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Risorgimento Firenze

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Sergio Casprini

Libertà, democrazia e diritti civili sono realtà indispensabili.

05/12/2022 da Sergio Casprini

Caro Direttore,

la scelta del tema per l’Editoriale del mese di dicembre, L’Europa dei diritti e delle libertà, mi pare particolarmente azzeccato. Di passaggio, mi fa venire in mente che, negli anni Settanta, si facevano grandi manifestazioni e direi una mobilitazione quasi continua a sostegno della rivoluzione iraniana che, allora, per come ci si presentava, soprattutto per ignoranza delle più intrinseche questioni, ma anche perché sapevamo dell’esistenza di un comitato rivoluzionario composto da varie forze, ci pareva una battaglia meritevole. Le ragioni erano quelle di allora, ma non immaginavamo certo che avrebbe prevalso la linea teocratica e sostanzialmente dittatoriale che poi si è rivelata. Altrimenti non ci saremmo agitati così, a meno che l’antiamericanismo di allora avesse fatto aggio sulla ragione.

Oggi le cose appaiono nella giusta luce ed è nella giusta luce che opporsi a quanto sta accadendo e alle molte cose che derivano dall’oscurantismo e dall’estremismo religioso si traducono in violazione anche feroce dei diritti umani. Non si tratta di difendere l’Occidente, entità indistinta che tutto ha a che vedere fuorché con presunti dati “genetici”, ma di difendere quei valori fondamentali che tu nomini e che hanno avuto ragione di svilupparsi in occidente. Libertà, rispetto delle idee, parità della donna, e quant’altro, hanno valore in sé, all’interno della coppia, nella famiglia, nella frazione sperduta della Scozia, nel Paesino serbo, nel Comune marocchino, nella Contea della Giorgia e perfino (irresistibile spero perdonabile richiamo della battuta) … a Livorno (ma sostituitelo con quale città del mondo volete e rideteci sopra). Questo è il punto. Non è superiore la donna o l’uomo occidentale perché è nato in un posto invece in un altro. Libertà, democrazia e le altre cose sono realtà indispensabili. Si tratta di valori oggettivi che potranno essere superati quando si troverà qualcosa di meglio. Se si mettesse a fuoco questa distinzione, non ci sarebbe di celebrare “la giornata del…”, ma ci sarebbe una generale e diffusa convinzione, soprattutto se si pensa alla libertà e alle altre cose non come a fatti individuali, ma a presupposti della convivenza per cui vanno difesi per gli altri ancora prima che per noi.

Cari saluti,

Fabio Bertini

 

Archiviato in:Lettere al Direttore

L’Europa dei diritti e delle libertà

01/12/2022 da Sergio Casprini

Si sta avverando il sogno di un’Europa sovranazionale, come nel 1941 si auguravano Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi nel cosiddetto Manifesto di Ventotene? Da quando è nata, l’Unione Europea (già Comunità Economica Europea) è cresciuta soprattutto con un compito preciso: contribuire a soddisfare le esigenze di benessere degli europei dopo gli orrori del nazismo, del fascismo e le macerie della guerra. Il suo più grande successo infatti è stato il mercato unico. Ma negli ultimi anni, nonostante le miopie nazionali e le lesioni allo stato di diritto inferte recentemente dall’Ungheria e dalla Polonia, oltre alla mancanza di una difesa comune, sia pure lentamente avanza il processo di unità politica, come nel contrasto al Covid e alle sue conseguenze economiche e con il pieno sostegno all’Ucraina nella sua lotta patriottica contro l’invasore russo, una forte iniziativa di politica estera e di sicurezza. D’altronde l’Europa è la culla di una società aperta, con le sue libertà civili ed economiche, la democrazia liberale, il governo della legge.
Sorprende quindi l’assenza di posizioni altrettanto forti della Comunità europea per quanto succede in Iran, dove, dopo la morte della ventiduenne curda Mahsa Amini, arrestata dalla polizia morale perché indossava il velo in maniera inappropriata, la repressione violenta di quello stato teocratico non è riuscita ancora dopo due mesi a domare la protesta delle donne iraniane, che si sta trasformando in una sfida sempre più radicale al regime degli ayatollah. E se pure il 14 novembre l’UE ha adottato sanzioni nei confronti dei responsabili di gravi violazioni dei diritti umani in Iran, come ha dichiarato l’alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza europea Josep Borrell, si continua ancora da parte delle Istituzioni comunitari a fare poco di fronte alla situazione tragica delle donne iraniane.

