo c’è ancora — «un pieno». Un «inaspettato e sconosciuto pieno di storia». Con lo spessore di «alti e forti pensieri» e di «azioni conseguenti» che «interpellano e forse potrebbero consolare la nostra solitudine». In effetti, se ci volgiamo al Risorgimento siamo costretti a «guardare a un tempo in cui qualcuno ha creduto che valesse la pena mettere insieme questa Penisola per darci la possibilità di decidere autonomamente di noi stessi». E che poi «valesse la pena difenderne le ragioni». Al punto «da rischiare la vita, o la carriera, o comunque un’esistenza tranquilla».

Baldassarre Verrazzi Episodio delle 5 giornate di Milano 1851

Attilio (1810-1844) ed Emilio Bandiera (18191844) erano figli del veneziano Francesco (1785-1847), già ufficiale della Marina del Regno italico (napoleonico), il quale si era battuto contro gli inglesi, al comando della cannoniera «Incorruttibile». Finita la stagione napoleonica e scontato qualche tempo in un carcere (degli inglesi) nel 1826, poco più che quarantenne, Francesco Bandiera era stato ammesso nell’imperial-regia marina austriaca. Dopo cinque anni, nel 1831 ebbe il suo momento di gloria allorché catturò nell’Adriatico un veliero, «Isotta», che trasportava verso Corfù un centinaio di patrioti. Fuggiaschi in rotta dopo un’insurrezione fallita in Emilia e ad Ancona, territori della Chiesa. Per quell’impresa Francesco Bandiera fu nominato contrammiraglio e insignito del titolo di barone dell’impero. La stima nei suoi confronti fece sì che alla corte di Vienna fu presa la decisione di assegnare alle sue dipendenze l’arciduca Federico Ferdinando, terzogenito del feldmaresciallo Carlo d’Asburgo distintosi anche lui nelle guerre napoleoniche (combattendo, ovviamente, contro Napoleone). Il figlio di Carlo, Federico Ferdinando, fu fin da giovanissimo assai stimato da Metternich che — dopo averlo fatto crescere «alla scuola» di Bandiera — lo avrebbe nominato, ad appena 23 anni, comandante in capo della marina austriaca. 

Gettato alle spalle il passato dell’«Incorruttibile», Francesco si era dunque perfettamente integrato nel nuovo regime austriaco che lo teneva in altissima considerazione. Già intravedeva per i figli un futuro simile al suo. A tal fine li aveva mandati a studiare all’Imperiale Collegio di Marina. Tutto sembrava indirizzarsi secondo i desideri del contrammiraglio: uscito dal collegio, Attilio, ufficiale di marina, aveva sposato Marietta Graziani, figlia del capitano di vascello Leone, confermando con quell’unione l’immagine di un’ottima «famiglia di marina» inserita ai livelli più alti della società militare austriaca.

