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Risorgimento Firenze

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Risorgimento Firenze

Donne e merito nel Risorgimento e nella Repubblica italiana

01/11/2022 da Sergio Casprini

Rosalia Montmasson nel 1861

“Tra i tanti pesi che sento gravare sulle mie spalle oggi, non può non esserci anche quello di essere la prima donna a capo del governo in questa Nazione. Quando mi soffermo sulla portata di questo fatto, mi ritrovo inevitabilmente a pensare alla responsabilità che ho nei confronti delle tante donne che in questo momento affrontano difficoltà grandi e ingiuste per affermare il proprio talento o il diritto di vedere apprezzati i loro sacrifici quotidiani…”. Con queste parole, nell’ intervento con cui ha chiesto la fiducia al suo governo, Giorgia Meloni ha voluto ricordare sedici donne italiane che dall’Unità d’Italia a oggi hanno per prime ricoperto ruoli prima considerati esclusivamente maschili nei campi della politica, della cultura, delle professioni e dello sport. Tra le altre, a partire dal Risorgimento, le figure dell’aristocratica Cristina Trivulzio di Belgioioso, elegante organizzatrice di salotti e infermiera sulle barricate della Repubblica Romana, di Rosalie Montmasson, di umili origini, che partecipò all’impresa dei Mille, per arrivare agli anni della Resistenza e della Repubblica con la cattolica Tina Anselmi, partigiana e poi politica democristiana, prima donna ad avere avuto la responsabilità di un ministero (quello del lavoro e della previdenza sociale); e che nel 1978, da Ministro della Sanità, firmò, pur cattolica, la Legge 194 per l’interruzione volontaria della gravidanza; e la comunista Nilde Jotti, anch’essa militante della Resistenza, poi membro dell’Assemblea costituente e infine prima donna Presidente della Camera dei deputati nel 1979 (poi confermata per altre due legislature).

Nilde Jotti

Certamente questo è potuto avvenire, non senza perseveranza e fatica, nel contesto delle democrazie di tipo occidentale, all’interno delle quali solamente si può realizzare una vera emancipazione politica e sociale delle donne. E basta pensare, a confronto, al regime teocratico iraniano, che in questi giorni fronteggia con la violenza innumerevoli manifestazioni, pacifiche quanto coraggiose, contro la cosiddetta apartheid di genere e per la fine del regime dei mullah. Se è apprezzabile il riconoscimento da parte del nuovo Presidente del Consiglio del ruolo delle donne italiane nella storia del nostro Paese, manca invece un riferimento all’attuale disparità di genere nella società italiana. Ancora oggi in Italia il divario fra donne e uomini nei tassi di occupazione rimane tra i più alti di Europa: circa 18 punti percentuali su una media europea di 10; come giustamente ricordava Draghi, quando, all’insediamento del suo governo, tra le priorità del suo programma propose la mobilitazione di tutte le energie della società italiana per il rilancio dell’economia nazionale, a partire dal coinvolgimento delle donne. Una vera parità di genere però non significava, secondo Draghi, un farisaico rispetto di quote rosa richieste dalla legge: richiedeva che venissero garantite parità di condizioni competitive tra generi, valorizzando il criterio del merito, a partire da una rigorosa formazione culturale, professionale e politica.

In questi giorni, sul merito è riemerso un dibattito molto acceso, dopo che alla denominazione del Ministero dell’Istruzione è stata aggiunta per l’appunto l’espressione “e del merito”, inteso dai contrari come inestricabilmente legato al privilegio sociale. Dimenticando che l’art. 34 della Costituzione recita: “I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. I talenti vanno valorizzati, quali che siano, non solo nella scuola, ma anche nel campo del lavoro, nelle imprese, nelle professioni, nello sport; e bisognerebbe parlare del merito in termini di emancipazione collettiva: l’obiettivo non è il singolo, ma la crescita della società, grazie a interventi che, favorendolo, possano avere un impatto significativo sulla maggioranza delle persone. Lo comprese bene, verso la fine degli anni ’80, Claudio Martelli, esponente di primo piano del partito socialista, quando lanciò un ambizioso progetto politico di uscita da una visione classista della società, sintetizzato nella diade “Meriti e bisogni”. L’idea era quella di lasciarsi alle spalle obsolete ideologie anticapitalistiche, per dare vita a “un’alleanza riformatrice tra coloro che possono agire mettendo a frutto i propri talenti e coloro che devono agire per uscire dall’emarginazione, dando così nuovo vigore alla tradizione del socialismo riformista di Turati e della Kuliscioff.

Sergio Casprini

Filippo Turati

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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EUROPA E NAZIONE

24/10/2022 da Sergio Casprini

La destra ne fa uno stile, la sinistra dice Paese, un po’ tutti diciamo patria; Stato non lo dice nessuno. 

 Aldo Cazzullo  Corriere della Sera 23 0tt0bre

La parola chiave di Giorgia Meloni è nazione. «Questa nazione» ha ripetuto per due volte nel brevissimo discorso all’uscita del Quirinale. «Nazione» è il motto ricorrente dei ministri dopo il giuramento. Non è difficile prevedere che la stessa parola riecheggerà più volte nell’intervento al Senato e alla Camera della prima donna presidente del Consiglio. Le parole sono importanti. In particolare quelle con cui si indica l’Italia. La sinistra dice di solito «questo Paese»; e più è radicale, populista, indignata, più calca l’accento su «questo», come a dire che l’Italia è altro rispetto a loro, e gli italiani (come da titolo dell’ultimo libro di Francesco Cossiga) sono sempre gli altri.  Un vecchio poster di An diceva: «Prima eravamo in pochi a dire la parola patria, ora siamo la maggioranza». Non era un poster sbagliato.

Carlo Azeglio Ciampi

Ci fu un tempo in cui patria era una parola connotata a destra; ora la usano un po’ tutti. Decisivo è stato il grande lavoro politicoculturale di Carlo Azeglio Ciampi, che sul recupero della patria e dei suoi simboli — l’inno, il tricolore, financo il famigerato Vittoriano, che in realtà è bellissimo — ha costruito il proprio settennato. Ciampi dimostrò che la patria, frettolosamente data per morta dopo l’8 settembre 1943, era invece radicata nel cuore degli italiani; a cominciare proprio da coloro che all’indomani dell’8 settembre si batterono a Cefalonia contro i tedeschi, dando inizio alla Resistenza. L’idea della Resistenza plurale, e non «cosa di sinistra», è entrata o meglio rientrata nella discussione pubblica proprio con Ciampi. E il presidente, visitando El Alamein e gli altri campi di battaglia, ha restituito dignità e onore ai combattenti della Seconda guerra mondiale, tra i quali lui stesso; in Albania il giovane tenente Ciampi se la vide brutta, e amava ricordare che gli alpini della Julia — motto: «Mai daur», mai indietro — avevano salvato una spedizione mal preparata e peggio comandata, immolandosi sul Pindo per dare il tempo agli altri soldati italiani di ripiegare.

