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Risorgimento Firenze

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Alessandra Campagnano

Attualità del XX settembre

23/09/2016 da Alessandra Campagnano

breccia

Intervento di Alessandra Campagnano  del Comitato Fiorentino per il Risorgimento alla ricorrenza del XX SETTEMBRE  in piazza dell’Unità a Firenze

Permettetemi di ricordare, prima della celebrazione dell’anniversario di Porta Pia, il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi che da ieri riposa nel cimitero di Livorno. È a lui che si deve – come è stato ricordato nei giorni scorsi – la rivalutazione con orgoglio dell’essere italiani con la bandiera e con l’inno. A lui il nostro ringraziamento sincero, perché – come ha ricordato Fabio Bertini bel fondo sul nostro sito – “aveva contribuito a raccordare  la società civile e i valori del Risorgimento”.

Ormai da alcuni anni abbiamo ripreso a celebrare la data del 20 settembre, anniversario della breccia di Porta Pia. Con quel fatto si compiva una delle aspettative del Risorgimento italiano: che Roma fosse la capitale dell’Italia riunificata dopo secoli di oppressione: “Ché schiava di Roma/Iddio la creò”, come recita la prima strofa del Canto degli Italiani. Era un sogno che univa trasversalmente programmi politici di diversa  impostazione: avviato dai democratici con la Repubblica romana e proseguito poi con le sfortunate spedizioni garibaldine del 1862 (Aspromonte) e del 1867 (Mentana) si realizzò per intervento dell’esercito italiano dopo la fine del II impero francese, nonostante che subito dopo l’unità il cattolico liberale Bettino Ricasoli da primo ministro avesse avviato tentativi diplomatici per convincere il Pio IX e la curia romana a risolvere il nodo di Roma in modo pacifico. La breccia di Porta Pia segnò la fine del potere temporale dei papi e l’inizio di un percorso lungo e difficoltoso per la storia d’Italia. Eppure, come 100 anni dopo sottolineò Paolo VI, quell’evento fu una benedizione per la Chiesa perché la liberò dagli impicci della gestione di affari che la distraevano dalla sua dimensione spirituale.

Al tempo di Pio IX in ambito cattolico i più ritenevano che il potere temporale servisse a dare autonomia ala papato proprio nella sua missione spirituale. Invece lo stato italiano non impedì alla Chiesa di portare avanti la sua missione spirituale, attraverso lo Statuto Albertino, per quanto restrittivo nel dare rappresentanza alla totalità dei “regnicoli”, con il rinforzo della legge delle guarentigie, garantiva pur sempre che la religione cattolica era religione di Stato, ma garantiva anche libertà di culto alle minoranze di ebrei e valdesi con le Regie lettere patenti del 1848, e non impediva alle organizzazioni religiose di svolgere attività caritativa e assistenziale a favore dei più bisognosi. Per citare un esempio a noi vicino, la Venerabile Arciconfraternita della Misericordia continuò la sua opera. Però per la Chiesa del Sillabo e del dogma dell’infallibilità papale, per i cattolici non era conveniente (non expedit) partecipare alla vita politica di quello Stato che aveva soppresso il potere del papa-re. Fu una frattura destinata a pesare nella vita dello stato, creando non poche problemi di coscienza in quei cattolici che, come Alessandro Manzoni, Gino Capponi, Bettino Ricasoli – i cattolici liberali – avevano partecipato e continuavano, anche dopo Porta Pia, a partecipare alla costruzione dello stato unitario. Con il non expedit  per loro si chiudeva definitivamente la speranza di una riforma endocattolica che, privando la Chiesa di interessi mondani (le cinque piaghe dell’abate Rosmini), le ridesse lo spirito evangelico delle origini.

