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Risorgimento Firenze

Il sito del Comitato Fiorentino per il Risorgimento.

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Pubblicazioni

Giacomo Matteotti e il socialismo riformista

15/07/2022 da Sergio Casprini

 

 Autore    Maurizio degli Innocenti

Editore   Franco Angeli

Anno       2022

Pag.         292

Prezzo    € 38,00

Il saggio propone un’originale rilettura di Giacomo Matteotti (1885-1924) lungo i binari paralleli della biografia individuale e dell’analisi del gruppo politico di afferenza avvalendosi delle categorie interpretative di socialismo di vicinanza o territoriale e di democrazia orizzontale.

Nel rapporto essenziale con il territorio evidenzia la persistente forza delle periferie, lungo le quali si riscrivono le gerarchie sociali e politiche, tra continuità e rottura dei codici etici e di prestigio. Nel ricostruire il cursus honorum di Matteotti da organizzatore nel Polesine a figura di spessore nazionale fino all’ingresso a Montecitorio e infine a segretario del Partito socialista unitario impegnato nella lotta al fascismo e al bolscevismo, fa emergere una concezione della politica come pedagogia individuale e collettiva per una cittadinanza diffusa e inclusiva; tecnica gestionale in una strategia “costruttiva” della società di lungo periodo; prassi fondata sul ruolo imprescindibile dei partiti nazionali in una democrazia rappresentativa e conflittuale nel rispetto dello Stato di diritto; visione delle problematiche interne in connessione con gli equilibri internazionali in una prospettiva di libera e pacifica convivenza dei popoli e, perfino, già europeista. Il saggio offre molteplici motivi di riflessione su problemi della società italiana ed europea di lungo periodo, fino all’attualità, a ulteriore testimonianza del lungimirante orizzonte del pensare e dell’agire di intera generazione politica in linea con l’evoluzione della socialdemocrazia europea tra le due guerre.

Maurizio Degl’Innocenti è professore ordinario di Storia contemporanea, presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Siena. È stato direttore del Dipartimento di Scienze Storiche, Giuridiche, Politiche e Sociali (Gips) e della Scuola di dottorato in Scienze Storiche in Età Contemporanea.

È fondatore del Centro interuniversitario per la Storia del cambiamento sociale e dell’innovazione (Ciscam), presso il medesimo Ateneo. Ha al suo attivo un centinaio di pubblicazioni. Dirige tre collane editoriali (“Strumenti e Fonti” e “Società e Cultura”, edizioni Eredi di Piero Lacaita Editore; “Collana storica – Fondazione di Studi Storici “Filippo Turati”, edizioni Franco Angeli), e co-dirige la rivista informatica di storia contemporanea “Storia e futuro”. È socio fondatore e membro del Consiglio Direttivo della Fondazione Guido Lodovico Luzzatto di Milano.

È stato coordinatore di diversi progetti Miur di interesse nazionale e locale. Nel 1994 è stato nominato Grande Ufficiale della Repubblica, per meriti culturali. È presidente della Fondazione di studi storici “F. Turati”,con sede a Firenze. È stato membro di diversi Comitati nazionali e in particolare ha presieduto il Comitato nazionale per il centenario della nascita di Eugenio Colorni.

 

 

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Nel vento con le rose

23/06/2022 da Sergio Casprini

Una storia fiorentina del 1944

Autore     Caterina del Vivo

Editore     Pontecorboli

Anno        2022

Pag.          254

Prezzo      € 18,80

 

La vita a Firenze nel 1943-1944, i timori, le speranze, il lungo cammino verso San Gimignano, rivivono nelle lettere di due giovani innamorati.

Decisi a sfidare lo squallore quotidiano per realizzare il loro sogno, poi spezzato dalla crudeltà dell’uomo e della guerra. Un pacco di lettere chiuse in un cassetto. Una memoria lontana, sommersa da un doloroso silenzio. Quell’amore era nato come una favola rosa e come un sogno era stato vissuto, fra gli ultimi mesi di vita del fascismo e l’avanzata alleata. Fra i tramonti sul Lungarno, gli attentati, il coprifuoco, l’occupazione tedesca e la tragica distruzione dei ponti. A Firenze combattimenti e scontri sembrano ancora così lontani, nella primavera del 1943. Anche se il tetro clima di guerra incombe implacabile nella vita di ogni giorno. Altro riserva il destino. Eppure, al di là dei documenti, delle sentenze, dell’efferatezza del fatto storico ricostruito nei dettagli, della insulsa atrocità della guerra, restano le lettere di Fernando a Maria Cecilia, le passeggiate per l’amata Firenze, la cronaca delle nottate al giornale, le speranze e le ambizioni di una giovinezza troncata.