Ma patriottismo non è sinonimo di nazionalismo. «Il nazionalismo è la guerra» diceva un altro presidente che la guerra l’aveva conosciuta, François Mitterrand (caduto con il suo reparto nelle mani dei tedeschi dopo il crollo francese, per tutta la vita concesse il tu solo ai compagni di prigionia). E ancora oggi il nazionalismo estremo ha acceso una guerra sui confini orientali d’Europa.  Ovviamente Giorgia Meloni usa la parola «nazione» in un’altra ottica. Nessuna obiezione, se il senso è dire che l’unità italiana è indissolubile, con buona pace di nordisti e sudisti, dei vecchi leghisti che ancora sognano se non la secessione un’autonomia totale, e dei neoborbonici secondo cui la colpa dei mali del Sud è del Nord. Ma se il senso è contrapporre la nazione italiana, che tutti o quasi amiamo, alle altre nazioni europee, allora le obiezioni sono legittime. A cominciare alla prima: l’interesse nazionale, giustamente caro alla Meloni, in questa fase storica non passa certo per la contrapposizione con l’Europa. Anzi. La costruzione europea doveva servire a un italiano a non sentirsi straniero a Berlino, a Madrid, a Parigi; il che non vuol dire solo andare nelle altre capitali senza passaporto e senza dover cambiare valuta, ma percepire la nostra nazione come ormai indissolubilmente legata alle nazioni tedesca, spagnola, francese; nella prospettiva di unirle in un’unica nazione europea. In Francia si è votato pochi mesi fa per scegliere tra un presidente che fa suonare l’Inno alla Gioia prima della Marsigliese, e una candidata che aveva annunciato di voler togliere le bandiere europee, perché non intendeva «governare una regione d’Europa». Giorgia Meloni da che parte sta? Dalla parte di Emmanuel Macron, che ha vinto — e sarà il primo capo di Stato che lei incontrerà —, o da quella di Marine Le Pen, che ha perso?

 Carlo Bossoli, La battaglia di Solferino 1859

Contrapporre una nazione all’altra non porta lontano; e non solo perché senza l’armata francese, vincitrice a Magenta e a Solferino a prezzo di migliaia di morti, la nazione italiana non esisterebbe; e forse non sarebbe sopravvissuta senza i fanti francesi e inglesi schierati sul Piave dopo Caporetto (anche se la prima resistenza sul fiume si deve ai nostri nonni). Certo, dall’Europa gli inglesi si sono chiamati fuori; ma siamo sicuri che abbiano fatto un affare?

Se dire «nazione» significa essere consapevoli e orgogliosi di noi stessi, bene; se significa considerare l’Europa una sovrastruttura burocratica da cui guardarsi, va meno bene. E non è comunque nell’interesse di un Paese che veleggia verso i tremila miliardi di debito pubblico, finanziato dalla Banca centrale europea, posseduto per almeno il 10% dagli investitori francesi, e di fatto garantito dai tedeschi, che hanno accettato il debito comune del Pnrr e prima o poi accetteranno di farne altro per vincere la battaglia dei prezzi. A maggior ragione ora che i tassi tornano a salire, e aumenta il costo del denaro, l’Italia ha bisogno dell’Europa come non mai. E fino a quando gli europei non eleggeranno tutti insieme il loro presidente, gli egoismi nazionali — lo dimostra proprio in questi giorni la Germania — saranno sempre destinati a prevalere. Come dice uno dei mentori di Giorgia Meloni, Vittorio Feltri, nel condominio europeo noi siamo l’inquilino moroso: l’ultimo che può alzare la voce.

In sintesi: la sinistra dice Paese, la destra dice nazione, un po’ tutti diciamo patria; Stato non lo dice nessuno. Fa venire in mente i bolli, le code, le tasse. Lo Stato è sempre altro rispetto a noi: il poliziotto è lo sbirro, il Palazzo di Giustizia il Palazzaccio. Forse la nuova destra di governo dovrà occuparsi anche di questo.

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IL GIARDINO DI DOGLIANI DOVE RIPOSA LUIGI EINAUDI

13/10/2022 da Sergio Casprini

 

LETTERE al Corriere della Sera 13 ottobre 2022

Caro Aldo, nella sua risposta (Corriere, 28 settembre) ho notato che, tra i nomi degli illustri piemontesi da lei citati non appare quello di Luigi Einaudi. Non voglio credere che si sia trattato di una volontaria omissione, bensì di un semplice lapsus calami. Io, da liberale quale sono stato e quale sono tuttora nella mia tardissima età, ma purtroppo senza più quel partito di Benedetto Croce e Luigi Einaudi in cui militai, ne sono rimasto dispiaciuto, pur, come ho già detto, non facendogliene una colpa. Perché non ci parla di questa grande figura di cui sarebbe attualissimo oggi rileggere le sue stupende pagine del libro «Le prediche inutili»? Luigi Morelli, Fabriano (An)

Caro Morelli, lei ha perfettamente ragione. Il nome di Luigi Einaudi e di suo figlio Giulio mi è rimasto nella penna. Ma ora rimediamo. Quando chiesi a Elémire Zolla, lo scrittore-sciamano che leggeva il Mahabharata in sanscrito, quali fossero stati i libri della sua formazione, rispose: «La Scienza delle Finanze di Luigi Einaudi. È il libro più importante mai stato scritto da un italiano nel secolo ventesimo».

