Gli insegnanti hanno un doppio compito: diffondere conoscenza ed educare ai principi della convivenza
Prediche inutili le definiva Luigi Einaudi. L’interessante confronto pubblico sullo ius scholae forse lo sarebbe di più se i suoi animatori, da una parte e dall’altra, non si fidassero solo dei loro ricordi scolastici, sapessero che cosa sia oggi la scuola in Italia. Giusta, in linea di principio, l’idea che, cittadinanza o meno, la scuola sia il luogo in cui vengono apprese (in cui si dovrebbero apprendere) le regole della convivenza civile. È alla scuola che si affida il doppio compito di diffondere conoscenze e di educare al rispetto delle norme sociali vigenti. Un doppio compito assai delicato in una società mono-etnica e che lo è ancor di più laddove essa lasci il campo alla multietnicità. La scuola è il lungo in cui si decide il futuro di una società multietnica: pacifica convivenza oppure conflitto fra l’etnia maggioritaria e le altre. Sfortunatamente, in Italia lo stato della scuola, e per essa la qualità dei processi educativi, anche nell’età mono-etnica, non interessava a nessuno tranne che agli operatori del settore. Se ne disinteressavano gli intellettuali, troppo snob per abbassare il loro aristocratico sguardo su come funzionavano una scuola elementare o un liceo. Se ne disinteressavano gli italiani in genere, anche quelli con figli, diseducati dall’idea che l’unica cosa che contasse fosse il «pezzo di carta» e non ciò che apprendevano alunni e studenti.
Per conseguenza, se ne lavava le mani la classe politica: in democrazia ci si occupa solo di ciò che interessa agli elettori. A questi, per lo più, premevano le promozioni facili, non la qualità dell’istruzione. Naturalmente, il declino demografico ha fatto il resto: se si fanno sempre meno figli, alla scuola l’opinione pubblica assegna un ruolo marginale. Una società che invecchia è interessata solo al presente (pensioni e sanità), non al futuro (i processi educativi).
Come si è detto, alla scuola spetterebbe un doppio compito: diffondere conoscenza (istruzione in senso proprio), educare ai principi della convivenza. Doppio compito difficile da svolgere comunque e che diventa difficilissimo, e a volte anche esplosivo in una società multietnica. L’unico strumento di cui disponiamo per valutare la qualità delle scuole, e delle conoscenze che sono in grado di trasmettere, sono i test Invalsi. Quale posto avrà nella società del futuro quell’immigrato che ha la sfortuna di frequentare certe scuole in cui si impara poco ma si esce comunque diplomati con il massimo dei voti? Un altro semi-analfabeta, defraudato delle risorse che la scuola avrebbe potuto dargli e che andrà a aggiungersi ai semi-analfabeti indigeni che escono dalle stesse scuole. Tecnicamente è ciò che si definisce «analfabetismo funzionale». Gli effetti negativi di questa impreparazione si ripercuoteranno poi ovunque. Su tutti. Fortunatamente, come proprio i test Invalsi dimostrano, non tutte le scuole sono così. Accanto a insegnanti che dovrebbero essere cacciati ce ne sono molti altri bravi che fanno con competenza, serietà e passione il loro lavoro. Ma i test Invalsi ci dicono anche che, se non fosse perché nessuno ha voglia di colpire certe clientele o entrare in rotta di collisione con certi sindacati della scuola, la qualità del corpo insegnante dovrebbe essere da tempo una priorità nelle agende dei governi. E l’opposizione avrebbe dovuto, proprio su ciò, incalzarli. Per le ragioni sopra dette, purtroppo, è quanto, qui da noi, non può accadere.
Veniamo al punto più delicato in una società multietnica: la trasmissione dei principi della convivenza civile. Gli insegnanti, oggi abbandonati a sé stessi, dovrebbero essere addestrati per fronteggiare il problema. Può accadere che un insegnante bravo, anche bravissimo, quando trasmette agli alunni le sue conoscenze specialistiche, commetta errori madornali quando si tratta di gestire in classe i rapporti interetnici. Non è detto che egli contribuisca a preparare un futuro di convivenza pacifica. Si ricordi che quell’aberrazione che è la cancel culture, con la sua ostilità nei confronti della cultura occidentale, è nata, nel mondo anglosassone, proprio nell’ambito delle istituzioni educative (scuole, università). E si sta diffondendo in tutto l’occidente. Servirebbero insegnanti capaci di trasmettere l’idea che il rispetto delle diverse culture valga solo se e finché non vengono messi in discussione i principi di uguaglianza (dei singoli cittadini, non delle etnie) di fronte alla legge e di tutela della libertà individuale. Principi su cui si fonda la società occidentale e che nessuno ha il diritto di calpestare. Ha scritto Giovanni Sartori, un grande studioso di politica i cui interventi sul Corriere molti lettori ricordano, che, mentre il pluralismo è il sale della democrazia, il cosiddetto «multiculturalismo» (che divide la società in tante sotto-società chiuse e non comunicanti) ne è invece la negazione. Occorrono insegnanti che non si battano il petto, che non esternino di fronte agli alunni ridicoli e antistorici rimorsi per le presunte colpe dell’occidente. È grazie a cattivi maestri di questo tipo che è nata la cancel culture. La loro presenza impedisce che si affermi il rispetto reciproco fra persone di diversa storia e provenienza.
Insomma, una società multietnica richiede sia da parte degli operatori sia da parte di coloro che governano i processi educativi, competenza, lungimiranza e intelligenza. È lecito chiedersi se ne saremo capaci.
Angelo Panebianco Corriere della Sera 26 agosto 2024