Caterina Del Vivo ha lavorato molti anni all’Archivio Contemporaneo “Alessandro Bonsanti” ed è stata responsabile dell’Archivio Storico del Gabinetto Vieusseux. Ha redatto e pubblicato inventari e cataloghi, ha curato carteggi ed edizioni testuali. Si è dedicata in particolare allo studio biografico di personaggi femminili dell’Ottocento e del Novecento.

23 marzo 1944. Bombardamento della stazione di Campo di Marte visto dai Lungarni

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STORIA DELLE DONNE NELL’ITALIA CONTEMPORANE

19/06/2022 da Sergio Casprini

Operaie rivendicano un salario adeguato nei primi anni 50 a Milano

Lungo la strada delle italiane

 

A cura di Silvia Salvatici

Editore    Carocci

Anno        2022

Pag.          364

Prezzo      27,00

 

Le questioni poste dalla storia delle donne si estendono a una contemporaneità che è sotto i nostri occhi. Gli effetti della pandemia di Covid-19 sul lavoro di cura ma anche sulla violenza domestica, la sanzione delle discriminazioni fondate sul genere e l’orientamento sessuale, il gender gap nelle istituzioni rappresentative: questi e molti altri temi al centro del dibattito pubblico attuale affondano le loro radici nella costruzione storica delle relazioni tra i sessi. Proprio con l’intento di trovare nel passato alcuni strumenti indispensabili per leggere il presente, i saggi raccolti nel volume ripercorrono aspetti diversi, ma strettamente connessi, della storia femminile in Italia tra Otto e Novecento: la cittadinanza e l’appartenenza nazionale, il lavoro e il welfare, i consumi, le migrazioni, la violenza e la sessualità, le forme della fede e i movimenti femministi. L’esperienza italiana è ricostruita all’interno di un quadro più ampio, che tiene conto della storiografia internazionale e accoglie alcune sollecitazioni emerse con l’affermarsi della global history, offrendo così una rivisitazione della storia dell’Italia contemporanea che per la prima volta tiene conto di quella delle donne e di genere.

Silvia Salvatici Insegna Storia contemporanea nel Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università degli Studi di Firenze. Si è occupata della storia dell’umanitarismo internazionale, di profughi e profughe nel Novecento, di donne e diritti umani, di lavoro femminile e della storia dei conflitti armati in un’ottica di genere. È autrice di saggi in italiano e in inglese. Tra le sue pubblicazioni: Senza casa e senza paese. Profughi europei nel secondo dopoguerra (il Mulino, 2008) e Nel nome degli altri. Storia dell’umanitarismo internazionale (il Mulino, 2015; trad. ingl. Manchester University Press, 2019).

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Navi, penne e cannoni.

08/06/2022 da Sergio Casprini

Howard Chandler Christy Scena della firma della Costituzione americana 1940

Guerre, costituzioni e la creazione del mondo moderno

Autore    Linda Colley

Editore   Rizzoli

Anno      2022

Pag.        468

Euro       € 26,00

Il Settecento non è stato solo il secolo delle rivoluzioni: proprio in quel periodo, infatti, gli Stati iniziarono a dotarsi delle prime costituzioni moderne.

Carte nate sulla spinta di idee capaci di varcare i confini nazionali e diffondersi in tutto il mondo; documenti figli sia dei moti di rivendicazione popolare sia della necessità di legittimazione dei governanti, intenzionati a formalizzare il proprio potere sancendo diritti e doveri di cittadini e istituzioni. Ma quelle costituzioni furono anche molto altro, come ci mostra Linda Colley in questo saggio tanto ampio quanto originale. Studiosa affermata e saggista di talento, Colley delinea una storia globale delle carte costituzionali dal Settecento a oggi, sovvertendo alcune delle convinzioni più diffuse in materia: certo, la loro emanazione fu un passaggio fondamentale per molte epiche rivoluzioni (basti pensare a quella americana) e per l’affermazione dei diritti dei diseredati, ma si trasformò anche in uno strumento di violenta espansione imperialista, di espropriazione e di marginalizzazione sociale (soprattutto a discapito delle donne e delle persone di colore). E, in ogni caso, quelle costituzioni – testi in cui politica, ideologia, pragmatismo e letterarietà si mescolavano – furono sempre inestricabilmente legate alle guerre tra nazioni. Dall’innovativo Nakaz emanato da Caterina II di Russia al testo di James Africanus Beale Horton, visionario legislatore della Sierra Leone; dalla celebre carta dei padri fondatori degli Stati Uniti alla prima moderna costituzione islamica, opera dello statista-soldato tunisino Khayr al-Din; dagli originali documenti elaborati in Corsica nel 1775 e in Giappone nel 1889 fino a quello promulgato nella minuscola Pitcairn, isola del Pacifico dove furono per la prima volta riconosciuti pieni diritti di cittadinanza alle donne: con autorevolezza e una straordinaria verve narrativa, Linda Colley ci guida alla scoperta di una grande storia fatta di personaggi affascinanti, eventi epocali e idee in grado di cambiare il mondo.