Einaudi insegnava all’Università di Torino. Un giorno gli entrò in ufficio uno dei suoi studenti. Una matricola. Era il figlio di un droghiere, che aveva una bottega nel centro di Torino. Quel ragazzo chiese a Einaudi se volesse scrivere un articolo per una piccola rivista che aveva deciso di pubblicare. Specificò di non poter pagare. Einaudi fu attratto dalla sua intelligenza, e anche dal suo coraggio. E rispose che avrebbe scritto molto volentieri l’articolo, senza compenso. Il ragazzo si chiamava Piero Gobetti, e sarebbe morto qualche anno dopo in esilio, a Parigi, dopo essere stato manganellato per tre volte. Einaudi fu tra i liberali che si illusero di poter usare il fascismo contro le sinistre e ricondurlo nell’alveo della democrazia. Si accorse ben presto di essersi sbagliato. Non fu un antifascista attivo, giurò fedeltà al regime come quasi tutti i docenti; ma un altro suo allievo illustre, Edgardo Sogno, lo ricordava al suo esame di laurea in camicia bianca, in mezzo a colleghi in camicia nera.

Dopo la Liberazione, Einaudi fece la politica economica del nostro Paese, da ministro delle Finanze, governatore della Banca d’Italia, presidente della Repubblica. Era favorevole a una lira forte e contrario all’assistenzialismo: sosteneva che la ricchezza, prima di essere redistribuita, andasse creata. A lungo molti commercianti italiani hanno affisso nella loro bottega una sua citazione, in cui elogiava la laboriosità dei negozianti, degli artigiani, dei piccoli imprenditori, e prendeva le loro difese dall’invadenza della burocrazia. Ha vissuto una vita lunga e serena, e riposa in un luogo molto bello, un giardino nel cimitero di Dogliani, accanto alla signora Ida, a Giulio e altri figli e parenti, di cui tutti sulle Langhe custodiscono una memoria grata e affettuosa.

Aldo Cazzullo

 

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PATRIA, NAZIONE, NAZIONALISMO

11/10/2022 da Sergio Casprini

Patria e Nazione non coincidono

 Livio Ghelli 

Iniziamo dalle parole:

Patria, sostantivo femminile, è l’ambito territoriale, di tradizioni e cultura cui si riferiscono le esperienze affettive, morali, politiche di un individuo in quanto appartenente a un popolo.

Patriottismo, sostantivo maschile, è il sentimento di amore e devozione verso la patria. Patriota, sostantivo maschile e femminile, significa amante della patria e pronto a lavorare e lottare per essa.

Nazione è, o forse era, qualcosa di un po’ diverso dalla patria: definiva un complesso di individui legati da una stessa lingua, da una stessa storia, da una stessa civiltà, dagli stessi interessi, in antico anche da una stessa religione imposta dal sovrano.

Dunque, Patria e Nazione non coincidono. Un esempio: nella nostra penisola da secoli vivono comunità di lingua albanese, greca, ladina, francese, tedesca, slovena. Sono circa due milioni e mezzo di italiani, con una lingua madre diversa dall’italiano. Senza contare la comunità Rom. Ovviamente tutti imparano l’italiano a scuola e la loro patria è l’Italia. Ma la loro identità, le loro radici, parole, canzoni, cibo, danze, preghiere affondano –dovrei dire affondavano, oggi siamo tutti omologati- in una terra diversa di cui conservano il ricordo. Altro esempio: un altoatesino può battersi con valore per difendere la patria italiana anche se la sua lingua madre è il tedesco.

Il fascismo, a suo tempo, intervenne con ferocia per italianizzare forzatamente questi cittadini di lingua e tradizioni diverse: divieto assoluto di esprimersi nella propria lingua, cognomi e nomi di luoghi sostituiti con nomi italiani, monumenti e simboli nazionali distrutti, maestri locali licenziati, bastonature, fucilazioni, campi di concentramento di cui pochissimo si sa.  Mi riferisco al periodo tra le due guerre, dal 1918 al 1940, e ad una repressione iniziata da governi sedicenti liberali già prima dell’affermarsi della dittatura, che poi fece di peggio.

Situazioni analoghe, di nazionalità diverse in una patria comune, le troviamo sia in Europa che in tutti gli Stati del Mondo: Irlandesi, Gallesi, Scozzesi, Inglesi nel Regno Unito, Fiamminghi e Valloni in Belgio, Baschi e Catalani in Spagna, Indios dell’Amazzonia in Brasile, Quechua e Aimara in Perù. Conflitti sono nati, spesso, tra lo Stato che considerava queste minoranze con lingue e culture diverse, al proprio interno, come corpi estranei, da assimilare, o assoggettare, o anche distruggere. In nome dell’unità della Nazione.

Bisognerebbe invece riuscire a creare una identità comune a tutti i gruppi etnici, linguistici, religiosi e regionali in modo che si sentano parte della stessa comunità politica: tutti, nessuno escluso, e senza che un determinato gruppo etnico o sociale mantenga le posizioni di potere e di comando a spese degli altri. La costruzione della Nazione richiede giustizia e uguaglianza assolute. E altre cose: la solidarietà di tutti, il consenso generale sui valori fondamentali, l’accettazione dell’unità nella diversità… Un lavoro immenso. Massimo d’Azeglio, consapevole, diceva: “Fatta l’Italia bisogna fare gli Italiani”.

Vorrei terminare con Rousseau: “Soltanto in democrazia lo Stato è veramente la patria di tutti gli individui che lo compongono e può contare su tanti difensori interessati alla sua causa quanti sono i suoi cittadini.” Uno stato democratico, appunto. Ma quanti sono al mondo gli stati veramente democratici? E le garanzie democratiche, il diritto ad avere diritti, valgono per i soli cittadini, o valgono, come sarebbe giusto, per tutti compresi i migranti, gli esuli, i senza patria? Perché è questo il punto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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NAZIONE E LIBERTA’

10/10/2022 da Sergio Casprini

L’Ucraina ci mostra che esiste “il nazionalismo liberale” e può vincere

Paola Peduzzi Il Foglio Quotidiano 8 ottobre 2022

“La tenacia dell’ucraina dimostra quanto possa essere potente il nazionalismo liberale di fronte a una minaccia autoritaria, dimostra come il nazionalismo liberale possa mobilitare una società e ispirarla a fantastici risultati”, scrive David Brooks nel suo ultimo commento sul New York Times. Brooks, scrittore liberale, introduce il concetto di “nazionalismo liberale” per spiegare che la guerra in Ucraina non è soltanto “un evento militare, ma è un evento intellettuale” perché gli ucraini non stanno vincendo soltanto dimostrando una superiorità delle loro truppe, ma combattendo “in nome di un’idea superiore” che è in realtà la somma di due idee: il liberalismo, “che promuove la democrazia, la dignità individuale, un ordine internazionale basato sulle regole”, e il nazionalismo, “Volodymyr Zelensky è un nazionalista, non combatte soltanto per la democrazia, ma anche per l’ucraina – la cultura ucraina, la terra ucraina, il popolo e la lingua ucraina. Il simbolo di questa guerra è la bandiera ucraina, un simbolo nazionalista”.