Ma qualcosa non andò per il verso auspicato da Francesco Bandiera. Secondo Galli della Loggia già nel Collegio Attilio iniziò a nutrire sentimenti antiaustriaci. Il caso volle poi che fosse presente nel momento in cui il padre catturò il veliero dei patrioti. Non possiamo sapere, scrive Galli della Loggia, quante volte in seguito «egli abbia ripensato al momento in cui aveva sentito il padre dare gli ordini per la cattura del povero trabiccolo di quegli italiani insorti e sconfitti». Né ci è dato conoscere quante volte negli anni successivi «abbia rivisto il padre rallegrarsi per la sfilza di riconoscimenti piovutigli sul capo in conseguenza di quella cattura». Ma, alla luce di quel che accadde qualche anno dopo, è ipotizzabile che Attilio abbia covato già allora un sordo rancore nei confronti di quell’«impresa» paterna. È un fatto che nell’aprile del 1836, quando la nave su cui era imbarcato attraccò al porto di New York, Attilio si rivolse per lettera a Piero Maroncelli, esule in America. Maroncelli era un mito del Risorgimento dopo gli anni trascorsi con Silvio Pellico allo Spielberg dove (scoperto un tumore al ginocchio) gli era stata amputata una gamba. Graziato per via delle sofferenze patite, Maroncelli era emigrato a New York su un vascello della marina austriaca comandato — ironia della sorte — proprio da Francesco Bandiera. La lettera di Attilio (che si firmò «vostro servo e ammiratore») equivalse dunque ad un cambio di campo. Un consapevole passaggio dalla parte del «nemico». Al nuovo campo si unirono il fratello di Attilio, Emilio, e un altro ufficiale della marina austriaca, Domenico Moro. I tre diedero vita ad una società segreta, «Esperia», alla quale avrebbero presto aderito un centinaio di altri patrioti. Nello statuto dell’«Esperia» si raccomandava di non fare, se non «con sommo riguardo», «affiliazioni tra la plebe» dal momento che essa è «quasi sempre per natura imprudente e per bisogno corrotta». Per la ricerca di adepti, meglio rivolgersi «ai ricchi, ai forti ed ai dotti negligendo i poveri, i deboli, gli ignoranti». E ancora: «meglio i celibi che gli ammogliati, i giovani che i vecchi».

Nel 1842 Attilio — tramite Moro — prende contatto con Giuseppe Mazzini prospettandogli un ammutinamento e la cattura della nave su cui è imbarcato. Mazzini ne è entusiasta. Basta solo «dare l’avvio» — spiega all’amica londinese Jane Carlyle — e tutto il resto sarebbe venuto quasi naturalmente. La Carlyle gli obietta: «Credi davvero di poter rovesciare con una sola nave da guerra l’intero impero austriaco e per di più in una situazione generale di pace in Europa?» Mazzini le risponde, appunto: «Perché no? Basta solo dare l’avvio». Nell’estate del 1843 i fratelli Bandiera elaborano il piano per la cattura di quattro vascelli, uno dei quali comandato dal loro padre che sarebbe stato da loro tratto in arresto. Emilio, nel frattempo, era stato promosso aiutante di campo dell’ammiraglio Amilcare Paulucci delle Roncole, comandante in capo della marina imperiale (i cui figli erano anch’essi affiliati all’«Esperia»). La rete cospirativa aveva fatto un gran numero di proseliti ma un delatore al quale Mazzini aveva affidato alcune lettere per i fratelli Bandiera («con una leggerezza per lui non inconsueta», scrive Galli della Loggia) con una semplice spiata riuscì a far crollare l’intera impalcatura.

Colpiscono — in effetti — l’ardimento ma anche l’improvvisazione che caratterizzarono la rete cospirativa mazziniana. Jane Carlyle — in una lettera al marito — si domanda: «Che razza di cospiratore è uno che, per esempio, delle sue operazioni segrete rivela a me proprio tutto, fino ai minimi particolari, perfino i posti dove dovranno scoppiare le insurrezioni e i nomi della gente che le organizza?». Galli della Loggia non sorvola su questo aspetto dilettantistico e ingenuo della vicenda. Anzi, lo mette nel dovuto risalto. Quasi a sottolineare la passione idealistica di Mazzini e dei fratelli Bandiera.

Nel febbraio del 1844, Attilio Bandiera, sentendosi scoperto, abbandona la propria nave diventando automaticamente un disertore. lPoco tempo dopo lo raggiunge il fratello mettendo nei guai una serie di amici, tra cui l’ammiraglio Paulucci al quale viene tolto il comando. Emilio prende commiato dal padre con queste parole: «Signore, una carriera opposta percorremmo… La vostra era quella che rifulgeva del prestigio della potenza, la mia quella dell’Italia, d’una patria caduta, desolata, avvilita… e soldato austriaco per caso, cospirai, a vent’anni cospirai». Anche Domenico Moro salta il fosso e si unisce ai Bandiera.

