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Si canta Dante, l’inventore dell’Italia

24/03/2020

 

Domani è il Dantedì, la giornata in onore del poeta. Intervista con Aldo Cazzullo

Edoardo Semmola Corriere Fiorentino 24 Marzo 2020

«Proprio perché viviamo un momento drammatico, il Dantedì è ancora più importante. Mai come in questo momento gli italiani sentono un bisogno di identità e di una storia comune, di radici, valori, di principi, di quelle cose che li fanno sentire forti, orgogliosi e fiduciosi nel futuro. E Dante è alla base di tutto questo, alla base dell’Italia». Sono le parole di Aldo Cazzullo che alla vigilia del Dantedì, riflette sulla festa nazionale.

La quarantena di Aldo Cazzullo è scandita in terzine. Di questi tempi per lui, scrittore e editorialista del Corriere della Sera — dalle cui colonne grazie a Paolo Di Stefano è nata l’iniziativa della giornata nazionale di Dante Alighieri — ogni dì è un Dantedì: per prepararsi alla sua nuova prova editoriale Dante il poeta che inventò l’Italia, «non faccio altro che leggere Dante e cose su Dante dalla mattina alla sera», dice. Sul comodino ha i saggi di Anna Maria Chiavacci Leonardi (Mondadori), la biografia del poeta scritta da Chiara Mercuri (Laterza), il viaggio In cammino con Dante di Franco Nembrini (Garzanti), il trattato di Simon Gilson su Dante a Firenze (Carocci) e L’Italia di Dante di Giulio Ferroni (La Nave di Teseo).

Cazzullo, mercoledì come festeggerà la giornata nazionale dell’Alighieri?

«Non sono uno molto tecnologico e molto social, non sono tipo da flashmob».

Infatti doveva essere una festa, da vivere insieme, nelle piazze. Ma purtroppo…

«Proprio perché viviamo un momento drammatico, il Dantedì è ancora più importante. Mai come in questo momento gli italiani sentono un bisogno di identità e di una storia comune, di radici, valori, di principi, di quelle cose che li fanno sentire forti, orgogliosi e fiduciosi nel futuro. E Dante è alla base di tutto questo, alla base dell’Italia».

L’Italia della cultura.

«Il nostro Paese non è nato dalla politica o dai campi di battaglia, non è scaturito da un trattato o da un matrimonio reale, ma dalla cultura, dalla bellezza, dai versi di Dante e dagli affreschi di Giotto».

Quindi da Firenze…

 «Esatto: quando si è unificata, nel 1861, l’Italia c’era già, grazie innanzitutto ai versi di Dante. Lui non è solo il padre della lingua, è colui che ha “inventato” l’Italia. Con la sua sofferenza nel vederla divisa, lacerata, non all’altezza di se stessa, ma allo stesso tempo orgogliosa di quella continuità nel segno della cultura che va da Virgilio al Medioevo. Dante è, forse, il primo italiano. Per cui tutto quello che si può fare per accompagnare quest’anno dantesco che ci aspetta, il 2021, l’anniversario dei 700 anni dalla sua morte, dovrà essere un crescendo. E ci renderemo conto, man mano, quanto sarà importante. Un po’ come è accaduto per i 150 anni dall’Unità d’Italia nel 2011 anche grazie alla cavalcata di Roberto Benigni a Sanremo».

Quindi è stata una scelta giusta confermare la festa, anche se solo in versione social?

«Dante deve prendersi la scena, ora. Evitando assembramenti ovviamente. Iniziare via social va bene, ma presto arriverà il momento in cui potremo riunirci tutti assieletteraria. me per celebrarlo in un modo più caloroso».

Sono troppo «moderni» i social per Dante?