Siamo abituati a trattare queste due idee come contrapposte: i liberali contro i nazionalisti. Il fatto che possano invece andare a braccetto è un altro dei contributi che il popolo ucraino sta dando al riallineamento ideologico e culturale in corso dall’inizio della guerra di Vladimir Putin. Brooks spiega che il nazionalismo ha preso un’accezione negativa non a torto – “ha le mani sporche di sangue” – ma che esistono due tipi di nazionalismo: “Quello illiberale di Vladimir Putin e Donald Trump e quello liberale di Zelensky. Il primo nazionalismo è retrogrado, xenofobo e autoritario. Il secondo nazionalismo è lungimirante, inclusivo e costruisce una società attorno allo stato di diritto, non al potere personale del leader”. E il liberalismo non può più fare a meno del nazionalismo, perché nella sua versione inclusiva il nazionalismo garantisce appartenenza, storia, identità, possibilità di rigenerarsi. Quanto all’appartenenza: “I paesi sono tenuti insieme dall’amore condiviso per un particolare stile di vita, una particolare cultura, una particolare terra”, e questo è un sentimento che va coltivato e al quale va dato un significato. “La libertà è vuota al di fuori di un sistema di significato”, scrive Yael Tamir in “Why Nationalism”, e il sentirsi parte di una nazione rende gli individui ingranaggi “di una storia eterna”. Oltre che un gruppo in grado di difendersi: “Le democrazie hanno bisogno di questo tipo di nazionalismo anche per rimanere unite”, scrive Brooks. C’è poi la possibilità di poter superare il passatismo legato al nazionalismo (illiberale possiamo dire a questo punto) e al contrario “tornare continuamente indietro, reinterpretare il passato, modernizzare la storia e reinventare le proprie comunità”: è in questo senso che Brooks declina il potenziale di rigenerazione insito nel nazionalismo liberale.
L’intellettuale americano spiega poi come il nazionalismo in America invece si stia sempre più esprimendo nei suoi toni illiberali, ed è agli americani che parla quando prospetta la tenacia ucraina e il nazionalismo liberale di Zelensky come una lezione importante da trarre, “il trionfo di un’idea”. Brooks non si inoltra nelle sfumature del nazionalismo ucraino, non è questo lo scopo della sua analisi, ma tali sfumature non sono e non saranno secondarie in questa seconda fase della guerra, quella in cui l’ucraina sta vincendo. Il coraggio e l’orgoglio ucraino sono andati di pari passo con l’odio nei confronti dei russi. Qualche tempo fa, in uno splendido articolo sull’Atlantic, la direttrice della New Voice of Ukraine, Veronika Melkozerova, aveva scritto: “Negli ultimi mesi, da quando le forze russe hanno lanciato la loro ultima invasione dell’ucraina, abbiamo cercato di rimanere umani, di essere migliori del nostro nemico”, ma “non possiamo rimanere la vittima perfetta: liberale, indulgente, gentile. In segreto, desideriamo la vendetta. Be’, forse ora non più così segretamente”. Sono arrabbiata e piena d’odio, scriveva la Melkozerova, “perché la Russia, che ci ha aggrediti, potrebbe farla franca, perché i miei amici, i miei cari e io siamo costantemente in pericolo. Ma non ho modo di sfogare questi miei sentimenti, e così la mia rabbia e il mio odio aumentano”. Non è fiera del suo risentimento, tutt’altro, sa che è un’ipoteca sul futuro, ma non riesce a contenerlo, pensa che non sia possibile contenerlo.

Noi facciamo conti militari e cartografici, pontifichiamo sui termini di una pace, ma in gioco c’è soprattutto la pacificazione, che si nutre del nazionalismo liberale e non dell’odio.

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I geni invisibili della democrazia

05/10/2022 da Sergio Casprini

La cultura umanistica come presidio di libertà

Autore Enzo di Nuoscio

Editore Mondadori

Collana Scienza e Filosofia

Anno     2022

Pag.       160

Prezzo   € 12

 Capacità critica, autonomia di giudizio, difesa della persona umana e consapevolezza della fallibilità della conoscenza, della relatività dei valori e dell’inviolabilità della coscienza.

Sono questi i «geni invisibili» della democrazia, in mancanza dei quali si materializzano i «demoni visibili» dei suoi nemici. Senza una sufficiente scorta di tali risorse culturali sarebbe impossibile quella «rivoluzione democratica» che sostituisce allo scontro tra le persone il confronto tra le idee, all’uso della forza il ricorso al dialogo, trasformando le istituzioni nel luogo in cui facciamo morire le idee al nostro posto. La cultura umanistica è la sentinella della nostra libertà perché difende e arricchisce questi «geni invisibili», formando menti critiche vaccinate contro il fanatismo, la violenza e contro le più subdole minacce alla «società aperta». Investire sulla formazione umanistica significa dunque proteggere la democrazia da vecchi e nuovi nemici.

Enzo Di Nuoscio è professore ordinario di Filosofia della scienza all’Università del Molise e docente di Metodologia delle scienze sociali alla LUISS di Roma. Ha svolto inoltre attività di ricerca e di insegnamento presso La Sapienza, la LUMSA e la Gregoriana di Roma e presso la Sorbona e Science Po a Parigi. Si è occupato soprattutto di epistemologia delle scienze umane e di teoria politica.

 

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La Democrazia e l’emancipazione politica delle donne

01/10/2022 da Sergio Casprini

In Iran dopo la morte della ventiduenne curda Mahsa Amini, arrestata dalla polizia morale perché indossava il velo in maniera inappropriata, la repressione violenta non ferma la protesta delle donne iraniane, che si sta trasformando in una sfida sempre più radicale al regime degli ayatollah. Dopo dodici giorni di manifestazioni gli arresti sarebbero 3000 e i morti oltre 70.

“Donne, vita, libertà” è lo slogan scandito dalla folla nelle piazze e nelle strade, mentre le donne sventolano i loro hijab e li bruciano in falò improvvisati sotto il naso della polizia in assetto antisommossa, che ha sparato proiettili di gomma e proiettili veri, usato i manganelli e scatenato i cannoni ad acqua. Le proteste, le più violente degli ultimi tre anni, sono cresciute di intensità dopo l’uccisione, domenica 25 settembre, di Hadith Najafi, la “ragazza con la coda”. E il taglio dei capelli delle donne in pubblico, tradizionalmente un forte segno di protesta, è una delle immagini simbolo di questa rivolta, e dimostra la risolutezza delle donne, il coraggio di chi non ha più niente da perdere.