Asra Panahi, la sedicenne iraniana pestata a morte dalla polizia perché, insieme ad altre compagne,si era rifiutata di cantare un inno a Kamenei

Certo non vale come giustificazione il fatto che l’Iran non è un paese europeo come l’Ucraina e quindi non sarebbe legittimo attuare forti iniziative di ingerenza nelle questioni interne di un’altra nazione pur in presenza di gravissime violazioni dei diritti fondamentali, in particolare delle donne.
E di dovere di ingerenza da parte dell’Unione Europea si parla invece in un appello (promosso dal Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità) sottoscritto da autorevoli esponenti della cultura, dell’Università, della società civile.
L’appello inviato alla rappresentanza dell’UE a Roma e ai deputati italiani a Bruxelles inizia con queste parole: Un grande movimento che vede in prima fila gli studenti e le studentesse si sta battendo in Iran contro uno spietato regime tirannico in nome delle libertà nate in Europa. Libertà di cui nelle scuole i ragazzi studiano la storia, le lotte per conquistarle e per riconquistarle, l’importanza di difenderle.
Ma in Italia gli studenti e le studentesse hanno protestato contro lo spietato regime teocratico iraniano? Hanno fatto qualche sit in davanti all’ambasciata iraniana a Roma?
Ad oggi le manifestazioni e alcune rare occupazioni di istituti, tra l’altro di minoranze rumorose a fronte di maggioranze silenziose degli studenti, hanno mostrato lo stucchevole rituale di ogni inizio scolastico, con slogan e parole d’ordine contro il ministro della Pubblica Istruzione di turno e il governo in carica, rivelatrici di conoscenze confuse o di visioni ideologiche anacronistiche, senza il possesso di un’effettiva preparazione civica e politica, oltre che storica.
Il ministro Valditara in alcune dichiarazioni ha giustamente richiamato sia i docenti che gli studenti a un maggior senso di responsabilità, da una parte riconoscendo che va ripristinata la dignità e l’autorevolezza del ruolo dell’insegnante, dall’altra invitando gli allievi a un maggior impegno di studio senza più l’uso ludico dei cellulari, auspicando che in classe tornino il concetto di Patria (e di integrazione europea) e il rispetto degli insegnanti. Tuttavia, come altri precedenti ministri della P. I., non ha posto l’esigenza di ridare il giusto valore alle discipline, perno fondamentale di una reale formazione culturale, tra cui appunto la Storia, pena il balbettio infantile dei nostri studenti di fronte a drammatiche crisi internazionali, dove sono in gioco i diritti civili e le libertà dei popoli.

  • L’appello:  https://gruppodifirenze.blogspot.com/2022/11/inviato-alle-istituzioni-europee.html?fbclid=IwAR1OUrsBLMF7tBJhNnBE1vhVhAZo8vIEcVVpQp4auuUooU5BCIpqAzQWOHw

Sergio Casprini

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GEPPINO MICHELETTI (1905-1961)

24/11/2022 da Sergio Casprini

Vita, opere e riconoscimenti del medico eroe della strage di Vergarolla

Geppino Micheletti (1905-1961) di Duccio Vanni è il libro pubblicato da Apice Libri che racconta la storia, poco nota, del medico Geppino Micheletti.

 E’ il 18 agosto 1946 quando sulla spiaggia di Vergarolla a Pola, in un’Istria ancora italiana, si sta per svolgere una manifestazione natatoria. Gli ordigni bellici rimasti in loco, considerati inerti in quanto senza detonatori, vengono fatti esplodere da una mano rimasta sconosciuta nonostante le numerose indagini svolte nel corso dei decenni. Il tragico bilancio è di circa 100 vittime, in buona parte bambini. Il medico Geppino Micheletti, nonostante abbia saputo che nello scoppio sono periti i suoi due figli, di 6 e 9 anni, il fratello e la cognata, si prodiga ininterrottamente per 24 ore presso l’ospedale cittadino per curare i superstiti. La strage darà il colpo definitivo alle residue speranze della numerosa comunità italiana di poter rimanere nella propria terra: l’esodo giuliano-dalmata vedrà 350.000 persone costrette ad andare in esilio, per sfuggire alle repressioni dell’ostile e violento regime jugoslavo di Tito.

