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Risorgimento Firenze

Il sito del Comitato Fiorentino per il Risorgimento.

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Sergio Casprini

I referendum strumenti di partecipazione democratica

01/06/2022 da Sergio Casprini

 

 Il 2 giugno 2022 si celebrano i 76 anni della Repubblica italiana, nata con il referendum istituzionale del 1946. Gli italiani, e per la prima volta le italiane, convocati alle urne anche per eleggere i deputati dell’Assemblea costituente, erano chiamati a partecipare alla fondazione di un’idea di cittadinanza repubblicana che trovò nella Costituzione una delle sue massime espressioni. L’affluenza al voto fu altissima. Nel 1946 gli aventi diritto al voto erano 28 milioni, i votanti furono quasi 25 milioni, pari all’ 89,08%. Il 54,27% dei voti validi fu a favore della Repubblica, il 45,73% a favore della Monarchia.

Negli anni della realizzazione dell’Unità italiana si tennero analoghe consultazioni popolari, i plebisciti, promossi per ratificare l’annessione di territori o regioni al Regno d’Italia. L’11 e il 12 marzo 1860, all’indomani della Seconda Guerra di Indipendenza, si votò in Toscana e in Emilia Romagna; il 21 ottobre 1861, dopo l’impresa dei Mille, fu la volta di Marche, Umbria e Regno delle due Sicilie; il 21 e il 22 ottobre 1866 il Veneto votò per unirsi all’Italia dopo la Terza guerra d’Indipendenza; il 2 ottobre 1870 a Roma e nel Lazio fu sancita la loro appartenenza al Regno d’Italia. Tutte queste consultazioni videro un’alta partecipazione al voto.

Il referendum come strumento di partecipazione democratica fu inserito nella Costituzione della Repubblica Italiana, che nell’articolo 75 fissa modalità e limiti per le consultazioni referendarie. Com’è noto, con questo strumento si può abrogare un’intera legge o una sua parte, se lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. Il risultato non è valido se non ha votato la metà più uno degli elettori. Non si possono sottoporre a referendum le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e indulto, di autorizzazione a ratificare i trattati internazionali. Il testo costituzionale prevede anche un altro tipo di referendum oltre a quello abrogativo, quello confermativo delle modifiche alla Costituzione (l’ultimo si è tenuto nel dicembre del 2016).

Dopo il referendum del 2 giugno 1946, dal punto di vista della partecipazione e dell’acceso dibattito che precedette il voto, furono particolarmente significativi il referendum sulla legge del divorzio del 1974 e quello del 1981 sulla legge che permetteva e regolamentava l’aborto. Si trattava infatti di temi che toccavano profondamente la coscienza politica e religiosa di ogni cittadino.

Nel corso degli anni l’appeal dei referendum abrogativi come strumento di partecipazione si è progressivamente consumato, fino al fallimento di alcuni significativi referendum, in cui non è stato raggiunto il quorum dei votanti. E il prossimo appuntamento referendario del 12 giugno sulla giustizia rischia di fare la stessa fine. Quali le ragioni di questa disaffezione popolare ai referendum? Certamente ci sono materie più facilmente comprensibili e più vicine all’esperienza dei cittadini e altre più complesse che possono sembrare meno importanti anche perché meno conosciute. Forse il trend negativo della partecipazione al voto è dovuto anche alla crescita negli ultimi anni e non solo in Italia dell’astensionismo di massa alle scadenze elettorali, fondamentali per gli stati democratici, quelle appunto politiche e amministrative. Soprattutto però è venuto meno l’apporto delle forze politiche più rappresentative, che coglievano nel passato il valore positivo per la democrazia in Italia delle consultazioni referendarie, anche quando venivano proposte da forze minoritarie, come il partito radicale e quello socialista. Inoltre, spesso le materie referendarie vengono viste da quasi tutti i partiti come proposte poco popolari e anche come una minaccia all’autonomia decisionale del Parlamento. Ma un fattore fondamentale (del resto legato alle resistenze dei partiti) è stato quasi sempre la scarsità di informazione e di dibattito sui contenuti dei referendum. Anche quest’anno, a pochi giorni dalla consultazione referendaria del 12 giugno su problemi legati alla giustizia, temi fondamentali per un Paese civile e democratico come il nostro, l’informazione è carente nelle trasmissioni televisive o è relegata nelle pagine interne dei giornali senza alcun risalto nelle prime pagine. Sui social è quasi del tutto assente. Eppure, come ripeteva spesso Luigi Einaudi, è necessario “conoscere per deliberare”.

Oggi si parla molto di crisi della democrazia in Europa, sia per l’aggressione militare di un paese autoritario come la Russia nei confronti di una nazione democratica come l’Ucraina, sia per la messa in discussione delle radici culturali e della memoria storica della cultura occidentale da parte del movimento sempre più aggressivo della Cancel Culture.