Sabato 24 settembre anche la comunità iraniana di Firenze si è riunita in piazza Sant’Ambrogio per rivendicare i diritti delle loro famiglie e dei loro connazionali. Medici, professionisti, artisti, atleti e lavoratori del turismo sventolavano anche loro come in Iran cartelli con lo slogan donna, vita, libertà. Sul sagrato della chiesa mostravano i volti delle vittime mentre scandivano a gran voce Bella Ciao: una manifestazione di protesta senza alcun intervento repressivo delle forze dell’ordine, tantomeno quello di una illiberale “Polizia morale”, a conferma che solo nella cultura occidentale esiste la democrazia e quindi la libertà degli uomini e delle donne di lottare per le proprie idee.

Va pure detto, però, che al momento in Europa e in America non c’è un forte sostegno delle istituzioni e della società civile alla lotta delle donne iraniane. Da tempo l’Occidente ha smesso di combattere con convinzione per i suoi valori; e al suo interno si è sviluppata la cosiddetta Cancel Culture, che demonizza la sua storia, la sua cultura, la sua civiltà e distrugge i monumenti del suo passato. Il perdurante senso di colpa per il suo passato colonialista e imperialista gli impedisce di contrastare con forza le ideologie illiberali, totalitarie e teocratiche presenti nel resto del mondo, a partire da molti paesi islamici.

Lo stesso sta avvenendo anche in Italia, Paese di forte tradizione democratica a partire dal Risorgimento e dalla Resistenza al nazifascismo: gli studenti che occupano il liceo Manzoni di Milano non solo contro le pratiche di scuola e lavoro, ma anche e assurdamente contro la vittoria elettorale della destra,  avrebbero potuto invece far sentire forte la loro voce per il ritiro dell’ambasciatore italiano a Teheran. Tra l’altro il vero vulnus alla democrazia di queste elezioni italiane è stata l’altissima percentuale di cittadini che non hanno votato, tra cui sicuramente molti giovani. È l’indice di una progressiva disaffezione alla vita politico-sociale del nostro Paese e del venir meno di quel senso civico, che è necessario alla coesione istituzionale e morale della nazione, soprattutto in tempi drammatici come gli attuali. Va invece colta in maniera positiva la novità politica della vittoria elettorale di una donna, sicura premier del prossimo governo italiano, un evento che avvicina il nostro Paese al resto dell’Europa, in cui da anni donne di destra e di sinistra governano i loro Paesi e le Istituzioni europee.

Anna Kuliscioff

È il risultato di un lungo processo di emancipazione femminile, nato negli anni del nostro Risorgimento. Va ricordata tra le altre la figura della socialista Anna Kuliscioff, che si batté per il voto alle donne agli inizi del secolo scorso, obiettivo finalmente raggiunto nel 1946, a cui è seguita una crescente partecipazione alla politica delle donne con l’assunzione anche di rilevanti ruoli istituzionali. Se poi il nuovo governo presieduto da una donna non fosse all’altezza dei compiti che le spettano in questo difficile momento politico-economico e anzi promuovesse leggi illiberali, allora gli studenti sarebbero legittimati a protestare: i valori della democrazia e della libertà vanno sempre difesi, ovviamente a prescindere dal fatto che il capo del governo sia un uomo o una donna.

Sergio Casprini 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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I RETROSCENA DI FIUME

29/09/2022 da Sergio Casprini

Il poeta Gabriele D’Annunzio (1863-1938) a cavallo nella città di Fiume con i suoi legionari

L’IMPRESA DI D’ANNUNZIO VENNE ISPIRATA DA AMBIENTI ECONOMICI E FINANZIARI

Paolo Mieli Corriere della Sera 26 settembre 2022

Un saggio di Eugenio Di Rienzo indaga sugli appoggi occulti e palesi che il poeta ottenne in quelle drammatiche circostanze

Dieci mesi dopo la fine della Prima guerra mondiale, ai primi di settembre del 1919, partì la spedizione per Fiume. A guidare la conquista della città contesa tra il Regno d’Italia e quello dei Serbi, Croati e Sloveni, c’era Gabriele D’Annunzio. Il poeta proclamò la Reggenza del Carnaro e istituì un regime libertario, festante, vagamente ispirato all’anarcosindacalismo. A Fiume, ricordò lo scrittore Giovanni Comisso che prese parte all’impresa, «si faceva senza alcun ritegno tutto ciò che si voleva». Qualcuno cinquant’anni dopo paragonò l’aria respirata in quei giorni a Fiume a quella del Sessantotto. Altri, a ridosso degli eventi, vollero che fosse stata un’anticipazione della «marcia su Roma» e una sperimentazione in vitro di certi aspetti che avrebbe avuto il regime mussoliniano. Ipotesi e tesi confutate dagli studi assai seri sulle origini del fascismo di Nino Valeri, Renzo De Felice e Roberto Vivarelli, che misero ben in evidenza le diversità tra dannunzianesimo e mussolinismo. Ai quali si sono aggiunti, in tempi più recenti, i due preziosi libri di Marco Mondini — Fiume 1919. Una guerra civile italiana (Salerno) — e di Maurizio Serra: L’Imaginifico. Vita di Gabriele D’Annunzio (Neri Pozza).

Il governo d’Italia presieduto da Francesco Saverio Nitti in un primo tempo fu relativamente tollerante nei confronti di D’Annunzio. Finché, alla fine del 1920, Giovanni Giolitti (successore di Nitti) mise termine all’occupazione nei giorni di un Natale definito all’epoca — non senza una qualche enfasi — «di sangue»: i morti, tra soldati del Regio esercito, legionari dannunziani e civili, furono poco più di una cinquantina. L’avventura durò 476 giorni. Arrotondati a 500 da Giordano Bruno Guerri nel documentatissimo Disobbedisco. Cinquecento giorni di rivoluzione. Fiume 19191920 (Mondadori).