Linda Colley, nata nel 1949 insegna storia a Princeton ed è fellow della British Academy, della Royal Historical Society, della Royal Society of Literature e dell’Academia Europaea. Ha insegnato nelle università di Cambridge, Yale e alla London School of Economics. Tra i suoi libri, ricordiamo Britons: Forging the Nation 1707-1837, con il quale ha vinto il Wolfson Prize, e Prigionieri. L’Inghilterra, l’Impero e il mondo. 1600-1850 (Einaudi, 2004).

 Uno scontro tra soldati bavaresi (a sinistra) e francesi durante la guerra francoprussiana del 1870-71 in un’opera dell’artista tedesco Richard Knötel . Da quella guerra nacque la Terza Repubblica francese

 

 

 

 

 

 

 

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Adriano Olivetti, un italiano del Novecento

23/05/2022 da Sergio Casprini

Adriano Olivetti è un mito dell’industria, della creatività e della cultura italiana nel mondo. È un italiano del Novecento profondamente atipico. In questo libro definitivo, frutto di un decennio di ricerche e di scrittura, Paolo Bricco ripercorre la vita di un uomo di genio e la vicenda industriale e sociale, politica e culturale dell’Italia tra la fine dell’Ottocento e il boom economico. 

Autore    Paolo Bricco

Editore    Rizzoli

Anno        2022

Pag.          492

Prezzo     € 22,00

Questa è, prima di tutto, la storia di un’utopia. Inaugurando nel 1955 la fabbrica di Pozzuoli, Olivetti presenta così gli obiettivi della sua impresa: «La nostra Società crede nei valori spirituali, nei valori della scienza, crede nei valori dell’arte, crede nei valori della cultura, crede, infine, che gli ideali di giustizia non possano essere estraniati dalle contese ancora ineliminate fra capitale e lavoro. Crede soprattutto nell’uomo, nella sua fiamma divina, nella sua possibilità di elevazione e di riscatto». A questa utopia concreta – almeno in parte realizzata – concorrono condizioni di lavoro per i dipendenti tuttora senza paragoni e la ricerca attiva di una bellezza che coinvolge la meccanica e il design (le macchine per scrivere e le calcolatrici), l’architettura delle fabbriche e l’estetica dei negozi sparsi nel mondo. Ma questo libro non è un’agiografia e di Adriano Olivetti mostra le contraddizioni, i conflitti e le generose incompiutezze: i legami profondi e tormentati con i famigliari, le due mogli e le altre donne amate; la passione per l’organizzazione scientifica del lavoro e l’attrazione per la spiritualità, l’astrologia e la sapienza orientale; il complesso percorso dal socialismo di famiglia degli anni Venti all’adesione teorica al corporativismo e al suo concreto inserimento nella società fascista degli anni Trenta; gli avventurosi rapporti, alla caduta del regime, con i servizi segreti inglesi e americani e la perpetua tentazione del demone della politica, con il fallimento della trasformazione del Movimento di Comunità in un partito tradizionale; l’identità dell’industriale che intuisce le nuove frontiere tecnologiche (l’elettronica) e che unifica il sapere umanistico e la cultura tecno manifatturiera, senza però riuscire a superare i limiti del capitalismo famigliare.

Sotto, come una radiazione di fondo, «quella strana joie de vivre che caratterizza la vita di Adriano e di quanti saranno con lui e intorno a lui». 

(Paolo Bricco (1973), giornalista e saggista, è inviato speciale del “Sole 24 Ore”. Si occupa di storia contemporanea e di storia economica. Ha scritto Olivetti prima e dopo Adriano (L’Ancora del Mediterraneo 2005), L’Olivetti dell’Ingegnere. 1978-1996 (il Mulino 2014), Marchionne lo straniero (Rizzoli 2018, nuova edizio-ne BUR 2020) e Cassa Depositi e Prestiti (il Mulino 2020). Ha un dottorato di ricerca in Economia all’Università di Firenze. Dal 2007 al 2013 è stato membro del Consiglio direttivo dell’Archivio Storico Olivetti. Nel 2016 si è aggiudicato come saggista il Premio Biella Letteratura Industria e nel 2019, come giornalista, il Premiolino.

Ivrea. L’ampliamento delle Officine ICO realizzato tra il 1939 e il 1949 su progetto degli architetti Figini e Pollini.