Roma capitale d’Italia significava la costruzione di uno stato laico, moderno, già avviata a Torino e a Firenze, in cui fossero garantiti la libertà d’espressione, il libero pensiero, il progresso scientifico e umano. Per un paese come l’Italia, ancora arretrato, si trattò di obiettivi non facili da raggiungere, eppure, nonostante le ombre che offuscarono il cammino, gli Italiani dimostrarono di voler essere un popolo. Infatti fin dai primi anni dopo l’unità il Paese fu funestato da lutti: oltre alla III guerra d’indipendenza, epidemie di colera, alluvioni e disastri che videro subito una gara di solidarietà nel raccogliere fondi ed aiuti vari per le popolazioni più sfortunate. E questo dopo che per secoli stati e staterelli nella penisola avevano fatto politica autonomamente, senza alcun coinvolgimento dei propri abitanti. La stampa degli anni ’60 del XIX secolo si faceva portavoce di iniziative spontanee di comitati, anche femminili, che si impegnavano per aiutare chi soffre.

Siamo a circa un mese dal terremoto che ha colpito l’Italia centrale e il nostro pensiero va alle vittime e a chi vive in condizioni di estremo disagio, sperando di poter tornare in tempi brevi a una vita normale. È l’augurio che rivolgiamo loro con partecipazione e vicinanza. Lo  spettacolo dei volontari che da ogni parte d’Italia sono andati a portare aiuto sotto le insegne della Protezione civile, e le raccolte di fondi organizzate da più parti ci ricollegano idealmente a quei nostri predecessori, sono il filo rosso che riunisce la comunità nazionale. Sarebbe bene ricordarsi di essere italiani anche quando la terra non trema e i fiumi scorrono nel loro alveo.

La fine del potere temporale dei papi non ha risparmiato al Paese il rischio del temporalismo, che si manifesta in forme e modi che in altri paesi dell’Occidente sono sconosciuti. Sta proprio a noi che celebriamo qui oggi il 20 settembre combatterlo con il dialogo che riaffermi le tutele dello stato laico, che garantiscono tutti, credenti e non credenti. Così sarà possibile affrontare le sfide che lo spostamento di tanti uomini e donne da terre lontane ci pongono, ricordando sempre che i valori della dignità di uomini e donne, bambini e bambine, vecchi e giovani, della libertà di espressione sono di vantaggio per tutti.

Solo così l’incontro con diverse culture potrà non trasformarsi in scontro di civiltà difendendo sempre le conquiste che la breccia di Porta Pia – libertà, uguaglianza, fratellanza, giustizia sociale – portava idealmente con sé.      

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In ricordo del Prof. Luigi Lotti

17/03/2016 da Alessandra Campagnano

Era stato preside per 18 anni, dal 1974 al 1992, della facoltà di Scienze Politiche“Cesare Alfieri” di Firenze.

Mercoledì 9 marzo 2016 si è spento il Prof. Luigi Lotti.

Nato a Trieste nel 1931, aveva trascorso la sua vita tra la Toscana e la Romagna, alle quali aveva dedicato le sue prime ricerche di storico. Allievo prima e poi assistente e collaboratore di Giovanni Spadolini presso la facoltà di Scienze Politiche “Cesare Alfieri”, ne era stato il preside per 18 anni dal 1974 al 1992. Di Lotti si ricordano l’attaccamento al dovere di docente, la precisione nella ricerca storica, la disponibilità costante per gli studenti e l’attenzione a quanto si produceva nel campo degli studi di storia moderna e contemporanea. Questo si è visto soprattutto negli anni – dal 1992 fino a pochi anni fa – come presidente dell’Istituto storico italiano per l’Età  moderna e contemporanea. Questo incarico lo costrinse a trascorrere molto tempo a Roma e in questa veste fu membro della “Commissione per la ricostruzione delle vicende che hanno caratterizzato in Italia le attività di acquisizione dei beni di cittadini ebrei” istituita con DPC il 1 dicembre 1998. Partecipò ai lavori mettendo in evidenza, oltre alla sua conoscenza del periodo storico in esame, la sua profonda pietas per le vittime e il senso civico di chi documenta con dolore la meschinità di tanti connazionali.  Nonostante questi impegni però il professore continuò a insegnare a Firenze e a partecipare a convegni, eventi, con interventi mai improvvisati. E così è stato fino agli ultimi convegni. Anche quando il suo compito era solo quello di presiedere e coordinare i lavori, Lotti non mancava di far sentire la sua profonda conoscenza degli argomenti trattati, commentando, sempre con rispetto per il relatore, così che tutti – relatore e ascoltatori – ne ricavavano un arricchimento delle argomentazioni esposte.