Gerardo Dottori  Benito Mussolini il Duce 1933

Resta il fatto che, dopo Fiume, D’Annunzio gradualmente sparì dalla scena politica e si affermò, invece, Benito Mussolini. Nel duello ingaggiato dopo il 1921 con Mussolini, D’Annunzio fu sconfitto perché «nella competizione tra un dilettante e un professionista della politica l’esito della sfida era del tutto scontato», scrive Eugenio Di Rienzo in D’Annunzio diplomatico e l’impresa di Fiume, edito da Rubbettino. Ma Di Rienzo non insiste più di tanto sulla «congenita inadeguatezza politica» del poeta. Dal momento che la tesi dell’«inadeguatezza» non terrebbe in sufficiente considerazione l’«indubbia maestria di mediare tra la sinistra e la destra fiumana» del Vate che riuscì ad avere in mano «sempre stretto» il bastone del comando. E fu capace, «con maggiore o minore successo», di far fronte a «maestri di intrighi della stazza di Badoglio, Nitti, Giolitti, Sforza». Anche se Di Rienzo, citando Thomas Mann, fa qualche concessione al concetto di «impoliticità dannunziana». Impoliticità ampiamente documentata da manifestazioni di «nausea per la politica» (sulle quali si soffermò Benedetto Croce) e di «disgusto per i maneggi del politicantismo giolittiano». Ciò che non fece di D’Annunzio un protofascista. Ma «costituì il terreno di coltura per l’affermarsi di simpatie per il fascismo anche presso i più illustri esponenti del fronte liberale».

Detto questo, va aggiunto — secondo Di Rienzo — che l’impresa di D’Annunzio fu probabilmente «ispirata e resa materialmente possibile dal concorso dei Poteri forti (economici e finanziari), dei vari gruppi di pressione, a volte difficilmente etichettabili politicamente, della Fratellanza massonica, della grande e media stampa schierata o che si autodefiniva indipendente». Forze, queste, «ben radicate nella struttura dello “Stato invisibile” che, intrecciando la loro azione con quella dello “Stato visibile” (Forze armate, agenzie di intelligence, apparato burocratico, spezzoni del governo) in quel momento dettavano o quantomeno influenzavano fortemente l’agenda della politica italiana».

Se si accetta questa ipotesi, è da ridimensionare anche la definizione di «Antistato fiumano». Perché l’organismo statale italiano a cui quell’«Antistato» mirava appunto a contrapporsi, «si era già disgregato di fronte alla crisi dell’immediato dopoguerra in vari tronconi». Tronconi che avrebbero agito molto spesso autonomamente. Quali? Regio Esercito, Regia Marina (con i loro servizi di informazione e le loro attività coperte), Ministero dell’Interno con i suoi bureaux preposti ai cosiddetti «Affari riservati», «spesso deviati rispetto ai loro fini istituzionali». Senza escludere, inoltre, che «i germi di questa frammentazione della sovranità statale si annidarono persino nel cuore profondo dell’esecutivo». Dove? Nella presidenza del Consiglio, risponde Di Rienzo, nella Consulta in cui «Carlo Sforza e l’onnipotente segretario generale del ministero degli Affari Esteri, Salvatore Contarini erano rimasti fedeli all’eredità della politica estera assertiva di Sonnino».

A queste forze si dovrebbe aggiungere la Casa regnante: «l’enigmatico» Vittorio Emanuele III ed Emanuele Filiberto, Duca d’Aosta, «perennemente in fregola di smanie golpiste». Tutti loro «consentirono all’impresa fiumana — finanziata, controllata e indirizzata dallo Stato Maggiore Generale, dai Palazzi romani, dalle banche e dai complessi industriali dell’Italia settentrionale — di nascere, sopravvivere consolidarsi, svilupparsi». Salvo poi abbandonarla al suo destino quando quell’impresa verrà giudicata «non più funzionale ai loro obiettivi».

Questa la tesi di Di Rienzo. D’Annunzio non sarebbe stato «né l’ideatore né l’incontrastato primo attore dell’avventura di Fiume». In realtà — secondo l’autore — egli ricoprì, «fino ad un certo punto almeno», il ruolo di «semplice strumento manovrato da altri» come «alcuni politici e analisti di quella tormentata stagione avevano perfettamente compreso».

Francesco Saverio Nitti

Lo stesso Nitti, nelle sue memorie — Rivelazioni. Dramatis personae (Edizioni Scientifiche Italiane) —, affermò che si era voluto fare di D’Annunzio «il creatore del movimento fiumano che certo contribuì a creare» mentre egli invece «fu, in definitiva, soprattutto l’esecutore di una situazione che era all’infuori di lui». Gaetano Salvemini, il quale avanzò un’ipotesi che Di Rienzo definisce «inquietante» e cioè che gli stessi Nitti e Giolitti avessero agito dietro le quinte per disgregare il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni. In tutto ciò, prosegue Di Rienzo, «è veramente difficile non scorgere una continuità stretta con la “diplomazia di movimento” di Cavour prima sperimentata nei Balcani, attuata poi nella guerra non dichiarata contro Francesco II». Una diplomazia corsara di cui si avvalse in seguito Urbano Rattazzi nell’agosto 1862 e nell’ottobre-novembre 1867 «per giungere alla conquista di Roma senza arrivare a uno scontro frontale con la Francia del Secondo Impero». Servendosi nuovamente, come nel maggio del 1860, in Sicilia, «dei servigi del disobbediente-obbediente Giuseppe Garibaldi».

Dove si troverebbero le tracce delle trame a cui si riferisce Di Rienzo? Nitti, tra le personalità più importanti dell’epoca, fu colui che, nelle citate memorie, per primo chiamò in causa la massoneria. Massoneria da cui lui stesso sostenne di essersi sentito minacciato. E che, a suo dire, «aveva rappresentanti e agenti in tutti i centri importanti di popolazione, spesso anche in alcuni centri minori». Nessun partito se non la massoneria, secondo Nitti, «poteva nello stesso giorno e alla stessa ora inscenare riunioni e dimostrazioni e far credere a movimenti della coscienza nazionale che in realtà non esistevano». Ancor più puntuale in questo atto d’accusa, l’uomo che all’epoca era a capo del governo, scriveva: «Fra gli aderenti dell’insano tentativo di D’Annunzio furono, infatti, molti massoni». E «gli organi superiori della massoneria non avversarono D’Annunzio ma anzi esaltarono la sua impresa e la favorirono ben prima del suo inizio».