 

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Una rivoluzione passiva

27/04/2022 da Sergio Casprini

Sebastiano Ricci Papa Paolo III ha la visione del Concilio di Trento.  1687

Chiesa, intellettuali e religione nella storia d’Italia

Autore    Adriano Prosperi

Editore   Einaudi

Anno      2022

Pag.        448

Prezzo    € 34,00

La Riforma protestante, nata dall’aspirazione al ritorno alla purezza evangelica delle origini, fu in realtà una grande rivoluzione che trasformò profondamente culture e società di molta parte della moderna Europa. Invece nel contesto degli Stati italiani la pronta reazione della Chiesa romana e la politica di alleanze del papato dettero vita a una vicenda diversa sulla cui natura e sui cui esiti storici si è molto discusso. Si è parlato di Controriforma, riforma cattolica, disciplinamento sociale, pensando specialmente alla repressione del dissenso religioso. Ma in realtà si trattò non di un ritorno all’antico bensì di un riassetto profondo del sistema dei poteri. Mentre il papato consolidava la sua egemonia politica sui minori stati italiani e Roma diventava una grande capitale europea capace di attirare una nutrita élite intellettuale, mutava anche il rapporto tra il clero e i laici. Il governo religioso del popolo fu affidato a un clero diventato una corporazione di intellettuali. L’aspirazione da tempo diffusa a un mutamento profondo venne bloccata e congelata nei secoli da quella che si può definire una rivoluzione passiva.

Un tema chiave dell’importante ricerca di Adriano Prosperi è quello dei contrasti di idee e di forze intorno alla religione e alle Chiese cristiane nell’età della Riforma protestante e del Concilio di Trento. Nella discussione fra storici cattolici e storici filoprotestanti e liberali la differenza di valutazione del processo attraversato dal cattolicesimo nel passaggio dal Medioevo all’Età moderna – se cioè si sia trattato di una vera riforma della Chiesa o soltanto di una repressione delle idee riformatrici di stampo protestante – aveva trovato sintetica formulazione nelle contrapposte definizioni di Riforma cattolica e di Controriforma. Definizioni insoddisfacenti proprio perché continuavano in sede storiografica la controversia dottrinale tra le Chiese. Di fatto si trattò di un processo che non coinvolse la massa della popolazione. Davanti a un caso storico simile, il Risorgimento italiano, Antonio Gramsci ne rilevò il carattere di rivolgimento che non aveva coinvolto le masse popolari e non era passato attraverso una trasformazione dei rapporti sociali. Per definirlo Gramsci ricorse alla definizione di «rivoluzione passiva» coniata da Vincenzo Cuoco. La proposta di Adriano Prosperi, nel presentare questa raccolta di saggi, è quella di applicarla anche al processo storico attraverso cui venne mutando la realtà italiana nell’età della Riforma sotto la direzione e l’egemonia della Chiesa di Roma.

La Controriforma, dunque, come grande riassetto di poteri, come rivoluzione passiva. 


Adriano Prosperi (1939) è professore emerito di Storia moderna presso la Scuola Normale Superiore di Pisa. Tra le sue opere, nel catalogo Einaudi: Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari (1996 e 2009), Storia moderna e contemporanea (con P. Viola, 2000); Il Concilio di Trento: una introduzione storica (2001); Dare l’anima. Storia di un infanticidio (2005 e nuova edizione 2015); Giustizia bendata. Percorsi storici di un’immagine (2008); Cause perse. Un diario civile (2010); Delitto e perdono. La pena di morte nell’orizzonte mentale dell’Europa cristiana (2013 e nuova edizione 2016); La vocazione. Storie di gesuiti tra Cinquecento e Seicento (2016); Un volgo disperso. Contadini d’Italia nell’Ottocento (2019) e Un tempo senza storia. La distruzione del passato (2021).

 

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Risorgimento da souvenir

15/04/2022 da Sergio Casprini

Gli oggetti della storia. Fazzoletti, soprammobili, statuette, calamai e tabacchiere hanno contribuito a evocare fatti, diffondere idee e celebrare personalità. Ma anche a rendere le narrazioni meno retoriche

 

Oggetti risorgimentali.

 Una storia materiale della politica nel primo Ottocento

Autore   Enrico Francia

Editore Carrocci

Pag. 180, € 20,00

 

Partiamo dalla fine. I musei di storia patria presentano, accanto ai ritratti, alle bandiere, alle armi, degli oggetti inconsueti: fazzoletti, nastri, tabacchiere, spille, portagioie, medaglie, piccoli busti. Da Napoleone Bonaparte a Pio IX, da Garibaldi a Vittorio Emanuele, è come se le personalità della vicenda risorgimentale fossero state miniaturizzate in tempo reale, rese portabili, trasferite in ambiti personali e domestici. Un tempo si riservava a questa produzione uno sguardo distratto: roba da collezionisti maniacali. Più recentemente, anche in Italia è andato aggiornandosi lo sguardo sulle manifestazioni pubbliche e sugli atteggiamenti sentimentali che accompagnarono la stagione risorgimentale.

Enrico Francia, da tempo attivo su questi temi all’Università di Padova con Carlotta Sorba, cui si devono testi fondamentali sul melodramma e cultura nazionale, in Oggetti risorgimentali affronta attraverso alcuni sondaggi la «storia materiale della politica nel primo Ottocento». E spiega: bisogna far parlare le cose, a partire da tre aspetti: la propaganda, la performatività e la commercializzazione (p. 15).