Duccio Vanni. Ricercatore– Storia della medicina Dipartimento di Scienze della Salute- Università degli studi di Firenze

Autore      DuccioVanni

Editore    Apice Libri

Collana    Storie

Anno        2022

Pagine     128

Prezzo      € 12

 

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Leonardo Dudreville e l’avanguardia negli anni Dieci

16/11/2022 da Sergio Casprini

Nuove Tendenze

Leonardo Dudreville e l’avanguardia negli anni Dieci
a cura di Francesco Parisi
in collaborazione con l’Archivio Leonardo Dudreville

15 ottobre 2022 – 8 gennaio 2023

FONDAZIONE CULTURALE RAGGHIANTI Via S. Micheletto 3 Lucca 

1909 Autoritratto

Il percorso di Leonardo Dudreville (1885-1976), tra i fondatori nel 1913 del gruppo Nuove Tendenze, è esemplare per comprendere la situazione delle avanguardie artistiche nella particolare congiuntura in cui si muovevano sia i Futuristi, sia quei giovani che, non riconoscendosi pienamente nei princìpi del movimento di Marinetti e Boccioni, cercavano via autonome.

La mostra Nuove Tendenze. Leonardo Dudreville e l’avanguardia negli anni Dieci, a cura di Francesco Parisi, realizzata con il sostegno della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca e con il contributo di Anthilia Sgr e di Banco BPM, offre lo spunto per un’indagine approfondita sul periodo e sulla situazione che portò, nella Milano del tempo, alla formazione di questo eterogeneo gruppo.

Il percorso di Dudreville è paradigmatico per tracciare una mappatura completa degli anni cruciali del primo anteguerra italiano, quando, con lo spostamento dell’asse futurista verso Roma, Milano divenne un centro aperto a diverse sperimentazioni artistiche. La mostra segue la sua carriera dalla fase divisionista, culminata con l’ingresso nella celebre galleria del mercante Alberto Grubicy, che tanto contribuì alla diffusione anche all’estero dell’arte derivata da Giovanni Segantini, fino alle esperienze astrattiste (fra i primi esempi italiani del genere), per concludersi con il riavvicinamento alla compagine futurista e alla stesura del manifesto Contro tutti i ritorni in pittura nel gennaio del 1920.

Il movimento Nuove Tendenze è esaminato nell’ambito di questo vivace contesto espositivo, che comprendeva anche le cosiddette mostre di ‘fronda’ che precedettero la formazione del gruppo (composto, oltre che da Dudreville, da Adriana Bisi Fabbri, Mario Chiattone, Carlo Erba, Alma Fidora, Marcello Nizzoli, Giovanni Possamai e Antonio Sant’Elia). In particolare, la Mostra di Arte Libera (1911) e la Mostra dei Rifiutati del Cova (1912), che, con l’esposizione Nuove Tendenze, costituirono i principali momenti in cui l’avanguardia milanese si propose come alternativa rispetto ai canali ufficiali legati al mondo accademico.

Nell’itinerario espositivo una sezione è dedicata proprio a opere e artisti presenti nella mostra del Cova, alcuni dei quali confluirono poi in Nuove Tendenze, come Carlo Erba e Achille Funi, ma anche Mario Chiattone, che ne disegnò la copertina del catalogo in puro stile secessionista, rivelando l’affinità dell’esposizione alle similari esperienze europee (lo palesano, per esempio, alcuni dipinti di artisti quali Aroldo Bonzagni).

1919 Il caduto

Accanto ai lavori di Leonardo Dudreville eseguiti fra il 1905 e il 1919 – anno in cui realizzò Il caduto, che segna il punto di passaggio verso un nuovo concetto di figurazione – le opere degli artisti aderenti al movimento accompagnano dunque il visitatore nel brillante clima culturale d’inizio secolo, in un percorso che va dagli avveniristici progetti architettonici di Mario Chiattone e Antonio Sant’Elia alle indagini pittoriche di Adriana Bisi Fabbri, Carlo Erba e Marcello Nizzoli, alla scultura di Giovanni Possamai, fino a giungere al manifesto Contro tutti i ritorni in pittura, firmato da Dudreville assieme ad Achille Funi, Luigi Russolo e Mario Sironi, che chiude idealmente la mostra.

La mostra è accompagnata da un libro-catalogo edito dalla Fondazione Ragghianti con Silvana Editoriale, che includerà le riproduzioni delle opere esposte, di documenti e di materiali d’epoca, e i saggi del curatore Francesco Parisi con quelli di Alessandro Botta, Niccolò D’Agati, Roberto Dulio, Elena Pontiggia e Sergio Rebora, studiosi specialisti della materia.

Orari di apertura:
dal martedì alla domenica dalle ore 10 alle 18, con apertura anche il 1° novembre, 8 dicembre, 26 dicembre, 1° gennaio e 6 gennaio (chiusa il 25 dicembre).