Nitti era convinto che la massoneria era stata responsabile nel 1915 «dell’entrata in guerra dell’Italia in forma incostituzionale e con procedimenti e metodi messicani». E che al Grand’Oriente fosse riconducibile «il male che fece il colpo di mano di Fiume». Responsabile, la massoneria, «solo in parte» per ciò che era accaduto tra l’aprile e il maggio del 1915. In «gran parte» invece per quel che si produsse tra il 1919 e il 1920. Il tutto comprovato dalle ammissioni del gran maestro di Palazzo Giustiniani, Domizio Torrigiani, il quale, in tempi successivi, «tenne non solo a riconoscere ma anche a rivendicare il merito della contribuzione massonica alla scellerata avventura dannunziana».

Torrigiani dal giugno del 1919 era stato, come successore di Ernesto Nathan, alla guida del Grand’Oriente d’Italia. Simpatizzò per l’avventura del Carnaro e si recò a Fiume per due missioni (concordate con Nitti). Poi, quando nel 1920 l’impresa dannunziana prese un carattere nettamente antigovernativo, se ne distaccò.

Negli anni seguenti Torrigiani ebbe problemi con Mussolini soprattutto dopo la crisi successiva al rapimento e all’uccisione di Giacomo Matteotti. In quell’occasione Torrigiani tenne contatti con Giovanni Amendola e svolse un ruolo di rilievo nel rendere pubbliche carte che danneggiavano la reputazione di Mussolini. Nel 1925 il regime fascista sciolse le logge massoniche e il gran maestro espatriò in Francia. Tornato a Roma nel 1927, fu arrestato dalla polizia e mandato al confino, prima a Lipari, poi a Ponza. Si ammalò, venne curato sommariamente e gli fu restituita la libertà soltanto nell’aprile del 1932. Giusto in tempo per poter morire cinquantaseienne, a fine agosto del 1932, nella villa di famiglia a San Baronto, frazione di Lamporecchio, in provincia di Pistoia.

Dell’iniziale appoggio di Torrigiani alla causa di D’Annunzio — dopo il primo viaggio del gran maestro a Fiume — sono rimaste innumerevoli tracce. Tra le quali, Eugenio Di Rienzo mette in risalto due articoli di giornale pubblicati lo stesso giorno: 6 novembre 1919.

Il primo comparve sul «Messaggero». Il giornale dei fratelli Perrone dava grande risalto a un comunicato del «Governo dell’ordine massonico» di esplicito sostegno ai legionari fiumani. La massoneria, sotto la guida di Torrigiani, assicurava il comunicato, «continuerà a seguire, come dall’inizio, con amorosa, ininterrotta cura e materiale sostegno, l’eroica azione concepita dall’eroe di Buccari e di Vienna per il trionfo dei popoli martiri e per il coronamento della Vittoria italiana». Il tutto era accompagnato da un commento con il quale il giornale romano esprimeva il proprio entusiastico sostegno alla presa di posizione della massoneria.

L’altro articolo fu pubblicato quello stesso giorno dal quotidiano socialista l’«Avanti!». In esso si denunciavano gli intrecci tra quella che era stata la «massoneria interventista» e «i generali massoni che sono di fatto i comandanti dell’esercito fiumano». Tutte prove eloquenti che il Grand’Oriente aveva «sobillato» la «faccenda di Fiume». «Quando ci sarà concesso di parlare», proseguiva il foglio del Psi con un esplicito accenno alla censura, «vedremo perché insieme alla massoneria anche stavolta agiscono gli emissari della Grandi Banche, i Toeplitz gli emissari dei Perrone, e, con loro, i più noti arruffoni dell’affarismo capitalistico internazionale». Un articolo che Di Rienzo definisce «in larga parte profetico». O forse soltanto ben informato. Dieci giorni dopo, il 16 novembre 1919, Badoglio comunicava a Nitti che D’Annunzio aveva ricevuto «una missione dei principali industriali e finanzieri italiani» tra i quali venivano, direttamente o indirettamente, individuati molti dei nomi pubblicati sull’«Avanti!».

Avanti ! 6 novembre 1919

 

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IL DISPREZZO PER IL RISORGIMENTO È DISPREZZO PER NOI STESSI

25/09/2022 da Sergio Casprini

LETTERE       

Corriere della Sera  23 settembre 2023

Caro Aldo, il 20 settembre presso la breccia di Porta Pia si è svolta come ogni anno una cerimonia commemorativa. I bersaglieri di Cadorna nel 1870 invasero lo Stato Pontificio con le armi in pugno e lo conquistarono con la motivazione che era parte dell’Italia. Per giustificare agli occhi del mondo l’annessione armata di uno Stato straniero legittimamente esistente il Regno d’Italia indisse subito un plebiscito locale che ratificò l’annessione a maggioranza dei votanti. Oggi la Russia sta facendo qualcosa di simile. Ha invaso le province russofone dell’Ucraina, sostenendo che appartengono territorialmente e linguisticamente alla Russia. E ora si appresta a indire un referendum locale per ratificare l’annessione armata. Ma noi applaudiamo i bersaglieri e critichiamo la Russia. Lei che ne pensa? Mauro Martini

Caro Mauro, Non vorrei mai ricevere lettere come la sua. Purtroppo sono numerose. Il Risorgimento — quest’epopea meravigliosa che ispirò Alessandro Manzoni e Giuseppe Verdi, che fece discutere personaggi della statura di Mazzini, Gioberti, Cattaneo, Cavour, che vide lo slancio di volontari di tutta Italia, che fece di Garibaldi l’uomo più famoso del mondo — è il periodo più odiato della storia d’Italia. Da tempo è senza padri: né i democristiani né i comunisti sapevano cosa farsene. Poi sono arrivati i leghisti, che volevano dividere l’Italia, e i loro fratelli neoborbonici, convinti che i mali del Sud siano solo responsabilità del Nord, e quindi non ci si possa fare nulla.

L’odio per il Piemonte e lo spappolamento culturale della città che fu di Gramsci e Gobetti, Einaudi e Bobbio, hanno fatto il resto. Ma non è solo questo. C’è di mezzo il disprezzo degli italiani per se stessi. E l’idea, teorizzata da Francesco Cossiga, per cui gli italiani sono sempre gli altri.

Ma come si fa, gentile signor Martini, a paragonare i soldati italiani — non piemontesi; italiani — che entrarono in Roma ai soldati russi che hanno invaso l’Ucraina? A Roma nessuno venne torturato, nessuno fu violentato, nessuno fu gettato in una fossa comune con le mani legate dietro la schiena. Legga cosa scrive un cronista d’eccezione, Edmondo De Amicis. I soldati italiani entrarono nella città eterna intimoriti e ammirati: quasi nessuno era mai stato a Roma in vita sua (a proposito, la proposta molto criticata di rendere obbligatoria una gita scolastica a Roma è invece giusta, perché anche adesso molti ragazzi del Nord e del Sud non sono mai stati a Roma in vita loro).