Compito arduo, perché le informazioni sono sparse in una miriade di fonti d’archivio, a stampa, iconografiche. Si parte da Napoleone, il culto del grand’uomo nasce con lui, diventa sovversivo dopo il 1815 per poi sfumare nel gusto nostalgico per un protagonista ormai “passato alla storia”. Diverso è il caso di Pio IX, l’unica personalità della stagione dell’indipendenza ad essere subito celebrata, dalle Alpi alla Sicilia. Una serie di ingegnosi artisti ed artigiani avrebbe fatto fortuna, fra il 1846 e il 1848, producendo fazzoletti di seta o di cotone stampati, busti, litografie evocanti il pontefice “liberale”, salutato illusoriamente come il garante della nazionalità attraverso una pacifica confederazione. E però, nello stesso tempo, ricorda Francia sulla scorta di Sorba, ecco apparire i “cappelli all’Ernani” (letterari e melodrammatici, da Hugo a Verdi), a larghe falde e con la piuma di struzzo, da esibire in pubblico per sottolineare, anche attraverso l’abbigliamento, una scelta militante più radicale. È bene aggiungere che non sono molti i pezzi di cui abbiamo testimonianza, sopravvissuti «a una severa politica iconoclastica dopo il Quarantotto, che ne ha in molti casi determinato la totale scomparsa materiale e quindi anche la possibilità di conservazione» (p. 59). All’epoca, però, la diffusione fu virale. E ne spiegava la ragione già nel 1847 un patriota e intellettuale toscano, Giuseppe Montanelli: occorrevano “simboli” e “forme” nelle quali «quel sentimento che dovevano provare tutti i cuori s’esprimesse con linguaggio di fatto». Se non si avevano denari per abiti appropriati, ci si poteva sempre far crescere la barba. Benché, infatti, i baffi fossero tollerati ovunque, la barba divenne un segno distintivo di disordine politico e morale, spostando il confine del radicalismo sul crinale della criminalità. Questo almeno era l’obiettivo della propaganda reazionaria, che alimentò provvedimenti paranoici soprattutto nel Regno delle Due Sicilie: barbuti sospetti furono puntualmente segnalati al governo dalle autorità locali. Inquisizione faticosa: di volti glabri, per le più varie ragioni, all’epoca se ne incontravano davvero pochi.

Political Objects in the Age of Revolutions

Autori Enrico Francia, Carlotta Sorba

Editore Viella

pag. 229, € 38

Con Political Objects, curato da Enrico Francia e Carlotta Sorba, il quadro si allarga: la scena, pur restando principalmente risorgimentale, scorre dai ricordi portatili della presa della Bastiglia alla nostalgia napoleonica; dai berretti e nastri colorati nella Spagna dello scontro fra liberali e legittimisti nel secolo XIX alla Visual Culture dei piccoli prodotti commercializzati dai figurinai; dagli oggetti recuperati all’indomani della Repubblica Romana del ’49 alle prime politiche della memoria: i resti dei martiri. Il percorso interessa ancora la sfera degli oggetti, solo che essi non sono seriali, né destinati alla prima standardizzazione di un’identità politica: si tratta piuttosto di “pezzi unici” proposti per stabilizzare il ricordo patriottico quasi per contatto, vvicinandosi a un indumento o a una reliquia laica dell’eroe. Una santità di nuovo conio, che si afferma attraverso itinerari di conservazione (e di mercato) diversi dai precedenti. Eppure, nelle collezioni, oggi spesso figurano gli uni accanto agli altri.

Questi studi, al di là della piacevole scorribanda in un passato poco frequentato, hanno quindi anche un’evidente utilità pratica: rendere le “macchine narrative” dei nostri musei più realistiche, più interessanti e meno retoriche.

Roberto Balzani Il Domenicale 27 marzo 2022

Garibaldi con il cappello all’Ernani

 

 

 

 

 

 

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L’Occidente sotto scacco

08/04/2022 da Sergio Casprini

La statua di Cristoforo Colombo vandalizzata negli USA

Il politicamente corretto insidia le società liberali:

l’analisi di Federico Rampini

 Cosa vedono Xi Jinping e Vladimir Putin quando guardano l’Occidente? Un mondo che non sarà difficile battere e forse abbattere. Da attaccare, come si vede in Ucraina. Debole, confuso, in declino irreversibile. È così? È questa la nostra realtà? L’ultimo libro di Federico Rampini — Suicidio occidentale, in libreria da oggi per Mondadori — non è solo un esempio di tempismo che spiega cosa si è fissato nella mente dei leader autoritari quando sfidano le democrazie liberali. È soprattutto la ricognizione di come queste ultime si stiano impegnando seriamente nella cancellazione dei propri valori: chiarisce, per dire, che dietro l’invasione di queste settimane ordinata dal Cremlino non c’è solo una generica mossa geopolitica; alla radice c’è il nostro vacillare sociale, culturale, economico, istituzionale e ovviamente politico. Le potenze autoritarie, scrive Rampini, disprezzano il modello occidentale. Ma, prima ancora, «quest’ultimo è stato ripudiato in casa propria»: da un establishment economico che, dietro la globalizzazione, detesta l’identità nazionale, «cioè quello che fu il collante storico delle democrazie»; e da un establishment culturale germogliato negli Anni Sessanta e oggi in piena fioritura, secondo il quale «il Male supremo siamo noi». Il libro è una denuncia ampia e precisa del «politicamente corretto». Ma non una denuncia superficiale dei modi fastidiosi nei quali il conformismo di sinistra si palesa: ne analizza le conseguenze profonde sulle società.