Visite guidate​​​​

A partire dal 15 novembre sarà possibile prenotare visite guidate della mostra, che saranno disponibili ogni sabato e domenica alle ore 10:30 e alle ore 15:30.
La prenotazione è obbligatoria e consentita fino all’esaurimento dei posti, per un massimo di 20 persone a gruppo. Il costo delle visite guidate è di 52 euro, oltre al prezzo del biglietto, di 4 euro a persona.

Per informazioni e prenotazioni: tel. 0583 467205

Dal Sito della Fondazione Ragghianti

https://www.fondazioneragghianti.it/category/mostre/

Fondazione Ragghianti

 

 

 

 

 

 

 

 

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Il popolo del Risorgimento nel film di Blasetti

13/11/2022 da Sergio Casprini

 

Lettera al Corriere della Sera 12 novembre 2022

 

Aldo Cazzullo in un suo articolo sul Corriere della Sera, dice bene: «Non è vero che nel Risorgimento non ci sia il popolo».

Istruttiva risulta in questo senso la visione del film di Alessandro Blasetti «1860», che pure racconta una vicenda romanzata sullo sfondo storico del Risorgimento: il giovane pastore e patriota siciliano Carmeliddu, sposato con Gesuzza, deve lasciare la sua donna per raggiungere il continente e qui sollecitare Giuseppe Garibaldi ad attuare lo sbarco dei Mille in Sicilia. Per realizzare il film, Blasetti legge Noterelle di uno dei Mille di Giuseppe Cesare Abba, compulsa la bibliografia prodotta per il cinquantenario della morte di Garibaldi, le carte depositate presso gli archivi di Napoli e Palermo, utilizza come fonti iconografiche il libro di Gustavo Sacerdote Mode, costumi, divise borboniche e i quadri dei pittori Girolamo Induno e Silvestro Lega.

Nasce così il film «1860» che, prodotto nel 1933, appare nelle sale nel 1934 e poi verrà rieditato nel 1951 in versione ridotta con il sottotitolo «I Mille di Garibaldi». A dispetto dell’omaggio al fascismo quando sostiene la tesi della continuità Risorgimento-Grande Guerra-Fascismo e stabilisce una somiglianza tra la figura di Garibaldi e quella di Benito Mussolini, «1860» è un film antiretorico e poco celebrativo. Non dispiacque infatti alla gioventù intellettuale antifascista: «Fummo il pubblico che batteva le mani a “1860” di Blasetti e che fischiava Forzano (regista del film di propaganda fascista “Camicia nera” del 1933)» ricorderà il comunista Lucio Lombardo Radice, figlio del pedagogista Giuseppe.

Più in particolare, il film descrive un’Italia popolata dai dialetti di diverse regioni e dagli esponenti di tutte le classi sociali.

Lorenzo Catania

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L’eredità di nonna Lisa che amava il tricolore

09/11/2022 da Sergio Casprini

LETTERE AL CORRIERE DELLA SERA

9 novembre 2022

Avrebbe compiuto 111 anni Luisa Zappitelli, «nonna Lisa» per tutti: era nata l’8 novembre 1911 a Villa Seminario di Città di Castello. Se ne è andata il 19 giugno 2021, pochi giorni dopo le celebrazioni del 2 giugno, Festa della Repubblica, che lei aveva impressa nel cuore come data simbolo del calendario della vita accanto al 25 Aprile, all’8 marzo e al Primo Maggio, festa dei lavoratori. Anche in quella occasione dalla finestra di casa accanto alla figlia Anna Ercolani, professoressa in pensione, omaggiata da un indimenticabile concerto improvvisato sul giardino dal maestro Fabio Battistelli e dalla musica del suo clarinetto ispirata all’Inno di Mameli, aveva baciato il tricolore  e appoggiato la guancia su di esso a testimoniare tutto il suo amore per la Patria. «Quella immagine è la sintesi della sua vita — racconta la figlia Anna —, la mamma è stata e sarà sempre una donna straordinaria che lascia in particolare ai giovani una eredità importante. È l’immagine dei momenti belli e brutti, delle conquiste sociali, del primo voto nel 1946 con alcune amiche, delle passioni, dell’amore per la vita e la famiglia. La mamma, per tutti nonna Lisa è stata questo e tanto altro e lo sarà spero anche in futuro per le giovani generazioni per i valori e i sentimenti per la patria e le regole, anche quelle stradali, come il casco da indossare e i limiti di velocità da rispettare. E poi l’amore innato e ammirazione verso il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per lei e per noi da sempre punto di riferimento da seguire fino agli ultimi istanti di vita. Così e per sempre la vogliamo ricordare».
Giorgio Galvani

 

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La Storia appartiene a tutti

07/11/2022 da Sergio Casprini

 

La Storia è ricerca della verità. Una verità sempre da esplorare, completare e aggiornare. Sempre in divenire.