Siamo nell’aprile del 1844 e i cospiratori ordiscono un piano che prevede di raggruppare uomini in Corsica e sbarcare poi in Maremma, nei pressi di Tarquinia. Di qui — scrive Attilio Bandiera al mazziniano Nicola Fabrizi chiedendogli finanziamenti — i rivoltosi avrebbero raggiunto Viterbo per stabilirsi sul monte Soriano «montagna aspra abbasta per potervisi difendere e contornata da frequenti villaggi atti a procurarci la sussistenza». Da quel «nido sicuro» avrebbero potuto dominare le strade che vanno a Roma, «tentare qualche colpo su Civitavecchia le cui fortificazioni verso l’Est e il Sud sono debolissime», «meglio ancora su Civitacastellana» dopo le quali avrebbero fatto «qualche irruzione in Roma stessa». A Roma? Sì, per catturare «qualche rilevante prigioniero» (Pio IX?). A Fabrizi l’impresa appare sconclusionata e rifiuta di concedere i fondi.

Ma i fratelli Bandiera non si perdono d’animo e decidono di dirigersi verso la Calabria dove hanno sentito dire di patrioti pronti a insorgere nei pressi di Cosenza. Approdati alla foce del Neto vengono a sapere che a Cosenza non c’è nessuno che sia disposto a muoversi. Decidono di marciare ugualmente sulla città guidati da un noto bandito del luogo, Giovanni Meluso. Nel frattempo, un loro compagno, Pietro Boccheciampe, li va a denunciare alla gendarmeria di Crotone. Nei pressi di San Giovanni in Fiore incontrano finalmente una folla in parte armata. Che però grida «A morte! Eccoli!» e inneggia al re Borbone. Vengono catturati e portati in tribunale.

Al processo Attilio Bandiera adotta una strana linea di difesa. Sostiene di aver appreso a Corfù che in Calabria era in atto una finta rivolta segretamente promossa da Ferdinando II per avere un pretesto che gli consentisse di concedere la Costituzione. I magistrati non credono alle loro orecchie, vengono ascoltati solo i testimoni dell’accusa e si procede alle condanne: nove imputati (su diciassette) vengono mandati a morte e fucilati. Tra questi ultimi, i fratelli Bandiera.

La loro storia non finisce qui. I loro corpi verranno sottratti, da un gruppo di liberali cosentini, alla fossa comune. Nel 1848 i «rivoluzionari» proveranno a portarli in cattedrale. Subito dopo, in tempo di reazione borbonica, re Ferdinando aveva ordinato di gettarli nel Crati. Ma per la seconda volta i loro compagni di fede li avevano messi in salvo. Nell’estate del 1860 il generale Nino Bixio quando fu sul luogo dispose che fosse loro data degna sepoltura. Infine, nel 1867 le urne con i loro resti furono riportate a Venezia dove si formò una lunga fila di imbarcazioni che li accompagnò sul Canal Grande.

Noi — riflette adesso Galli della Loggia — ci siamo ridotti a frequentare quelle storie, anzi la storia dell’intero Risorgimento, «soprattutto come una sorta di deposito di munizioni per le nostre dispute politico-ideologiche». Ciò che «è frutto del carattere divisivo che, fin da principio ha avuto la vicenda dell’Italia unita». Il modo stesso della riunificazione della Penisola in un solo Stato ha rappresentato — «caso unico tra i paesi d’Europa che contano qualcosa» — un motivo di «divisioni feroci quanto durature, le quali si può dire che, attraverso varie tappe e in varie forme siano durate più di un secolo». Divisioni più che tra popolo ed élite, all’interno della stessa élite, con i vari settori di questa inclini a scontrarsi tra loro «per abitudine precoce alla pratica di una spietata, reciproca delegittimazione».