Negli ultimi anni oggetto dei suoi interessi erano stati ancora l’Ottocento e il Risorgimento in particolare, tanto che a Ravenna, la città dove aveva frequentato il liceo e dove era presidente della Fondazione Casa Oriani, aveva presieduto il comitato per il 150° anniversario dell’unità d’Italia. A Firenze il 29 e 30 ottobre 2015 aveva partecipato al convegno 1865. Questioni nazionali e questioni locali nell’anno di Firenze Capitale organizzato dalla Società Toscana per la Storia del Risorgimento.

Il rigore dello studioso non faceva velo al calore nei rapporti con gli altri: con gli studenti prima di tutto, con i colleghi e con quanti hanno avuto la fortuna di conoscerlo e frequentarlo. Aveva una gioia di vivere che, accompagnata al garbo del gentiluomo, gli procurava la simpatia e l’amicizia di tanti.

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Massimo Furiozzi – Giovanni Ciraolo e l’Unione Internazionale di Soccorso

13/10/2013 da Alessandra Campagnano

terremoto iMassimo Furiozzi, Giovanni Ciraolo e l’Unione Internazionale di Soccorso

Recensione di Alessandra Campagnano

L’Autore ripercorre le vicende che portarono Giovanni Ciràolo (Reggio Calabria 1873-Roma 1954) a ideare e proporre con forza agli stati il progetto di un’organizzazione in grado di intervenire in caso di gravi calamità. Formatosi negli ultimi decenni del XIX secolo, aveva fatto propri i principi del positivismo. Laureatosi a Roma in Giurisprudenza nel 1895, si dedicò allo studio delle tematiche penali ricercando le cause della delinquenza nella fisiologia e nelle condizioni economiche e sociali. Furiozzi segue l’evoluzione di Ciràolo attraverso la sua attività di studioso e di giornalista. Fondamentale fu l’iniziazione alla massoneria, dalla quale uscì dopo l’avvento del fascismo e l’adesione alla Croce Rossa nel 1896. Partecipò attivamente alla vita politica come radicale, intervenendo attivamente nelle vicende del suo tempo.

I problemi dei soccorsi dopo il terremoto di Messina e Reggio Calabria del 1908 furono per lui motivo di riflessione sulla necessità di avere a disposizione personale esperto in grado di intervenire. Presidente della Croce Rossa dal 1919 al 1925, Ciraolo dovette affrontare la ridefinizione del ruolo dell’Associazione dopo la smobilitazione alla fine della guerra. Si ritrovò ad affrontare i tentativi, poi riusciti, del fascismo di mettere sotto controllo l’Associazione e la sua posizione verso il regime fu incerta, fino all’adesione nel 1940. Tuttavia riuscì a discutere il suo progetto di un’”Unione internazionale del soccorso” in grado di intervenire in caso di gravi sciagure e calamità naturali, alla Società delle Nazioni. Massimo Furiozzi ricostruisce tutte le tappe che precedettero a Ginevra la firma della Convenzione che istituiva l’UIS nel 1927 con grande precisione e ricchezza di particolari. Successivamente l’UIS non ebbe vita facile, Ciraolo dovette affrontare una causa civile per il riconoscimento della paternità dell’istituzione. Nel 1945, alla fine della II guerra mondiale, l’UIS passò sotto la giurisdizione dell’ONU e quindi dell’UNESCO nel 1968, dove rimase fino al suo scioglimento nel 1982.

Il volume si conclude con un’appendice di documenti: la Convenzione del 1927, lo statuto dell’UIS, l’accordo tra l’UIS e l’UNESCO.