Uno dei luoghi nei quali «l’indottrinamento propagandistico» produce i danni peggiori è il sistema dell’istruzione, soprattutto negli Stati Uniti, «dove la cultura seria è messa al bando». Le scuole e le università sono state in buona parte conquistate da un’ideologia secondo la quale non solo ogni fenomeno negativo è responsabilità dell’uomo bianco, ma anche secondo la quale questo uomo bianco va rieducato e da subito penalizzato. Un razzismo della pelle che si cela dietro le campagne contro il razzismo condotte ad esempio dal movimento Black Lives Matter. E non solo: in molte università è impossibile, per chi non si accoda anche alle posizioni più estreme su sesso e genere, avere diritto di parola. Spesso, docenti che osano esprimere opinioni diverse da quelle di gruppi di militanti organizzati devono poi umiliarsi in autocritiche pubbliche e rischiano comunque di essere allontanati dall’insegnamento da autorità accademiche impaurite.

In questa analisi di quel che succede negli Stati Uniti, Rampini è particolarmente critico con i media cosiddetti progressisti. Soprattutto con il «New York Times», il quale ha compiuto negli anni recenti una svolta intollerante verso il dibattito delle idee. Oltre a essersi chiuso al confronto a causa dell’attivismo di molti suoi giovani giornalisti, il grande quotidiano newyorkese ha avuto un ruolo centrale nella costruzione della critical race theory, la teoria secondo la quale il razzismo è la pietra costitutiva delle istituzioni americane: teoria diventata il collante di movimenti spesso violenti e anche la copertura di gang organizzate. La responsabilità del «New York Times» è individuata da Rampini nel «1619 Project» che il giornale porta avanti da anni: una serie di analisi storiche spesso infondate per sostenere che la vera fondazione degli Stati Uniti va datata all’anno in cui vi arrivò la prima nave di schiavi dall’Africa. Nella critica intensa che porta alle ideologie della «sinistra illiberale» che rischiano di sgretolare la forza formidabile dell’Occidente, Rampini non si risparmia. Quando parla dei movimenti ambientalisti che si mobilitano sul clima, parla di «Nuovo Paganesimo», del ruolo sacerdotale di questa religione portata avanti da accademici, politici, capi azienda, star del cinema e della musica. E, parlando di Greta Thunberg, dice che l’averla considerata la portatrice di una nuova filosofia politica «è un segnale di imbarbarimento culturale, l’appiattimento del mondo adulto verso un linguaggio infantile». E chiosa: il comunista e confuciano Xi Jinping «osserva il “fenomeno Greta” come una delle perversioni occidentali», quelle che nella sua lettura testimoniano del declino dell’Occidente.

Il libro non è solo un’analisi dei danni seri che il politicamente corretto arreca. E non riguarda solo gli Stati Uniti. Parla della capacità calante degli Stati democratici di realizzare cose, a cominciare dalle infrastrutture. Parla dei grandi gruppi economici che tendono a imbrigliare la nascita di nuove imprese. Dei politici, soprattutto californiani, che a causa di un’ideologia che disprezza legge e diritto hanno reso invivibili intere parti delle città che governano. Ma non è un libro rassegnato: il sottotitolo è un’apertura, Perché è sbagliato processare la nostra storia e cancellare i nostri valori. Il capitalismo, in particolare quello americano, è in fase di involuzione, ma non è certo morto. Elon Musk può nascere solo in America, comunque in Occidente, non certo in Cina e in Russia. Il venture capital continua a finanziare idee e imprese. Il sistema finanziario fondato su dollaro ed euro è dominante. E, sul versante geopolitico, alla ritirata incresciosa di Joe Biden dall’Afghanistan si contrappone il «Blob», l’establishment potente — diplomazia più parte della politica più apparato industrial-militare — che continua ad avere una visione imperiale degli Stati Uniti.

Xi Jinping e Vladimir Putin vedono la convulsione dell’Occidente. Sanno che gli imperi, da quello romano a quello americano, prima o poi finiscono e di solito crollano prima dall’interno. Faranno di tutto per aiutare e accelerare questo processo. Ma non è detto che i tempi li dettino loro. La guerra in Ucraina, per esempio, potrebbe ridare alle democrazie liberali un certo senso di sé stesse. Vedremo. Rampini, intanto, chiude il libro con un una speranza: «Vorrei che sentissimo un centesimo di quel che provano i popoli a cui i nostri valori sono proibiti».