Livio Ghelli

La volontà di ascoltare e capire, la riflessione, la capacità di uscire dal nostro ambito di tempo, spazio, orizzonte sociale, e di rapportarsi ad altri esseri umani che appartengono a mondi diversi, ma non per questo sono meno umani di noi… Cose come queste stanno alla base della democrazia. Sempre che si tratti di una democrazia vera, e non del fantasma di una democrazia che fu. E queste stesse qualità etiche e intellettuali ritengo siano alla base della formazione di un vero storico. Sia i pensatori dell’Illuminismo che quelli del Romanticismo, nell’elaborare una idea di società basata su concetti di giustizia sociale, di libertà, di uguale dignità, hanno approfondito e portato ad altissimi livelli gli studi storici, sotto il profilo del metodo, come del rigore e dell’onestà intellettuale.

I rivoluzionari del Risorgimento, che negli anni Venti dell’Ottocento si battevano contro la tirannia, per la Costituzione, a Barcellona, Madrid, Napoli o San Pietroburgo, e, più tardi, a Parigi, Varsavia e Milano, erano figli tanto del pensiero di Voltaire, Montesquieu, Pietro Verri, Beccaria, Kant,  quanto dello storicismo di Vico, Tocqueville, Manzoni, Michelet… Anche i più incolti, quelli che leggevano pochissimo, lo erano senza saperlo, perché certe idee circolavano come l’aria, anche se la Restaurazione si era affrettata a chiudere le finestre. Stessa cosa per i patrioti che lottavano per l’indipendenza della propria nazione, ricercata nelle origini, nella lingua e nelle tradizioni, attraverso le indagini e la riscoperta del medioevo e dell’età comunale, gli studi di storia della lingua, letteratura e tradizioni popolari. Per esigere e forgiare un mondo nuovo occorre sapere da dove veniamo e chi siamo. A questo serve la Storia. Che praticata seriamente è sempre rivoluzionaria.

Anziché definire in cosa consiste la Storia, mi riesce più facile scrivere ciò che gli studi storici, a mio parere, NON dovrebbero mai essere: Non una riserva di specialisti. Non una storia che elimina le voci contrarie. Non una storia ufficiale, autocelebrativa e immutabile. Non una storia con effetti speciali.

Credo che la Storia sia di tutti e tale dovrebbe rimanere, non può essere una esclusiva di specialisti che vieta l’ingresso ai non addetti, compreso chi certi fatti li ha vissuti sulla propria pelle e potrebbe lucidamente darne testimonianza. Una storia accomodata, secondo tesi precostituite, è una storia falsa, che elimina le fonti contrarie a quanto lo scrittore/avventuriero si propone di dimostrare. Non può esserci nemmeno una storia ufficiale, autocelebrativa, che nasconde i panni sporchi anziché verificarli, e tralascia deliberatamente fatti, testimonianza, documenti contrari a quanto si vuole consacrare. E neanche è vera storia una ricostruzione che perda il senso delle proporzioni tra i fatti narrati, e parli solo all’emotività.

Non c’è mai una causa unica, io penso: lo storico deve ricercare, di un evento storico, le varie cause. In fondo il suo lavoro è un esame di coscienza, della sua coscienza critica. Perché la Storia è ricerca della verità. Una verità sempre da esplorare, completare e aggiornare. Sempre in divenire.

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Donne e merito nel Risorgimento e nella Repubblica italiana