La storia dei fratelli Bandiera, conclude Galli della Loggia, dovrebbe invece strapparci «al mutismo di questo tempo senza parole e senza idee». E invitarci «a pensare a ciò a cui da molti anni non pensiamo più»: alle «forme e alle ragioni di una convivenza che continua a non avere nulla di scontato». La storia di queste «vite lontane» non può certo servirci a comprendere il presente. Semmai «può servire a risospingerci verso il futuro». In che senso? Quello di «uscire dal torpore senza fine, dall’inerzia immemore in cui siamo immersi». A immaginare anche noi — «come, in condizioni pur così meno facili, immaginarono quei nostri antenati di cui ormai a stento ricordiamo i nomi» — che cosa potremmo essere.

Paolo Mieli   Corriere della sera 14 giugno 2022

Canneto sull’Oglio. Monumento a don Enrico Tazzoli, uno dei martiri di Belfiore

 

 

 

 

Archiviato in:Rassegna stampa

TABERNACOLO DI RIMAGGINO

11/06/2022 da Sergio Casprini

Rimaggino, frazione di  Bagno a Ripoli in Provincia di Firenze

XIV Secolo

Il Tabernacolo fa parte di quelle strutture architettoniche che, nel corso del Medioevo costellavano le vie delle campagne intorno a Firenze. A quel tempo infatti, i tabernacoli venivano usati come luoghi di culto e di incontro

Il tabernacolo sorge lungo via della Croce, proprio di fronte alla casa denominata “Il Gello”. All’inizio di via della Croce si trova l’Oratorio di Santa Croce a Varliano, fatto costruire sul finire del ‘200 dalla ricca famiglia dei Peruzzi e che ha successivamente dato il nome alla strada.  La famiglia era particolarmente legata alla figura di San Francesco e  la sua immagine si trova infatti anche nell’affresco del tabernacolo.

Il tabernacolo si compone di una tettoia di epoca rinascimentale, all’interno troviamo una nicchia con l’affresco tardo trecentesco attribuito a Niccolò di Piero Gerini.

Madonna in trono con il Bambino
affiancata dai Santi Giovanni Battista e Francesco e tra due angeli reggicortina

Lo spazio del tabernacolo era talmente ampio da “permettere che vi si celebrasse la messa” come si legge nel testo di Guido Carrocci, I Dintorni di Firenze pubblicato a Firenze nel 1906.

 

 

l

 

Archiviato in:I luoghi

I rischi dell’individualismo messi a fuoco da Mazzini

09/06/2022 da Sergio Casprini

I triumviri della Repubblica romana del 1849. Da sinistra: Carlo Armellini, Giuseppe Mazzini, Aurelio Saffi
 

Giovanni Belardelli

Corriere della Sera 9 giugno 2022

A centocinquant’anni dalla morte di Giuseppe Mazzini, un convegno organizzato dall’Università di Genova nelle giornate di domani 10 giugno  e dopodomani 11 giugno pone al centro un aspetto essenziale del suo pensiero e della sua attività: l’idea di patria e il sentimento nazionale, concepiti dal fondatore della Giovine Italia in stretto rapporto con l’idea di libertà.

Si tratta di concetti e valori che continuano ad abitare l’universo mentale delle democrazie, se pensiamo alla resistenza condotta dagli ucraini contro l’invasione russa, in difesa appunto della loro libertà e indipendenza nazionale; o anche al fatto che le democrazie contemporanee continuano pur sempre a esistere in un contesto nazionale (è a livello nazionale che i cittadini degli Stati dell’Unione Europea eleggono chi li governa, almeno se e finché non si costruirà una federazione sul tipo degli Stati Uniti d’America). Non meno attuale appare la distinzione di Mazzini tra l’idea di nazione e quel «gretto geloso ostile nazionalismo» che avrebbe alimentato due guerre mondiali ma ai suoi tempi aveva già visto la nascita della Germania attraverso la conquista militare di Alsazia e Lorena (e le parole di Mazzini tra virgolette sono proprio del 1871).