Massimo Furiozzi, Giovanni Ciraolo e l’Unione Internazionale di Soccorso

Firenze, Centro Editoriale Toscano, 2012, pp. 242, € 15,00

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Giovanni Pascoli e il suo tempo

01/06/2012 da Alessandra Campagnano

Nel centenario della morte di Giovanni Pascoli pubblichiamo volentieri  l’intervento di Alessandra Campagnano alla commemorazione del poeta, promossa dai docenti e studenti del Liceo linguistico-pedagogico Pascoli di Firenze il 23 maggio all’Istituto Stensen di Firenze

La figura di Giovanni Pascoli (1855-1912) è stata legata a stereotipi – “il cantore della cavallina storna”,  “il fanciullino”, “il poeta delle piccole cose” – che ne hanno condizionato la comprensione. A questo si aggiunga che molto di quello che sappiamo è ricavato dalla biografia Lungo la vita di Giovanni Pascoli scritta dalla sorella Maria che tese a censurare quanto della vita del poeta poteva non apparire consono a un’immagine conformista.

Pascoli invece visse nel suo tempo in modo personale e originale. Dopo la morte violenta del padre e i lutti familiari successivi cominciò per lui e per i fratelli un periodo molto duro. Il padre, Ruggero Pascoli, in gioventù era stato repubblicano e aveva combattuto per la Repubblica Romana. Dopo la fine della Repubblica Romana aveva seguito la parabola di tanti democratici: si era sposato, aveva dato vita a una bella famiglia, aveva sostituito lo zio nell’incarico di amministratore della tenuta “La Torre” dei principi Torlonia. Non aveva abbandonato l’impegno pubblico, ma nel comune di S. Mauro aveva ricoperto molti incarichi. La sua morte rimase senza colpevoli, le indagini presero presto a considerare colpevoli le Società Segrete di Cesena, come si evince dal rapporto riservato che il Prefetto di Forlì inviò al Ministero il 16 agosto 1867, sei giorni dopo la morte di Ruggero Pascoli. Dal rapporto appare chiaro che la Romagna era una terra percorsa da fremiti di rivolta dovuti alle condizioni economiche e sociali della maggior parte della popolazione.

Giovanni Pascoli, grazie anche a borse di studio per meriti scolastici, riuscì a completare il liceo e nell’anno accademici 1872-’73 – sempre grazie a una borsa di studio per la quale era esaminatore il Carducci – si iscrisse alla facoltà di Lettere dell’Università di Bologna. Nello stesso periodo Pascoli si dedicò all’attività politica seguendo Andrea Costa che allora in Romagna era il referente di Bakunin. Nel 1874 Costa fu arrestato dopo il fallimento dei moti anarchici di Imola e nel settembre del 1879 Pascoli fu arrestato per aver partecipato a una manifestazione in favore di anarchici arrestati, ma nel dicembre venne prosciolto e liberato.

Nel 1879 Costa, uscito dal carcere e trasferitosi in Svizzera, da Lugano pubblicò sul periodico milanese “La Plebe” (organo della Federazione Alta Italia dell’Associazione dei Lavoratori) la lettera Ai miei amici di Romagna. È un documento significativo perché segnò l’abbandono della “propaganda per mezzo dei fatti” per passare a un lavoro fatto di diffusione di principi, ideali, in poche parole di educazione, indubbiamente di minore impatto immediato, ma destinato a risultati più duraturi. È storia nota, nel 1882 Costa fu il primo socialista eletto alla Camera e i movimenti democratici in Italia cominciarono a preferire la lotta con strumenti legali all’eversione e alla violenza. Pascoli seguì le indicazioni di Costa, riprese gli studi e nel 1882 si laureò. Il rapporto tra i due non si interruppe, anche se Pascoli smise di fare politica attiva, tanto che nel 1910 compose l’epigrafe per la tomba dell’amico, morto a Imola nel 1910.

