Poco fascista per i fascisti, troppo dopo il ’45: una mostra rende giustizia a Felice Carena
Salvatore Settis Corriere della Sera 26 luglio 2024
Alle Gallerie d’Italia in piazza della Scala è aperta fino al 29 settembre una mostra inattesa e preziosa. Felice Carena, a cui è dedicata, fu con Ferruccio Ferrazzi uno dei due pittori ammessi nel 1933 all’accademia d’Italia. Le liturgie per conquistare la dignità di accademico comportavano il «visto» di Mussolini, ma l’attitudine dei due rispetto al fascismo era assai diversa: Ferrazzi si abbassò a un tema ignominioso, La bonifica della razza (il quadro fu esposto a New York nel 1939), Carena evitò la retorica di regime.
Nel 1936, anzi, per il cinquantenario della battaglia di Dogali, espose in Biennale un dipinto quanto mai antieroico, dove sei soldati italiani, laceri e insanguinati, giacciono inermi in un aspro paesaggio: non eroi, ma vittime. Era l’anno della guerra d’Etiopia, e il quadro, intitolato proprio Dogali, suscitò «più compassione che esaltazione», come scrisse un critico, rimproverando a Carena di non aver «preferito un episodio vittorioso dell’odierna campagna d’africa». Invano il pittore aveva aggiunto alcuni soldati in piedi e con l’elmetto: Diego Valeri condannò senza appello «quell’infelice Dogali che, per evitare la retorica dei pennacchi, capitombola nella retorica degli stracci». Carena tagliò via parte del quadro, salvando solo il gruppo dei caduti, e nel 1964, poco prima di morire, scrisse sul retro della tela di averla dipinta «volendo allora ricordare le nostre tristi avventure coloniali»; e che nel suo quadro «i morti mi appaiono più desolatamente tragici e meglio simboleggianti tutti i nostri morti in tutte le guerre civili».
Già in quel 1936 l’umana simpatia per i vinti dalla vita, che accompagna tutta l’opera di Carena (1879-1966), aveva preso il sopravvento sull’adesione al fascismo. «Mi interessano solo due cose: i poveri e la luce»: a questa poetica il pittore piemontese (era nato a Cumiana presso Pinerolo) si attenne sempre, mostrando all’inizio simpatie socialiste, come nel quadro La rivolta (1903), un’immagine «sonora» dove i manifestanti seminudi aprono la bocca nel canto, sullo sfondo di una «squillante bandiera rossa» (così Luigi Cavallo in catalogo). Dopo il trasferimento a Roma (1906), la monumentale tela I viandanti (1908-9) allinea una processione di migranti a testa china, chiusi in una rassegnata disperazione che non risparmia il bambino in braccio a una madre col seno nudo come una Virgo lactans. Un pastore coperto di stracci dorme inerte accanto alle sue pecore all’ombra di una sorta di menhir (Il riposo del pastore, 1922), mendicanti e migranti col loro fagotto di cenci s’installano in due vasti autoritratti nello studio (1928 e 1932), altri sconsolati migranti s’attardano inerti su una spiaggia (Sul mare, 1956-59).
Non erano questi i temi che Carena aveva frequentato da studente all’accademia Albertina di Torino, ma nei suoi dipinti quella solida educazione al disegno è accompagnata e contraddetta da accorte architetture di luce. Così è nella tela La perla (1908), che sarebbe una Venere antica in piena regola, con le braccia inghiottite dall’ombra e il volto tagliato dalla cornice (per rendere irriconoscibile la modella, amante del pittore), non fosse che chiazze verdi e turchese sulla tela smorzano o esaltano la luce e le studiate incertezze del contorno di quel corpo perfetto. Così nei Putti ebbri danzanti (1909), ripensamento per bagliori e riflessi di un antico tema dionisiaco, ma anche della cantoria di Donatello.