Per Mazzini a costituire una nazione sono solo secondariamente la lingua, il territorio, l’appartenenza etnica; questi rappresentano al massimo gli indizi dell’esistenza di una nazione, mentre l’elemento davvero essenziale risiede per lui nella volontà che ciascuno ha di farne parte. Si è spesso ripetuto che questa sua idea «volontaristica» di nazione, schiettamente democratica, si contrappone a una concezione «deterministica» che, presente soprattutto nel mondo culturale germanico, insisteva sugli elementi oggettivi — lingua e «razza» in primo luogo — e si qualificava in senso necessariamente autoritario. Questa interpretazione, che ha avuto ampia circolazione in Italia sulla scia di un celebre libro di Federico Chabod, lascia però in ombra un altro aspetto della concezione mazziniana della nazione.  Convinto che la Chiesa cattolica avesse ormai fatto il suo tempo, ma seguace anche — come molti suoi contemporanei — di una nuova religione democratico-umanitaria, Mazzini riteneva che la divisione dell’Europa in nazioni fosse il prodotto di una volontà divina, che i confini di ciascuna nazione fossero stati disegnati «dal dito di Dio». E ancora: «è Dio che crea la vita di un popolo». Nella sua idea di nazione, insomma, aveva sì un ruolo la volontà dei cittadini, ma prima ancora quella divina; ciò che rendeva la sua concezione una miscela di determinismo e libertà. Ma dunque è probabile che certe sue definizioni della nazione oggi possano essere considerate attuali solo con molta prudenza. Quella che meriterebbe la massima attenzione è piuttosto una questione che rischia invece di rimanere celata nella sua torrenziale produzione di scritti.

Nato nel 1805, Mazzini si trovò a fare i conti con il mondo quale era diventato dopo la Rivoluzione francese, che aveva distrutto la società di ordini e affermato solennemente il principio della libertà e dei diritti individuali. Ai suoi occhi questa libertà e questi diritti erano naturalmente un’ottima cosa, ma presentavano un rischio: l’uomo libero (e Mazzini, favorevole al suffragio femminile, era uno dei pochi che all’epoca intendevano riferirsi con questa parola a uomini e donne) «come opererà? come vorrà? a caso?». Perché senza valori e fini comuni, senza che i diritti siano affiancati da doveri verso la comunità — questo il problema denunciato da Mazzini di continuo — una società rischia di sfasciarsi.

Era una questione che non fu lui solo a denunciare. Prendiamo due tra i maggiori pensatori liberali del tempo, Benjamin Constant e Alexis de Tocqueville. Per il primo, che pure considerava la modernità postrivoluzionaria come l’«epoca degli individui», se questi restano isolati «non c’è che polvere». L’immagine — non priva di un’eco religiosa: «polvere sei e polvere ritornerai» (Genesi, 3,19) — rendeva plasticamente il pericolo di una società fatta di individui liberi ma isolati uno dall’altro. Da parte sua Tocqueville osservò che, mentre nell’antico regime tutti erano collegati come gli anelli di una catena che andava dal contadino al re, l’avvento della democrazia aveva «spezza[to] la catena» e messo «ogni anello da parte», rinchiudendo così ciascun individuo «nella solitudine del proprio cuore». Mazzini, Constant, Tocqueville individuavano quello che era, e in fondo sarebbe rimasto, un problema costitutivo delle società democratiche. Sono sufficienti i diritti individuali per tenerle assieme? O non occorre anche una serie di valori, tradizioni e fini comuni? Non occorre — questo era un concetto davvero centrale nel pensiero mazziniano — affiancare ai diritti individuali il riconoscimento dei doveri verso la società?

La nazione democratica come comunità unita da valori condivisi e capace di affiancare i doveri ai diritti individuali: questa era la risposta di Mazzini che merita ancora oggi di essere meditata.

Silvestro Lega Gli ultimi momenti di Mazzini morente 1873

 

Archiviato in:Tribuna

Navi, penne e cannoni.