01/11/2022 da Sergio Casprini

Rosalia Montmasson nel 1861

“Tra i tanti pesi che sento gravare sulle mie spalle oggi, non può non esserci anche quello di essere la prima donna a capo del governo in questa Nazione. Quando mi soffermo sulla portata di questo fatto, mi ritrovo inevitabilmente a pensare alla responsabilità che ho nei confronti delle tante donne che in questo momento affrontano difficoltà grandi e ingiuste per affermare il proprio talento o il diritto di vedere apprezzati i loro sacrifici quotidiani…”. Con queste parole, nell’ intervento con cui ha chiesto la fiducia al suo governo, Giorgia Meloni ha voluto ricordare sedici donne italiane che dall’Unità d’Italia a oggi hanno per prime ricoperto ruoli prima considerati esclusivamente maschili nei campi della politica, della cultura, delle professioni e dello sport. Tra le altre, a partire dal Risorgimento, le figure dell’aristocratica Cristina Trivulzio di Belgioioso, elegante organizzatrice di salotti e infermiera sulle barricate della Repubblica Romana, di Rosalie Montmasson, di umili origini, che partecipò all’impresa dei Mille, per arrivare agli anni della Resistenza e della Repubblica con la cattolica Tina Anselmi, partigiana e poi politica democristiana, prima donna ad avere avuto la responsabilità di un ministero (quello del lavoro e della previdenza sociale); e che nel 1978, da Ministro della Sanità, firmò, pur cattolica, la Legge 194 per l’interruzione volontaria della gravidanza; e la comunista Nilde Jotti, anch’essa militante della Resistenza, poi membro dell’Assemblea costituente e infine prima donna Presidente della Camera dei deputati nel 1979 (poi confermata per altre due legislature).

Nilde Jotti

Certamente questo è potuto avvenire, non senza perseveranza e fatica, nel contesto delle democrazie di tipo occidentale, all’interno delle quali solamente si può realizzare una vera emancipazione politica e sociale delle donne. E basta pensare, a confronto, al regime teocratico iraniano, che in questi giorni fronteggia con la violenza innumerevoli manifestazioni, pacifiche quanto coraggiose, contro la cosiddetta apartheid di genere e per la fine del regime dei mullah. Se è apprezzabile il riconoscimento da parte del nuovo Presidente del Consiglio del ruolo delle donne italiane nella storia del nostro Paese, manca invece un riferimento all’attuale disparità di genere nella società italiana. Ancora oggi in Italia il divario fra donne e uomini nei tassi di occupazione rimane tra i più alti di Europa: circa 18 punti percentuali su una media europea di 10; come giustamente ricordava Draghi, quando, all’insediamento del suo governo, tra le priorità del suo programma propose la mobilitazione di tutte le energie della società italiana per il rilancio dell’economia nazionale, a partire dal coinvolgimento delle donne. Una vera parità di genere però non significava, secondo Draghi, un farisaico rispetto di quote rosa richieste dalla legge: richiedeva che venissero garantite parità di condizioni competitive tra generi, valorizzando il criterio del merito, a partire da una rigorosa formazione culturale, professionale e politica.

In questi giorni, sul merito è riemerso un dibattito molto acceso, dopo che alla denominazione del Ministero dell’Istruzione è stata aggiunta per l’appunto l’espressione “e del merito”, inteso dai contrari come inestricabilmente legato al privilegio sociale. Dimenticando che l’art. 34 della Costituzione recita: “I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. I talenti vanno valorizzati, quali che siano, non solo nella scuola, ma anche nel campo del lavoro, nelle imprese, nelle professioni, nello sport; e bisognerebbe parlare del merito in termini di emancipazione collettiva: l’obiettivo non è il singolo, ma la crescita della società, grazie a interventi che, favorendolo, possano avere un impatto significativo sulla maggioranza delle persone. Lo comprese bene, verso la fine degli anni ’80, Claudio Martelli, esponente di primo piano del partito socialista, quando lanciò un ambizioso progetto politico di uscita da una visione classista della società, sintetizzato nella diade “Meriti e bisogni”. L’idea era quella di lasciarsi alle spalle obsolete ideologie anticapitalistiche, per dare vita a “un’alleanza riformatrice tra coloro che possono agire mettendo a frutto i propri talenti e coloro che devono agire per uscire dall’emarginazione, dando così nuovo vigore alla tradizione del socialismo riformista di Turati e della Kuliscioff.

Sergio Casprini

Filippo Turati

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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EUROPA E NAZIONE

24/10/2022 da Sergio Casprini

La destra ne fa uno stile, la sinistra dice Paese, un po’ tutti diciamo patria; Stato non lo dice nessuno. 

 Aldo Cazzullo  Corriere della Sera 23 0tt0bre

La parola chiave di Giorgia Meloni è nazione. «Questa nazione» ha ripetuto per due volte nel brevissimo discorso all’uscita del Quirinale. «Nazione» è il motto ricorrente dei ministri dopo il giuramento. Non è difficile prevedere che la stessa parola riecheggerà più volte nell’intervento al Senato e alla Camera della prima donna presidente del Consiglio. Le parole sono importanti. In particolare quelle con cui si indica l’Italia. La sinistra dice di solito «questo Paese»; e più è radicale, populista, indignata, più calca l’accento su «questo», come a dire che l’Italia è altro rispetto a loro, e gli italiani (come da titolo dell’ultimo libro di Francesco Cossiga) sono sempre gli altri.  Un vecchio poster di An diceva: «Prima eravamo in pochi a dire la parola patria, ora siamo la maggioranza». Non era un poster sbagliato.