Pertanto è necessario senza indugi rafforzare la coscienza politica e civile dei cittadini, promuovendo la serietà e la qualità della scuola, sottolineando il valore della partecipazione attiva alla Res publica e promuovendo tutte le occasioni di confronto tra soggetti liberi che possano sottoporre al vaglio reciproco le loro idee-opinioni.  Dunque la partecipazione, non certo il boicottaggio, a una consultazione referendaria è una di queste occasioni e non va lasciata cadere, pena l’indebolimento della nostra democrazia per cui hanno lottato e sacrificato la loro vita gli uomini  e le donne del Risorgimento e quelli che si batterono contro il fascismo, lotte culminate rispettivamente nei plebisciti dell’Ottocento e nel referendum del 2 giugno del 1946. 

 

 

 

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Adriano Olivetti, un italiano del Novecento

23/05/2022 da Sergio Casprini

Adriano Olivetti è un mito dell’industria, della creatività e della cultura italiana nel mondo. È un italiano del Novecento profondamente atipico. In questo libro definitivo, frutto di un decennio di ricerche e di scrittura, Paolo Bricco ripercorre la vita di un uomo di genio e la vicenda industriale e sociale, politica e culturale dell’Italia tra la fine dell’Ottocento e il boom economico. 

Autore    Paolo Bricco

Editore    Rizzoli

Anno        2022

Pag.          492

Prezzo     € 22,00

Questa è, prima di tutto, la storia di un’utopia. Inaugurando nel 1955 la fabbrica di Pozzuoli, Olivetti presenta così gli obiettivi della sua impresa: «La nostra Società crede nei valori spirituali, nei valori della scienza, crede nei valori dell’arte, crede nei valori della cultura, crede, infine, che gli ideali di giustizia non possano essere estraniati dalle contese ancora ineliminate fra capitale e lavoro. Crede soprattutto nell’uomo, nella sua fiamma divina, nella sua possibilità di elevazione e di riscatto». A questa utopia concreta – almeno in parte realizzata – concorrono condizioni di lavoro per i dipendenti tuttora senza paragoni e la ricerca attiva di una bellezza che coinvolge la meccanica e il design (le macchine per scrivere e le calcolatrici), l’architettura delle fabbriche e l’estetica dei negozi sparsi nel mondo. Ma questo libro non è un’agiografia e di Adriano Olivetti mostra le contraddizioni, i conflitti e le generose incompiutezze: i legami profondi e tormentati con i famigliari, le due mogli e le altre donne amate; la passione per l’organizzazione scientifica del lavoro e l’attrazione per la spiritualità, l’astrologia e la sapienza orientale; il complesso percorso dal socialismo di famiglia degli anni Venti all’adesione teorica al corporativismo e al suo concreto inserimento nella società fascista degli anni Trenta; gli avventurosi rapporti, alla caduta del regime, con i servizi segreti inglesi e americani e la perpetua tentazione del demone della politica, con il fallimento della trasformazione del Movimento di Comunità in un partito tradizionale; l’identità dell’industriale che intuisce le nuove frontiere tecnologiche (l’elettronica) e che unifica il sapere umanistico e la cultura tecno manifatturiera, senza però riuscire a superare i limiti del capitalismo famigliare.

Sotto, come una radiazione di fondo, «quella strana joie de vivre che caratterizza la vita di Adriano e di quanti saranno con lui e intorno a lui». 

(Paolo Bricco (1973), giornalista e saggista, è inviato speciale del “Sole 24 Ore”. Si occupa di storia contemporanea e di storia economica. Ha scritto Olivetti prima e dopo Adriano (L’Ancora del Mediterraneo 2005), L’Olivetti dell’Ingegnere. 1978-1996 (il Mulino 2014), Marchionne lo straniero (Rizzoli 2018, nuova edizio-ne BUR 2020) e Cassa Depositi e Prestiti (il Mulino 2020). Ha un dottorato di ricerca in Economia all’Università di Firenze. Dal 2007 al 2013 è stato membro del Consiglio direttivo dell’Archivio Storico Olivetti. Nel 2016 si è aggiudicato come saggista il Premio Biella Letteratura Industria e nel 2019, come giornalista, il Premiolino.

Ivrea. L’ampliamento delle Officine ICO realizzato tra il 1939 e il 1949 su progetto degli architetti Figini e Pollini.