Danilo Taino Corriere della Sera 29 marzo 2022

Autore Federico Rampini

Editore Mondadori

Anno     2022

Prezzo   €19,00

 

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IL RAGAZZO DEL SECOLO D’ORO

24/03/2022 da Sergio Casprini

Giovani Duprè Giotto Piazzale degli Uffizi Firenze

 

«Ho viaggiato molto e conosciuto gente d’ogni ordine e grado… M’han detto che ero brutto per via della mia poca altezza, del mio ventre sporto e della mia faccia tonda… ma ho avuto un bene prezioso, la mia Ciutina che tanto m’ha voluto bene e alla quale tanto voglio ancora bene anch’io». Muore parlando così Giotto di Bondone nel giorno dell’Epifania del 1336 o 1337 (secondo il calendario fiorentino) nelle ultime pagine del libro che gli ha dedicato Alessandro Masi, L’artista dell’anima. Giotto e il suo mondo (Neri Pozza).

Masi, milanese, segretario della Società Dante Alighieri, deve essersi tra le altre cose anche divertito nel mettere insieme le tessere della vita del pittore che, tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo, ha cambiato la storia dell’arte, italiana e mondiale. Perché il libro, che è ricco di documentazioni, si avvale di una ricca bibliografia e inserisce il nostro in un contesto storico e culturale largo — e in particolare tra quella terna di ragazzi degli anni Sessanta che comprende anche Dante e San Francesco (quest’ultimo muore nel 1226 ma la sua compiuta celebrazione nella Basilica di Assisi è più tarda) — ebbene questo libro è anche ricco di ironia, motteggi, incontri, dialoghi, battibecchi, gustose mense imbandite di ogni ben di Dio. Perché, si sappia, quel ventre sporto di Giotto non era frutto del caso, ma della predisposizione dell’artista a godere dei piaceri della tavola, complice la moglie, quella Ciutina che gli diede 8 figli e molti abbacchi, minestre, arrosti, verdure. Giotto c’è in questo libro a tutto tondo. C’è il pittore, c’è l’oculato amministratore dei suoi beni (nato povero non fece mai mistero della sua attenzione ai beni terreni pur amando sopra ogni cosa il poverello d’Assisi), c’è l’inventore della nuova pittura che si discosta dalla ieraticità bizantina per accogliere il vero e la prospettiva, ci sono i suoi viaggi e la sua amicizia con Dante, a volte oscurata da qualche incomprensione, e che pare considerasse uno sbruffone il maestro di Giotto, il grande Cimabue.

Un libro agile, 187 pagine che si leggono tutte d’un fiato e che, seppur segua un andamento diacronico — dalla nascita a Vicchio alla morte a Firenze — a volte, vuoi nella memoria dei protagonisti vuoi nella reiterazione di alcuni momenti particolarmente significativi, fa dei salti temporali. Tutti pensati per focalizzare quello che è agli occhi di Masi il nocciolo della questione che lui spiega sin dalla prefazione: «In questo libro, oltre che di Giotto narro anche di Francesco e Dante, come portatori di un nuovo messaggio della parola, tutti e tre raffigurati come vertici di un triangolo equilatero che ancora oggi rimane fondamentale nel progresso dell’umana specie». Ora proviamo a immaginare questo triangolo: ai vertici ci sono i nostri tre grandi rivoluzionari, quelli che ci portano dritti dritti dentro l’Umanesimo, dentro i loro contenuti, il dolce stil novo di Dante, la pittura del vero di Giotto, la dottrina della Chiesa povera di Francesco. Un secolo che porta con sé una rivoluzione. Giotto, ci ricorda Masi, nasce da una famiglia umili origini. Il padre era un «lavoratore di terra e naturale persona» che all’occorrenza era anche un buon fabbro, ma quel buonannulla di suo figlio stava sempre con fogli in mano a disegnare. Quello che vedeva, in campagna, soprattutto pecore che «copiava dal vero» andando al pascolo.

Come fu e come non fu — sulla questione ci sono due versioni entrambe riportate — tutto questo disegnare lo portò a bottega da Cimabue. Artista eccelso, certamente, in vecchiaia pare anche piuttosto invidioso della bravura del suo allievo più talentuoso. È qui, nella bottega di via del Cocomero che Giotto impara, osserva, annota tutto. È con Cimabue che acquisisce gli strumenti con cui come scrive Vasari: «sbandì affatto quella goffa maniera greca e risuscitò la moderna e buona arte della pittura introducendo il ritrarre bene di naturale le persone vive». È grazie a Cimabue che arriva ad affrescare la Basilica Superiore di San Francesco ad Assisi potendo mettere in pratica il suo pensiero e cioè che «in pittura, come nella vita, aveva ragione Francesco, occorreva far scendere tutti i santi tra gli uomini, piantare sulla terra l’intero empireo».