Carlo Azeglio Ciampi

Ci fu un tempo in cui patria era una parola connotata a destra; ora la usano un po’ tutti. Decisivo è stato il grande lavoro politicoculturale di Carlo Azeglio Ciampi, che sul recupero della patria e dei suoi simboli — l’inno, il tricolore, financo il famigerato Vittoriano, che in realtà è bellissimo — ha costruito il proprio settennato. Ciampi dimostrò che la patria, frettolosamente data per morta dopo l’8 settembre 1943, era invece radicata nel cuore degli italiani; a cominciare proprio da coloro che all’indomani dell’8 settembre si batterono a Cefalonia contro i tedeschi, dando inizio alla Resistenza. L’idea della Resistenza plurale, e non «cosa di sinistra», è entrata o meglio rientrata nella discussione pubblica proprio con Ciampi. E il presidente, visitando El Alamein e gli altri campi di battaglia, ha restituito dignità e onore ai combattenti della Seconda guerra mondiale, tra i quali lui stesso; in Albania il giovane tenente Ciampi se la vide brutta, e amava ricordare che gli alpini della Julia — motto: «Mai daur», mai indietro — avevano salvato una spedizione mal preparata e peggio comandata, immolandosi sul Pindo per dare il tempo agli altri soldati italiani di ripiegare.

Ma patriottismo non è sinonimo di nazionalismo. «Il nazionalismo è la guerra» diceva un altro presidente che la guerra l’aveva conosciuta, François Mitterrand (caduto con il suo reparto nelle mani dei tedeschi dopo il crollo francese, per tutta la vita concesse il tu solo ai compagni di prigionia). E ancora oggi il nazionalismo estremo ha acceso una guerra sui confini orientali d’Europa.  Ovviamente Giorgia Meloni usa la parola «nazione» in un’altra ottica. Nessuna obiezione, se il senso è dire che l’unità italiana è indissolubile, con buona pace di nordisti e sudisti, dei vecchi leghisti che ancora sognano se non la secessione un’autonomia totale, e dei neoborbonici secondo cui la colpa dei mali del Sud è del Nord. Ma se il senso è contrapporre la nazione italiana, che tutti o quasi amiamo, alle altre nazioni europee, allora le obiezioni sono legittime. A cominciare alla prima: l’interesse nazionale, giustamente caro alla Meloni, in questa fase storica non passa certo per la contrapposizione con l’Europa. Anzi. La costruzione europea doveva servire a un italiano a non sentirsi straniero a Berlino, a Madrid, a Parigi; il che non vuol dire solo andare nelle altre capitali senza passaporto e senza dover cambiare valuta, ma percepire la nostra nazione come ormai indissolubilmente legata alle nazioni tedesca, spagnola, francese; nella prospettiva di unirle in un’unica nazione europea. In Francia si è votato pochi mesi fa per scegliere tra un presidente che fa suonare l’Inno alla Gioia prima della Marsigliese, e una candidata che aveva annunciato di voler togliere le bandiere europee, perché non intendeva «governare una regione d’Europa». Giorgia Meloni da che parte sta? Dalla parte di Emmanuel Macron, che ha vinto — e sarà il primo capo di Stato che lei incontrerà —, o da quella di Marine Le Pen, che ha perso?

 Carlo Bossoli, La battaglia di Solferino 1859

Contrapporre una nazione all’altra non porta lontano; e non solo perché senza l’armata francese, vincitrice a Magenta e a Solferino a prezzo di migliaia di morti, la nazione italiana non esisterebbe; e forse non sarebbe sopravvissuta senza i fanti francesi e inglesi schierati sul Piave dopo Caporetto (anche se la prima resistenza sul fiume si deve ai nostri nonni). Certo, dall’Europa gli inglesi si sono chiamati fuori; ma siamo sicuri che abbiano fatto un affare?