08/06/2022 da Sergio Casprini

Howard Chandler Christy Scena della firma della Costituzione americana 1940

Guerre, costituzioni e la creazione del mondo moderno

Autore    Linda Colley

Editore   Rizzoli

Anno      2022

Pag.        468

Euro       € 26,00

Il Settecento non è stato solo il secolo delle rivoluzioni: proprio in quel periodo, infatti, gli Stati iniziarono a dotarsi delle prime costituzioni moderne.

Carte nate sulla spinta di idee capaci di varcare i confini nazionali e diffondersi in tutto il mondo; documenti figli sia dei moti di rivendicazione popolare sia della necessità di legittimazione dei governanti, intenzionati a formalizzare il proprio potere sancendo diritti e doveri di cittadini e istituzioni. Ma quelle costituzioni furono anche molto altro, come ci mostra Linda Colley in questo saggio tanto ampio quanto originale. Studiosa affermata e saggista di talento, Colley delinea una storia globale delle carte costituzionali dal Settecento a oggi, sovvertendo alcune delle convinzioni più diffuse in materia: certo, la loro emanazione fu un passaggio fondamentale per molte epiche rivoluzioni (basti pensare a quella americana) e per l’affermazione dei diritti dei diseredati, ma si trasformò anche in uno strumento di violenta espansione imperialista, di espropriazione e di marginalizzazione sociale (soprattutto a discapito delle donne e delle persone di colore). E, in ogni caso, quelle costituzioni – testi in cui politica, ideologia, pragmatismo e letterarietà si mescolavano – furono sempre inestricabilmente legate alle guerre tra nazioni. Dall’innovativo Nakaz emanato da Caterina II di Russia al testo di James Africanus Beale Horton, visionario legislatore della Sierra Leone; dalla celebre carta dei padri fondatori degli Stati Uniti alla prima moderna costituzione islamica, opera dello statista-soldato tunisino Khayr al-Din; dagli originali documenti elaborati in Corsica nel 1775 e in Giappone nel 1889 fino a quello promulgato nella minuscola Pitcairn, isola del Pacifico dove furono per la prima volta riconosciuti pieni diritti di cittadinanza alle donne: con autorevolezza e una straordinaria verve narrativa, Linda Colley ci guida alla scoperta di una grande storia fatta di personaggi affascinanti, eventi epocali e idee in grado di cambiare il mondo.

Linda Colley, nata nel 1949 insegna storia a Princeton ed è fellow della British Academy, della Royal Historical Society, della Royal Society of Literature e dell’Academia Europaea. Ha insegnato nelle università di Cambridge, Yale e alla London School of Economics. Tra i suoi libri, ricordiamo Britons: Forging the Nation 1707-1837, con il quale ha vinto il Wolfson Prize, e Prigionieri. L’Inghilterra, l’Impero e il mondo. 1600-1850 (Einaudi, 2004).

 Uno scontro tra soldati bavaresi (a sinistra) e francesi durante la guerra francoprussiana del 1870-71 in un’opera dell’artista tedesco Richard Knötel . Da quella guerra nacque la Terza Repubblica francese

 

 

 

 

 

 

 

Archiviato in:Pubblicazioni

Un confronto d’opinioni tra Fabio Bertini e Giorgio Ragazzini in merito al referendum sulla giustizia del 12 giugno

01/06/2022 da Sergio Casprini

Caro Direttore,

partiamo dalla frase che riporti, di Einaudi: “bisogna conoscere per deliberare”. In generale è il punto debole della marea di referendum che vengono proposti ormai da qualche decennio, spesso accostando le materie più diverse e disparate. Finisce, nella maggior parte delle volte, che è più semplice chiedersi: da quale parte proviene la proposta? E poi decidere con un criterio, se non di appartenenza, di orientamento. Diverso è il caso dei referendum che pongono quesiti semplici e sintetici direttamente alla coscienza e penso, in particolare, al quesito Repubblica/Monarchia, o al quesito sul divorzio o a quello sull’aborto. Hanno dato risposte chiare e in grado di riflettere bisogni sentiti come propri da chiunque, a prescindere dal grado di istruzione.