Nel settembre del 1882, subito dopo essersi laureato e prima di cominciare a Matera la sua carriera di docente nei licei e poi all’università, Pascoli fu iniziato alla Massoneria  nella loggia Rizzoli di Bologna alla quale appartenevano anche Carducci e Aurelio Saffi, il triumviro della Repubblica Romana. Di questa scelta è conservato presso l’archivio del GOI a Roma il “testamento massonico”, di cui è rintracciabile attraverso Internet la copertina. Si tratta di un foglio a righe di forma triangolare, ingiallito dal tempo, con le risposte alle domande di ammissione, firmato e datato dal poeta. Le domande e le risposte sono: “Che cosa deve l’uomo alla Patria? La vita.” “Quali sono i doveri dell’Uomo verso la Umanità? D’amarla.” “Quali sono i doveri dell’Uomo verso sé stesso? Di rispettarsi.” Si tratta di affermazioni che non rimasero lettera morta se si ripensa a tutta la produzione poetica successiva, anche se i suoi rapporti con l’istituzione massonica non furono sempre facili. Indubbiamente gli ideali umanitari di stampo deistico si intrecciarono con la ricerca e l’espressione dei simboli che circondano l’uomo. Probabilmente attraverso la ricerca spirituale massonica come attraverso il verbo socialista Pascoli cercava anche di dare uno scopo alla sua esistenza e di trovare una sua identità di uomo e di intellettuale.

L’interruzione dell’attività politica attiva si trasformava quindi in un’azione pedagogica nella quale cercavano di ricomporsi i tentativi della ricerca dell’identità e del ruolo dell’intellettuale che si espressero con le prime prove poetiche, pubblicate nel 1901 nella raccolta Myricae. Dopo l’arresto e l’assoluzione il senso di delusione per la sconfitta dell’ala spontaneista e umanitaria del movimento democratico e della ingiustizia subita si fuse con il sentimento di delusione personale per gli eventi luttuosi della sua famiglia e lo portarono a privilegiare quella forma poetica «che ha tema umile, che cresce nell’ombra e nel silenzio», come lui stesso ebbe a definirla[1]. D’altra parte la personalità di Carducci era, sia in positivo che in negativo, un punto di riferimento: Carducci, ormai abbandonati gli ideali repubblicani della sua giovinezza, si era assunto il ruolo di poeta-vate, cantore della nuova Italia purtroppo non degna del suo passato glorioso. A fronte del tono aulico del maestro, Pascoli sviluppò una poesia intimistica che recuperava il mondo contadino nel quale era nato collegandolo alla tradizione classica virgiliana. Non è un mondo idealizzato quello contadino di Pascoli, in esso ritroviamo il dolore, l’angoscia esistenziale che si esprimono in forme poetiche e lessicali del tutto nuove, che fanno del poeta di S. Mauro una delle voci più significative del decadentismo italiano. Non solo, l’attenzione al mondo contadino che dalle Myricae  si evolve nei  Canti di Castelvecchio, pubblicati nel 1903, non è paternalistica, ma si potrebbe dire che gli ideali di giustizia sociale della sua giovinezza, quelli umanitaristici massonici e la sua condizione esistenziale si fondono lasciando aperta la strada sia al recupero di forme classiche, che si espressero nelle composizioni in lingua latina, sia a forme sperimentali che lo avvicinarono alle voci europee più innovative del suo tempo.

Nello stesso tempo l’esperienza professionale di Pascoli non si limitò al raggio d’influenza del magistero carducciano di Bologna, ma si arricchì della conoscenza di nuove realtà: dalla prima cattedra al liceo di Matera passò a Massa, poi a Livorno, di qui a Roma come comandato al Ministero della Pubblica Istruzione e da Roma all’università di Messina. In queste vicende si inserì la ricostituzione del «nido» con le sorelle Ida e Maria e poi il dolore per quello che il poeta visse come un tradimento, ossia il matrimonio della sorella Ida. Determinante fu anche la frequente permanenza a Castelvecchio, nel comune di Barga, a cui fanno riferimento I canti di Castelvecchio, pubblicati nel 1903, quando il poeta fu trasferito all’università di Pisa.