 

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La commemorazione di Curtatone e Montanara al Cenacolo di Santa Croce a Firenze

21/05/2022 da Sergio Casprini

CURTATONE E MONTANARA 29 MAGGIO 1848
Questa data, per quasi un secolo nella Basilica di Santa Croce, è stata un momento di celebrazione del ricordo dei primi caduti per l’Indipendenza italiana.
Mercoledì 28 maggio 2022 ore 10,30 al Cenacolo di Santa Croce – Firenze, nella ricorrenza di questo evento, a 150 anni dalla morte di NICCOLO’ MATAS, l’architetto della facciata di Santa Croce, il tempio delle Itale Glorie, simbolo e memoria della storia nazionale.
L’OPERA DI SANTA CROCE
IL COMITATO FIORENTINO PER IL RISORGIMENTO
Promuovono il convegno
NICCOLO’ MATAS TRA LE URNE DEI FORTI
Saluti
CRISTINA ACIDINI
Presidente Opera di Santa Croce
LUCA MILANI
Presidente Consiglio Comunale di Firenze
CHRISTIAN SATTO
Presidente Coordinamento toscano dei
Comitati risorgimentali
Modera
SERGIO CASPRINI
Comitato Fiorentino per il Risorgimento
Interventi
FABIO BERTINI
Coordinamento Nazionale Associazioni
risorgimentali
1848/1870. L’affermazione degli ideali
risorgimentali da Curtatone e Montanara
a Firenze Capitale
MARIA DI BENEDETTO
Opera di Santa Croce
1854/1865. La realizzazione della
facciata di Santa Croce
MAURO COZZI
Università di Firenze
L’opera di Niccolò Matas nel contesto
dell’architettura toscana dell’Ottocento
Ingresso libero fino a esaurimento posti
Diretta sulla piattaforma Facebook del Comitato Fiorentino per il Risorgimento

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Giuseppe Bezzuoli. Un grande protagonista della pittura romantica

16/05/2022 da Sergio Casprini

La famiglia di Lot che fugge dall’incendio di Sodoma 1854

ALLA PALAZZINA DELLA MERIDIANA DI PALAZZO PITTI

LA PITTURA ROMANTICA DI GIUSEPPE BEZZUOLI

Giuseppe Bezzuoli. Un grande protagonista della pittura romantica, a cura di Vanessa Gavioli, Elena Marconi ed Ettore Spalletti è la mostra ospitata fino al 5 giugno 2022 nelle sale lussuose della Palazzina della Meridiana di Palazzo Pitti a Firenze. In esposizione oltre 130 tra dipinti, sculture e disegni, che raccontano la carriera del Bezzuoli e l’arte del suo tempo. Molte delle opere presenti provengono da prestiti da musei e collezioni italiani e stranieri. 

La morte di Filippo-Strozzi in Castel San Giovanni 1838

Dagli esordi neoclassici alla piena maturità 

Le opere in mostra consentono di ripercorrere la carriera di Giuseppe Bezzuoli (Firenze 1784 -1855), dagli esordi neoclassici alla piena maturità, quando al culmine della fama crea alcuni capolavori della grande pittura romantica italiana: l’Ingresso di Carlo VIII a Firenze, Il ripudio di Agar, l’Eva tentata dal serpente (questi ultimi due dipinti sono recenti acquisizioni da parte degli Uffizi per la Galleria d’arte Moderna). A questi capolavori si aggiungono i ritratti della società contemporanea al pittore, che restituiscono uno spaccato della nobiltà e dell’alta borghesia nazionale e internazionale. 

L’entrata di Carlo VIII a Firenze 1829

La mostra, suddivisa in nove sezioni, permette inoltre di confrontare la produzione artistica di Bezzuoli con quella di altri importanti maestri del calibro di Francesco Hayez e Massimo D’Azeglio, offrendo ai visitatori l’occasione di ammirare anche le opere dei maggiori esponenti dell’arte e della cultura cosmopolita della Firenze di primo Ottocento: il francese Ingres, attivo in città contemporaneamente a Bezzuoli, gli scultori Horatio Greenough e Hiram Powers, oltre a Thomas Cole, esponente della Hudson River School. 

Da segnalare la sezione dedicata all’attività grafica di Bezzuoli, disegnatore di indiscusso talento, e alle sue fonti letterarie: Dante Alighieri, Giovanni Boccaccio, Torquato Tasso, Ludovico Ariosto, Jean Racine, Alessandro Manzoni. Esposti in mostra anche alcuni interessantissimi taccuini, nei quali la parte figurativa è spesso associata ad annotazioni che testimoniano, tra l’altro, l’elevato profilo del magistero artistico di Bezzuoli, svolto per quattro decenni all’Accademia di Belle Arti di Firenze. 