Una stessa ricerca sulla luce e sulle forme che l’accolgono e la rilanciano scalda l’intero percorso di Carena, nel suo tormentato esitare fra «una laica concezione purovisibilistica» (così in catalogo Luca Massimo Barbero) e il richiamo di temi narrativi. «I poveri e la luce», appunto, poli opposti e complementari di una verità interiore. Ed ecco le figure di un possibile racconto tradursi in pure campiture di colore: la Guardiana di porci (1916) s’inviluppa in un pesante manto rossastro che la nasconde tutta, una Ragazza alla porta (1919) è quasi una grigia cariatide, simmetrica allo stipite in ombra; e in tre variazioni di un Déjeuner sur l’herbe (1921-25) i nudi di donna sono costitutivi del paesaggio quanto gli alberi, le erbe, i cespugli. In un olio su cartone, Il pastore (1926) questa ricerca è portata al limite: il pastore, silhouette appena visibile, governa un improbabile, denso assemblage di pecore, un bue e cavalli che s’incastrano l’uno sull’altro come sagome di un puzzle. Rincorrendo una perfezione formale che a Margherita Sarfatti parve «crudezza verista» (1926), Carena fu maestro nella composizione di figura, pur «tendente a far scomparire forma e contenuto fino a quasi farli diventare astratti» (così in catalogo Sileno Salvagnini). Gli Apostoli (1924) paiono migranti sopraffatti dalla stanchezza e dal sonno.
È il titolo a dirci che si tratta, invece, dell’orazione sul Monte degli Ulivi. Manca il protagonista, Gesù, che sta pregando lì vicino e tra poco sorprenderà gli apostoli dormienti, inconsapevoli dell’imminente Passione. Abolendo la figura del Cristo Carena avrà inteso attenuare la forza della scena evangelica, o invece esaltarla avvolgendola nel silenzio? Certo anche qui le figure s’incastrano fra tronchi e ciuffi di foglie come campiture di colore, ma il soggetto sacro impone il proprio racconto.
Una malinconica spiritualità cristiana occuperà i pensieri di Carena già negli anni di Firenze, dove dal 1933 in poi guidò l’accademia di Belle arti, ma specialmente dopo i traumi della guerra, la casa distrutta dalle bombe nel 1944 e il trasferimento a Venezia l’anno dopo (sugli anni veneziani scrive in catalogo Virginia Baradel).
Ed è fors’anche quell’inclinazione religiosa poco alla moda, e non solo la passata adesione al fascismo, che ha fatto di lui «il più dimenticato artista del Novecento italiano» (così in catalogo Elena Pontiggia). A Venezia visse una sorta di rinascita, grazie soprattutto all’amicizia con Vittorio Cini, che donò a Paolo VI la sua intensa Deposizione del 1938. Nella sua neonata Fondazione, Cini affidò a Carena nel 1954 la prima relazione del convegno Arte figurativa e arte astratta, che innescò altri scritti di quegli anni (il più noto è Organicità e astrazione di Bianchi Bandinelli, Feltrinelli 1956), anticipando lo scontro fra Erwin Panofsky e Barnett Newmann ben ricostruito da Pietro Conte in un libro recente (Il sublime astratto, Johan & Levi 2023). Entrando in quella che Flavio Fergonzi ha chiamato «una guerra di parole», la relazione di Carena condanna il puro ornamento «come un intarsio, una stoffa, un tappeto» e rivendica una «pittura con la sua saldezza» in grado di «dar vita alla chiesa, alla casa, alla fabbrica, ovunque gli uomini si radunino nella preghiera, nel lavoro o a difendere problemi sociali e di vita».
Eppure, la saldezza della pittura di Felice Carena veniva sfaldandosi in quegli anni. Basterebbe, a dirlo, la sequenza delle sue molte Nature morte, concepite per strati, dove le forme degli oggetti si ritagliano e sovrappongono alle campiture di colore; ma più tardi si decompongono e le cose perdono identità e volume, vanno quasi indovinate. È questa l’ultima maniera di Carena, una modalità compendiaria che si insinua dagli anni della guerra, e gradualmente predomina, come ben si vede da un’impressionante serie di disegni, proprietà della Fondazione Cini, in cui s’inseguono temi sacri (molte le Pietà) ma anche classici (centauri, un Laocoonte), anche Don Chisciotte. Trattati a inchiostro con mano svelta e sicura, in forme appena accennate che conservano intera la sua consumata abilità compositiva.
Felice Carena Gallerie d’Italia di piazza della Scala a Milano Gli orari della esposizione: martedì, mercoledì, venerdì, sabato e domenica: dalle 9.30 alle 19.30; giovedì: dalle 9.30 alle 22.30
Autoritratto 1930