Da elettore, certamente non mi sottrarrò alla partecipazione al voto ed ho in programma di prendermi un paio di giorni per leggere bene quale tipo di cambiale mi viene chiesta e con quali clausole piccole  piccole come quelle che, indecorosamente, passano per un secondo nelle pubblicità delle auto in televisione in maniera sfacciatamente prepotente e soprattutto illeggibile. Leggerò a fondo e cercherò di usare tutto il mio modesto potenziale culturale che non è certamente quello di un professore ordinario di diritto, quale occorrerebbe.

Cercherò di sfuggire alla  tentazione che mi viene dal profondo di pensare  al fatto che si invocano riforme della giustizia più o meno dal tempo in cui Mani pulite provò a disboscare la corruzione della politica, perdendo alla lunga la sua partita. Mi imporrò di non sfiorare il qualunquismo, sperando che corrisponda a questo l’atteggiamento di chi, con speculare inclinazione al qualunquismo, interpreta il bisogno di riforma come una sorta di vendetta verso la Magistratura. 

Tutte le partite cominciano dallo 0-0 e per me sarà così, ma senza il gusto di giocare una gioiosa partita su un bel campo d’erba alla luce del sole. Una cosa non posso negare. Io credo fermamente nella rappresentanza parlamentare e tanto mi piacerebbe un moto d’orgoglio dell’elettorato che invece di bofonchiare si organizzasse perché il Parlamento tornasse ad avere quella centralità che i costituenti avevano privilegiato come strumento politico, riservando al referendum un carattere di eccezionale e sacrale momento di verifica, oserei dire più morale che strumentale.

Cari saluti,

Fabio Bertini

 

Leonardo Dudreville  La partita di calcio 1923

Caro Fabio (oltre che caro Direttore),

ormai da decenni sento dire che molte delle richieste referendarie sono troppo complicate per affrontarle con un sì o con un no. E regolarmente mi chiedo e chiedo: invece sarebbe semplice la scelta per chi votare a elezioni nazionali o locali?  In teoria un elettore dovrebbe esaminare un gran numero di proposte programmatiche di estrema complessità, ma quanti lo fanno almeno in parte? E quanti invece si limitano a votare  solo con un criterio di appartenenza o di orientamento? “Gli attrezzi erano i mia, verga!”, rispose un anziano lavoratore a chi gli chiedeva perché aveva votato Pci. Naturalmente è vero che ci sono materie più complesse, alcune forse troppo, da affrontare con lo strumento referendum, tanto quanto non si può pretendere che ogni cittadino padroneggi l’economia, la finanza e la politica estera per scegliere da chi farsi rappresentare. Ognuno fa quello che può per informarsi; e apprezzo molto la tua decisione di dedicare un paio di giorni allo studio dei quesiti. Ma questo è, in linea generale, il punto di forza del referendum: quello di spingere a informarsi, proprio perché, anche quando non sono faccende semplici, si tratta comunque di un numero limitato di problemi, a differenza di quelli che pone un voto politico. E comunque, altro vantaggio del referendum, si può sempre votare scheda bianca se si hanno dubbi su qualche quesito.

Due sole osservazioni aggiuntive. La prima: sulla mancanza di informazione c’è e c’è stata quasi sempre (anche oggi) un’enorme responsabilità del servizio pubblico, perché i partiti sono quasi tutti infastiditi dai referendum. “Le riforme si fanno in parlamento!” Ma purtroppo non si fanno o si fanno male, come quella sulla responsabilità diretta dei magistrati partorita purtroppo a suo tempo da Vassalli. La seconda: non so a chi ti riferisci supponendo una sorta di vendetta nei confronti della magistratura. No, è un dovere anche verso i tanti magistrati seri, oscurati dagli inquisitori faziosi e esibizionisti.