Alla Palazzina della Meridiana di Palazzo Pitti la pittura romantica di Giuseppe Bezzuoli – Arte Magazine

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GIUSEPPE BEZZUOLI. CENNI BIOGRAFICI

Giuseppe Bezzuoli nasce a Firenze il 28 novembre 1784. Negli anni giovanili frequenta l’Accademia di Belle Arti sotto la guida di Jean-Baptiste Frédéric Desmarais e Pietro Benvenuti, e presto si aggiudica riconoscimenti importanti: nel 1801 riceve il premio nel concorso annuale per l’«Accademia di nudo disegnato», e nel 1812 il suo dipinto Aiace che difende il corpo di Patroclo risulta vincitore all’esposizione Triennale dell’Accademia. Nel 1815 dipinge il suo capolavoro, Francesca da Rimini, oggi disperso, commissionatogli l’anno prima dal conte Saulo Alari di Milano. I viaggi fra Milano, Bologna e il Veneto, negli anni seguenti, non solo estendono i suoi contatti ma arricchiscono ulteriormente la sua cultura figurativa, che si esprime ai massimi livelli in uno dei quadri più significativi e celebri della sua carriera: il Battesimo di Clodoveo, del 1823. A quest’ultimo seguono altri lavori che vengono molto apprezzati sia da parte del pubblico che dal granduca Leopoldo II di Lorena, per il quale fra il 1827 e il 1829 esegue il grande dipinto storico con Ingresso di Carlo VIII a Firenze. A fronte di un successo sempre crescente a Firenze e anche a Milano, la pittura di Bezzuoli conosce nei decenni successivi una grande fortuna anche a livello internazionale, testimoniata dal fatto che l’artista riceve commissioni da collezionisti di diverse aree in Europa e oltre (Inghilterra, Stati Uniti d’America, Lituania, Russia). Bezzuoli muore la sera del 14 settembre 1855.

“Messa finalmente in piena luce, la figura di Bezzuoli – spiega il direttore delle Gallerie degli Uffizi, Eike Schmidt – ora si staglia nel fremente panorama artistico ed intellettuale dell’Europa di metà Ottocento e oltre: l’artista si rivela come vero e proprio pictor doctus, che conosceva e amava la letteratura, sua continua fonte d’ispirazione. L’aspetto sensazionale della mostra – oltre ai suoi meriti scientifici – è la sua ambientazione: alcune sale del percorso vennero addirittura decorate da Bezzuoli per il granduca. Il visitatore viene così trasportato in una scenografia perfetta dove l’artista e i suoi contemporanei vengono fatti rivivere tra le sete delle tappezzerie e i mobili dell’epoca, come in un set teatrale dove però tutto è meravigliosamente vero”. 

INFO Giuseppe Bezzuoli (1784 – 1855). Un grande protagonista della pittura romantica | Le Gallerie degli Uffizi

 

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UN VERO ALPINO DIFENDE LE RAGAZZE, NON LE MOLESTA

14/05/2022 da Sergio Casprini

LETTERE al Corriere della Sera 13 maggio

Caro Aldo, non credo che tante donne si siano inventate molestie da parte degli alpini, e siccome siamo un Paese «garantista» aspettiamo la solita inchiesta. Se le accuse risulteranno vere, allora potremo dire che esse sono l’ulteriore manifestazione del degrado in cui versa l’Italia, anche nei suoi lati una volta nobili.  Anna Maria Bruscolini

Cara Anna Maria, di solito nelle discussioni pubbliche italiane prevalgono sempre i sentimenti e gli orientamenti privati: per la mamma dell’alpino, l’alpino è innocente, per la mamma della ragazza molestata, l’alpino è colpevole; la sinistra chiede la massima severità, i giornali di destra titolano «la sinistra molesta gli alpini». Vogliamo provare a uscire dallo schema? Il lavoro mi ha portato diverse volte tra gli alpini, nelle caserme in Piemonte e nelle missioni all’estero. Ho incontrato soldati di grande spessore professionale e morale: gente che parlava le lingue straniere, che aveva non solo la storica disponibilità al sacrificio ma soprattutto un addestramento specifico. I primi ad avere tutto l’interesse affinché sia fatta piena luce su quanto è accaduto a Rimini sono proprio loro. Non è inutile ricordare che la responsabilità è sempre individuale, mai di un corpo militare o di un’istituzione nel suo complesso. Qui però parliamo di molestie di gruppo, quindi particolarmente odiose e gravi. Anche se in un primo tempo sembrava che ci fossero poche denunce non per questo le cose sono meno gravi; tanto più che adesso le segnalazioni fioccano. Vuole la mia sensazione, gentile signora Bruscolini? Non c’è un degrado del Paese; anzi, ci sono segni di riscossa. Queste cose sono sempre accadute; la differenza è che ora le donne non subiscono in silenzio; hanno capito che non sono loro a doversi vergognare; e quindi giustamente parlano, raccontano, denunciano. E i racconti che abbiamo sentito — l’ha scritto bene Massimo Gramellini — non sono corteggiamenti; sono molestie. In sintesi: i veri alpini non sono così; un vero alpino difende le ragazze, non le molesta; chi ha sbagliato dovrà pagare; non criminalizziamo in blocco una comunità di persone, un tassello dell’identità italiana. Aldo Cazzullo

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Imprese e passioni del giovane Cavour prima della politica

09/05/2022 da Sergio Casprini

Cavour giovane in un ritratto di Julien Léopold Boilly (1796-1874). 