Se dire «nazione» significa essere consapevoli e orgogliosi di noi stessi, bene; se significa considerare l’Europa una sovrastruttura burocratica da cui guardarsi, va meno bene. E non è comunque nell’interesse di un Paese che veleggia verso i tremila miliardi di debito pubblico, finanziato dalla Banca centrale europea, posseduto per almeno il 10% dagli investitori francesi, e di fatto garantito dai tedeschi, che hanno accettato il debito comune del Pnrr e prima o poi accetteranno di farne altro per vincere la battaglia dei prezzi. A maggior ragione ora che i tassi tornano a salire, e aumenta il costo del denaro, l’Italia ha bisogno dell’Europa come non mai. E fino a quando gli europei non eleggeranno tutti insieme il loro presidente, gli egoismi nazionali — lo dimostra proprio in questi giorni la Germania — saranno sempre destinati a prevalere. Come dice uno dei mentori di Giorgia Meloni, Vittorio Feltri, nel condominio europeo noi siamo l’inquilino moroso: l’ultimo che può alzare la voce.

In sintesi: la sinistra dice Paese, la destra dice nazione, un po’ tutti diciamo patria; Stato non lo dice nessuno. Fa venire in mente i bolli, le code, le tasse. Lo Stato è sempre altro rispetto a noi: il poliziotto è lo sbirro, il Palazzo di Giustizia il Palazzaccio. Forse la nuova destra di governo dovrà occuparsi anche di questo.

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IL GIARDINO DI DOGLIANI DOVE RIPOSA LUIGI EINAUDI

13/10/2022 da Sergio Casprini

 

LETTERE al Corriere della Sera 13 ottobre 2022

Caro Aldo, nella sua risposta (Corriere, 28 settembre) ho notato che, tra i nomi degli illustri piemontesi da lei citati non appare quello di Luigi Einaudi. Non voglio credere che si sia trattato di una volontaria omissione, bensì di un semplice lapsus calami. Io, da liberale quale sono stato e quale sono tuttora nella mia tardissima età, ma purtroppo senza più quel partito di Benedetto Croce e Luigi Einaudi in cui militai, ne sono rimasto dispiaciuto, pur, come ho già detto, non facendogliene una colpa. Perché non ci parla di questa grande figura di cui sarebbe attualissimo oggi rileggere le sue stupende pagine del libro «Le prediche inutili»? Luigi Morelli, Fabriano (An)

Caro Morelli, lei ha perfettamente ragione. Il nome di Luigi Einaudi e di suo figlio Giulio mi è rimasto nella penna. Ma ora rimediamo. Quando chiesi a Elémire Zolla, lo scrittore-sciamano che leggeva il Mahabharata in sanscrito, quali fossero stati i libri della sua formazione, rispose: «La Scienza delle Finanze di Luigi Einaudi. È il libro più importante mai stato scritto da un italiano nel secolo ventesimo».

Einaudi insegnava all’Università di Torino. Un giorno gli entrò in ufficio uno dei suoi studenti. Una matricola. Era il figlio di un droghiere, che aveva una bottega nel centro di Torino. Quel ragazzo chiese a Einaudi se volesse scrivere un articolo per una piccola rivista che aveva deciso di pubblicare. Specificò di non poter pagare. Einaudi fu attratto dalla sua intelligenza, e anche dal suo coraggio. E rispose che avrebbe scritto molto volentieri l’articolo, senza compenso. Il ragazzo si chiamava Piero Gobetti, e sarebbe morto qualche anno dopo in esilio, a Parigi, dopo essere stato manganellato per tre volte. Einaudi fu tra i liberali che si illusero di poter usare il fascismo contro le sinistre e ricondurlo nell’alveo della democrazia. Si accorse ben presto di essersi sbagliato. Non fu un antifascista attivo, giurò fedeltà al regime come quasi tutti i docenti; ma un altro suo allievo illustre, Edgardo Sogno, lo ricordava al suo esame di laurea in camicia bianca, in mezzo a colleghi in camicia nera.

Dopo la Liberazione, Einaudi fece la politica economica del nostro Paese, da ministro delle Finanze, governatore della Banca d’Italia, presidente della Repubblica. Era favorevole a una lira forte e contrario all’assistenzialismo: sosteneva che la ricchezza, prima di essere redistribuita, andasse creata. A lungo molti commercianti italiani hanno affisso nella loro bottega una sua citazione, in cui elogiava la laboriosità dei negozianti, degli artigiani, dei piccoli imprenditori, e prendeva le loro difese dall’invadenza della burocrazia. Ha vissuto una vita lunga e serena, e riposa in un luogo molto bello, un giardino nel cimitero di Dogliani, accanto alla signora Ida, a Giulio e altri figli e parenti, di cui tutti sulle Langhe custodiscono una memoria grata e affettuosa.

Aldo Cazzullo

 

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