Un cordiale saluto,

Giorgio Ragazzini


Honorè Daumier Le grand escalier du Palais de Justice 1865

Caro Giorgio,

rispetto tutto il tuo scritto, anche ciò che non condivido. Mia madre, che Dio l’abbia in gloria, cittadina del 1946 per intendersi, sempre attenta all’informazione, sapeva benissimo per chi votare. Non mi ha mai detto per chi perché gelosa del segreto elettorale, ma posso supporre per chi e, a mio avviso, per chi allora era degno di fiducia per la gente come lei. Venne il referendum sul nucleare e io non so per che cosa avesse votato. So che aveva la licenza elementare e non poteva votare che di istinto. Così penso sia ora. Tu dici qualcosa sulla Magistratura, io probabilmente ne intendo un’altra e le due cose, probabilmente,  non andranno d’accordo. Perché? Boh! I punti di vista sono politica? Direi di sì. Accade sempre. Poiché però non ho le tue certezze sul bene dei Magistrati che non mi sembrano così entusiasti di essere beneficati, io prometto di studiare quel paio di giorni. Non posso consigliarti che di farlo anche tu, ma magari l’avrai già fatto e avrai deciso senza prevenzioni che saprebbero di orientamento e ci riporterebbero alle scelte politiche. Può sempre servire. Ma se andrai avendo già idea del che fare, non rimane che farti i complimenti e gli auguri. Io chiudo qui.

Cari saluti,

Fabio Bertini

Archiviato in:Lettere al Direttore

  • « Vai alla pagina precedente
  • Vai alla pagina 1
  • Vai alla pagina 2
  • Vai alla pagina 3
  • Vai alla pagina 4
  • Pagine interim omesse …
  • Vai alla pagina 68
  • Vai alla pagina successiva »

Barra laterale primaria

il Comitato Fiorentino per il Risorgimento
è associato al Coordinamento nazionale Associazioni Risorgimentali FERRUCCIO

L’editoriale del direttore

La calda estate del Presidente Draghi

Prossimi appuntamenti

La commemorazione di Curtatone e Montanara al Cenacolo di Santa Croce a Firenze

21/05/2022

Lettere al Direttore

Un confronto d’opinioni tra Fabio Bertini e Giorgio Ragazzini in merito al referendum sulla giustizia del 12 giugno

01/06/2022

Focus

UNA FAMIGLIA QUALUNQUE A FIRENZE NEL SECOLO SCORSO

26/07/2022

Tribuna

L’ALLEGRA RIVINCITA DELL’INNO DI MAMELI

14/08/2022

Luoghi

Villa della Rinchiostra

11/08/2022

Mostre

Paesaggi di Toscana. Da Fattori al Novecento

02/08/2022

Rassegna stampa

Addio alla campionessa delle nevi. Sfidò il fascismo indossando gli sci

03/08/2022

Pubblicazioni

Giacomo Matteotti e il socialismo riformista

15/07/2022

RisorgimentoFirenze.it nella tua mail

E' possibile ricevere un messaggio e-mail ad ogni nuova pubblicazione sul nostro sito.
Basta inserire il proprio indirizzo di posta elettronica nella casella sottostante. Il servizio è gratuito e può essere interrotto in ogni momento.

Unisciti a 83 altri iscritti

Footer

Archivio articoli

Archivio rubriche

Area amministrativa

  • Accedi
  • Feed dei contenuti
  • Feed dei commenti
  • WordPress.org

Blogroll

  • Arte del Poggio
  • Comitato livornese per la promozione dei valori risorgimentali
  • PensaLibero.it, quotidiano on line dei laici e dei liberali della Toscana.
  • Risorgimento Toscana
  • Sito ufficiale delle celebrazioni per il 150° anniversario

Direttore Sergio Casprini | Responsabile della Comunicazione Irene Foraboschi | Webmaster Claudio Tirinnanzi

 

Caricamento commenti...