Cavour giovane. Cavour viaggiatore. Cavour agricoltore. Cavour imprenditore. Cavour amante. Non era facile scrivere qualcosa di nuovo su Camillo Benso conte di Cavour dopo la monumentale opera di Rosario Romeo, Cavour e il suo tempo, ma Franca Porciani, senza celare l’amore per Camillo, il Piemonte e l’Italia e con «un italiano pressoché perfetto», come sottolinea Nerio Nesi nella prefazione, ci è riuscita con un libro che si consiglia per avvicinarsi alla conoscenza dell’uomo che fece l’Italia: Cavour prima di Cavour. La giovinezza fra studi, amori e agricoltura (Rubbettino).

Cavour (1810-1861) morì pochi mesi dopo aver compiuto quell’impresa nazionale alla quale in Europa nessuno o quasi credeva: l’Italia unita. La malaria gli fu fatale. Eppure, in mezzo secolo fece tante e tali cose che ancora oggi, a considerarle, si rimane a bocca aperta. Certo, di lui si ricorda inevitabilmente l’opera politica che lo fa a tutti gli effetti l’uomo politico più importante della storia patria. La particolarità del testo di Franca Porciani, però, consiste nel lasciare agli storici gli anni che vanno dal 1848 al 1861 per concentrarsi sul giovane Cavour. E le sorprese non mancano. Non solo e non tanto per le notizie — soprattutto le passioni amorose del libertino Cavour che s’infiammò non poco per donne sposate che per lui persero la testa e, nel caso del suicidio di Nina Giustiniani, anche la vita — quanto per la vitalità innovatrice di quella giovinezza senza la quale non si intenderebbe l’intelligenza politica del Cavour adulto, dalla fondazione del quotidiano «Il Risorgimento» alla presidenza del Consiglio, dal connubio alla partecipazione alla guerra di Crimea. Il pregio del lavoro di Porciani è proprio qui: prende per mano il lettore e lo conduce, come in una passeggiata, prima nella formazione di Camillo e poi sui luoghi delle proprietà terriere — a Grinzane, vicino ad Alba, e a Leri nel vercellese — che la lungimiranza del giovane Cavour trasformarono in moderne aziende: a Grinzane si producevano vini come il barolo, il bordolese e il moscato che facevano concorrenza ai vini francesi; mentre a Leri, ammodernando mezzi e metodi di produzione, si coltivava riso, grano e mais in una tenuta agricola modello. Quello che fece «in piccolo» nelle proprietà, lo pensò in grande per l’Italia. Il destino lo tolse non solo all’Italia ma all’Europa intera troppo presto. Giancristiano Desiderio  Corriere della Sera 9 maggio 2022

 Castello Cavour a Grinzane

Franca Porciani,  Cavour prima di Cavour. La giovinezza fra studi, amori e agricoltura. Prefazione di Nerio Nesi, Rubbettino (pagine 134,€ 13)

Franca Porciani, giornalista e scrittrice, è laureata in Medicina e specializzata in Geriatria e Gerontologia. Diventa giornalista professionista nel 1987 e pochi anni dopo viene assunta al «Corriere della Sera». Vi rimane per più di vent’anni

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L’INTERNAZIONALISMO DELLA RESA

04/05/2022 da Sergio Casprini

Caro Direttore,

come hai ricordato nell’editoriale di marzo (https://www.risorgimentofirenze.it/difendere-la-patria-degli-altri-popoli/) , uno dei valori risorgimentali più importanti è la solidarietà con i popoli che lottano per la loro libertà contro gli oppressori interni o esterni. Su questo sito è forse superfluo ricordare il respiro europeo del pensiero mazziniano che portò alla creazione della Giovine Europa, le generose imprese militari che fruttarono a Garibaldi il titolo di Eroe dei due mondi e la partecipazione di molti intellettuali europei, tra cui Santorre di Santarosa, alla lotta dei Greci per l’indipendenza. Le motivazioni alla base di questi movimenti hanno poi preso il nome, com’è noto, di “internazionalismo”.

Da circa due mesi e mezzo stiamo assistendo, per così dire, “in diretta” al dispiegarsi di un nuovo slancio internazionalista, cioè dell’amplissimo movimento di solidarietà in favore dell’Ucraina invasa dall’esercito russo. Una solidarietà che, oltre al contributo di circa ventimila combattenti stranieri, si esprime in numerose raccolte di fondi, nell’accoglienza dei profughi, nelle sanzioni economiche inflitte alla Russia e nell’invio di armi all’Ucraina aggredita.