Cappella Scrovegni Padova

Perché «se si voleva rinnovare la pittura bisognava dar ragione al poverello di Assisi e spogliarsi da tutto quel sofisticato complesso di norme iconiche». Il risultato sta lì sotto gli occhi di tutti, ma sta anche nel Cristo di Santa Maria Novella, nel cantiere della Cappella degli Scrovegni a Padova dove il pittore per qualche anno, dal 1303 al 1305, si trasferì con moglie e figli, e in quello di Santa Chiara a Napoli, e poi a Rimini con l’altro Crocifisso del Tempio Malatestiano e nelle Cappelle Bardi e Peruzzi in Santa Croce. Sta nella sua arte, insomma a cui, non tralasciando mai il gusto per il motteggio — pare che fosse un abile conversatore capace di tenere testa a vescovi e re — dedicò tutta la vita. Pare che questa fu la ragione, per dedicarsi all’arte appunto, che declinò l’invito di Dante di aggregarsi con lui a quel gruppo di artisti che avrebbero dovuto creare una confraternita in nome di quello stile nove che loda «sophia, la sapienza, la domina e ancella del signore» i cosiddetti Fedeli dell’amore. Ciò non gli impedì di volerlo a cena, quando a Padova lui stava lì con moglie e figli a lavorare alla cappella voluta da Enrico degli Scrovegni, e Dante era già in esilio e di ritrarlo al Bargello. Terzo vertice del triangolo equilatero.

Ivana Zuliani Corriere Fiorentino 23 marzo 2022

Italo Vagnetti Giotto  Vicchio 1897

 

 

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NAPOLEONE TRA RAGIONE E SENTIMENTO

14/02/2022 da Sergio Casprini

IL MIO NAPOLEONE. Indagini sull’uomo, la famiglia e l’Italia

 

Autore    Philippe Daverio

Editore   Rizzoli

Anno      2021

Pag.        208I

Prezzo    € 25,00 

Da antropologo culturale, quale amava definirsi, Daverio affronta e ritrae il personaggio controverso di Napoleone non da storico né da biografo, ma da più punti di vista: la tradizione culturale dei leader al potere in Francia (re, generali o presidenti che siano), l’ambiente famigliare e le radici mediterranee, l’atteggiamento e le doti del comunicatore, il pensiero sull’Europa. Un libro a cui l’autore ha lavorato tenacemente nell’anno precedente alla sua scomparsa e a cui teneva molto, da grande appassionato qual era dell’uomo e del personaggio storico, sul quale era tornato a più riprese con studi, scritti e interventi orali. Come in ogni suo studio Philippe Daverio posa sulle storie della storia, dell’arte e della cultura il suo occhio curioso, libero da pregiudizi e da vincoli accademici, e ci restituisce un ritratto vivace, sfaccettato, inedito e a tratti irriverente del “suo” Napoleone, cercando di entrare nella mente dell’uomo, nei suoi rapporti con la famiglia d’origine e le radici italiane, nel suo pensiero sull’arte e la vita quotidiana.

Philippe Daverio, nato il 17 ottobre 1949 a Mulhouse, nella regione francese dell’Alsazia, da padre italiano e madre alsaziana, ha vissuto stabilmente in Italia, a Milano. Nel tempo ha dato vita a diverse gallerie d’arte a Milano e a New York.
Specializzato in arte italiana del XX secolo (futurismo, metafisica, novecento, scuola romana), ha dedicato i suoi studi al rilancio internazionale del Novecento.
Come gallerista ed editore – nell’81 ha inaugurato una casa editrice e nell’84 una libreria, sempre a Milano – ha pubblicato una cinquantina di titoli vari tra cui: Catalogo ragionato dell’opera di Giorgio de Chirico fra il 1924 e il 1929, Catalogo generale e ragionato dell’opera di Gino Severini, Fillia e le avanguardie fra le due guerre, Ver Sacrum (Valentina Edizioni 2004). Opinionista per periodici come Panorama, Liberal e Vogue, consulente per la casa editrice Skira, Daverio si è sempre definito uno storico dell’arte. Professore ordinario alla Facoltà di Architettura dell’Università di Palermo e incaricato al Politecnico e allo IULM di Milano, è stato anche direttore della rivista Art e Dossier, nonché autore e conduttore in tv di “Passepartout” e di “Emporio Daverio“.
Nel 2011 esce il suo Museo immaginato (Rizzoli), che ottiene uno strepitoso successo di pubblico; mentre è dell’aprile 2012 la raccolta di scritti L’arte di guardare l’arte (Giunti). Philippe Daverio è morto a Milano il 2 settembre 2020.

Agosto 1815  

  Napoleone Bonaparte a bordo  di una nave della Marina inglese  verso Sant’Elena

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