Siamo ormai nell’età dell’imperialismo, in tutti i paesi europei gli ideali romantici di fratellanza delle nazioni degenerarono in nazionalismo, nella presunzione che la propria nazione fosse superiore alle altre e avesse il diritto di imporre la propria supremazia sui popoli più arretrati. Il nazionalismo esasperato non fu appannaggio soltanto delle classi egemoni, ma finì per coinvolgere anche le classi subalterne, nonostante la diffusione e il successo degli ideali della II Internazionale dei partiti socialisti[2]. Pascoli risentì di questo clima e del relativo dibattito culturale. Aveva lasciato l’impegno politico militante, di partito, e non si riconosceva nelle posizioni marxiste che prevalevano nel dibattito interno ai partiti socialisti. Non accettava il concetto di lotta fra le classi, per lui il socialismo aveva un carattere umanitario. L’aver conosciuto direttamente le diverse situazioni dell’Italia, in quegli anni lacerata anche dai drammi dell’emigrazione, portava Pascoli a vedere l’Italia come un paese debole, destinato a essere assoggettato dai più forti. In una lettera all’amico Luigi Mercatelli del 30 ottobre 1899 così definiva il suo pensiero: “Io mi sento socialista, profondamente socialista, ma socialista dell’umanità, non d’una classe. E col mio socialismo, per quanto abbracci tutti i popoli, sento che non contrasta il desiderio e l’aspirazione dell’espansione coloniale. Oh! io avrei voluto che della colonizzazione italiana si fosse messo alla testa il baldo e giovane partito sociale; ma, ahimè, esso fu reso decrepito dai suoi teorici.”[3] Come si può vedere, il concetto di “nazioni proletarie” è già presente e il poeta esprimeva posizioni che al tempo della guerra italo-turca furono condivise anche da altri esponenti politici di sinistra, come Arturo Labriola. La giustificazione era che il dominio italiano avrebbe portato la civiltà, laddove il dominio ottomano aveva lasciato quei popoli nell’arretratezza. Questa ingenua (?) speranza fu poi spazzata via dalla dura realtà delle repressioni di cui anche l’Italia successivamente si macchiò, ma sul carattere di oppressione che anche la conquista italiana inevitabilmente avrebbe avuto, pochi al momento riflettevano.

All’anno precedente risale la pubblicazione di Minerva oscura. È un’opera di esegesi dantesca di carattere mistico-simbolico che ne mostra l’appartenenza alla cultura mistico-simbolista con sfumature politico-esoteriche, che ebbe sempre molto interesse per Dante e di cui il Pascoli fu un esponente non secondario come le scelte di modestia georgica della sua vita farebbero pensare[4]. La sua interpretazione della Commedia tende a sottrarla dalla sfera della storicità e dell’allegorismo per portarla in quella della perenne simbolicità della poesia[5]. La stessa poetica del fanciullino appare dunque la sintesi di suggestioni classiche e di riflessioni misticheggianti che fanno della poesia un insieme di simboli da intuire e decodificare.

La carriera accademica di Pascoli proseguiva con successo: dopo l’incarico all’università di Pisa, a Bologna nel 1907 divenne docente di Letteratura italiana al posto di Carducci. Le posizioni critiche sue e di Carducci erano molto distanti ma ciò non impedì che da questo momento si accentuasse sempre più il carattere pubblico delle sue prose e delle sue poesie. Indubbiamente le Canzoni di Re Enzo, l’Inno a Roma e l’Inno a Torino risentivano della stanchezza dell’ispirazione, mentre le condizioni di salute del poeta peggioravano inesorabilmente.

L’ultimo discorso La grande proletaria si è mossa – tenuto il 21 novembre 1911 al Teatro comunale di Barga – ha avuto quasi sempre critiche negative che si sono riverberate anche sulla precedente produzione poetica pascoliana, presentandola come il naturale risultato di una poetica e soprattutto di una ideologia di stampo piccolo-borghese, caratteristica dell’Italia di fine Ottocento, che purtroppo avrebbe portato al bagno di sangue della I guerra mondiale e alle successive conseguenze. Non dimentichiamo che pochi mesi dopo – il 6 aprile 1912 – il poeta sarebbe morto e quindi non possiamo nemmeno immaginare come il suo pensiero si sarebbe evoluto o involuto. Ma tutta la sua poesia, anche le composizioni latine, ci mostrano un poeta non guerrafondaio, che nel 1904 esortava: “Uomini, pace! Nella prona terra/ troppo è il mistero: e solo chi procaccia/ d’aver fratelli in suo timor non erra. // Pace, fratelli! E fate che le braccia/ ch’ora o poi tenderete ai più vicini,/ non sappiano la lotta e la minaccia. // E buoni veda voi dormir nei lini/ placidi e bianchi, quando non intesa,/ quando non vista, sopra voi si chini // la Morte con la sua lampada accesa.”[6]