A fronte di questo ampio schieramento in difesa della libertà ucraina, è purtroppo emerso, almeno per quanto riguarda l’Italia, un consistente “internazionalismo” di segno opposto, cioè di fatto a sostegno dell’aggressore. Un sostegno ora larvato ora più esplicito, ma tanto più repulsivo in quanto diretto verso una dittatura che cerca di schiacciare una democrazia, sia pure in fase di consolidamento. Personalmente non ricordo un altro caso in cui una parte dell’opinione pubblica e della classe politica si augurasse la resa o la rapida capitolazione di una nazione in lotta per la propria libertà. Accanto all’ormai pavloviano e inestirpabile anti-americanismo, mi pare che un ruolo importante lo stiano giocando l’orrore per la guerra in genere e la paura dell’estensione al resto d’Europa di quella in corso, a noi così vicina. Sentimenti rispettabilissimi, s’intende, anzi condivisibili.

Ma temo che la lunga pace, il benessere, la tranquillità di molti decenni, insieme al diffondersi di un pacifismo integralista, abbiano fatto evaporare la differenza tra vittima e aggressore.

Giorgio Ragazzini

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Alla storia dedichiamo sempre meno ore di studio e ce ne vantiamo pure  

03/05/2022 da Sergio Casprini

 

Il governo spagnolo ha approvato di recente nuove direttive sull’educazione, secondo le quali la storia non dovrà più essere insegnata cronologicamente. “Momenti come la conquista dell’America o la Rivoluzione francese – ha riferito il Mundo – non vengono menzionati e i contenuti sono raggruppati per blocchi tematici.

Ad esempio, ‘diseguaglianza sociale e lotta per il potere’, ‘emarginazione, segregazione, controllo e sottomissione nella storia dell’umanità’, ‘famiglia, lignaggio e casta’, ‘il ruolo della religione nell’organizzazione sociale’”. Questi blocchi tematici sembrano pensati a misura di una torsione in chiave etica della storia che, dopo averla separata dai fatti disposti secondo una sequenza temporale, rischia di renderla un’altra cosa: una materia edificante, uno spazio deputato alle perorazioni e sollecitazioni contro le diseguaglianze, l’emarginazione, il patriarcato e così via. Ma in realtà, magari senza la radicalità delle misure spagnole, l’emarginazione dell’insegnamento della storia è in atto da tempo in vari paesi europei. In Italia le misure prese negli ultimi decenni hanno soprattutto mirato alla drastica riduzione delle ore di insegnamento, favorendo quella che è stata definita una “dealfabetizzazione storica”. Possiamo solo intuire la portata del fenomeno, vista la mancanza di ricerche in merito che nessun ministro ha avuto evidentemente interesse a promuovere.

In realtà una ricerca che ha cercato di valutare il fenomeno ci sarebbe ma è come se non esistesse. E’ stata pubblicata pochi anni fa da una piccola stamperia editrice nel disinteresse generale: L. Allegra- M. Moretto, Che storia è questa. Gli adulti e il passato (Celid, 2018). Si tratta di un’indagine basata su oltre cento lunghe interviste rivolte a cittadini di varie età e con differenti titoli di studio (ma con una prevalenza di laureati e studenti universitari, data la minore disponibilità a farsi intervistare di chi ha un basso livello di istruzione). Gran parte delle risposte rivela una scarsa o nulla conoscenza della storia, con la diffusa presenza di madornali errori “come associare l’impero romano al Sacro romano impero; confondere i mecenati con i mercenari; collocare Carlo Magno nell’impero romano; mescolare civiltà greca e civiltà romana e magari situarle entrambe nel Duecento (inteso proprio come XIII secolo); per non parlare del coacervo caotico di date”. E’ molto significativo che le risposte siano decisamente peggiori per le fasce di età più giovani, dai 20 ai 39 anni, ciò che sembra indicare come le trasformazioni nell’organizzazione degli studi degli ultimi decenni abbiano peggiorato le possibilità di apprendimento della storia.

Per i laureati in materie umanistiche, gli autori notano un netto peggioramento delle conoscenze storiche in quanti hanno seguito l’ordinamento incentrato a partire dal 2004 sul cosiddetto 3+2 (lauree triennali e magistrali) rispetto alle fasce d’età superiori. Oltre a questo specifico settore di laureati, è per tutti gli intervistati più giovani che la ricerca documenta la presenza di scarsissime conoscenze, che non vanno oltre il ricordo di qualche nome o fatto sospeso nel nulla, come fuori dal tempo. Anzi, le fasce d’età più giovani non mostrano alcun interesse verso il passato, nemmeno verso quello più recente, “come se la distanza da esso si misurasse in centinaia d’anni e non in appena qualche decina”.