«Non lo sono affatto. Parliamo di uomo di straordinaria modernità a iniziare dalla sua scelta di usare il volgare e non il latino per la sua Commedia. Era moderno anche nella comunicazione. Jorge Luis Borges scriveva che la Divina Commedia è “il più bel libro mai scritto dagli uomini” nel senso che scrivere meglio di così non era possibile. È perché la lingua di Dante è viva ancora adesso. È moderna, non accademica o Sembra di sentirla parlare in un mercato toscano di oggi. Con tutto il rispetto per Leopardi e Manzoni, la cui grandezza non si tocca, ma è Dante l’unico autore veramente universale, che valica i confini del Paese: non a caso quando l’Italia fu ammessa nella moneta unica, il primo ministro francese di allora, Lionel Jospin, disse che non si poteva fare l’Europa senza Dante e Cervantes, quindi senza Italia e Spagna. Per questo tutti i modi innovativi con cui poterne parlare sono i benvenuti. Compresi i social network».

Firenze deve avere un ruolo di capofila?

«È la patria morale degli italiani. Se guardiamo piazza della Signoria e vediamo Giuditta e Oloferne di Donatello, il David di Michelangelo (anche se ora è una copia ma un tempo c’era l’originale) e il Perseo di Benvenuto Cellini, pensiamo che al tempo in cui in giro per l’Europa nascevano i grandi stati nazionali, la piccola (ma solo di dimensioni) Firenze metteva in piazza la statua di una donna che taglia la testa di un generale nemico, quella di un pastore, David, che abbatte un gigante, Golia, e la storia di un uomo, Perseo, che taglia la testa a un mostro, Medusa. C’è un significato politico in tutto questo: stanno dicendo che “noi fiorentini non ci arrenderemo mai e continueremo a combattere per difendere la nostra indipendenza e la nostra identità”. È un messaggio eterno che vale a maggior ragione per noi adesso in questa battaglia contro il virus».

A Firenze il simbolo di questa giornata doveva essere una catena di mille persone che si tengono per mano recitando i cento canti dieci volte. Un paradosso, una beffa.

«Lo faremo, lo faremo sicuramente, quando questo maledetto male sarà sconfitto, e sarà ancora più bello».

Il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini ha fatto un appello agli artisti. Quello all’istruzione Lucia Azzolina a insegnanti e studenti. Tutti uniti nel giorno di Dante.

«Hanno fatto bene, è giusto. Ma penso che questa manifestazione meno viene calata dall’alto e più sale dal basso, meglio è. Cerchiamolo di renderla più popolare possibile. Perché Dante è molto conosciuto ma ancora non molto letto. Anche forse per l’imposizione scolastica. Invece va ripreso in mano in autonomia”»

Nel suo «viaggio» Dante alterna sferzate impietose e afflati di speranza, sprona e maledice l’Italia del suo tempo. Un po’ quello che sta succedendo oggi, nella guerra al virus.

«Dante è un uomo molto esigente. Verso se stesso e verso i suoi compatrioti, in primo luogo i fiorentini, ma anche verso l’essere umano nella sua complessità. Ha avuto una vita così infelice e devastata, un destino tragico, e si mette a scrivere la Divina Commedia nel momento migliore della sua vita per successo e fama. Ma ha sofferto tantissimo per il suo amore viscerale per Firenze che però si rivela matrigna. Quasi mai i grandi hanno avuto una vita serena».

Pensando al momento che stiamo passando, in cosa dobbiamo cercare conforto o lezione tra le pagine dantesche?

«Nell’altissima dignità dell’essere umano che lui descrive. Pensiamo a Farinata degli Uberti, che è un suo nemico, ma lui lo racconta come avesse “l’inferno a gran disprezzo”, una forza morale che lo fa sovrastare lo stesso inferno in cui si trova. Persino nei dannati vede una forza morale e un coraggio eccezionali, anche nella tragedia e nella sventura ci mostra la grandezza dell’animo umano».

Dante racconta anche le pestilenze: nel ventinovesimo dell’«Inferno, sul fondo delle Malebolge, incontra i «falsari dei metalli», ovvero gli alchimisti. Tutti appestati.

«Viveva in una Firenze e in un’Italia in cui la morte e la vita convivono continuamente. La morte era una compagna di strada. Forse è anche per questo che i morti di Dante sono così vivi».

Museo della casa di Dante  via Santa Margherita 1, centro storico di Firenze

 

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