6) Giovanni Pascoli, I due fanciulli. Il grido “Pace, fratelli!” è l’epigrafe della nostra scuola

Alessandra Campagnano                

 


[1] Mario Tropea, Giovanni Pascoli, in Letteratura italiana, Laterza, Bari, 1978, vol. 59, p. 7.

[2] È quel fenomeno che ha ben documentato lo storico George Mosse (1918-1999) nel suo celebre saggio La nazionalizzazione delle masse.

[3] In Letteratura italiana…cit., p. 62.

[4] Cfr. Letteratura italiana..cit., p. 69.

[5] Mario Luzi, Giovanni Pascoli, in Storia della letteratura italiana, Garzanti, Milano, 1968, vol. VIII, p.808.

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Dal 150° anniversario un messaggio di fiducia e di speranza

26/12/2011 da Alessandra Campagnano

“O mia patria sì bella e perduuta, o membraaanzaa sì cara e fatal!” Così cantava il pubblico dell’Opera di Roma il 12 marzo 2011 (vedi “la Repubblica” del giorno dopo) quando sotto la direzione di Riccardo Muti venne intonato il coro del Nabucco di Giuseppe Verdi. Dopo anni e anni in cui il Va’ pensiero veniva associato a immagini di caciaroni in camicia verde anelanti al federalismo, alla secessione, esprimendo disprezzo per chiunque fosse “meridionale”, per “Roma ladrona”, il pubblico romano che lo intonava era il segno che qualcosa nel Paese era cambiato.

Facciamo un passo indietro. L’Italia ufficiale non aveva granché voglia di celebrare i 150 anni dell’unità d’Italia, il Comitato che si era insediato sotto la presidenza di Carlo Azelio Ciampi, era stato poi messo in condizione di non procedere in modo dignitoso, tanto è vero che Ciampi e altri dietro il suo esempio avevano dato le dimissioni. Dopo di lui Giuliano Amato si è arrangiato, ma onestamente i risultati sono stati modesti, solo Torino ha dato prova di organizzazione ed efficienza. È vero, non ci sono soldi, ma mettendo insieme le risorse umane e materiali che in questo Paese non mancano, qualcosa di più si poteva fare, anche solo coordinandole, senza dover rispondere a diktat culturali più o meno felpati. [Leggi di più…] infoDal 150° anniversario un messaggio di fiducia e di speranza

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IL LXV Congresso di storia del Risorgimento