Insomma, un quadro terribile che è difficile non collegare alle decisioni assunte negli ultimi anni da chi ha governato il nostro sistema scolastico. Bisogna chiamare in causa non solo, come è ovvio, la già citata riduzione delle ore di storia ma anche la cosiddetta didattica delle competenze (cosiddetta, perché si attende da anni una chiara definizione del suo significato da parte dei suoi stessi proponenti), per la quale come la storia viene insegnata conta assai più di cosa si insegna. In questa prospettiva il sapere non è utile in sé ma conta per la sua dimensione applicativa, con la ovvia conseguenza che la storia finisce per contare poco o nulla. Dal libro di Allegra e Moretto si ricava anche che sono i più giovani a ignorare maggiormente la storia contemporanea, cioè proprio quel Novecento al quale il ministro Berlinguer aveva assegnato uno spazio assolutamente privilegiato. Lo aveva fatto tra gli applausi degli storici contemporaneisti, i quali non avevano compreso che in tal modo, ritenendo i fatti più recenti per ciò stesso come i più importanti, veniva assecondato uno schiacciamento della storia sull’attualità che nega alla radice il senso stesso della conoscenza storica.

Ormai c’è addirittura qualche esperto che, posseduto dal demone dell’attualizzazione, vorrebbe che l’ultimo anno delle superiori non venisse più occupato dalla storia del Novecento, ma fosse dedicato solo alla storia “molto contemporanea”, quella che va dalla metà del XX secolo agli inizi del XXI. E c’è altresì chi avanza l’ipotesi (il direttore della Fondazione Agnelli Andrea Gavosto nel recentissimo La scuola bloccata, Laterza) di distinguere tra materie fondamentali e opzionali: quali debbano essere le seconde non viene esplicitato, ma date le premesse c’è da temere che la storia vi sarebbe inclusa.

L’idea, o almeno l’ipotesi, che le riforme di questi anni abbiano peggiorato la situazione (per la storia, ma temo non solo per essa) e che bisognerebbe anzitutto valutare criticamente quello che si è fatto, come tentava di fare quell’indagine che ho citato, sembra invece non sfiorare nessuno.

Giovanni Belardelli Il Foglio Quotidiano 3 maggio 2022

 

 

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1° MAGGIO. La Festa del Lavoro

01/05/2022 da Sergio Casprini

Il Quarto Stato Giuseppe Pellizza da Volpedo 1898/1901 ( dettaglio)

Il 1° maggio del 1886 una grande manifestazione operaia si svolse a Chicago all’inizio di uno sciopero generale per portare l’orario di lavoro a otto ore.

Nei giorni seguenti si ebbero altre manifestazioni, in alcune delle quali la polizia sparò facendo numerose vittime. Ci furono arresti e condanne a morte. Il 20 luglio 1889, a Parigi, il Congresso della Seconda Internazionale decise che per ricordare quei fatti ogni Primo Maggio in tutto il mondo i lavoratori avrebbero manifestato chiedendo di ridurre per legge la giornata lavorativa a otto ore e di mandare a effetto altre risoluzioni approvate dal Congresso di Parigi. Nasce così la Festa del Lavoro, come festa internazionale, con manifestazioni e spettacoli in tutte le città e paesi del mondo. Dopo due anni anche in Italia fu celebrato il Primo Maggio, come riconoscimento delle battaglie dei lavoratori italiani nei primi decenni dell’Unità nazionale.
Dalla fine dell’Ottocento fino all’avvento della globalizzazione economica, con la conseguente trasformazione del mondo dell’impresa e dei servizi, c’è stata una progressiva affermazione dei diritti dei lavoratori, nonostante le battute d’arresto con il Fascismo e le vicende drammatiche delle guerre mondiali.
La conquista più significativa delle rivendicazioni sindacali è stata l’approvazione della legge del 20 maggio del 1970, lo Statuto dei Lavoratori, che reca appunto “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”. Si tratta di un corpo normativo fondamentale del diritto del lavoro che, parzialmente modificato e integrato nel corso di questi decenni, ancora oggi costituisce la disciplina di riferimento per i rapporti tra lavoratore e impresa.

Oggi però questi rapporti, in una società postindustriale, sono resi più complessi per la diffusione delle tecnologie digitali, per le nuove caratteristiche del mercato del lavoro e per la delocalizzazione delle imprese. Inoltre, nonostante l’innegabile progresso delle condizioni di vita degli italiani rispetto all’Ottocento, è oggi alta la disoccupazione giovanile e non vige ancora pienamente la parità tra uomo e donna nei luoghi di lavoro.
Ciò non significa comunque riproporre oggi una visione egualitaria di tipo ideologico come nelle rivendicazioni sindacali degli anni ’70, centrata esclusivamente sui diritti dei dipendenti pubblici e privati. Anzi, una battaglia sulla dignità e la qualità del lavoro deve essere centrata anche sul merito e sulla responsabilità, sui doveri oltre che sui diritti. Giuseppe Mazzini, di cui quest’anno ricorre il centenario della morte e al quale la nostra nazione riconosce d’esser stato uno degli artefici della nostra Unità, metteva addirittura i doveri prima dei diritti; e infatti tra il 1840 e il 1860 scrisse I Doveri dell’Uomo, dedicato agli operai italiani, che può essere considerato il suo testamento spirituale.
Vi si legge: “La libertà non esiste senza uguaglianza, ma non esistono né uguaglianza né libertà senza una profonda coscienza dei doveri a cui tutti siamo chiamati.”