Pio IX — sempre Cossiga disse che la sua beatificazione era uno schiaffo del Vaticano all’Italia — aveva scelto di difendere con le armi, sia pure simbolicamente, il potere temporale dei Papi. Ma la perdita del potere temporale è stata una fortuna per il Papa, che anche per questo ora è leader spirituale e universale. Il 20 settembre segna la fine dell’Ancien Régime, dei ghetti e delle forche, della tortura e del foro ecclesiastico, e l’inizio della scuola laica, delle libertà civili, dell’uguaglianza di fronte alla legge. Non esiste un Paese al mondo in cui l’unificazione nazionale e il ricongiungimento della capitale con la patria siano considerate sciagure.

Lettere come la sua, gentile signor Martini, mi inducono a pensare che avesse ragione de Gaulle, quando diceva che l’Italia non è un Paese povero, è un povero Paese. Aldo Cazzullo

Edmondo De Amicis

 

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Decennio dopo decennio, Elisabetta è diventata la Marianne britannica

19/09/2022 da Sergio Casprini

Giovanni Belardelli

  • Il Foglio Quotidiano 17 settembre 2022
  • Subito dopo la morte di Elisabetta II più d’uno ha richiamato il celebre volume di Ernst Kantorowicz I due corpi del Re (Einaudi).

In estrema sintesi, il libro analizza l’idea, che si afferma a partire dalla teologia politica medievale, secondo la quale il sovrano possiede, oltre a un corpo naturale destinato ad ammalarsi e a morire, anche un corpo politico che gli sopravvive poiché rappresenta la perennità del potere sovrano. La formula che tutti conosciamo “il re è morto, viva il re” evidenzia questa indipendenza della sovranità dalla vita di un certo particolare sovrano. Bene, il rinvio al libro di Kantorowicz, tanto più alla morte di colei che l’opinione globale sente essere l’ultima vera regina, è molto suggestivo. Ma anche del tutto sbagliato.

Quel discorso sui “due corpi del re” valeva per l’antico regime, quando l’autorità sovrana coincideva con l’esistenza stessa della nazione: Luigi XV, re di Francia, affermò per esempio nel 1766: “Il mio popolo esiste solo attraverso la sua unione con me; i diritti e gli interessi della nazione […] risiedono unicamente nelle mie mani”. E’ necessario dunque, possiamo aggiungere, che la regalità sia immortale perché lo stesso popolo francese, che esiste solo in unione con il re, possa sopravvivere al fatto contingente della morte di quest’ultimo. Non molti anni dopo, però, doveva cambiare tutto.

La testa di Luigi XVI cadeva sotto la lama della ghigliottina il 21 gennaio 1793, ma il corpo immortale del re si era già dissolto da qualche tempo. Con la Rivoluzione francese, infatti, l’unione tra monarchia e popolo si era spezzata e la sovranità si era trasferita dal primo al secondo: il popolo diventava il vero sovrano. Per la verità l’art. 3 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino sosteneva che “ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione”, non dunque nel popolo; questo avveniva per l’intenzione di evitare i rischi di una democrazia radicale e aprire la strada a un sistema rappresentativo non ancora a suffragio universale. Ma la piena affermazione della sovranità popolare era un esito inarrestabile (“La sovranità risiede nel popolo”, proclamava la nuova Dichiarazione del 1793) e nazione e popolo sarebbero diventati sinonimi. Da allora, nelle democrazie, a possedere un corpo incorruttibile, che dunque non muore (anche se forse si ammala, come mostrano tante vicende contemporanee: ma questo è un altro discorso), a non morire – dicevo – è il popolo come entità collettiva e se vogliamo mistica, poiché non coincide con la semplice somma dei cittadini che lo compongono. I re costituzionali ormai, anche quando sono circondati da un’ammirazione e un affetto globali come Elisabetta II, hanno un solo corpo, che subisce gli oltraggi del tempo e infine muore come quello di tutti noi.

Ma forse, fatta questa precisazione, c’è ancora qualcosa che resta da dire. Riandiamo un momento alla fine della peculiare immortalità del sovrano – del suo secondo corpo – che si verifica con la Rivoluzione francese. La nazione, che ora è diventata sovrana, si dota in molti paesi di una rappresentazione femminile che rimpiazza quella del corpo del re. Si tratta di una allegoria di donna che diventa celebre soprattutto in Francia. E in Francia ha avuto anche, da un certo punto in poi, un nome proprio, Marianne. Nel nuovo clima ottocentesco che vede al centro della vita associata la nazione, quasi tutti gli stati europei – sia quelli esistenti sia quelli che aspirano, come l’Italia, a esistere come paesi indipendenti e sovrani – si rappresentano attraverso allegorie femminili di questo tipo; si moltiplicano perciò le immagini di donna che raffigurano Germania, Italia, Francia, Svizzera e così via (compresi gli Stati Uniti). La nazione assume le sembianze femminili per tante ragioni, a cominciare dal fatto che una tale immagine rinvia alle capacità generatrici della donna, dunque alla fertilità e per analogia alla prosperità di tutta la collettività nazionale. La donna-nazione è un’immagine materna e protettiva (si parla della madre-patria), personifica la continuità di un paese al di là del cambiamento dei regimi politici, delle guerre e delle sconfitte, dei passaggi da una monarchia alla repubblica (o viceversa): rappresenta dunque la perpetuità dell’esistenza di una nazione, il suo “corpo” immortale.

Cosa c’entra con tutto questo la regina inglese appena scomparsa? C’entra, perché non è da escludere che una sovrana che ha regnato per un tempo incredibilmente lungo, riscuotendo un eccezionale successo in termini di simpatia e rappresentando per i suoi sudditi una figura materna e protettiva, simbolo dell’identità nazionale, sia diventata in qualche modo, decennio dopo decennio, l’allegoria femminile del suo paese. Avendolo accompagnato con equilibrio lungo una storia spesso complicata ha finito per essere una specie – viene da dire – di Marianne britannica. In questo senso, è vero che nessun re (e nessuna regina) hanno più da tempo il “secondo corpo” dei sovrani di antico regime.

Ma nell’immaginario dei suoi sudditi, e un po’ anche nel nostro, la sua immagine fa tutt’uno con quella del suo paese.

 

 

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