01/11/2011 da Alessandra Campagnano

Dal 19 al 22 ottobre 2011 si è svolto a Firenze il LXV congresso di storia del Risorgimento organizzato dall’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano d’intesa con la Società Toscana per la Storia del Risorgimento e la Fondazione Spadolini Nuova Antologia. Il tema è stato La nascita dello Stato italiano. La nazionalità fattore del nuovo equilibrio europeo e ha visto la partecipazione di numerosi studiosi italiani e stranieri sia come relatori che come spettatori. Lo scopo del convegno è stato quello di ripercorrere le vicende che portarono all’unificazione individuando come tema centrale la nazione, che per quanto riguarda l’Italia, non è stata una scoperta ottocentesca ma ha avuto radici profonde nella storia della penisola, anche quando l’unificazione era resa impossibile da situazioni interne difficili. Sotto questo profilo esaustive sono state le relazioni di Sandro Rogari, che ha aperto i lavori parlando di Origine, sviluppo e consolidamento dell’idea di nazione italiana, e di Cosimo Ceccuti che si è soffermato su Letteratura civile e cultura del Risorgimento. Altri studiosi hanno approfondito le situazioni dei singoli stati italiani durante il Risorgimento, mettendone in evidenza caratteristiche civili, economiche e sociali nonché i limiti che favorirono il ruolo del Piemonte sabaudo nel processo di unificazione. Interessanti sono state le relazioni di Luigi Lotti sul Granducato di Leopoldo II e di Renata De Lorenzo sul Regno delle Due Sicilie, tema questo quanto mai caldo per le polemiche che negli ultimi mesi sono state portate avanti da gruppi neoborbonici, mentre nella relazione di Franco Della Peruta è stato trattato Il Lombardo Veneto. Un ruolo importante è emerso dalle situazioni dinastiche intrecciate fortemente con gli Asburgo d’Austria come quelle dei Ducati emiliani, di cui ha parlato Angelo Varni, mentre Umberto Levra ha posto in evidenza i caratteri che fecero del Regno di Sardegna lo stato di riferimento del processo di unificazione nazionale. Molto interessante però è stata anche la sessione dedicata alle implicazioni internazionali che portarono le grandi potenze come la Francia e la Gran Bretagna a favorire il processo dell’unità italiana. Questi temi sono stati introdotti da Ennio Di Nolfo parlando su La formazione dello stato unitario italiano nel contesto delle grandi potenze. Da Plombières alla proclamazione del Regno e sono stati successivamente sviluppati da Jerôme Grevy per Il secondo impero e da Eugenio Biagini per Il Regno Unito. Interessante è stato l’intervento di Brigitte Mazohl che parlando dell’Impero asburgico, ha offerto il punto di vista dell’altra parte sottolineando come le sconfitte subite dall’Austria durante le guerre d’indipendenze abbiano poi avuto ricadute anche positive per l’affermazione nell’impero di istituzioni rappresentative nuove e di un modo diverso di affrontare i problemi delle tante nazionalità dell’impero. Come ha poi rilevato Carlo Ghisalberghi nel dibattito successivo espressioni come “gli storici diritti” sentite durante il processo di dissoluzione della Jugoslavia, avevano il loro fondamento nelle motivazioni con le quali la monarchia asburgica giustificava il proprio dominio sui popoli sottomessi, che però, proprio per motivi storici non si potevano applicare al Lombardo-Veneto. Nell’ultima sessione Francesco Traniello ha parlato di Chiesa e mondo cattolico italiano di fronte alla questione nazionale e Romano Ugolini dell’Idea di Roma, riprendendo spunti già affrontati da Giuseppe Monsagrati quando ha parlato dello Stato pontificio.

Al termine del congresso si è avuta un’immagine molto viva di un processo che non ha riguardato soltanto la penisola italiana, ma si è inserito non per un “complotto” o chissà quale oscura manovra di elites economiche in un contesto europeo nel quale gli stati italiani, anche quelli di ragguardevoli dimensioni, non sarebbero stati in grado di agire. Ribadire in modo documentato che l’idea di “nazione italiana” è antica e profonda e che su questo ha potuto far leva il processo di unificazione ha permesso ai presenti di rivivere una parte fondamentale della storia del Paese superando i limiti angusti di localismi che periodicamente riaffiorano. Vedere poi tutto questo in modo analitico e sincronico ha dato la possibilità di approfondire la conoscenza del Risorgimento in modo non encomiastico ma vivo dandoci ancora le motivazioni di essere Italiani in uno stato parte integrante dell’Unione Europea. Ci auguriamo di vedere presto la pubblicazione degli Atti.

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Un eredità del Risorgimento: il volontariato

18/03/2011 da Alessandra Campagnano

Se guardiamo al Risorgimento, ancora dopo oltre un secolo colpisce la partecipazione di tanti italiani, giovani e meno giovani, alle battaglie e agli eventi più importanti, come i moti del ’48 e le spedizioni garibaldine, come volontari. [Leggi di più…] infoUn eredità del Risorgimento: il volontariato

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