Con queste finalità, il 24 febbraio del 1861 promosse la fondazione della Fratellanza Artigiana d’Italia, con sede nazionale a Firenze. La Fratellanza si affermò immediatamente come la più importante associazione operaia nel panorama nazionale, sia per numero di iscritti, sia per ambizioni politiche. Le finalità statutarie riflettevano gli intenti politici di formare una grande associazione nazionale, la prima che desse visibilità al mondo del lavoro, superando il localismo e la frammentazione delle associazioni fiorentine e italiane costituite negli stessi anni.
Sono gli stessi anni in cui si realizza il processo di unificazione del nostro Paese, in cui i valori di Libertà e Indipendenza si sostanziano solo in un contesto di democrazia politica, economica e sociale. E infatti oggi solo nelle nazioni democratiche, dove vigono la libertà di parola e il pluralismo delle idee, ha ancora un forte significato simbolico celebrare il 1° MAGGIO. La Festa del Lavoro.

Sergio Casprini
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Una rivoluzione passiva

27/04/2022 da Sergio Casprini

Sebastiano Ricci Papa Paolo III ha la visione del Concilio di Trento.  1687

Chiesa, intellettuali e religione nella storia d’Italia

Autore    Adriano Prosperi

Editore   Einaudi

Anno      2022

Pag.        448

Prezzo    € 34,00

La Riforma protestante, nata dall’aspirazione al ritorno alla purezza evangelica delle origini, fu in realtà una grande rivoluzione che trasformò profondamente culture e società di molta parte della moderna Europa. Invece nel contesto degli Stati italiani la pronta reazione della Chiesa romana e la politica di alleanze del papato dettero vita a una vicenda diversa sulla cui natura e sui cui esiti storici si è molto discusso. Si è parlato di Controriforma, riforma cattolica, disciplinamento sociale, pensando specialmente alla repressione del dissenso religioso. Ma in realtà si trattò non di un ritorno all’antico bensì di un riassetto profondo del sistema dei poteri. Mentre il papato consolidava la sua egemonia politica sui minori stati italiani e Roma diventava una grande capitale europea capace di attirare una nutrita élite intellettuale, mutava anche il rapporto tra il clero e i laici. Il governo religioso del popolo fu affidato a un clero diventato una corporazione di intellettuali. L’aspirazione da tempo diffusa a un mutamento profondo venne bloccata e congelata nei secoli da quella che si può definire una rivoluzione passiva.

Un tema chiave dell’importante ricerca di Adriano Prosperi è quello dei contrasti di idee e di forze intorno alla religione e alle Chiese cristiane nell’età della Riforma protestante e del Concilio di Trento. Nella discussione fra storici cattolici e storici filoprotestanti e liberali la differenza di valutazione del processo attraversato dal cattolicesimo nel passaggio dal Medioevo all’Età moderna – se cioè si sia trattato di una vera riforma della Chiesa o soltanto di una repressione delle idee riformatrici di stampo protestante – aveva trovato sintetica formulazione nelle contrapposte definizioni di Riforma cattolica e di Controriforma. Definizioni insoddisfacenti proprio perché continuavano in sede storiografica la controversia dottrinale tra le Chiese. Di fatto si trattò di un processo che non coinvolse la massa della popolazione. Davanti a un caso storico simile, il Risorgimento italiano, Antonio Gramsci ne rilevò il carattere di rivolgimento che non aveva coinvolto le masse popolari e non era passato attraverso una trasformazione dei rapporti sociali. Per definirlo Gramsci ricorse alla definizione di «rivoluzione passiva» coniata da Vincenzo Cuoco. La proposta di Adriano Prosperi, nel presentare questa raccolta di saggi, è quella di applicarla anche al processo storico attraverso cui venne mutando la realtà italiana nell’età della Riforma sotto la direzione e l’egemonia della Chiesa di Roma.

La Controriforma, dunque, come grande riassetto di poteri, come rivoluzione passiva. 


Adriano Prosperi (1939) è professore emerito di Storia moderna presso la Scuola Normale Superiore di Pisa. Tra le sue opere, nel catalogo Einaudi: Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari (1996 e 2009), Storia moderna e contemporanea (con P. Viola, 2000); Il Concilio di Trento: una introduzione storica (2001); Dare l’anima. Storia di un infanticidio (2005 e nuova edizione 2015); Giustizia bendata. Percorsi storici di un’immagine (2008); Cause perse. Un diario civile (2010); Delitto e perdono. La pena di morte nell’orizzonte mentale dell’Europa cristiana (2013 e nuova edizione 2016); La vocazione. Storie di gesuiti tra Cinquecento e Seicento (2016); Un volgo disperso. Contadini d’Italia nell’Ottocento (2019) e Un tempo senza storia. La distruzione del passato (2021).

 

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